Archivio del Tag ‘welfare’
-
Chi votare? Nessuno dichiara guerra all’oligarchia Ue
Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.L’euro, dice Moni Ovadia, dovrebbe (dovrà) essere la moneta comune del futuro Stato federale unitario europeo: a quel punto, l’attuale valuta che la Bce destina alle sole banche – non agli Stati – diverrebbe pienamente legittima, in un futuro indefinito, che la lista Tsipras spera di “avvicinare” con l’elezione di un euro-Parlamento “costituente”, per cambiare le attuali regole oligarchiche dell’Unione Europea, retta da un governo – la Commissione – non eletto dai cittadini e pilotato dalle lobby d’affari. Né il M5S, né Tsipras (né tantomeno Renzi) osano ventilare misure di interdizione per “ridurre alla ragione” gli oligarchi di Bruxelles e Francoforte, disposti finora ad ascoltare solo la Bundesbank, che impone condizioni-capestro per sabotare la concorrenza dell’export tedesco e creare un mercato del lavoro a bassissimo costo, adatto cioè a consentire alla Germania di competere sui mercati mondiali globalizzati.Ad oggi – esclusi gli slogan della Lega Nord – l’offerta politica italiana in vista delle europee di maggio non presenta nessuna forza disposta ad affrontare in modo frontale l’impegno di un’opposizione radicale all’attuale sistema europeo, impugnando cioè l’arma regina della sovranità finanziaria statale, senza cui non è praticabile alcuna reale riconversione dell’economia. Sulla francese Marine Le Pen pesa la macchia della xenofobia, ancora agitata per non perdere l’antico elettorato ultra-nazionalista di Jean-Marie Le Pen, ma è evidente che il boom dei sondaggi che accreditano il Front National come prima forza politica di Francia non dipende certo dalla “guerra agli immigrati”, ma dalla determinazione con cui la signora Le Pen dichiara di voler risolvere la questione: se Bruxelles continuasse ad imporre moneta non sovrana, la Francia minaccerebbe direttamente di uscire dall’Unione Europea. In Italia, per ora, parole di questo tipo non le ha pronunciate nessun leader.Rifiutare il Fiscal Compact e proporre lo strumento finanziario degli eurobond per sostenere investimenti strategici. Intervistato dal programma di Michele Santoro, mentre Grillo procede con la “purga” a cascata contro i dissidenti veri o presunti, Alessandro Di Battista vede così il possibile piano-B per uscire dalla tagliola dell’austerity imposta dalla Troika europea, nel giorno in cui Matteo Renzi a Bruxelles se la cava dicendo che “l’Italia sa cosa fare”, rifiutando la consuetudine dei “compiti a casa” per compiacere i signori dell’Ue. Tradotto: il governo si appresta a spostare voci di spesa, senza però sfondare il tetto del 3% fissato come un dogma dalla tecnocrazia europea, quella che – con la camicia di forza dell’Eurozona – impedisce agli Stati di esercitare le loro funzioni sovrane di investimento pubblico. Niente da segnalare, su questo fronte, nemmeno da Moni Ovadia, candidato con la lista Tsipras: l’artista, tra i più importanti intellettuali italiani, è contrario all’uscita dall’euro, interpretata come la perdita (pericolosa) di un orizzonte comunitario europeo.
-
Spinelli: per cambiare l’Europa bisogna rompere col Pd
Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa.Sul “Manifesto”, la Spinelli prende nota degli auspici formulati da Stefano Fassina, che si augura un’inversione radicale di rotta sulla politica europea, ma poi non osa rompere col Pd, cioè il partito che ha sorretto il governo Monti, varato la riforma Fornero e votato il Fiscal Compact con l’inserimento (“consigliato”, ma non obbligatorio) del pareggio di bilancio in Costituzione – inserimento evitato dalla stessa Francia di Hollande. Il Pd – nel quale Fassina ancora milita – punta sul tedesco Martin Schulz per la presidenza della Commissione Europea? Male: Schulz si è appiattito sulle idee della Merkel e ha rifiutato gli eurobond per una politica europea più solidale. «Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo commissario». Inoltre, Fassina (e Civati) restano nel Pd di Renzi, un politico che si ispira apertamente a Tony Blair, cioè l’uomo che più di ogni altro ha «polverizzato» i valori identitari della sinistra, cioè l’uguaglianza e il bene pubblico.«Sostiene Stefano Fassina, e con ottime ragioni, che l’Eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd», scrive Barbara Spinelli. «A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg». Se dall’epoca Blair ha sinistra ha tradito i suoi elettori, «è all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che – lo dicono i sondaggi – sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo». Con Renzi, «l’involuzione del Pd non subisce battute d’arresto». Che senso ha, dunque, restare in quel partito? Barbara Spinelli vede una possibile alleanza trasversale, a Strasburgo, tra sinistra radicale, Verdi, socialisti «contrari al patto con la destra», eurodeputati grillini e persino liberaldemocratici come Guy Verhofstadt.Fino a quando i Fassina resteranno nel partito renziano, sostiene Spinelli, sarà difficile sperare che dalle parole si possa passare ai fatti, specie «nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd», ovvero «un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta)». Conclusione: «Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle “divine sorprese” di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni». Per contro, Spinelli sembra davvero credere che basterà il nuovo Parlamento Europeo ad imporre la democratizzazione dell’Unione Europea. Scelte essenziali: la conversione dell’euro in moneta sovrana, la Bce costretta a fare da prestatrice agli Stati, la fine delle politiche di austerità, l’abbandono del Fiscal Compact e dello strapotere della Troika costituita da Commissione, Bce e Fmi. «No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile». Non ultimo, il no al Ttip, il Trattato Transatlantico in via di elaborazione, se in nome dell’interesse delle multinazionali Usa dovesse scavalcare «le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia».Barbara Spinelli, come gli altri promotori della lista Tsipras, spera davvero che bastino le prossime elezioni europee ad abbattere il regime del rigore che sta letteralmente devastando il Sud Europa: in caso di successo delle forze anti-austerity, un Parlamento Europeo “costituente” potrebbe cioè mettere fine all’attuale dittatura finanziaria della Troika, trasformando l’euro in moneta sovrana e la Bce in “prestatrice di ultima istanza”. Più prudente un economista come Emiliano Brancaccio, secondo cui è improbabile riuscire a strappare concessioni all’asse Berlino-Bruxelles senza prima mettere sul tavolo della vertenza argomenti decisivi e convincenti, come ad esempio l’uscita dell’Italia dal mercato comune europeo, a danno dell’export tedesco. Un’idea che ricorda la posizione bellicosa di Marine Le Pen: più che proporre un cambio di linea, il Front National – primo partito francese, secondo i sondaggi – minaccia addirittura l’uscita della Francia dall’Ue, cosa che metterebbe fine all’unione stessa. -
Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro
Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
-
Giù il cuneo fiscale? Un affare solo per Confindustria
Non aspettiamoci miracoli dalla riduzione del cuneo fiscale, che peraltro in Italia è inferiore a quella di Francia e Germania. Se per ridurre il costo del lavoro di 8-10 miliardi si pensa di tagliare la spesa pubblica, la manovra sarà un vantaggio solo per le aziende vocate all’export, mentre costituirà un handicap per quelle che si rivolgono al mercato interno, perché il taglio del budget statale colpirà ulteriormente i consumi, sostiene Guglielmo Forges Davanzati. Dato che la spesa pubblica «accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni – prevalentemente imprese meridionali», il provvedimento «ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano». Chi esporta teme l’aumento della spesa pubblica, perché accresce l’occupazione e rafforza il potere contrattuale dei lavoratori. Al contrario, le imprese che producono per mercati locali «hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco».Inoltre, aggiunge Davanzati in un’analisi di “Micromega”, non c’è da aspettarsi che la riduzione dello “spread” tra salario netto e salario lordo possa controbilanciare gli effetti recessivi derivanti da ulteriori tagli della spesa pubblica: «L’affetto espansivo sui consumi si avrebbe solo se si riducessero significativamente le imposte pagate dai lavoratori, non quelle pagate dalle imprese». Se l’importo mensile netto aggiuntivo nelle tasche di un lavoratore che percepisce 1.600 euro sarà di 50 euro, «non solo non c’è da attendersi una significativa ripresa dei consumi, ma soprattutto – per l’ulteriore dimagrimento del residuo di welfare rimasto in Italia – vi è semmai ragionevolmente da aspettarsi che i salari reali degli occupati non aumentino». In più, «una ripresa significativa dei consumi si avrebbe semmai se la riduzione del cuneo fiscale fosse attuata in una condizione di elevata occupazione (a ragione dell’ampia platea di beneficiari): il che, con ogni evidenza, non è la condizione attuale».E neppure c’è da aspettarsi un aumento degli investimenti derivante da una riduzione dell’Irap, continua Davanzati, sia perché gli investimenti dipendono essenzialmente dalle aspettative di profitto, sia perché – come ampiamente sperimentato negli ultimi anni – nessun provvedimento di detassazione degli utili è in grado di stimolarli. Inoltre, «il cuneo fiscale non rappresenta un fattore rilevante per le decisioni di delocalizzazione delle imprese». In pratica, «non dovrebbe avere impatti significativi sull’attrazione di investimenti in Italia, né sulle delocalizzazioni di imprese italiane». Una causa rilevante della recessione italiana risiede semmai nella continua riduzione della produttività e nella sua “desertificazione produttiva”. «A fronte dei molti fattori che hanno prodotto questi esiti (che datano ben prima dell’adozione della moneta unica), è da evidenziare il fatto che la rinuncia all’attuazione di politiche industriali ha posto le imprese italiane nella condizione di poter vendere solo mediante strategie di competitività di prezzo, ovvero in assenza di innovazioni».Problema: «La competitività di prezzo, in un paese importatore di materie prime e di macchinari, si traduce esclusivamente in compressioni salariali (e, più in generale, nel peggioramento delle condizioni di lavoro), il cui effetto è il calo della domanda interna e dell’occupazione». Nell’Eurozona, è nei paesi periferici (Italia inclusa) che i lavoratori occupati lavorano più ore: il primato spetta alla Grecia, ovvero al paese con i più bassi tassi di crescita. Paradossale: ci si aspetterebbe più crescita dove è più elevata l’intensità del lavoro, e più occupazione dove è minore il cuneo fiscale. «In Francia e Germania, un’ora di lavoro genera un incremento di produzione circa pari al 20% in più rispetto a un’ora lavorata in Italia e il tasso di occupazione è maggiore, nonostante questi paesi abbiano un cuneo fiscale e contributivo più elevato». Conclusione: ridurre il costo del lavoro non basta, né per accrescere l’occupazione né per migliorare la competitività delle imprese. E in una situazione in cui è inammissibile contrarre ulteriormente i salari, «la riduzione del cuneo fiscale è l’unica strategia percorribile per consentire alle nostre imprese di poter sperare di far profitti comprimendo i costi. Il che, in ultima analisi, significa che ridurre il cuneo fiscale costituisce un potente incentivo a indurle a perpetuare una modalità di competizione basata sulla compressione dei costi, ovvero un potente disincentivo a innovare».Non aspettiamoci miracoli dalla riduzione del cuneo fiscale, che peraltro in Italia è inferiore a quella di Francia e Germania. Se per ridurre il costo del lavoro di 8-10 miliardi si pensa di tagliare la spesa pubblica, la manovra sarà un vantaggio solo per le aziende vocate all’export, mentre costituirà un handicap per quelle che si rivolgono al mercato interno, perché il taglio del budget statale colpirà ulteriormente i consumi, sostiene Guglielmo Forges Davanzati. Dato che la spesa pubblica «accresce i mercati di sbocco delle imprese che producono per mercati interni – prevalentemente imprese meridionali», il provvedimento «ha effetti redistributivi fra imprese e fra territori nelle quali operano». Chi esporta teme l’aumento della spesa pubblica, perché accresce l’occupazione e rafforza il potere contrattuale dei lavoratori. Al contrario, le imprese che producono per mercati locali «hanno interesse a un aumento della domanda interna, dal momento che ciò consente loro di acquisire più ampi mercati di sbocco».
-
Renzi stai sereno, con l’euro il tuo governo è già morto
Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.Non ha una banca centrale che possa controllare inflazione, prezzo del denaro, tassi d’interesse, né monetizzare la spesa decisa dal Parlamento. Renzi non possiede una moneta, e deve usare gli euro, da restituire con tassi non decisi da lui ai mercati di capitali internazionali. Dovrà dunque tassarci a morte sempre, per fare quanto appena detto. Dovrà quindi mentire all’Italia fingendo col gioco delle tre carte di spostare fondi e investimenti essenziali (lavoro, infrastrutture, crescita) da qui a lì, per poi rimangiarseli tutti con gli interessi. Dovrà rispettare il pareggio di bilancio, che peggiora ciò che ho appena scritto. Ovvero: chemiotassazione garantita, impossibilità di investire per le aziende e tagli alla spesa. Qui abbiamo la garanzia della decapitazione di speranze di posti di lavoro, salari, pensioni, modernizzazione del paese, sanità, risparmi privati, piano industriale, risanamento bancario, crescita del Pil e domanda aggregata. Potrei finire qui, ce n’è già a sufficienza, ma purtroppo…Renzi si ritroverà in una spirale di deficit negativi mortali, cioè di tutte quelle spese di Stato imposte dalla crisi dell’Eurozona ma che non risolvono nulla, non producono nulla e che aumentano il debito di Stato. Per prima cosa l’economia continuerà a contrarsi, come è già previsto per l’Italia dal Fmi, Bloomberg, Ocse, Commissione Ue, e quindi calerà sempre il gettito fiscale, che quindi va a ingrandire il debito. L’economia impantanata significa che il miliardo di ore di cassa integrazione rimarranno e aumenteranno, pompando di nuovo il debito. I fallimenti aziendali non caleranno, la curva dei prestiti bancari insolventi aumenterà e le banche italiane, che già sono in parte fallite, dovranno essere ri-salvate, a suon di denaro pubblico, e ancora il debito sale. Assieme ad esso salgono gli interessi da pagare, sempre spesa di Stato, ancora più debito. Ma stando in Eurozona, un debito che lievita è grave (con la lira non lo sarebbe) perché porta all’allarme delle agenzie di rating, che porta all’allarme dei mercati di capitali che prestano a Renzi gli euro, che porta a tassi più alti sui titoli di Stato, che porta a più debito.Che farà Draghi a ’sto punto? Si metterà a comprarci i titoli di Stato per far scendere i nostri tassi? Farà cioè la famosa Outright Monetary Transaction? Se lo fa, la Germania lo ammazza. Non lo farà. Renzi rimane nel letame. Renzi si ritrova con un’economia che si è contratta del 18% dalla fine degli anni ’90. Per riportarci a quel livello di vita, dovrebbe riuscire a far crescere l’Italia del 20%. No, calma, visto che oggi cresciamo dello 0,1% se va bene…. il 20% fa ridere. Renzi non è Roosevelt e non ha la sua testa. Poi abbiamo il problema della deflazione che sta aggredendo tutta l’Eurozona, con la Bce disperata perché non sa più che fare per fermare il crollo dei prezzi (deflazione = contrario di inflazione). E quel che è peggio, è che in un clima di crisi di queste proporzioni la gente corre a risparmiare disperatamente per il timore del domani (mica scemi), ma questo sottrae denaro in circolo, cosa che non solo affama tutta l’economia, ma peggiora la deflazione stessa. Vorrei che capiste che questo è uno dei mali economici peggiori e che c’è tutta la tecnocrazia europea che non sa più come fermarlo. Immaginatevi Renzi, il bulletto del Pd.Renzi, poi, fra otto mesi si ritroverà l’implosione del sistema creditizio europeo, quando i test dei regolamentatori dell’Eba inevitabilmente mostreranno che alcune delle maggiori banche sono irrecuperabili. Da qui il terremoto delle piccole-medio banche, fra cui quelle italiane sono quelle messe peggio d’Europa sia come buchi di bilancio che come capitale di copertura. Prometeia stima che solo per i prestiti insolventi le banche italiane siano scoperte per 150 miliardi di euro. E chi le salva? E con che soldi? No, Renzi, la sovranità monetaria non ce l’hai, non le puoi nazionalizzare. Che fai? Chiami Benigni?Ma Renzi almeno ha la carta delle privatizzazioni… Vendi il vendibile, incassa l’incassabile. Funziona? No. Non ha funzionato in nessun paese del mondo, meno che meno da noi quando proprio il centro sinistra si mise negli anni ’90 a svendere pezzi di beni di Stato a un ritmo talmente forsennato che fece il record europeo delle privatizzazioni nel 1999. Sapete di quanto ridussero il debito di Stato italiano? Di un maestoso 8%. E allora i prezzi contrattati per i beni pubblici da alienare erano, circa, decenti. Oggi, con l’Italia sprofondata dall’Eurozona in una svalutazione della sua economia da piangere, Roma deve svendere a prezzi stracciati qualsiasi cosa offra, con margini che saranno patetici. Renzi, farà la Thatcher dei poveri.E la disoccupazione? Sapete cosa costa all’Italia avere il 12% (fasullo, è molto di più) di disoccupati? Trecentosessanta miliardi all’anno perduti. E i giovani? Il 76% di loro è costretto alla flessibilità, con limiti invalicabili all’acquisto di una casa o al matrimonio. L’Eurozona fu pensata ed edificata proprio per ridurre il sud Europa a un serbatoio di lavoratori pagati alla kosovara ma in strutture moderne. Il futuro di questi ragazzi è ormai certo: stipendi dai 600 agli 800 euro per i più qualificati, al lavoro per investitori stranieri. Questo non è più un economicidio, è un olocausto economico e generazionale, che Renzi dovrà gestire sotto l’egida della Germania che già oggi sta affossando il resto d’Europa coi suoi diktat criminosi. Tradotto in termini specifici: il potere neomercantile della mega-industria tedesca, quello della Bundesbank, quello dei maggiori speculatori-rentiers del mondo, contro Renzino da Firenze.Matteo, tu fai fesso qualcun altro. Perché è vero che ignori il 70% di tutto questo, ma sul restante 30% sei pienamente d’accordo, da bravo leader del partito di destra finanziaria peggiore d’Italia, il Pd. Conclusione. Renzi non si rende conto di cosa lo aspetta, ma soprattutto del fatto che la catastrofe dell’economia italiana è un MACROPROBLEMA STRUTTURALE nell’Eurozona, e finché esisteranno i parametri economicidi dell’euro non esiste salvezza. Il governo Renzi è morto prima di nascere. Poi, sapete, uno si stufa di scrivere sempre le stesse cose.(Paolo Barnard, “L’Eurozona ha già ucciso il governo Renzi”, dal blog di Barnard del 18 febbraio 2014).Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.
-
Occhetto: rottamata la sinistra, nel Pd vince il potere
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.Eppure, nonostante il granitico impianto ideologico di Letta, Renzi e Napolitano – tagli allo Stato, privatizzazioni necessarie, “sacrifici” sociali inevitabili (secondo i dettami del pensiero unico dell’élite) per Occhetto evidentemente il Pd non è affatto liberista, è ancora “di sinistra”. Intervistato da “Il Giorno” a fine novembre 2013, l’ex segretario rievoca la sua “svolta” che aprì la strada alla Seconda Repubblica del bipolarismo berlusconiano. «La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista», dice Occhetto. «La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Grigio lo spettacolo offerto dai dirigenti Pd: «Sembrano zombie che si muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc». Tra loro, «ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».Manca un passaggio, fondamentale: il livello governativo nazionale – cui Occhetto fa riferimento – è ormai un dettaglio trascurabile. La politica di bilancio è subordinata alle indicazioni vincolanti dei decisori veri, quelli di Bruxelles, che rispondono a Draghi e alla Merkel, oltre che ai “mercati”, ormai padroni di quel che resta dello Stato. Occhetto preferisce limitarsi a denunciare le larghe intese, «una soluzione emergenziale che produce altra emergenza», e puntare il dito contro i difetti del Pd: «E’ afflitto dal male oscuro delle consorterie». Via d’uscita? «Raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica». A Renzi, Occhetto chiede «di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi: serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee».«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.
-
Il blitz contro di noi, per il quale hanno scelto Renzi
Ora la lista la conosciamo si può fare qualche previsione. Il primo 50% dei ministeri è “senza portafoglio”, così come il restante 50%. Il portafoglio ce l’ha solo chi comanda, ovvero Piercarlo “il dolore è efficace” Padoan, che non ha neanche giurato subito assieme agli altri ministri. È rimasto in Australia, dove stava lavorando al G20 per l’Ocse, caso mai qualcuno non avesse chiaro quali siano le priorità. Giurerà più tardi con comodo, quando deciderà lui. Comunque tutto questo è coreografia, quello che conta è che Padoan è lì per fare quello che lui sa che deve esser fatto, come dicono anche Rehn e Visco (e Draghi).Cosa accadrà ora? La pressione fiscale probabilmente è arrivata al limite, non si può spremere oltre. Certamente c’è da mettere in conto che preparino una qualche forma di patrimoniale, ma il bersaglio grosso ora dovrebbe essere la legislazione del lavoro.Questo è un punto fondamentale, perchè disarticolare completamente i brandelli di diritto del lavoro residui realizzerà uno scenario che anche nel caso di evoluzioni future ora imprevedibili renderà disponibili per molti anni grossi volumi di mano d’opera a buon mercato utilizzabile quasi senza vincoli, con dei costi molto più convenienti anche rispetto alla schiavitù, come spiegava qui “Gz” qualche giorno fa. C’è da aspettarsi qualcosa di simile a un blitz, un po’ come hanno fatto per l’operazione BdI. Renzi non ha nemici interni e ha le spalle coperte dalla cosca finanziaria internazionale e dai media (ogni giorno intervistano Davide Serra su quotidiani o radio, stamattina su Radio1 alle 7.30, ad esempio). Non appena si è ripreso dal brutto quarto d’ora che ha passato, lo stesso Bersani ha rilasciato un’intervista in cui raccomanda a tutti di votare la fiducia al governo, per sgombrare il campo da equivoci. Sa che mettersi di traverso è pericoloso, vedendo come “loro” hanno condotto la “guerra dei sei giorni”: hanno fatto a pezzi Letta e messo in un angolo Napolitano (che sembrava un semidio fino a un mese fa) senza il minimo tentennamento.L’“operazione Friedman” ha come obiettivo dichiarato quello di obbligare l’Italia a “fare le riforme”, e in Italia si appoggia a grossi pezzi di Confindustria che lavorano per l’export e hanno necessità di poter pagare salari da Cina in modo finalmente legale qui in Italia. Questo distruggerà ancora di più il mercato interno ma è un problema nostro, non loro.Nel proteggere l’operazione hanno un ruolo chiave i militanti Pd. Quelli rimasti, ormai, sono dei fedelissimi che difendono il Verbo delle riforme strutturali fino alla morte, e come Gondrano lavorano sodo per difendere il progetto, contro ogni evidenza di devastazione in corso in Europa e in Italia. Questo non è uno scherzo ma è un sistema ottimamente organizzato che eredita il modello leninista, presidia il territorio con centinaia di sedi in tutta Italia e si mobilita come un piccolo esercito che si muove compatto ed efficace quando necessario.Fingono malessere e scrupoli di coscienza, ogni tanto, ma poi rientrano nei ranghi, e silenzio. Qui è il grande succcesso del principio per cui “il partito epurandosi si rafforza”: quanto minore è la partecipazione complessiva al voto, tanto più aumenta il peso relativo e l’efficacia, sullo scenario, di questa minoranza organizzata. Per chi vuole contrastare il progetto totalitario dell’Eurozona c’è molto da imparare di fronte alla disciplina marziale con cui si muovono i pretoriani eurofili; il punto principale è che nel momento cruciale non si scannano tra loro, ma si chiudono come una falange oplitica. Non è politica nè economia: è strategia militare.(Daniele Basciu, “Il blitz”, da “EconoMmt” del 24 febbraio 2014).Ora la lista la conosciamo si può fare qualche previsione. Il primo 50% dei ministeri è “senza portafoglio”, così come il restante 50%. Il portafoglio ce l’ha solo chi comanda, ovvero Piercarlo “il dolore è efficace” Padoan, che non ha neanche giurato subito assieme agli altri ministri. È rimasto in Australia, dove stava lavorando al G20 per l’Ocse, caso mai qualcuno non avesse chiaro quali siano le priorità. Giurerà più tardi con comodo, quando deciderà lui. Comunque tutto questo è coreografia, quello che conta è che Padoan è lì per fare quello che lui sa che deve esser fatto, come dicono anche Rehn e Visco (e Draghi). Cosa accadrà ora? La pressione fiscale probabilmente è arrivata al limite, non si può spremere oltre. Certamente c’è da mettere in conto che preparino una qualche forma di patrimoniale, ma il bersaglio grosso ora dovrebbe essere la legislazione del lavoro.
-
Cardini: soldati privati e polizie agli ordini dell’élite
«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».È facile supporre che un simile marchingegno verrà impiegato in situazioni dove si verifica una forte protesta sociale contro decisioni inique dei governi, argomenta Melotto, ragionando con Cardini sulla recente ripubblicazione del volume “Quell’antica festa crudele”, un viaggio – prima edizione nei primi anni ‘80 – lungo i secoli che vanno dal medioevo alla Rivoluzione Francese. Guerra e pace: «La guerra che crea nuove classi sociali, sollecita spostamenti di popolazioni affamate in cerca di ingaggi mercenari e terrorizza plebi contadine», e la pace che, dpo l’anno mille, «diffonde il proprio messaggio esigente e chiede risposte adeguate, col formarsi di movimenti che pongono seri limiti alle guerre private». Guerre private, organizzate da élite? La certezza del diritto si incrina appena viene meno la sovranità statale: «La sovranità nazionale – dice Cardini – l’Italia non ce l’ha più da quando il sistema Usa-Nato è entrato potentemente nella penisola, innervandola con le sue basi militari senza che i nostri governi abbiano mosso un dito, anzi sulla base di un’evidente loro connivenza».Cardini, osserva Melotto, nella sua analisi storica vuole «mettere l’accento su una civiltà che possedeva una forte consapevolezza di quel che significasse l’andare in battaglia, che trovava in sé gli anticorpi che potessero salvarla da un definitivo tracollo, da un totale cedimento alla barbarie del sangue versato». Consapevolezza che, secondo Cardini, risulta assente ingiustificata ai nostri giorni. Riproporre oggi “Quell’antica festa crudele”, infatti, «è utile per marcare la distanza che separa un periodo di impegno e di scontro culturale e politico dai nostri anni inconsapevoli». Se nei secoli passati la guerra poteva essere “umanizzata”, “razionalizzata” e quindi dominata, oggi «la mancanza di una morale condivisa nell’opinione pubblica pare far da preludio al trionfo delle guerre non più legate ai voleri degli Stati-nazione. Oggi, l’istituzione di una milizia come Eurogendfor fa pensare a un fronte di guerra interno: «È la prosecuzione della costruzione di Eurolandia a favore di chi la gestisce e ne ricava i frutti».Non era meglio la leva obbligatoria? Un esercito difensivo, una forza di protezione civile? «Un esercito che nasca con i soli scopi difensivi e di aiuto alla popolazione civile non è un esercito», dice Cardini. «Quello di cui avremmo bisogno sarebbe un vero esercito europeo, non un’organizzazione di ascari al servizio della Nato. La leva obbligatoria non è più concepibile: il processo di destrutturazione della società civile italiana è andato ormai troppo oltre». Altro segnale allarmante: il movimento pacifista si è quasi dissolto. «Siamo nella fase delle operazioni di polizia internazionali, funzionali al governo delle lobbies multinazionali che sta sempre più governando il mondo intero, con alcune zone ancora poco chiare. Per esempio, dove va la Cina? Si adatterà a questo tipo di gioco, e in che modo?». Quest’anno ricorre l’anniversario dello scoppio della Grande Guerra: quanto vi era di consapevole, nei governanti dell’epoca, nella decisione di mandare al massacro i proletari d’Europa l’un contro l’altro? «Il punto – replica Cardini – non era massacrare i proletari, ma perseguire una politica di potenza: la Russia voleva raggiungere il Mediterraneo, la Francia vendicarsi dei tedeschi e recuperare le aree ferrifere e carbonifere dell’area renano-mosellana. Certo, la guerra era un diversivo rispetto all’affrontare la questione sociale».La sinistra italiana, incarnata allora nel Partito Socialista – ricorda Melotto – fu l’unica in Europa a non chinare il capo alle intimidazioni del nazionalismo, diversamente da quanto fecero i socialisti francesi, che votarono i crediti di guerra dopo l’assassinio del loro dirigente Jean Jaurés. Non fu uno dei momenti più alti della storia del movimento operaio italiano? «Sì, e anche del mondo cattolico che in genere era nemico del conflitto», concorda Cardini. «Ma c’erano ormai larghe aree d’inquinamento nazionalista, tra i socialisti e tra i cattolici. Quanto all’interventismo rivoluzionario, che nasceva su altre basi, alla prova si rivelò un cavallo di Troia del nazionalismo». Oggi, la riflessione storica rischia di essere intorbidita: i «fanatici», decisi a «minimizzare le responsabilità dei nazisti» negando la tragedia della Shoah, finiscono col danneggiare anche «i ricercatori seri», che rivendicano il diritto di rivedere la storia, correggendo errori e mistificazioni. Cè poco da stare allegri: «Ci vorrebbe una Costituzione europea e una raggiunta maturità di coscienza appunto federale o confederale da parte dei popoli, che non c’è». C’è invece il dominio egemonico della Troika. «Chi lo ha voluto? Quali sono i suoi poteri? Chi li ha determinati? Una decisione di questo tipo non può esser presa nel totale silenzio dei governati».(Il libro: Franco Cardini, “Quell’antica festa crudele”, Il Mulino, 520 pagine, 30 euro).«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».
-
Argentina e Grecia presentano Padoan, il rovina-paesi
«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».Padoan era responsabile dell’Argentina per conto del Fondo Monetario Internazionale nell’anno in cui il paese sudamericano fece default. A cosa si riferiva Krugman? Padoan è stato l’uomo che ha gestito per conto del Fondo Monetario Internazionale la crisi argentina. Nel 2001, Buenos Aires fu costretta a dichiarare fallimento dopo che le politiche liberiste e monetariste imposte dal Fmi (quindi, suggerite da Padoan) distrussero il tessuto sociale del paese. In quegli anni il neo ministro si occupò anche di Grecia e Portogallo. Krugman scrisse in un altro articolo che furono proprio le ricette economiche «suggerite da Padoan» a «favorire la successiva crisi economica nei due Paesi».Ecco cosa dichiarò Padoan a proposito della crisi greca: «La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario. La Grecia deve riformarsi, nell’amministrazione pubblica e nel lavoro». In altre parole, Atene avrebbe dovuto rendere il lavoro molto più flessibile, alleggerendo (licenziando) la macchina della pubblica amministrazione. Nel marzo del 2013, quando la Grecia era sull’orlo del collasso, l’allora numero due dell’Ocse suggerì più esplicitamente: «C’è necessità che il governo greco adotti una disciplina di bilancio rigorosa e di un continuo sforzo di risanamento dei conti pubblici, condizioni preventive per il varo di misure a sostegno dello sviluppo». Padoan è stato per quattro anni responsabile per conto del Fmi della Grecia. Successivamente, ha influenzato le politiche economiche di Atene in qualità di vice presidente dell’Ocse.(Franco Fracassi, “L’uomo che spinse l’Argentina nell’abisso”, da “Popoff” del 21 febbraio 2014).«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».
-
Solo il Pd difende ancora l’euro, odiato dagli italiani
Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.Secondo tutti i sondaggi, i cittadini europei sono ancora favorevoli all’Europa unita, ma la maggioranza degli italiani (il 49%) non vuole più l’euro, e il 24% (cioè un italiano su quattro) si dice pronto a votare subito un partito schierato contro l’euro. I più contrari alla moneta della Bce sono operai, disoccupati e casalinghe, ma anche imprenditori, liberi professionisti e impiegati (favorevoli solo pensionati e dipendenti pubblici, cioè chi ha un reddito garantito). «Ma la cosa più strabiliante», scrive Grazzini su “Micromega”, è che la stragrande maggioranza del popolo di centrosinistra è schierato al 90% a favore dell’euro, mentre la grande maggioranza degli elettori di centrodestra e del M5S è a favore del ritorno alla lira. Lettura sociologica: «Sembra che molti elettori del centrosinistra appartengano al ceto medio superiore, colto e anziano, con meno problemi economici». Per questo, in nome dell’ideale europeista, «accettano la moneta unica e le conseguenti politiche monetarie e fiscali recessive, che provocano disoccupazione e desertificazione produttiva». Di conseguenza, a rappresentare i sentimenti più popolari sono Berlusconi, Grillo e la Lega.«Ormai – osserva Grazzini – quasi tutti gli economisti riconoscono che l’austerità scaraventata sulle spalle dei lavoratori, del ceto medio e delle piccole e medie aziende è generata dall’euro, che non è solo una moneta ma una politica monetaria ed economica mirata a salvare solo la finanza a scapito dei redditi da lavoro, dell’occupazione e dello stato sociale». Anche se Giorgio Napolitano riesce a fare dell’ossimoro una teoria economico-politica (no all’austerità, sì all’euro – come se non fosse l’euro a determinare il rigore), gli stessi economisti «riconoscono che sarebbe stato meglio non entrare affatto nella moneta unica», aggiunge Grazzini, dal momento che «un regime di moneta unica amplifica gli shock economici». A differenza degli Usa, l’Europa «non ha le caratteristiche necessarie per costituire un’unica area valutaria», e che inoltre «l’euro è una moneta unica incompleta, perché non ha alle spalle una banca centrale prestatrice di ultima istanza». L’euro non ha politiche solidali di bilancio: la politica monetaria dell’Ue è «sostanzialmente guidata e dominata in maniera del tutto miope, in questo momento, dalle classi dirigenti tedesche».E’ certo che la situazione europea peggiorerà, continua Grazzini. Il Fiscal Compact, sottoscritto dal governo Monti e approvato anche da Berlusconi e dal Pd di Bersani, imporrà all’Italia il rientro automatico dal deficit a ritmi forsennati, 80 miliardi all’anno. Un trattato impossibile da rispettare, pena la morte clinica del sistema-paese. Non solo: in base ai trattati Two Packs e Six Packs, i nostri bilanci pubblici subiscono l’esame preventivo della Commissione Ue prima ancora di essere presentati al Parlamento di Roma. «Questi vincoli non sono però ancora completamente noti al popolo italiano e sono tenuti accuratamente in ombra dal governo Letta». A guadagnarci sono soltanto la Germania e le altre nazioni creditrici (Finlandia, Austria, Olanda), ma la «folle politica di austerità» sta facendo diventare l’Europa «il malato del pianeta». Infatti, «perfino gli Usa e i cinesi sono preoccupati dell’avida e restrittiva politica tedesca della coalizione Cdu-Spd della Merkel, che guida senza molte resistenze (certamente non quella del presidente francese François Hollande) l’economia sociale di mercato europea verso la distruzione e il baratro».Per attuare questa politica, continua Grazzini, la Ue spinge verso l’estrema concentrazione di potere verso organismi non eletti: nessuno nella Troika è stato votato dai cittadini europei. «I governi, come quello italiano, sono diventati la cinghia di trasmissione delle politiche decise dalla Bundesbank e dalla Merkel, con il supporto (critico?) del socialismo tedesco, la Spd». L’Europa unita e solidale? «Era un bel sogno», come quello dell’euro che «doveva garantirci stabilità e crescita». E quindi: «Come fare oggi a uscire dall’incubo?». Certo non seguendo il centrosinistra, che – a partire da Napolitano – difende l’euro «nonostante il suo evidente fallimento, anche a costo di perdere completamente la sua tradizionale base sociale». Già, «perché il centrosinistra confonde la moneta unica – criticata dalla grande maggioranza degli economisti – con la possibilità di costruire una Europa unita e solidale?».La verità è che il centrosinistra “assolve” l’Unione Europea, «la cui adesione è stata decisa dalle élite dirigenti italiane, per assimilarsi a queste». Da più di vent’anni, ricorda Grazzini, le forze di centrosinistra «declamano acriticamente le sorti magnifiche e progressive della Ue: diventa allora per loro difficile cambiare direzione di marcia», anche se Romano Prodi ha tentato di prendere tardivamente le distanze da Bruxelles, sostenendo che questa Ue «non è più quella di prima». Di ben altro avviso le voci più critiche – come quelle di Paolo Barnard, Bruno Amoroso, Giulio Sapelli, Emiliano Brancaccio – secondo cui la stessa costruzione dell’Ue, fin dall’inizio – moneta unica non sovrana, Commissione Europea non eletta – era un disegno palesemente insostenibile, neo-feudale, funzionale all’élite finanziaria degli oligarchi, incarnato nel nuovo super-potere della tecnocrazia pilotata dalle grandi lobby planetarie.«E’ difficile affermare che gran parte del popolo italiano sbagli per ignoranza», dice oggi Grazzini. «La sinistra dovrebbe trarre più di una lezione dai risultati dei sondaggi di opinione: dovrebbe prendere atto che la maggioranza della popolazione vorrebbe una opposizione molto dura a questa Unione anti-democratica dell’austerità e dell’euro». Gli Stati Uniti d’Europa vagheggiati dal federalista Altiero Spinelli «rappresentano un’ottima prospettiva, ma solo se innanzitutto viene rispettata la sovranità nazionale». La Ue oggi non è affatto democratica, «ma autoritaria e completamente subordinata ai voleri della finanza». Primo traguardo: pretendere che il Parlamento Europeo – per il quale voteremo a maggio – ottenga un vero potere legislativo che attualmente non ha. E subito dopo: rivedere radicalmente tutti i trattati-capestro, da Maastricht al Fiscal Compact, fino a minacciare di uscire veramente dall’euro, pur di ottenere un cambio di rotta dalla Germania. L’arma di pressione che non si vuole usare, dice un economista come Brancaccio, è il mercato comune europeo: se l’Italia minacciasse di uscirne, Berlino sarebbe costretta a scendere a più miti consigli, per proteggere il suo export.Se la Ue non ribalterà la sua politica economica e sociale, immagina Grazzini, il popolo italiano deciderà autonomamente la sua politica economica: «L’Italia dovrebbe essere pronta a proporre agli altri paesi europei di uscire in maniera concordata dall’euro per riprendersi la sovranità monetaria e per avviare un cammino di sviluppo sostenibile e di piena occupazione». Anche perché «le politiche economiche non possono essere decise da riunioni a tavolino della Troika, ma dai popoli sovrani, dai loro Parlamenti e dai loro governi». L’Italia è ancora una grande nazione europea, «e dovrebbe avere il coraggio di opporsi duramente a questo euro, anche perché è proprio la Germania il paese che senza dubbio avrebbe più da perdere dalla rovina della moneta unica». Per cui, «se si ha timore di andare decisamente contro questo euro e contro questa Ue», le elezioni le vinceranno Berlusconi e Grillo (e in Francia Marine Le Pen) mentre la sinistra «si condannerà per l’ennesima volta all’irrilevanza».Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.
-
Il super-ministro di Renzi: italiani, soffrire vi fa bene
Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».Capo-economista dell’Ocse nonché professore universitario alla Sapienza di Roma, Padoan ha avuto incarichi come consulente presso la Banca Mondiale, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea. E’ stato inoltre direttore di Italiani Europei, la fondazione di Massimo D’Alema, un think-tank politico che si occupa di temi economici e sociali. Tra il 2001 e il 2005 ha ricoperto il ruolo di direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale con responsabilità su Grecia, Portogallo, San Marino, Albania e Timor Est, mentre dal 1998 al 2001 è stato consigliere economico presso la presidenza del Consiglio dei ministri, collaborando con i premier Massimo D’Alema e Giuliano Amato.Lo stesso Padoan, super-tecnocrate perfettamente in linea con la Troika europea protagonista delle politiche di rigore che stanno devastando l’Europa del Sud, è stato anche responsabile per il coordinamento della posizione italiana nei negoziati dell’ Agenda 2000 per il bilancio Ue, l’Agenda di Lisbona, il Consiglio Europeo, gli incontri bilaterali e i vertici del G8. Dal 1992 al 2001 ha anche insegnato al College of Europe ed è stato visiting professor in Italia, Argentina, Giappone, Polonia e Belgio. Al “New York Times” ha confidato che, a suo parere, la crescente percezione che l’austerità sia futile è completamente sbagliata. «Il consolidamento fiscale sta producendo risultati», ha detto. Aggiungendo che i politici dell’Eurozona dovrebbero cercare di fare un lavoro migliore per comunicare i loro “successi” ad una popolazione stremata. «Rimane sempre la speranza che stesse facendo dell’ironia spinta», chiosa Debora Billi.Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».
-
Padoan imposto dalla Troika, con tanti saluti a Renzi
Scusate, ma dov’è la novità del governo Renzi? Vi prego, guardate la lista dei ministri: ci sono diverse giovani comparse (ininfluenti), molti volti notissimi provenienti dal governo uscente (ben nove tra cui Franceschini, Alfano… urca, che rinnovamento!) ed esponenti dell’establishment nazionale (al lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti! Niente male per un premier di dichiarata origine democristiana…) e soprattutto di quello europeista. Se non è una fotocopia del governo Letta che era l’interprete in versione democristiana della linea Monti… Qualcuno crede ancora davvero alla favoletta di Renzi rottamatore? L’ho già scritto e insisto: questo è un continuatore. E’ un garante. Ora c’è la prova. Tra tutte, la nomina che più conta è quella di ministro dell’economia.Pier Carlo Padoan è un economista che ha lavorato per la Banca mondiale, la Commissione europea e la Bce. E’ stato rappresentante del Fmi, poi è sbarcato all’Ocse, dove ricopre l’incarico di economista capo. Serve altro per capire chi sia Padoan e soprattutto quale modello economico intenda perseguire? Il nuovo superministro dell’economia è da sempre un dogmatico, un teorico del rigore, probabilmente della patrimoniale, al punto che persino il Premio Nobel Krugman lo ha definito il “cheerleader” dell’austerità. Se avete gradito Monti e la cura che ha riservato all’Italia, apprezzerete senz’altro Padoan. Da notare che Renzi nemmeno lo conosceva; in queste ore, secondo quanto riporta il Messaggero, gli ha parlato solo al telefono, ma ne é rimasto folgorato; come peraltro gradivano – e lo hanno fatto sapere – Napolitano e la Commissione Europea, il Fondo Monetario, naturalmente la Bce di Mario Draghi.Padoan è uno dei loro. E sono rassicurati dalla sua nomina, anzi entusiasti. Gli italiani non so. Sì, gli italiani sono disorientati, sconcertati, in gran parte già delusi da Renzi per il modo in cui ha conquistato il potere. Nessuno ha spiegato quali siano le vere ragioni che hanno costretto alle dimissioni Letta, senza nemmeno il pretesto di una crisi o di un voto di sfiducia. E non che gli italiani lo amassero particolarmente, ma almeno una ragione plausibile, magari democratica… invece nulla. Si è capito invece benissimo chi ha gradito questo perentorio cambio in corsa: l’establishment europeista di cui i mercati sanno interpretare gli interessi. Letta ne faceva parte, ma la sua appartenenza non è bastata a salvarlo. C’era urgenza. Ma per fare cosa? Qui c’è la chiave della crisi e della folgorante ma ingiustificata ascesa di Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Macché rottamatore, Renzi è il garante e continuatore”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 22 febbraio 2014).Scusate, ma dov’è la novità del governo Renzi? Vi prego, guardate la lista dei ministri: ci sono diverse giovani comparse (ininfluenti), molti volti notissimi provenienti dal governo uscente (ben nove tra cui Franceschini, Alfano… urca, che rinnovamento!) ed esponenti dell’establishment nazionale (al lavoro il presidente della Lega Cooperative Giuliano Poletti! Niente male per un premier di dichiarata origine democristiana…) e soprattutto di quello europeista. Se non è una fotocopia del governo Letta che era l’interprete in versione democristiana della linea Monti… Qualcuno crede ancora davvero alla favoletta di Renzi rottamatore? L’ho già scritto e insisto: questo è un continuatore. E’ un garante. Ora c’è la prova. Tra tutte, la nomina che più conta è quella di ministro dell’economia.