Archivio del Tag ‘welfare’
-
Big Pharma democratica? Forse non tutto è in sfacelo
Voglio essere breve ma istruttivo. Tempo fa scrissi un articolo dove dimostravo che oggi il pensiero più avanzato sulla tutela del lavoro non sta nelle putrefatte puttane grandi sigle sindacali, ma sta nei cervelli delle aziende di Silicon Valley o addirittura nei cervelli di Goldman Sachs. Il segnale inequivocabile è che il Vero Potere ha due facce. Quella nota, di poco differente da Satana, o da un barracuda sifilitico, o da un pitbull con la rabbia; e un’altra faccia che incredibilmente coesiste con quanto detto prima, cioè intelligenze veramente progressiste, avanzatissime anche nei regni dei… diritti. Yes, è così. Quindi per uno come me, che iniziò il precipizio della sua carriera di affermato reporter nazionale proprio producendo un’inchiesta Rai sul conflitto d’interessi fra medici e giganti del farmaco (Big Pharma), è oggi di sollievo leggere ciò che i dottori Michael Rosenblatt e Sachin Jain hanno pubblicato pochi giorni fa per la Harvard Univesity. Chi sono? Sono due baroni della medicina sia pubblica che privata americana, entrambi ex dirigenti di punta del colosso del farmaco Merck ma anche universitari, quindi profondi conoscitori del… conflitto d’interessi tra profitto di Big Pharma e medici, sia pubblici che privati.Non ripeto qui la loro analisi, ma io conosco molto bene la materia e vi garantisco che questi due baroni hanno non solo ammesso sulle pagine di Harvard ogni singolo angolo dello scandaloso conflitto d’interessi fra Big Pharma, professori universitari ricercatori, primari e medici di famiglia (inclusa l’insidiosa pratica della pubblicazione scientifica per far carriera negli atenei, che non coinvolge soldi ma ‘spintoni’ dai raccomandatori privati), ma hanno anche proposto le basi per una legislazione in materia che abbia senso pratico e morale. Il senso morale è scontato, inutile qui ri-raccontarlo. In molti Stati Usa oggi se un medico (letteralmente) prende un caffè con un informatore farmaceutico, è tenuto a denunciare il fatto a un comitato apposito, se no rischia l’espulsione dall’albo alla denuncia di un passante. Le vie per raggirare ci sono, ovvio, ma questo controllo esiste in Italia? No.Il senso pratico, qui, è essenziale. Oggi il mercato è ovunque, è come l’ossigeno sul pianeta Terra, s’infiltra ovunque. L’utopia di una sanità di puro investimento pubblico è fuffa. Il problema è allora, Michael Rosenblatt e Sachin Jain sostengono, sfruttare l’immenso potenziale di ricerca finanziata dalla Stato (di fatto per 50 anni il vero partoriente di tutta la tecnologia che conosciamo) assieme all’immenso potenziale di ricerca di Big Pharma. Ciò va fatto con regolamentazioni che, dicono i due esperti, «non vadano a strangolare alla cieca i contatti fra Big Pharma e medici, ma che incoraggino più la dichiarazione pubblica di un potenziale conflitto d’interessi nascente, che il conflitto stesso». Tradotto: quando un brillante ricercatore medico pubblico fa una scoperta essenziale per la salute di tutti, più che chiuderlo in una gabbia pubblica dalla quale non potrà mai comunicare con Big Pharma, si deve per prima cosa annunciare che un conflitto d’interessi ne può nascere, e poi sedersi al tavolo di ministero della sanità e Big Pharma e discutere come i privati possono aiutare lo Stato a maturare quella grande scoperta senza sfruttare o corrompere nessuno. Meno che meno sfruttare gli ammalati. E viceversa, la stessa cosa quando Big Pharma scopre una cura salvavita. Al tavolo col ministero… prima di tutto.Che questi concetti escano dagli americani, da due ex pezzi grossissimi della Merck, è un risultato immenso, insperato, dà un senso di micro-speranza, come quando appunto Paolo Barnard è l’unico in Italia ad accorgersi che il welfare del futuro dei salariati è in mano ai cervelli della Artificial Intelligence, non ai fossili della Cgil e soci. Loro, i cervelli A.I. hanno le vere idee e le condividono pubblicamente. Ministro del lavoro, fatti avanti (non tu cazzaro, in It). Bè, come posso concludere questa nota, se non con due cose. Voi che vivete nel web gettate al cesso i webeti della serie “Il mondo è diviso fra la cupola satanica dei Rothschild privati, e i buoni”, guardate dentro il Vero Potere, e ci troverete delle sorprese eccezionali. Secondo… bè, think.(Paolo Barnard, “Forse non tutto è in sfacelo – lasciamo perdere l’It”, dal blog di Barnard dell’11 giugno 2017).Voglio essere breve ma istruttivo. Tempo fa scrissi un articolo dove dimostravo che oggi il pensiero più avanzato sulla tutela del lavoro non sta nelle putrefatte puttane grandi sigle sindacali, ma sta nei cervelli delle aziende di Silicon Valley o addirittura nei cervelli di Goldman Sachs. Il segnale inequivocabile è che il Vero Potere ha due facce. Quella nota, di poco differente da Satana, o da un barracuda sifilitico, o da un pitbull con la rabbia; e un’altra faccia che incredibilmente coesiste con quanto detto prima, cioè intelligenze veramente progressiste, avanzatissime anche nei regni dei… diritti. Yes, è così. Quindi per uno come me, che iniziò il precipizio della sua carriera di affermato reporter nazionale proprio producendo un’inchiesta Rai sul conflitto d’interessi fra medici e giganti del farmaco (Big Pharma), è oggi di sollievo leggere ciò che i dottori Michael Rosenblatt e Sachin Jain hanno pubblicato pochi giorni fa per la Harvard Univesity. Chi sono? Sono due baroni della medicina sia pubblica che privata americana, entrambi ex dirigenti di punta del colosso del farmaco Merck ma anche universitari, quindi profondi conoscitori del… conflitto d’interessi tra profitto di Big Pharma e medici, sia pubblici che privati.
-
Nuova sinistra, fai la guerra a questo sistema (o stai a casa)
Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall’articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell’anima ha votato No il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti. Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato Sì, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato No, ma prima ha sostenuto il Jobsact, la legge Fornero e soprattutto quella mina a orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact. Durante il governo Monti il Parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l’austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l’intervento pubblico diretto nell’economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O pubblico, o si svende ciò che resta del paese, questa è l’alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, per esempio dall’impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio. Il bilancio delle spese militari dello Stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del Pil posto dagli accordi Nato. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all’estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace?Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra. Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell’ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli Ue e Nato? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma posto è posto all’indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.Chi ha votato No il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il Sì. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la Ue nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta? Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell’appello di parlarne esplicitamente nell’assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l’opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d’altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.(Giorgio Cremaschi, “Vorrei che Falcone e Montanari facessero chiarezza sulla loro idea di sinistra”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 9 giugno 2017).Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
-
Terrorismo, il bugiardo copione della morte. Fino a quando?
Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?Mentre si prolunga il silenzio assordante dei media mainstream, che ignorano deliberamente le ormai migliaia di fonti – da Wikileaks in giù – che raccontano tutta un’altra storia, come quella dell’ambasciatore americano a Bengasi saltato in aria con tutte le sue carte dopo che il network di Assange aveva scoperto il traffico di ami chimiche dalla Libia verso la Siria (da cui l’emailgate di Hillary Cinton, con 1.400 messaggi precipitosamente cancellati), ammonta a ormai molti milioni di persone la platea internazionale degli “webeti” che vogliono sapere, informarsi, scoprire perché agli europei oggi tocca morire per strada, al bar, in metropolitana, al concerto, allo stadio. Voci eminenti hanno squarciato un velo di omissioni, falsità e depistaggi. Giornalisti, premi Pulitzer, ex ministri americani, ex militari d’alto rango, massoni, analisti, specialisti dell’intelligence. Raccontano tutti la stessa storia: un’élite impazzita ha il terrore di perdere il potere assoluto conquistato negli ultimi trent’anni, da quando – afflosciatasi la minaccia sovietica – il “partito della guerra”, il business degli armamenti, aveva assoluta necessità di “inventare” un altro nemico, necessario a giustificare il boom inesauribile della spesa militare, e così ha “fabbricato” la minaccia islamista.Lo ammette l’anziano Zbigniew Brzezisnki nelle sue memorie: fu lui a reclutare Bin Laden, fu lì che tutto cominciò. Il seguito è stato solo una tragica farsa, sanguinosissima: l’11 Settembre, le “armi di distruzione di massa” di Saddam, l’esercito barbarico del Califfo, le armi chimiche di Assad e quelle di Gheddafi, l’atomica dell’Iran. Ora siamo ai kamikaze, veri o presunti, ma comunque non sopravviventi: immancabilmente “già segnalati dall’intelligence”, regolarmente “sfuggiti al controllo”, prontamente individuati e riempiti di piombo. Terrorizzare un paese come la Francia, strategico per l’oligarchia finanziaria Ue, secondo alcuni osservatori è una misura preventiva: le leggi speciali frenano la protesta per le misure di rigore sociale in arrivo, e concorrono all’elezione in carrozza di un soggetto come Macron, creatura in vitro della supermassoneria reazionaria incarnata dall’onnipresente Jacques Attali, l’uomo che derise la “plebaglia europea”, illusasi che l’euro fosse stato creato per la sua felicità. Fino a quando durerà, questa recita, che attualmente insanguina il Regno Unito colpevole di aver scelto la Brexit? Se è vero che i signori del terrore hanno paura di perdere il regno, come sostiene qualcuno, c’è ragione di temere un maxi-attentato, stile 11 Settembre. A meno che, a monte, non accada qualcosa, e l’élite “nera” sia sconfitta. Ma non c’è caso che gli “webeti” vengano a saperlo da giornali e televisioni. Siamo nel 2017, e la verità non è mai stata così incerta e rischiosa, avara e tristemente clandestina.Qualcuno crede ancora che sia stato Osama Bin Laden, cioè il socio storico della famiglia Bush, poi agente speciale della Cia in Afghanistan, a far radere al suolo le Torri Gemelle, il giorno in cui – per la prima e unica volta nella storia degli Stati Uniti – l’aviazione era stata interamente impegnata in una decina di esercitazioni concomitanti, dall’Alaska alla West Cost, lasciando solo 4 aerei a guardia del cielo di New York e Washington? E qualcuno crede ancora che lo stesso Bin Laden sia stato davvero ucciso il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan, su ordine di Obama, dai Navy Seals poi tragicamente a loro volta uccisi (tutti) da un razzo dei Talebani all’aeroporto di Kabul? Qualcuno, davvero, crede che il fantomatico Abu Bakr Al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione iracheno di Camp Bucca e poi fotografato in Siria in amena compagnia del senatore John McCain, non c’entri nulla con le reti di intelligence occidentale che hanno organizzato a tavolino la “guerra infinita” fabbricando, allo scopo, prima Al-Qaeda e poi lo Stato Islamico?
-
Il neoliberismo ha conquistato lo Stato, complice la sinistra
Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.«Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno – scrive Vero su “Megachip” – il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello Stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali». Quindi uno Stato in funzione di coordinatore strategico dei grandi interessi economici. «Il cosiddetto “laissez faire” era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale». Nell’accezione più diffusa, invece, proprio lo Stato «deve costruire, mantenere, sorvegliare una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”». Una distinzione «fasulla», quella tra destra e sinistra, figlia di una narrazione «fraudolenta» del rapporto con l’istituzione statale.Quella attuale, aggiunge Vero, è «una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale». Questa è una post-sinistra, «il cui sogno, da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà, è divenuto la scomparsa delle classi: e non nel senso vaticinato da Marx». Ma la responsabilità della sinistra, «specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile)», secondo Vero non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali: «Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo Stato si fa garante».E la “forgia” di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto-dovere di essere libero e concorrenziale «è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto». Per Sandro Vero è stata «una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione». La solidarietà sociale? «E’ divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!».Vi hanno raccontato che il liberismo è contro l’ingerenza dello Stato nell’ecomomia? Mentivano: il neoliberismo ha assoluto bisogno dello Stato, per creare un ambiente di leggi favorevoli alle multinazionali, che moltiplichi in modo esponenziale i profitti speculativi. Lo ricorda il filosofo Sandro Vero, che denuncia il ruolo dei sedicenti progressisti in questa distorsione: «Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione». Le politiche ultraliberiste, dalla Thatcher a Reagan nei primi anni ‘80 «si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la “third way” di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale». La sinistra si è convertita «alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale», reiterando una «arrogante bugia», quella di «raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello Stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra». Due bugie: la sinistra non ha difeso un bel niente, e la destra – anziché svuotarlo – lo Stato lo ha plasmato in funzione pro-business.
-
Dai 5 Stelle nessuna proposta su come rianimare la sanità
I 5 Stelle, cioè il nulla, anche in tema di sanità: non una parola sui vaccini, nonostante il mostruoso decreto Lorenzin con 12 vaccinazioni obbligatorie, e nessuna ricetta in vista per “guarire” la sanità italiana. «Riteniamo che sia fondamentale investire più risorse», scrivono, sul blog di Beppe Grillo, condannando «quello che hanno fatto gli ultimi governi». Chiedono di «investire in aree della politica sanitaria che finora sono state marginali», come «la prevenzione primaria», che serve «a rimuovere le cause note di malattie», anche originate da inquinamento ambientale. Poi c’è il problema risorse umane, medici e infermieri, «che in questi anni sono stati vittime del blocco delle assunzioni proprio come elemento di politica di austerità che ha creato tantissimi disservizi, sacche di precariato, in alcuni casi addirittura sacche clientelari». Meglio invertore la rotta, dicono i pentastellati: «Bisogna investire risorse in questo settore e bisogna anche prepararsi al fatto che molti medici presto andranno in pensione e avremo un fabbisogno di medici specialisti molto alto».Più posti di lavoro, più turn-over. Ma con che soldi? Non è dato saperlo: lungi dall’assumere una posizione netta e chiara sull’euro, da cui dipende in gran parte l’attuale crisi economica, con ovvi riflessi anche sulla sanità pubblica, i 5 Stelle non hanno finora contestato in modo organico l’euro-regime che impone i tagli alla spesa, né hanno mai avanzato proposte su come allentare la stretta di Bruxelles sul bilancio italiano. Preferiscono parlare di una gestione “più virtuosa” dell’immensa spesa farmaceutica, per «liberare risorse che potevano essere investite in altri settori della sanità pubblica, oppure per ridurre i costi a carico dei cittadini». Sempre e solo rimodulazioni delle voci di spesa, all’interno dello stesso budget “inchiodato” dall’Unione Europea: come già per il “reddito di cittadinanza”, che i 5 Stelle finanzierebbero solo con il “taglio degli sprechi”, anche nel caso della sanità non provano neppure a immaginare un bilancio più consistente, liberato dai laccioli del “patto di stabilità” imposto dall’Ue, e si accontentano di chiedere “più informatica” per smaltire le liste d’attesa negli ospedali.Anche per marcare il loro profilo identitario ecologista, i 5 Stelle segnalano l’importanza di una alimentazione sana nella prevenzione del cancro, ricordando che le ultime ricerche internazionali «le cattive abitudini alimentari sono responsabili di circa 3 tumori su 10», mentre per il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro «tra il 30 e il 40% dei tumori potrebbero essere evitati se solo adottassimo una dieta più sana». Di qui la richiesta di una maggiore educazione alla salute, verso un consumo più consapevole. E da parte dei redattori del documento programmatico – Giulia Grillo, Mirko Busto e Giovanni Endrizzi – non manca un’intemerata contro lo “Stato biscazziere”, che ha incaricato i monopoli di pianificare il gioco azzardo come un’industria di massa che coinvolge ormai 30 milioni di italiani, per poi riconoscere l’azzardopatia come una patologia da curare, salvo imporre ai concessionari non il divieto, ma l’obbligo di pubblicità. «Il boom dell’azzardo – scrivono i tre estensori – è avvenuto per una serie di fattori: la selvaggia liberalizzazione, la crisi economica, che ha spinto molte persone a sfidare la sorte per cercare una soluzione alla perdita di reddito, la massiccia pressione pubblicitaria e l’omissione di basilari controlli sulle ricadute sociali, sanitarie, l’infiltrazione criminale. Il programma del Movimento 5 Stelle vuole cambiare strada». Ma, s’intende, senza disturbare chi comanda davvero.I 5 Stelle, cioè il nulla, anche in tema di sanità: non una parola sui vaccini, nonostante il mostruoso decreto Lorenzin con 12 vaccinazioni obbligatorie, e nessuna ricetta in vista per “guarire” la sanità italiana. «Riteniamo che sia fondamentale investire più risorse», scrivono, sul blog di Beppe Grillo, condannando «quello che hanno fatto gli ultimi governi». Chiedono di «investire in aree della politica sanitaria che finora sono state marginali», come «la prevenzione primaria», che serve «a rimuovere le cause note di malattie», anche originate da inquinamento ambientale. Poi c’è il problema risorse umane, medici e infermieri, «che in questi anni sono stati vittime del blocco delle assunzioni proprio come elemento di politica di austerità che ha creato tantissimi disservizi, sacche di precariato, in alcuni casi addirittura sacche clientelari». Meglio invertire la rotta, dicono i pentastellati: «Bisogna investire risorse in questo settore e bisogna anche prepararsi al fatto che molti medici presto andranno in pensione e avremo un fabbisogno di medici specialisti molto alto».
-
La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
-
Com’era bella l’Italia quando non eravamo ancora liberisti
Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.Erano gli anni 80, i jeans si portavano ancora sopra il livello delle mutande, nessuno si sarebbe mai arrischiato a mangiare pesce crudo in un ristorante cinese e Mani Pulite non ci aveva ancora privato di una classe politica paurosamente incline alle tangenti ma anche fieramente impermeabile al capitalismo liberista. Dai grandi sentivo dire che avevamo un sacco di guai, che oggi scopro essere gli stessi di sempre; anzi, gli stessi di tutti i paesi. In quell’Italia però l’ascensore sociale funzionava. Coi suoi tempi, scalino dopo scalino, ma funzionava. La prima cosa che ricordo è che in classe l’appello contava una trentina di nomi. Le famiglie erano più numerose di oggi e a scuola ci mischiavamo tutti: i figli dei ricchi coi figli dei poveri coi figli della classe media. Al di là di qualche accessorio più scintillante, tuttavia, lo stile di vita non era poi così differente. Con diecimila lire trascorrevamo, tutti insieme, la serata in pizzeria.Non ricordo problemi di disoccupazione. Chi non aveva voglia di studiare, se ne andava a fare il muratore, l’operaio o l’artigiano e a 18 anni riuscivi pure ad invidiarlo perché si era già potuto comprare una macchina burina che piaceva alle ragazze burine. Ma allora nessuno sembrava burino, forse perché lo eravamo tutti. Una cosa che proprio non esisteva era Equitalia. Fatta eccezione per l’acquisto della casa e dell’automobile, non ci si indebitava per i beni voluttuari. Nessuno faceva un finanziamento per andare in vacanza, comprare un motorino e tantomeno un televisore da 42 pollici. Nemmeno te lo proponevano. Le cose, molto semplicemente, si compravano quando si avevano i soldi per comprarle. Altrimenti, si aspettava. In famiglia, ma più in generale nella società, c’era una cultura condivisa del risparmio. Il denaro non era il presente, il denaro era il futuro. Lo insegnavano i nonni, dotandoci di salvadanai nei quali accumulare gli spiccioli delle mance e regalandoci buoni postali che avremmo riscosso una volta maggiorenni, toccando con mano, e con anni di ritardo, tutta la concreta lungimiranza del loro affetto.Insieme al risparmio, l’altro grande valore era lo studio. Ricordo padri e madri fieri di poter mandare i propri figli, miei compagni, al liceo anziché alla scuola professionale e poi commossi fino alle lacrime per il primo laureato della casa. Nessuno allora parlava in modo sprezzante del “pezzo di carta”. La laurea era la garanzia di una promozione sociale che nessuno avrebbe più retrocesso e che diventava una conquista collettiva dell’intera famiglia. Non solo dello studente; anche di chi, con sacrificio, gli aveva consentito di studiare. L’istruzione, tuttavia, non era l’unico trampolino sociale. Tanti operai, dopo qualche anno di apprendistato e specializzazione, riuscivano a coronare il sogno di “mettersi in proprio”. Si diceva così e lo si diceva con orgoglio perché aprire una partita Iva, allora, era ancora una libera scelta. Andavi in banca, spiegavi il tuo progetto, ti davano un prestito e cominciava l’avventura che segnava la vita: da operaio a padrone. Quelli però erano padroni diversi dai grandi industriali di ieri e dai piccoli manager di oggi. Quelli erano padroni che, dentro, continuavano a sentirsi operai. Padroni che usavano le mani, che parlavano in dialetto e che conservavano un’intima diffidenza per i saputelli anglofili che poi avrebbero rovinato tutto.Com’era bella quell’Italia. Provinciale, ombelicale, modesta, furbacchiona, eppure così solida, generosa e vitale. Scrivere è terapeutico. Così mi accorgo solo ora del motivo profondo per cui ho scritto questo articolo senza capo né coda. L’ho scritto perché non riesco a perdonare chi mi ha portato via quel paese. Non perdono chi ci ha abituato a fare debiti per tv ultrapiatte, chi ci ha venduto come modernità i co.co.co, i co.co.pro e i voucher e chi ha inchiodato i giovani ad un telefonino per distrarli da un oggi senza domani. Più di tutto, però, io non riesco a perdonare chi non ha soccorso quei piccoli eroi dalle mani callose che, piuttosto di abbassare la saracinesca di una fabbrica, hanno scelto di abbassare la saracinesca di una vita. Padroni perché padroni di loro stessi. Operai perché operosi.(Alessandro Montanari, “Com’era bella l’Italia quando non eravamo liberisti”, da “Interesse Nazionale” dell’8 giugno 2017. Giornalista e autore televisivo, Montanari ha lavorato in Rai a “L’ultima parola” e ora, sempre con Gianluigi Paragone, lavora a “La Gabbia Open”, su La7).Qualche giorno fa, illustrando il 25esimo rapporto sui cambiamenti economici e sociali, l’Istat ci ha spiegato con la forza fredda dei grandi numeri, che l’Italia è un paese in declino, nel quale le diseguaglianze aumentano invece che ridursi. La classe media è risucchiata nel proletariato, il proletariato si accapiglia col sotto-proletariato per un po’ di lavoro o un po’ di welfare mentre una piccola schiera di privilegiati scivola dietro la curva e scompare dall’orizzonte. Di fronte a questo scenario, di solito, i sociologi dicono che l’ascensore sociale si è rotto. Ma non è così. L’ascensore sociale non si è rotto; è stato manomesso da una selvaggia impostazione economica che regge la globalizzazione e che va sotto il nome di neo-liberismo. Per spiegarmi voglio essere del tutto anti-scientifico. Non ricorrerò alle medie di Trilussa che soccorrono gli economisti quando vogliono dirci che tutto va bene anche quando sembra che tutto vada male. No. Per convincervi che tutto andava bene quando sembrava che tutto andasse male, io ricorrerò ai miei ricordi di gioventù. Niente di più soggettivo, niente di più vero.
-
Il “fratello” Romano Prodi, globalizzatore in grembiulino
Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo ricevuto nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.Nel “primo round” delle sue clamorose rivelazioni – silenziate dal mainstrem in modo tombale – Magaldi ha scontato una critica ricorrente: non aver documentato le sue affermazioni, spesso esplosive, al punto da ridisegnare la mappa del vero potere, mettendo in relazione personaggi come Monti, Draghi e Napolitano con il mondo internazionale delle 36 Ur-Lodges che rappresentano il supremo vertice delle grandi decisioni. In realtà, Magaldi è stato chiaro dal principio: «Ogni mia affermazione è documentabile, dispongo di 6.000 pagine di dossier. Sono pronto a esibirle, se qualcuno contesterà quanto ho scritto». Ma gli interessati, naturalmente, si sono ben guardati dal fiatare: molto meglio la congiura del silenzio. E ora, dopo “La scoperta delle Ur-Lodges”, si avvicina la pubblicazione del sequel, “Globalizzazione e massoneria”, con retroscena sulla svolta oligarchica che ha svuotato le democrazie occidentali, imponendo politiche di rigore (e oggi anche terrorismo targato Isis) affidate a docili esecutori: come lo stesso Prodi, la cui vera identità – secondo Magaldi – è sfuggita alla maggior parte degli italiani. Un uomo di potere, in grembiulino. L’elettorato di sinistra lo ricorda con nostalgia? Sbaglia: il primo a metterlo in croce, quand’era a capo della Commissione Ue, fu Paolo Barnard su “Report”, che presentò il ritratto di un cinico tecnocrate, schierato con i peggiori oligarchi.Prodi è stato l’unico a battere Berlusconi, due volte su due? Vero, ammette Magaldi, parlando a “Colors Radio”: all’inizio, «quel grande carrozzone che è stato l’Ulivo individuò in modo perfetto, in Prodi, il suo leader». E Berlusconi, «grazie ai buoni uffici della Lega di Bossi, fu defenestrato, nel ‘94». Poi l’interregno di Lamberto Dini e quindi l’arrivo di Prodi nel ‘96. Con che esito? «L’effetto del governo Prodi è stato così ottimo, traghettandoci così bene in Europa, che nel 2001 Berlusconi ha rivinto». Poi c’è stata la seconda vittoria prodiana del 2006, di stretta misura, presto naufragata tra il Pd veltroniano, Bertinotti e Mastella, fino a rimettere Berlusconi al potere nel 2008. Certo, «Berlusconi si è rovinato con le sue mani: non è stato all’altezza della situazione». Ma a pesare, nel fallimento di Prodi, «sono state le pessime azioni di governo, da parte di Prodi e di tutti coloro che l’hanno accompagnato: il centrosinistra italiano, con Prodi e gli altri, non ha saputo produrre una politica lungimirante per questo paese». In altre parole, per Magaldi, «Prodi non ha saputo interpretare il post-1992 in un senso utile a costruire benessere, non dico uguale ma almeno di poco inferiore a quello della Prima Repubblica».Al pari del centrodestra di Berlusconi, il centrosinistra «ha fatto scempio dell’interesse del popolo italiano», piegandosi all’élite eurocratica. E quindi, «che benemerenza c’è nel fatto che Prodi si sia alternato a Berlusconi, battendolo?». In pratica, «sono due facce della stessa medaglia: centrodestra e centrosinistra si sono alternati senza nessuna vera differenza nella gestione di un paese che dipendeva da linee progettate altrove: costoro hanno soltanto fatto da esecutori, secondo una commedia dell’arte per cui, magari, apparentemente, mettevano ingredienti diversi, ma la sostanza rimaneva la medesima». Linee progettate altrove: nei santuari dell’oligarchia finanziaria, industriale, militare, che – partendo dai circuiti esclusivi delle superlogge internazionali – dirama vere e proprie direttive, declinate attraverso think-tank e organismi paramassonici (Trilaterale, Bilderberg, World Bank, Fmi) per poi scendere, a cascata, fino ai governi nazionali, ai leader come D’Alema, Prodi, Renzi. A volte, poi, l’élite supermassonica “commissaria” direttamente un paese: è accaduto con il “fratello” Monti, «che rappresenta quanto di peggio può offrire la rete massonica sovranazionale in senso neo-aristocratico».«Ho più rispetto e stima per un Mario Draghi, che reputo più pericoloso», dice Magaldi. «Monti è un massone che è stato vittima della propria tracotanza, della propria retorica manipolatoria. E appena ha avuto l’occasione di passare dal “back-office” al “front-office”, ha fallito miseramente per eccesso di narcisismo, avendo creduto lui stesso alla retorica che i media italiani avevano creato attorno alla sua figura e alle meraviglie presunte del suo governo». Per Magaldi, Mario Monti è comunque «un grande sconfitto, in questo tentativo di devastazione industriale, economica e sociale dell’Italia: ci ha provato, ha fatto dei danni, ma poi è stato preso a calci nel sedere dall’elettorato». Dopo di lui, è arrivato Enrico Letta, che secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è un “paramassone”, in realtà in quota all’Opus Dei. «Non ne sentiamo la mancanza», assicura Magaldi. «Nessun rimpianto: se c’è una cosa buona che ha fatto Renzi, a parte la legge sulle unioni civili, è stata quella di aver mandato a casa Enrico Letta e il suo soporifero governo, che peraltro riprendeva e ricalcava pienamente le politiche di Monti». Quanto alle tentazioni massoniche dell’ex premier, Magaldi si è già espresso più volte: «Renzi ha ripetutamente bussato alle porte della supermassoneria reazionaria, attraverso il Council on Foreign Relations, ma non gli è stato aperto». A differenza del “fratello” Romano Prodi, che invece – secondo Magaldi – siede da lunghi anni nel salotto buono della super-massoneria di potere.Caro, vecchio Romano Prodi? Macchè: «Non è certo quel pacioccone bonaccione, quel bravo curato e padre di famiglia che è stato presentato all’immaginario collettivo degli italiani». Nonostante il piglio bonario, il professore bolognese «è un personaggio molto tagliente, molto abile, anche molto attento al proprio “particulare”». Un soggetto a tutto tondo, da raccontare: il Prodi “segreto” sarà tra gli argomenti del secondo volume di “Massoni”, che Gioele Magaldi sta per stare alle stampe. Con una sorpresa, tra le tante: «Prodi è anche lui parte di una rete massonica sovranazionale». Presidente dell’Iri e grande privatizzatore, poi capo del governo, presidente della Commissione Europea, advisor della Goldman Sachs. E, nel frattempo, anche massone: «Tra coloro che hanno contribuito in senso pessimo, per l’Italia e per l’Europa, agli svolgimenti politico-economici nell’era della globalizzazione, cioè nel post-1992, c’è il “fratello” Romano Prodi», il cattolico democristiano che nel 1978 evocò il nome “Gradoli” – per indicare il luogo della prigione di Moro – raccontando di averlo “ricevuto” nell’ambito di una seduta spiritica. Prodi supermassone? Ebbene sì: parola di Gioele Magaldi. Che, per il secondo volume della serie, potrebbe avvalersi del contributo di una superstar della massoneria mondiale, come il controverso George Soros.
-
Carpeoro e il segreto dei Romita: nel ‘46 vinse la monarchia
Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pierluigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro racconta: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita, mio grande amico, fece il ministro molte volte e gli sempre venne garantita l’elezione da tutti i partiti». Era il pegno per custodire il “segreto” della storica manipolazione a cui il padre avrebbe presiduto. Pierluigi Romita «è stato un politico inaffondabile: e non aggiungo altro». Ulteriori rivelazioni sulla storia italiana del ‘900 sono in arrivo con il libro che Carpeoro sta per pubblicare sui clamorosi retroscena della caduta di Mussolini: la deposizione del 25 luglio 1943 sarebbe stata in realtà concordata con lo stesso “duce” per propiziare un’uscita meno traumatica dell’Italia dal secondo conflitto mondiale. Ma intervennero elementi (non ancora di pubblico dominio, nella storiografia) che fecero precipitare la situazione: l’invasione dell’Italia da parte delle truppe naziste sarebbe stata provocata da un complotto tra esponenti massonici e diplomazia vaticana, che sabotarono il piano iniziale di auto-siluramento “morbido” del regime fascista, aprendo la strada alla fucilazione di Ciano e alla tragedia dell’occupazione e della guerra civile.Perché il potere del primissimo dopoguerra preferì far vincere la repubblica piuttosto che la monarchia? Intanto perché il sovrano era troppo popolare, afferma Carpeoro: «Umberto II era ritenuto pericoloso, come raccoglitore di consensi, da parte di certi ambienti sia comunisti che democristiani». E poi, soprattutto: «Diventare repubblica è stato uno dei modi per poter trattare diversamente le condizioni di guerra, per De Gasperi, sul tavolo in cui si sono puniti quelli che avevano perso: assumere un assetto democratico ha consentito all’Italia una trattativa diversa, sul tavolo dei perdenti – la Germania ha dovuto pagare con lo smembramento: ci sono stati dei prezzi da pagare». Poi era inevitabile che elementi fascisti venissero traghettati nella nuova repubblica italiana: «Mussolini aveva praticamente creato lo Stato, inteso come struttura burocratica e amministrativa nazionale. Aveva creato l’Inps, l’Inail, l’Iri, la sanità pubblica. Le alte dirigenze non potevano certo essere sostituite traumaticamente: la prima legge repubblicana infatti fu quella della continuità amministrativa, per garantire il funzionamento della macchina statale». Molti, poi cambiarono bandiera: «Montanelli, Malaparte, Giorgio Bocca, Dario Fo erano repubblichini e diventarono di colpo, misteriosamente, partigiani o personalità della sinistra». Era fatale che parte del vecchio milieu confluisse nel nuovo regime. «Non mi meraviglia né mi scandalizza», chiosa Carpeoro, «ma non credo che abbiamo sempre scelto il meglio: potevamo calibrare di più le scelte tra cosa conservare e cosa archiviare».Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pier Luigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».
-
La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».
-
Il partito che non c’è: quello che direbbe tutta la verità
«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.«Chiedetevi come mai ci ritroviamo a domandarci, ogni volta, dov’è finita la politica seria, e perché è scomparsa», ripeteva anni fa Paolo Barnard, ricostruendo – nel saggio “Il più grande crimine” – la genesi dell’Eurozona in chiave economico-finanziaria ma soprattutto criminologica. L’accusa: una élite feudale pre-moderna e pre-democratica, travolta per due secoli dai progressivi successi della democrazia industriale, si sta semplicemente riprendendo tutto: in Europa ha rifondato una sorta di Sacro Romano Impero dove comandano politici non-eletti, a loro volta manovrati da una oligarchia finanziaria che ha imposto una moneta “privatizzata”, l’euro, con l’unico scopo di impoverire le popolazioni, trasferendo ricchezza dal basso verso l’alto. I politici che potevano opporsi sono stati eliminati (come Olof Palme) o più semplicemente “comprati”, cooptati, perché tradissero il loro mandato, il loro elettorato, i loro sindacati di riferimento. Applicarono alla lettera lo storico memorandum di Lewis Powell, adottato dalla Commissione Trilaterale per abbattere la sinistra sociale dei diritti, usando come clava il dogma del neoliberismo: il welfare deve finire, il potere deve tornare in mani neo-feudali come quelle che pilotano l’ordoliberismo germanico.Nel suo libro uscito nel 2014, “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi (che cita spesso Barnard) completa il quadro: i “campioni” dell’attuale élite, dalla Merkel a Draghi, sono tutti supermassoni affiliati a 36 Ur-Lodges internazionali. «Non sono veri massoni», precisa Carpeoro, «visto che hanno tradito i principi progressisti della massoneria». Magaldi preferisce chiamarli contro-iniziati. Ma ricorda che proprio alla libera muratoria si devono le istituzioni-cardine della modernità: democrazia, elezioni, Stato laico, suffragio universale. Il dono della Rivoluzione Francese, ispirata proprio da massoni. «Solo che poi siamo arrivati a Monti, a Napolitano. Anche Renzi ha bussato a quei circoli, ma non gli hanno aperto. In alternativa ci sarebbero i 5 Stelle, ma non hanno ancora spiegato cosa farebbero, una volta al governo». Sicché, torna in campo la suggestione del “partito che non c’è”, ma sarebbe tanto utile se ci fosse. Un partito che, ad esempio, avesse come frontman un economista di primissimo piano come Nino Galloni, allievo del professor Federico Caffè (come lo stesso Draghi, che però si laureò con una tesi sull’insostenibilità di una moneta unica europea). Galloni ha le idee chiarissime: sbattere la porta in faccia all’Ue, se non accetta di rivedere tutti i trattati-capestro, da Maastricht in poi. Un sogno? Certo, per ora sì: è il sogno del “partito che non c’è”.Negli anni ‘80, quando Olof Palme era ancora vivo, una corrente (non populista) scosse l’Europa: quella del movimento ambientalista, che poi crebbe velocemente “grazie” al disastro nucleare di Chernobyl. Nemmeno i Verdi della prima ora intendevano abbattere il capitalismo, ma solo “tagliargli le unghie”, precisamente quelle più “velenose”, in nome della salute di cittadini e lavoratori. Fu una piccola rivoluzione, anche culturale: prima di degradarsi, il movimento costrinse i paesi europei a dotarsi di legislazioni più “verdi”, più attente alla tutela dell’ambiente. Ma a prendere il sopravvento, in Italia, fu il ciclone Tangentopoli, che solo oggi – dopo oltre vent’anni – si vede cosa ha prodotto: da quella colossale “distrazione di massa” venne fuori il nuovo conio dell’Unione Europea, quella che ha ridotto la Grecia a paese del terzo mondo e ha privato l’Italia del 25% della sua produzione industriale, facendo ricomparire ovunque lo spettro della povertà. E i ruggenti 5 Stelle? Molti si sono stupiti del loro silenzio tombale sul decreto-monstre della ministra Lorenzin sui 12 vaccini obbligatori. Non Carpeoro: «L’unica speranza sta nella base dei 5 Stelle, che è fatta di persone pulite. Vedremo se avranno la forza di prevalere sugli attuali vertici, che sono collusi con il potere».Chiedetevi perché non ci sono più i politici di una volta, insiste Barnard. «Un minuto dopo l’istituzione dell’euro – aggiunge Carpeoro – lo stesso Craxi “profetizzò” che sarebbe stato l’inizio della fine, per l’Italia. Con lui, se lo potevano sognare di fare quel tasso di cambio, rispetto alla lira». Galloni, all’epoca, era in trincea: era stato chiamato nientemeno che da Giulio Andreotti, per tentare di limitare i danni attraverso una “guerra” da condurre al coperto, nel palazzo. «Telefonò l’allora cancelliere Kohl – ricorda – per chiedere che fossi rimosso: lottavo, per cercare di impedire la deindustrializzazione dell’Italia». Ma il piano era partito, inesorabilmente, ed era potentissimo. Banche, grande industria, think-tanks, lobby euro-atlantiche, élite franco-tedesche con frotte di politici, tecnocrati ed economisti di complemento. Morti e feriti, alla distanza: rigore, austerity, Monti e Napolitano, la Fornero. Barnard accusa anche D’Alema, uomo-record nelle privatizzazioni, come il suo alleato Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs, e personaggi del calibro di Tommaso Padoa Schioppa e dello stesso Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che chiuse il “bancomat” statale di Bankitalia prima ancora dell’avvento dell’euro, costringendo il paese a dipendere, di colpo, dal credito della finanza privata internazionale, trasformando il debito pubblico in un dramma.Gioele Magaldi segnala che, dal fronte progressista di quella stessa élite neo-massonica, provengono anche segnali di risveglio. Carpeoro “legge” l’inquietudine dell’élite “terrorista” che ora colpisce Londra e Manchester, temendo che il Regno Unito post-Brexit possa smarcarsi dal vertice neocon ultraliberista. Ma se qualcuno ha palpitato per le elezioni francesi, sognando una vittoria “sovranista” di Marine Le Pen, si è dovuto arrendere all’evidenza del supermassone Macron, protetto dal supermassone reazionario Jacques Attali (storico sodale di D’Alema, secondo Barnard). Quanto all’Italia, «rido per non piangere», chiosa Magaldi, tra gli inchini di Gentiloni ai potenti del G7: «I nostri partiti cianciano di legge elettorale “alla tedesca” per ingessare in eterno il sistema con un bell’abbraccio tra Renzi e Berlusconi, che pare piaccia anche a Grillo, dato che porrebbe di fronte alla comoda prospettiva di una nuova stagione di opposizione da “duro e puro”».Tutto ciò, senza una sola parola – da parte di nessuno – su come uscire dalla trappola di questa Ue. Servirebbe, appunto, il “partito che non c’è”. Quelli che ci sono, infatti, servono solo a lasciare l’Italia in letargo, in mezzo alle sue “irrisolvibili” tragedie economiche, che il mainstream si guarda bene dall’approfondire: Barnard (cofondatore di “Report”) è trattato come un appestato, e il libro di Magaldi (decine di migliaia di copie vendute) non ha avuto sinora spazi in tv. Il mainstream preferisce registrare gli slogan di Salvini, fotografare l’anziano Silvio che allatta agnellini, filmare l’ectoplasma di Renzi che si riprende l’ectoplasma del Pd. Il mainstream riesce a stare ancora ad ascoltare persino la controfigura di Bersani che straparla di sinistra dimenticando l’altro Bersani, quello vero, che militarizzò il Parlamento per far votare il pareggio di bilancio imposto dall’élite per tramite dei suoi commissari, Monti e Napolitano. Forse, il “partito che non c’è” è quello degli italiani, che ancora stazionano davanti al televisore godendosi questo spettacolo, mentre altrove i veri capi – gli unici – decidono, ancora e sempre, sulla testa di tutti.«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.
-
Un Macron italiano: i poteri forti vogliono sostituire Renzi
Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.Minniti? «Sembra solo una boutade», scrive Giannuli nel suo blog. «Anche se Macron non era esattamente vergine di impegno politico, essendo stato più volte ministro, Minniti è una vecchia stella del varietà che calca le scene da un quarto di secolo: a spacciarlo per nuovo non riuscirebbe nemmeno Paolo Rossi in preda al brandy». E poi il ministro dell’interno «non ha nemmeno “le phisique du role”: dote essenziale di questi nuovi politici è di essere giovani e bellocci». La vera novità sarebbe invece Cairo, che non è giovanissimo ma «ha un esercito mediatico dietro le spalle, una immagine di successo». Inoltre «non si è mai compromesso né a destra né a sinistra (o meglio: né con Berlusconi né con Renzi) e potrebbe andar bene per tutte le stagioni». Ma sia Draghi che Cairo, aggiunge Giannuli, non è detto che ci stiano: il primo potrebbe puntare verso il Fmi o altro incarico finanziario di livello mondiale, il secondo «potrebbe avere la tentazione di essere un nuovo Murdoch e consolidare a livello europeo il suo ruolo di grande tycoon: e fare il presidente del Consiglio in Italia, con i tempi che arrivano, non è che sia una prospettiva così eccitante».Possibilità di successo della manovra? «Intanto dobbiamo vedere quanto dura la popolarità del Macron originale, cosa della quale è lecito dubitare», continua Giannuli. «Ma poi, sono anni che dura questa infatuazione esterofila degli italiani che di volta in volta hanno cercato il Blair italiano, il Sarkozy italiano, lo Zapatero italiano, persino lo Tsipras italiano (e qualcuno ci ha addirittura intestato la sua lista elettorale), ma la cosa non ha mai prodotto particolari risultati, proprio per il carattere artificiale ed effimero del tentativo». Copione che non cambierà nemmeno stavolta: probabilmente sforneranno «un prodotto vendibile fra gli elettori italioti», la platea del “Partito della Nazione” già ventilato da Renzi. Piuttosto, Giannuli si concentra sul motivo di queste voci insistenti: può significare che «i poteri forti e le centrali di sistema non si fidino più di Renzi e diano per spacciato Berlusconi che, con i suoi 80 suonati, non ha più prospettive neanche di medio periodo». Si cerca «qualcosa di apparentemente nuovo, che rompa anche con l’ombra delle tradizionali famiglie politiche», considerando che «i partiti della Seconda Repubblica furono pallide imitazioni di quelli della Prima».La vera novità, ragiona Giannuli, «è la liquidazione dei partiti come forme di partecipazione organizzata stabilmente sul territorio, sostituiti dal ruolo di personalità apparentemente carismatiche». Ma oggi nessuno degli aspiranti a questo ruolo sarebbe pronto per le prossime elezioni, per cui «la prossima legislatura sarà solo un intermezzo per permettere la costituzione dei nuovi soggetti e sgombrare il terreno da quelli attuali». Tutto questo, conclude Giannuli, «ha come suo avversario dichiarato il M5S (il “populismo” italiano)». Ma la manovra di riassetto dei poteri forti «probabilmente si avventerà prima di tutto sulla Lega, la cui presenza è di forte disturbo ad una operazione del genere». In altre parole, queste «sono le doglie del parto della Terza Repubblica». E nessuno (a parte Salvini con i suoi slogan) si prenota per l’unica vera battaglia utile: affrontare di petto la distorsione dell’assetto Ue, con Bruxelles che impone agli Stati i suoi diktat, suggeriti dall’élite finanziaria. Lo stesso Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, sta pensando a un nuovo soggetto politico, il Partito Democratico Progressista, guidato da un economista come Nino Galloni. «La prima cosa da fare? Eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione, andare a Bruxelles e dire, a muso duro: o riscriviamo i trattati europei, o l’Italia abbandona l’Ue».Girano voci, riprese da giornali come il “Foglio”, su chi potrebbe essere il Macron italiano in un prossimo futuro. I nomi più gettonati sono tre: lo scontatissimo Mario Draghi, il ministro dell’interno Marco Minniti e l’editore Urbano Cairo. «Dire Macron – sottolinea Aldo Giannuli – significa dire una cosa: un nuovo partito “liquido” (anzi gassoso) che si presenti come “né di destra né di sinistra”, ma “della nazione”, raccolto intorno ad un personaggio con simpatie trasversali e che si presenti in rottura delle tradizioni politiche precedenti». Di solito, aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «questi discorsi preparano un partito di destra», sostanzialmente «tutto interno al sistema neoliberista», non nuovo ma «solo ben truccato». Ma chi potrebbe interpretare questo ruolo? E con quali probabilità di successo? Soprattutto: che impatto ha già, sul sistema, il semplice fatto che se ne parli? Per Giannuli, in pole position è saldamente il supremo tecnocrate della Bce, che Gioele Magaldi (nel libro “Massoni”, del 2014) presenta come autorevole leader della supermassoneria internazionale reazionaria, espressione dell’élite neo-feudale che, con l’ideologia del rigore, ha azzerato gli storici diritti sociali conquistati negli anni ‘70.