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Raid Usa sulla Siria. Ma quel potere ci teme: deve mentirci
Quanto è pericoloso l’Impero della Menzogna? Quante vittime produce, ogni ora, il sistema orwelliano basato sulle fake news criminali rilanciate a reti unificate, senza le quali non potrebbe essere scagliato nemmeno un missile? La farsa dell’orrore, copione strettamente seguito anche per l’ultimo raid “mirato e limitato” sulla Siria (ben attenti, gli attaccanti, a non sfiorare installazioni russe), dimostra almeno un risvolto positivo: chi preme quei fatali pulsanti ha ancora paura dell’opinione pubblica, se si premura di mentirle con tanto impegno. Lo afferma la giornalista Enrica Perucchietti, con alle spalle saggi sul terrorismo “false flag” e sulla propaganda di regime basata su notizie sistematicamente false: noi spettatori siamo rimasti probabilente gli unici a non sapere quanto contiamo, visto che chi muove portaerei e impiega armi di distruzione di massa si preoccupa innanzitutto di raccontarci il contrario della verità, nel timore che qualcuno di noi si svegli dal letargo televisivo. E’ grazie al nostro sonno se i killer possono oggi presentarsi come giustizieri: gli Stati Uniti, che hanno scagliato decine di missili su obiettivi siriani alla periferia di Damasco, sono gli stessi che hanno trasformato la Siria in un inferno, armando i tagliagole jihadisti che hanno terrorizzato la popolazione, di fatto spingendola a stringersi attorno al regime di Assad, visto certamente come il male minore.Maschere tragiche come la fallimentare Theresa May e il suo comico di corte Boris Johnson, nei guai per il dopo-Brexit, minuettano (tra una menzogna e l’altra) con personaggi come l’inquietante Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild travestito da giovane rinnovatore, incaricato di demolire il welfare di un paese reduce dal bagno di sangue dell’auto-terrorismo, magicamente cessato dopo la rottamazione di François Hollande. Tutto si tiene? Impossibile dimenticare lo stridente contrasto tra l’elegante sorriso di Barack Obama, a lungo in giro per il mondo con l’aria di essere una divinità scomodata per il bene altrui, e la fogna infestata di ratti nella quale fu fotografato il suo inviato speciale per il Medio Oriente, il senatore John McCain, in amichevole colloquio con i peggiori mozzatori di teste della regione, tra cui il tristemente celebre Abu Bakr Al-Baghdadi. Loro, tutti insieme – Obama, McCain e i colleghi dell’Isis, con la graziosa collaborazione di altri paladini dell’umanità (il turco Erdogan, l’israeliano Netanyahu e i monarchi islamisti dell’Arabia Saudita) – hanno ridotto la laica Siria ad un’apocalisse di macerie. Un girone dantesco di profughi e lutti, su cui oggi, per buon peso, si abbattono anche i missili umanitari americani, inglesi e francesi, con il pretesto dell’ultima strage ipotetica, denunciata (come tutte le altre) senza uno straccio di prova.E proprio lì sta il punto: per scatenare la violenza, c’è stato comunque bisogno del massimo sforzo per propagare notizie false, attraverso il circuito del mainstream televisivo. Se solo i giornalisti avessero continuato a fare il loro mestiere, accusa un fuoriclasse come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer per le sue scomode corrispondenze di guerra, noi oggi sconteremmo un numero di vittime enormemente ridotto: meno dolore e meno cimiteri, con più giornalisti onesti in circolazione. Sembra un colossale esercizio di ipnosi: il copione è sempre uguale, ma il pubblico non sembra ne accorgersene. Subisce gli eventi, preparati da una narrazione infedele e spesso paradossale fino al ridicolo, invariabilemnte accolta con rassegnato fatalismo. Non contiamo più nulla, si ripete da più parti: il grande potere fa quello che vuole, senza nemmeno considerarci. Non è vero, rileva Enrica Perucchietti: ha bisogno, ogni volta, di parlarci. Ha la necessità di raccontarci storie, di propalarci menzogne. Non lo farebbe, se non avesse paura dell’ipotetico dissenso. Non cambia mai nulla? Neppure questo è vero: di fronte all’eventualità dei raid occidentali sulla Siria e contro la Russia, dall’Italia si sono levate voci significative, come quelle di Salvini e di Bagnai. Non sarebbe accaduto, ieri, quando infuriavano altri analoghi orrori come quello libico. Contano, i politici italiani? Moltissimo, per il pubblico nazionale: insinuano il germe del dubbio, aprono praterie al pensiero autonomo, incrinano il dogma teologico dietro il quale si nascondono i finti giustizieri.L’ultimo casus belli sembra l’ennesimo capolavoro di propaganda. Non si sa neppure se sia avvenuta davvero, la presuna strage siriana di Douma. Provocata da gas nervino o da cloro? Scatenata da chi? A pochi chilometri di distanza, Israele si fa meno problemi: spara e basta, anche alla schiena, colpendo gli inermi manifestanti di Gaza. Carri armati contro bersagli mobili senza difesa, ragazzini in jeans e maglietta. Quindici morti in una sola giornata, 700 feriti anche nel replay, la settimana seguente. La minaccia di Hamas è reale? Quand’anche, esiste una parola come “sproporzione”, che passeggia nella storia tra diverse latitudini. Nel medioevo, la cavalleria occitanica schierata per proteggere i catari, perseguitati dai crociati nel sud della Francia, chiamò “desmisura” la ferocia gratuita dei vincitori. Oggi, in caso di guerra unilaterale, i media rispolverano un lessico novecentesco – l’America, la Francia, l’Inghilterra – come se davvero fossero coivolte intere nazioni, nei crimini “umanitari” di quegli eserciti. Lentamente, si va demistificando la retorica: fiori di saggi svelano che non esiste più una sola politica sovrana, un solo leader che prenda decisioni non dettate dall’oligarchia bancaria e mercantile che ha privatizzato Stati e governi. E ancora e sempre, ogni crimine viene prima annunciato in televisione con il consueto corredo di notizie false, da un potere smisuratamente egemone ma non onnipotente, che ha ancora paura che qualcuno di noi si alzi in pedi e dica: non sono d’accordo, non siete autorizzati ad agire a nome mio.Quanto è pericoloso l’Impero della Menzogna? Quante vittime produce, ogni ora, il sistema orwelliano basato sulle fake news criminali rilanciate a reti unificate, senza le quali non potrebbe essere scagliato nemmeno un missile? La farsa dell’orrore, copione strettamente seguito anche per l’ultimo raid “mirato e limitato” sulla Siria (ben attenti, gli attaccanti, a non sfiorare installazioni russe), dimostra almeno un risvolto positivo: chi preme quei fatali pulsanti ha ancora paura dell’opinione pubblica, se si premura di mentirle con tanto impegno. Lo afferma la giornalista Enrica Perucchietti, con alle spalle saggi sul terrorismo “false flag” e sulla propaganda di regime basata su notizie sistematicamente false: noi spettatori siamo rimasti probabilmente gli unici a non sapere quanto contiamo, visto che chi muove portaerei e impiega armi di distruzione di massa si preoccupa innanzitutto di raccontarci il contrario della verità, nel timore che qualcuno di noi si svegli dal letargo televisivo. E’ grazie al nostro sonno se i killer possono oggi presentarsi come giustizieri: gli Stati Uniti, che hanno scagliato decine di missili su obiettivi siriani alla periferia di Damasco, sono gli stessi che hanno trasformato la Siria in un inferno, armando i tagliagole jihadisti che hanno terrorizzato la popolazione, di fatto spingendola a stringersi attorno al regime di Assad, visto certamente come il male minore.
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
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Magaldi: serve ben altro che il taglio (irrisorio) dei vitalizi
Non penseranno di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi, vero? Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?Siamo nel mezzo di una torbida palude, dice un osservatore indipendente come Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt nonché fustigatore pubblico della massoneria più onnipotente, il regno misterioso delle superlogge-ombra come quelle in cui milita George Soros, che firmerà un contributo speciale nel sequel di “Massoni”, saggio di prossima uscita. Già nel primo volume, Magaldi sostiene che l’Italia sia un campo di battaglia decisivo, riguardo al futuro dell’Europa, anche per il mondo esclusivo delle Ur-Lodges: da una parte la fazione dominante, reazionaria, che ha impugnato la clava del rigore finanziario demolendo benessere e diritti, e dall’altra i progressisti, riemersi dall’ombra con Bernie Sanders alle primarie americane e con Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti inglesi. La Francia? Dopo la grande delusione di François Hollande, sponsorizzato dalla “Fraternité Verte”, all’Eliseo è tornata una pedina dell’oligarchia destrorsa, il finto outsider Emmanuel Macron, sorretto dalla supermassoneria neo-aristocratica – che infatti annuncia tagli devastanti al welfare e storiche mutilazioni del pubblico impiego. “En Marche”, ma dalla parte opposta: quella raccomandata dall’élite cha trasformato l’Unione Europea in un bagno penale per “popoli superflui”, per usare un’espressione di Marco Della Luna.Siamo nella palude, dice Magaldi a “Color Radio”, ma non è detto che dal fango fertile non nasca qualche fiore. Purché, appunto, non si monti una gazzarra fuorviante sulla quisquilia dei vituperati vitalizi, pari a zero nel bilancio delle cose che contano davvero. Per esempio: reddito di cittadinanza e scure sulle tasse. Post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, Magaldi tiene ai suoi distinguo: non è saggio pensare a un’assistenzialismo permanente, né a una Flat Tax come quella promessa da Salvini in campagna elettorale, con l’aliquota al 15%. Ma il reddito pentastellato è qualcosa di diverso: se ben amministrato, può essere un ammortizzatore molto utile, almeno in via temporanea. Beninteso: è il lavoro, il faro della riscossa del paese. E la leva strategica sono gli investimenti pubblici, destinati alle imprese private. Non si contano le infrastrutture ormai cadenti cui mettere mano, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Idem, le tasse: passi la boutade elettorale del 15%, ma non è pensabile che si continui a taglieggiare le aziende, messe in croce da uno Stato che sa essere efficiente solo quando veste i panni di esattore. Sono argomenti forti, quelli sul tappeto. L’importante è cominciare a spacchettarli: soccorso finanziario a chi è nei guai, e riduzione netta della tassazione. Si farà sul serio? Sappiano, i vincitori del 4 marzo, che l’Europa li sta guardando – insieme agli italiani che li hanno votati.Non pensino di cavarsela con la burletta dei famosi vitalizi. Ben altre prove – assai più decisive, per il popolo italiano, di quei quattro spiccioli destinati agli ex parlamentari – attenderebbero Di Maio e Salvini, nel caso dessero un taglio ai minuetti e provassero a dar vita a qualcosa che assomigli ad un governo. A oltre un mese dal voto, sarebbe ora di darsi da fare: lo dice persino un compassato gentleman come Paolo Mieli, uno dei signori del mainstream italico, la tribuna vip che accolse Mario Monti come un salvatore della patria, Enrico Letta come il naturale successore e il suo “killer” Matteo Renzi come un formidabile rinnovatore, anche lui benedetto dagli stessi dèi. Ora è di scena l’ex impresentabile Di Maio: che aspetta a muoversi, onde annunciare poi a Mattarella di avere in tasca i numeri vincenti? Dopo il voto, lo stesso Mieli era tra quanti la prendevano con calma: tempo al tempo, nella speranza forse che il Pd si decidesse a dare udienza ai 5 Stelle. Ma ora l’intervallo sta scadendo. O meglio, dice Mieli, onnipresente nei talk-show: quei due hanno “spaccato” con argomenti forti, anzi fortissimi. Reddito garantito, tasse tagliate alla radice. Vogliamo cominciare a ragiornare, seriamente, per capire da che parte cominciare?
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Michael Hudson: soldi, lo sporco affare dietro al caso Skripal
Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.Bisognerebbe capire quale beneficio dia alla Russia uccidere un’ex spia del governo britannico, restituita all’Occidente in uno scambio di spie e che, a quanto si dice, voleva tornare in Russia. Ovviamente non ce n’è alcuno. Le sanzioni sono pertanto indipendenti da questo evento. La legge occidentale peraltro si basa sulla presunzione di innocenza e sulla certezza delle prove. Non dovrebbe essere dato alcun giudizio senza l’ausilio delle prove. Altrimenti ci si basa su dicerie. Il secondo principio della legge occidentale è che ambo le parti possano presentare la propria versione. Nell’affare Skripal la Russia non può farlo, non essendole stati dati campioni del veleno che potrebbero scagionarla. Non è stato nemmeno concesso loro di vedere Skripal, sebbene sia un cittadino russo, o sua figlia, che ora è sveglia e in via di guarigione. Gli inglesi neanche permetteranno ai suoi parenti di venire in Gran Bretagna. La reazione è così sproporzionata che è ovvio non ci sia una relazione logica. Questo è un doppio standard bello e buono. Penso dunque che invece di una rappresaglia ci sia una strategia predeterminata antirussa, ed un tentativo di isolarne l’economia.La domanda è: perché sta succedendo? E quali sono igli obiettivi ultimi? In un primo momento, pensavo fosse la vendetta per il fallito tentativo americano di usare Isis ed Al-Qaeda come legione straniera per sostituire Assad. O forse è una scusa per appropriarsi del suo petrolio? O la frustrazione per la scelta della Crimea di unirsi alla Russia? Quel che è certo è che sembra ci sia una guerra fredda economica che si sta intensificando. Il risultato è che Russia, Cina e Iran si stanno avvicinando. Quel che abbiamo è dunque una minaccia di isolare la Russia se non fa certe cose. E quindi per risolvere l’affare Skripal bisogna chiedersi: quali sono queste cose che Stati Uniti e Gran Bretagna vogliono? Beh, una è che la Russia spinga la Corea del Nord a smantellare il proprio programma nucleare, cosa che, come è normale che sia, avverrà solo se l’esercito Usa lascerà la penisola. Un altro obiettivo di Washington è che Mosca se ne vada dalla Siria. Trump ha dichiarato la settimana scorsa di volersi ritirare dalla Siria. La domanda però è: se l’America se ne va, cosa farà Mosca? Queste sanzioni sono un segnale: avete visto cosa possiamo fare per ferirvi, vi lasceremo stare se ve ne andrete dalla Siria. Un altro obiettivo è forse quello di far desistere la Russia dall’aiutare l’Ucraina orientale.Gli Stati Uniti, quando vogliono isolare un paese, di solito lo accusano di guerra chimica. Basti pensare a quando Bush disse che l’Iraq aveva armi chimiche di distruzione di massa. Sappiamo che era una bugia. Oppure ad Obama quando disse che Russia ed Assad stavano usando armi chimiche in Siria. Penso dunque che quando dicono che la Russia o Assad o l’Iraq stanno usando armi, questo sia un modo per generare paura, di modo che l’esercito possa venir dispiegato. Trump ha ripetuto ciò che ha detto quando era candidato alla presidenza. Vuole che i paesi europei paghino di più i costi militari della Nato. Lo va dicendo da più di un anno. E penso che sia questa il vero nocciolo dell’affaire Skripal. Usando una cosa abietta come le armi chimiche, si vuole creare un’isteria anti-russa che consenta ai governi Nato di raccogliere molto più budget militare di quanto non facciano ora dagli Stati Uniti. Costringerà tutti i loro paesi a pagare il 2% del proprio Pil al complesso militar-industriale americano. Quindi, in sostanza, l’affare Skripal è stato messo in piedi per spaventare le popolazioni e consentire alla Nato di aumentare le spese militari nell’industria della difesa Usa.Le popolazioni diranno: aspettate un attimo, i bilanci europei non possono monetizzare un deficit di bilancio; se raccogliamo più spese militari per la Nato allora dovremmo ridurre le nostre spese in welfare. Il caso Skripal è dunque una scusa per cercare di addolcire il popolo europeo, di spaventarlo dicendo “sì, è meglio che paghiamo per le pistole, possiamo fare a meno delle cose importanti”. È la stessa situazione in cui erano gli Stati Uniti negli anni ’60, ai tempi della guerra del Vietnam. Queste accuse credo servano anche per comminare sanzioni che interrompano il commercio occidentale con Russia e Cina, impedendo a compagnie assicurative come la Lloyd’s di assicurare spedizioni e trasporti. Le banche direbbero che non daranno più questi servizi a Russia. E la sanzione parallela sarebbe quella di bloccare le banche statunitensi. Dal ’91, anno in cui l’Unione Sovietica è stata sciolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente è stato di circa 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa un quarto di trilione di dollari in un decennio e mezzo trilione di dollari in 20 anni. Il deflusso è continuato fino a poco tempo fa al ritmo di 25 miliardi all’anno. Proprio nelle ultime due settimane avete letto sui giornali il chiasso sulle banche lettoni, “veicoli per il riciclaggio di denaro russo”… come se l’Occidente fosse veramente sorpreso. È il motivo esatto per cui le banche lettoni sono state istituite!Già prima della caduta dell’Unione Sovietica, nell’88 ed ’89, Grigory Luchansky, che lavorava per l’Università della Lettonia a Riga, fu il vettore che diede vita al Nordex come modo per il Kgb e l’esercito russo di spostare i propri soldi fuori del paese. Miliardi di dollari all’anno hanno attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività principale è stata quella di ricevere i depositi russi, per poi trasferirli in Occidente nelle banche britanniche o nelle corporations del Delaware. Sono stato per un certo periodo direttore di ricerca e professore di economia per la facoltà di legge di Riga – circa sei o sette anni fa – per cui ho avuto regolarmente a che fare col governo lettone, col primo ministro e coi regolatori delle banche. Tutti mi hanno spiegato che il precipuo scopo delle banche lettoni era quello di incoraggiare i deflussi di capitali della Russia verso l’Occidente. Dal punto di vista americano, questo era un modo per prosciugare il nemico. L’idea era quella di spingere la privatizzazione neoliberista su servizi pubblici, risorse naturali e proprietà immobiliari russi. Si diceva: «Prima di tutto, privatizzate beni pubblici come Norilsk Nickel e compagnie petrolifere come Khodorkovsky. Ora che le avete in mano, l’unico modo per guadagnare denaro, dato che non ci sono soldi rimasti in Russia, è venderli all’Occidente».E così, in pratica, hanno svenduto queste aziende accumulando enormi capitali, tramite falsa fatturazione delle esportazioni, spostando il denaro principalmente nelle banche britanniche. È per questo che si vedono i cleptocrati russi acquistare proprietà molto cospicue a Londra e rilanciare sul prezzo del patrimonio immobiliare londinese. Ora tutto questo ha tremendamente prosciugato la Russia, che ora minaccia di confiscare i beni dei cleptocrati. Questi ultimi adesso sono spaventati e stanno riportando i propri soldi in patria, lontano dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, dalle corporation del Delaware, dalle Isole Cayman o da dovunque li abbiano messi. Questo mentre ci sono sanzioni contro quelle banche americane che prestano soldi alla Russia. Si assiste dunque a questo immenso afflusso di dollari e sterline verso Mosca, che ora li sta usando per costruire le proprie riserve di oro. Nel tentativo di far male alla Russia, minacciandone gli oligarchi, in realtà si sta fermando l’esodo di capitali, e ciò sta avvenendo come conseguenza delle privatizzazioni.(Michael Hudson, dichiarazioni rilasciate a Michael Palmieri per l’intervista “Il retroscena economico dietro all’avvelenamento di Skripal”, pubblicata da “Counterpunch” il 6 aprile 2018 e tradotta da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Eminente economista, professore emerito all’università del Missouri-Kansas City, il professor Hudson è stato analista finanziario e consulente finanziario a Wall Street. Tuttora presidente dell’Istituto per lo Studio delle Tendenze Economiche di Lungo Termine, nel 2012 ha partecipato al primo summit italiano sulla Mmt, Modern Money Theory, promosso a Rimini da Paolo Barnard).Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.
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Molinari: serve una donna a Palazzo Chigi, dopo 71 anni
Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».Numerosi studi, secondo Molinari, dimostrano che il ritardo nella parità di genere frena lo sviluppo economico: «Una premier in Italia sarebbe un evento-spartiacque, tale da favorire un ruolo maggiore delle donne nel sistema produttivo nazionale, con una pioggia di ricadute postive». Chi sosterrebbe l’eventuale esecutivo “in rosa”? Teoricamente le ipotesi possibili sono quattro, ricorda l’“Agi”: coalizione M5S-Lega, coalizione M5S-Pd, governo di larghe intese, coalizione M5S-centrodestra. Quali le eventuali candidate per Palazzo Chigi? Nel caso toccasse alla berlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati, appena eletta a Palazzo Madama anche coi voti dei grillini, potrebbe liberarsi la presidenza del Senato per il Pd, in vista di ipotetiche larghe intese. Tradizionale riserva della Repubblica, scrive sempre l’“Agenzia Italia”, la Corte Costituzionale ha nei suoi ranghi la vicepresidente Marta Cartabia (area centrosinistra) e Daria De Pretis, ancora più a sinistra. Ma se a scegliere dovesse essere il Movimento 5 Stelle – sostiene l’“Agi” – probabilmente a Palazzo Chigi andrebbe Silvana Sciarra, che in passato ha colpito duramente la legge Fornero, costringendo le forze politiche a una sua parziale revisione. Si parla anche dell’ex ministro Paola Severino, invisa però a Berlusconi (sua la legge che l’ha reso incandidabile), e tra i nomi sempre spesi volentieri c’è quello della Bonino, «reduce sì da una delusione elettorale, ma ben attenta a non legare troppo il suo nome a quello dei democratici».Curriculum ecumenico, quello della Emma nazionale: Berlusconi la volle alla Commissione Europea, il centrosinistra alla Farnesina. «Di profilo più basso i nomi al femminile che può presentare la Banca d’Italia, anch’essa tradizionale serbatoio di premier traghettatori e super partes». La stessa “Agi” fa i nomi di dirigenti come Orietta Maria Varnelli, Franca Alacevich e Donatella Sciuto. Poi le outsider: «Deboli, almeno a momento, anche i nomi di Anna Finocchiaro, più volte indicata in passato come possibile candidata al Quirinale, e di Linda Lanzillotta. Quanto a Lucrezia Reichlin, l’economista ha uno splendido curriculum ma potrebbe risultare poco gradita a Lega e 5 Stelle: troppo tecnica, soprattutto vicina ai mondi di Bruxelles e Londra che le due formazioni dicono di non apprezzare». Archiviate la Boschi e la Boldrini, insieme a Debora Serracchiani, Beatrice Lorenzin e Daniela Santanchè, a bordo campo qualcuno avvista Mara Carfagna, o meglio ancora Anna Maria Bernini, capogruppo forzista al Senato, già candidata alla presidenza da Salvini. Debuttanti assolute, dalla cosiddetta società civile? C’è chi ricorda che i grillini volevano Milena Gabanelli, giornalista fondatrice di “Report”, addirittura al Quirinale. Ma la donna più impegnata in politica – capo di un partito – è Giorgia Meloni, battagliera leader di “Fratelli d’Italia”, costola minore della coalizione vincente alle elezioni. Non esattamente una figura di mediazione: toni sempre accesi, contro l’ignobile “burocratura” di Bruxelles.Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».
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L’onesto criminale Quintino Sella e la legge Fornero dell’800
Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.Migliaia di persone, soprattutto donne e bambini, si ammalarono e morirono per quella tassa. Intere popolazioni si ribellarono ad essa, e contro di loro ci furono le spietate repressioni del generale Raffaele Cadorna, il braccio armato della tassa sul macinato. Per questo l’onestissimo ministro Sella va considerato socialmente un criminale. Risanò i conti pubblici facendo morire di fame, e di pallottole regie, tanta gente. Alla fine la tassa sul macinato fu abolita da Agostino Depretis, un politico molto meno onesto di Sella, anzi un corrotto e corruttore. In questa storia sta un po’ il peccato originale del nostro paese, dove periodicamente il rigore e l’onestà vengono separati e anzi contrapposti alla questione sociale, con la regressione complessiva di tutta la società. Oggi in Italia i tagli alle pensioni hanno la stessa funzione della tassa sul macinato. Che era comoda e facile da riscuotere perché tutti dovevano mangiare. Oggi il sistema pensionistico pubblico è diventato il bancomat dei governi. All’Inps i soldi si trovano subito, basta un decreto legge e lo Stato ce li ha, pronta cassa.Ora la Ue e il Fmi, che han bisogno di altri soldi per finanziare le loro politiche di austerità, chiedono nuovi tagli alle pensioni; e con il loro caravanserraglio di esperti ammaestrati riprende a spiegarci che la previdenza costa troppo. I dati che usano sono falsi e falsificati. Se dalla spesa per la previdenza togliamo i quasi 50 miliardi di tasse che tutti gli anni i pensionati versano allo Stato, tale spesa scende sotto la media europea. Se togliamo l’assistenza, che dovrebbe essere pagata da tutti e non solo dai lavoratori, il bilancio annuale dell’Inps va in attivo. Un attivo sufficiente a pagare l’abolizione della legge Fornero. Anche perché il pensionato italiano maschio, prima di passare a miglior vita, usufruisce dell’assegno pensionistico per 16 anni, mentre la media europea è di 18. E le donne, che (colpevolmente?) vivono di più, vengono pagate per 21 anni contro i 23 degli altri paesi Ue. Quindi già oggi lo Stato italiano si prende due anni di vita in più dai suoi pensionati. Non sappiamo se all’epoca della tassa sul macinato Quintino Sella e gli altri usassero dati falsi per affermare le proprie ragioni. Forse allora non ce n’era tanto bisogno, visto che solo i ricchi votavano. Ma certo l’argomento di fondo era quello stesso di oggi: o i poveri pagano, o lo Stato salta per aria.Per questo l’abolizione della legge Fornero è la cartina di tornasole della politica italiana. Non è una misura sufficiente a far cambiare le cose, bisogna abolire anche Jobsact e Buonascuola, bisogna ricostruire diritti e stato sociale, bisogna rompere con l’austerità Ue e con il pareggio di bilancio. Non è una misura sufficiente, ma è necessaria per indicare che la politica liberista del rigore contro i poveri non può più essere continuata. Se, sulle pensioni, il Parlamento e le forze vincitrici delle elezioni cederanno al ricatto della Ue e della Troika, avranno già concluso la loro funzione. Poi potranno pure tagliare vitalizi e stipendi dei commessi delle Camere, ma questa non sarà giustizia ma solo una misura di facciata per coprire la continuazione del massacro sociale. La stessa facciata dei monumenti all’onestissimo affamatore di poveri Quintino Sella.(Giorgio Cremaschi, “La legge Fornero è la moderna tassa sul macinato”, da “Micromega” del 27 marzo 2018).Quintino Sella è stato uno dei padri della patria, dal lato dell’economia. Il palazzone romano del ministero delle finanze gli è dedicato. E la sua onestà e il suo rigore nei conti pubblici sono celebrati sin dall’Unità d’Italia. Era davvero una persona onestissima, anzi proba. Divenuto ministro delle finanze nei governi italiani fino al 1880, non accettò stipendi e rimborsi, pagava di tasca propria il treno e i servizi necessari alla sua funzione. Per Quintino Sella i costi della politica dovevano essere zero. Naturalmente era aiutato, in questo, dal fatto di essere un ricco componente di una ricca famiglia industriale. Ma ciò non gli toglie merito: nel suo mondo c’erano altri ricchi ben più disinvolti nell’uso dei conti pubblici, a partire dal re Vittorio Emanuele II e dalle sue numerose famiglie. Quintino Sella fu dunque un politico onestissimo, ma anche un ministro criminale. Per pareggiare i conti pubblici egli fu uno dei principali fautori della tassa sul macinato. Un balzello infame inventato dai Borboni e poi subito riutilizzato nell’Italia unita, un prelievo che gravava sul pane, sui cereali, sul cibo dei poveri. Che quando non avevano di che pagarlo dovevano rinunciare a mangiare.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Ilaria Bifarini: di rigore si muore. Lo sanno, e così insistono
Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».In pratica, si continua con la stessa ricetta – mortale – che ha ridotto il malato in fin di vita. Secondo uno studio della stessa Oxfam, aggiunge Bifarini, «se le misure di austerità continueranno, entro il 2025 l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più». Ma il mainstream politico e giornalistico «preferisce ignorare queste verità che trapelano ogni tanto dai documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali e propagandare quelli conformi al pensiero unico economico». Nel silenzio generale dei media è uscita questa notizia: è ormai a rischio povertà anche chi lavora, quasi 1 su 8. «La colpa è proprio di questo sistema, che premia la disuguaglianza», spiega Bigarini. «Il futuro ci prospetta una società sempre più polarizzata, con una ristretta cerchia di privilegiati sempre più ricchi e il resto della popolazione, lavoratrice e non, che continuerà a impoverirsi». D’altronde, aggiunge, il fenomeno dei “working poors” è già diffuso in Germania, dove il problema della disoccupazione non è “mostruoso” come in Italia. Eppure, anche in Germania «la deflazione salariale è una colonna portante del modello neoliberista».Inversioni di rotta? Siamo alla vigilia di un cambiamento? Fa pensare, sostiene “Lospeciale”, che il Movimento 5 Stelle oggi parli di natalità e soldi alle coppie con figli: dirlo solo cinque anni fa avrebbe creato polemiche su un presunto “ritorno al fascismo”, in relazione al primitivo welfare nazionalista mussoliniano. «Sicuramente è iniziata una svolta nel sentimento della popolazione», sostiene Ilaria Bifarini, secondo cui il voto del 4 marzo «ha dimostrato la forte volontà e speranza di cambiamento da parte dei cittadini». Politicamente parlando, per l’economista «andrà avanti chi manterrà le promesse e non deluderà gli elettori». E questo, aggiunge, «perché c’è più consapevolezza, anche grazie all’informazione indipendente», che si è progressivamente sviluppata sul web. «Lavoro e famiglia sono senz’altro prioritari: il problema della denatalità non può essere risolto né aggirato con l’accoglienza indiscriminata, ma va affrontato seriamente». Proponendo reddito minimo e Flat Tax, Di Maio e Salvini dimostrano di sapere che occorre dare (o lasciare) più soldi a famiglie e aziende: il contrario dei tagli, che l’Ue – al servizio dei grandi oligopoli globalizzati – continua a raccomandare, fingendo di non conoscene le conseguenze.Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».
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Pensioni e maternità, la finanza già ricatta il futuro governo
Inutile girarci troppo attorno: l’ombra di un governo italiano euroscettico e favorevole all’intervento pubblico in economia sta agitando i sonni dei potentati liberisti. Non è dato sapere se questa inquietudine sia ben riposta da parte dei diretti interessati, ma, nel dubbio, l’attacco è stato preparato fin nei minimi dettagli e, secondo qualche esperto, è già partito. Il diavolo si nasconde nei dettagli, di solito. In questa occasione, però, pare tutto fin troppo chiaro e non è nemmeno un caso che il fondo del miliardario Ray Dalio, il più grande hedge fund al mondo, dallo scorso ottobre abbia triplicato le sue posizioni al ribasso sulle società italiane. E non c’è solo la speculazione sulle azioni che se ne sta in agguato. A questo giro di giostra partecipano anche BlackRock e il Fondo Monetario Internazionale guidato da Christine Lagarde. L’Fmi ha pubblicato uno studio che pone l’accento sulla necessità, per lo Stato italiano, di rivedere completamente il proprio welfare state, attraverso tagli agli assegni di maternità e alle pensioni di reversibilità. La nota prende in esame però anche il sistema retributivo, che andrebbe penalizzato a livello contrattuale a causa di tredicesime e quattordicesime troppo costose per il sistema. Il fondo BlackRock ha rilanciato questo tema, dando l’allarme ai Btp italiani, una mossa che sembra anticipare un downgrade da parte delle agenzie di rating.Solo un cretino può permettersi di non capire il messaggio che viene dai potentati: «No ad un governo euroscettico! No a battere i pugni sul tavolo europeo!». L’attacco alla tutela della maternità – almeno quello! – dovrebbe sollevare lo sdegno dei cattolici italiani, ma è più facile che scompaia la pedofilia nella Chiesa che il kompagno che sbaglia, al secolo Jorge Bergoglio, si ponga in modo fermo e deciso contro la globalizzazione. I cattolici che siedono ai vertici, si sa, vanno pazzi per il Medioevo, e non si faranno scrupolo alcuno a farlo tornare. Dunque, si illude fortemente chi pensa che il cattolicesimo possa offrire una sponda ai naufraghi della globalizzazione, anche se parliamo di milioni di europei. Ci sono infatti miliardi di asiatici e di africani da illudere, là fuori. Tornando all’attacco di BlackRock (capitanato dal Fmi), è superfluo aggiungere che sono tattiche già viste in Russia negli anni Novanta, in Grecia nel 2011 e nel 2015, oppure in Italia, fin dai tempi di Mario Monti. La differenza, non di poco conto, è però che questa volta sappiamo come attaccano. Sappiamo tutti dove vogliono andare a parare, e lo diciamo ancora chiaramente qui, finchè non entra anche nelle zucche più vuote.L’Europa vuole smantellare il welfare state di stampo keynesiano e garantito dalla Costituzione italiana perchè mira a competere con i paesi del terzo mondo in una gara alla produttività completamente priva di senso nel mondo dell’intelligenza artificiale. Si punta ad indebolire ulteriormente i deboli, per renderli ancora più addomesticabili e ricattabili, e sostituibili con altra gleba. L’Europa della Lagarde ricorda la Francia ai tempi di Napoleone, o ancor prima, di Luigi XIV, che si era fissata di incamerare grano da polenta e accumulare oro, mentre nel resto del pianeta i mercanti olandesi e inglesi facevano il bello ed il cattivo tempo con il commercio marittimo. La verità è che l’Europa è vecchia dentro. Malata dei suoi dogmi liberisti – dogmi che persino gli americani stanno rivedendo con sospetto. Nel Vecchio Continente si sta molto meglio che nel resto del mondo solo ed esclusivamente perché ha saputo mettere in piedi un sistema di welfare state. Senza di quello, vivere a Parigi o nel buco del culo di qualche quartiere malfamato di Città del Messico sarà la stessa identica cosa. Ed è a quello a cui puntano, shortando Italia.(Massimo Bordin, “La vendetta dei poteri forti”, dal blog “Micidial” del 26 marzo 2018).Inutile girarci troppo attorno: l’ombra di un governo italiano euroscettico e favorevole all’intervento pubblico in economia sta agitando i sonni dei potentati liberisti. Non è dato sapere se questa inquietudine sia ben riposta da parte dei diretti interessati, ma, nel dubbio, l’attacco è stato preparato fin nei minimi dettagli e, secondo qualche esperto, è già partito. Il diavolo si nasconde nei dettagli, di solito. In questa occasione, però, pare tutto fin troppo chiaro e non è nemmeno un caso che il fondo del miliardario Ray Dalio, il più grande hedge fund al mondo, dallo scorso ottobre abbia triplicato le sue posizioni al ribasso sulle società italiane. E non c’è solo la speculazione sulle azioni che se ne sta in agguato. A questo giro di giostra partecipano anche BlackRock e il Fondo Monetario Internazionale guidato da Christine Lagarde. L’Fmi ha pubblicato uno studio che pone l’accento sulla necessità, per lo Stato italiano, di rivedere completamente il proprio welfare state, attraverso tagli agli assegni di maternità e alle pensioni di reversibilità. La nota prende in esame però anche il sistema retributivo, che andrebbe penalizzato a livello contrattuale a causa di tredicesime e quattordicesime troppo costose per il sistema. Il fondo BlackRock ha rilanciato questo tema, dando l’allarme ai Btp italiani, una mossa che sembra anticipare un downgrade da parte delle agenzie di rating.
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Francesi contro Macron, Sarkozy (e attentati) per distrarli
Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.È un regime, quello macronista, simile alle presidenze di Georges Pompidou e di Valéry Giscard d’Estaing (cui si deve la legge del 1973 che separò il Tesoro dalla Banca di Francia, con effetti simili a quelli prodotti in Italia con l’analogo provvedimento di Beniamino Andreatta) o al regno di François Mitterrand (cui si devono le grandi privatizzazioni di fine anni ‘80 ed il nulla osta alla nascita dell’euro): è il regime dell’alta finanza parigina, dei Rothschild, dei ricchi notabili cosmopoliti. Creato dal nulla pochi mesi prima delle elezioni, “En Marche” è studiato per subentrare ai socialisti di François Hollande, ormai esausto dopo cinque anni all’Eliseo: a colpi di scandali mediatico-giudiziari (l’eliminazione di François Fillon) e di demonizzazione degli avversari (la minaccia “nera” di Marine Le Pen), Macron è fortunosamente paracadutato ai vertici della Francia, perché portanti avanti “le riforme” di cui la Francia ha bisogno. Sono le classiche ricette di svalutazione interna, con cui la Francia deve smettere di “vivere al di sopra delle proprie possibilità” (si veda la voragine nella bilancia commerciale), cosicché possa rimanere agganciata alla Germania e all’euro-marco.È un compito titanico perché, come testimoniano i diversi andamenti del debito pubblico (esploso in Francia dopo l’introduzione dell’euro e oramai vicino al 100% del Pil, sotto il 70% in Germania e in calo da anni) e i diversi tassi di disoccupazione (9% contro 3,5%2) il motore franco-tedesco è sbiellato. Ciononostante, il giovane e ambizioso Macron si cimenta nell’impresa, prendendo ovviamente di mira la bestia più odiata dagli ambienti dell’alta finanza: lo Stato, che irradiandosi da Parigi all’ultimo dei dipartimenti, rappresenta l’orgoglio della Francia sin dai tempi di Luigi XIV. È lo Stato che con le partecipazioni statali consente di presidiare tutti settori strategici dell’economia, che consente alla Francia di avere il più alto tasso di fecondità d’Europa grazie ai generosi servizi elargiti alle famiglie, che garantisce opportunità di lavoro anche nelle zone più disagiate. Contro questo «kombinat tecnico-burocratico», che per l’“Huffington Post” «assorbe il 57% del Pil, della ricchezza nazionale» (che “assorbe” e non “produce”, si noti), l’ex-banchiere della Rothschild & Cie promette di agire con sega e bisturi: 120.000 licenziati tra i dipendenti pubblici in cinque anni, blocco degli stipendi, sospensione del turnover, lotta ai “regimi speciali” di cui godono una trentina di categorie di lavoratori pubblici.La lotta ai “privilegiati dello Stato”, in particolare, porta Macron in rotta di collisione con il potente sindacato dei ferrovieri, quei “cheminots” che possono vantare un regime previdenziale molto generoso (età pensionabile a 52 anni, contro i 62 delle altre categorie) e che garantiscano ogni anno lo spostamento di 1,4 miliardi di persone. Attaccare il sindacato dei ferrovieri significa correre il rischio di paralizzare letteralmente la Francia, isolando Parigi dal resto del paese e le comunicazioni dentro la stessa Île-de-France. Il 22 marzo, Macron affronta così la prima prova di piazza: dipendenti di ferrovie, scuole, ospedali e aeroporti incrociano le braccia. Si tratta peraltro soltanto di un “avvertimento”, perché lo sciopero dei ferrovieri si estenderà da inizio aprile a fine giugno, al ritmo di due giorni di sciopero ogni cinque. Si prospetta quindi una primavera bollente per il regime macronista, che guarda con terrore il saldarsi delle diverse proteste (Sncf, Air France, sanità, educazione pubblica, etc.): come nel caso di Hollande, la stagione degli scioperi rischia di affondare una presidenza già oggi compromessa, che raccoglie il giudizio negativo della maggioranza dei francesi (57% di insoddisfatti secondo un recente sondaggio).Dopo Macron, è però quasi impossibile che l’establishment francese riesca a trovare un candidato per frenare l’onda nazional-populista: il suo quinquennio è l’ultima occasione per attuare con successo quelle riforme indispensabili per tenere la Francia al passo con la Germania. Tutto deve essere fatto per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla manifestazioni di piazza e dalle montanti tensioni sociali: come la Francia ha eletto Macron in pieno “stato d’emergenza”, così è facile il paese, man mano che il regime macronista incontra resistenza, precipiti di nuovo in quella condizione. Il primo a essere immolato è stato Nicolas Sarkozy: il 20 marzo, due giorni prima del “giovedì nero” dei trasporti, la stampa annuncia che l’ex-presidente della Repubblica è in stato di fermo, sottoposto a interrogatorio per i finanziamenti illeciti ricevuti da Muammar Gheddafi per la campagna elettorale del 2007. Nonostante ci siano pochi dubbi sull’effettiva ricezione dei fondi e sulla bassezza morale di Sarkozy, mandante dell’omicidio del rais libico (ucciso da agenti francesi), è ormai chiaro che “l’affare libico”, aperto dalla magistratura nel 2013, torna a galla quando è più comodo all’establishment: successe così nell’autunno 20178, alla vigilia delle primarie del centrodestra, e succede così nel marzo 2018.L’annuncio sulla messa sotto indagine dell’ex-presidente della Repubblica è dato alla vigilia dello sciopero del 22 marzo e consente, così, di calamitare l’attenzione dei media lontano dalla mobilitazione dei sindacati. Più grave e sfacciato ancora è l’immediato rigurgito del terrorismo “islamico” che, dalla strage di Charlie Hebdo in avanti, ha accompagnato la declinante presidenza di Hollande sino a culminare con la mattanza del Bataclan e la proclamazione dello stato d’emergenza: non trascorrono neppure 24 ore dalla conclusione delle grandi manifestazioni sindacali che l’Isis, “dormiente” per buona parte del 2017, torna a colpire la Francia. Un 26enne di origine marocchina, già noto ai servizi e schedato per radicalizzazione, ruba una macchina, ferendo il conducente e uccidendo un passeggero, colpisce alcuni agenti e si barrica in supermercato di Trèbes, sud-est della Francia, dove uccide altre due persone prima di essere liquidato dalle teste di cuoio. Macron è avvisato della situazione davanti alla telecamere, quando si trova a fianco di Angela Merkel per la conferenza congiunta al termine del Consiglio Europeo.Si rifà viva anche la solita Rita Katz, che non si dice sorpresa perché, dopo la bonaccia del 2017, c’erano segnali di una ripresa di attività dell’Isis: è sufficiente infatti che i servizi occidentali liberino qualche terrorista allevato ad hoc. Se per l’Italia sono in serbo altri piani (un governo M5S, l’ultimo saccheggio dei risparmi pubblici e dei beni statali, l’uscita caotica dall’euro ed un possibile default), nel caso francese c’è, invece, la volontà di tenere Parigi agganciata a Berlino: ecco perché, man mano che il regime macronista procede con “le riforme”, affondando parallelamente negli indici di gradimento, è pressoché certo che si assista ad una nuova recrudescenza del terrorismo, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dalle tensioni sociali in rapido aumento. Allo scellerato Sarkozy si può rinfacciare tutto, ma bisogna riconoscergli di aver azzeccato almeno una previsione: «Ça va très mal finir».(Federico Dezzani, “Francia, il regime macronista alla prova della piazza”, dal blog di Dezzani del 23 marzo 2018).Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.
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Austerity, fine della farsa? Se l’Italia si svegliasse davvero
Matteo Renzi bluffava, quando prometteva nuovi miracoli italiani, ma non è stato cestinato per questo: la sua rottamazione, franatagli addosso col referendum costituzionale, è stata decretata dall’ostilità istintiva nutrita da milioni di elettori. Colpa del suo stile troppo disinvolto, arrogante, spaccone. E colpa, anche, del quasi-plebiscito incassato nel 2014 alle europee, con il 40% dei suffragi al Pd: raramente, in Italia, si perdona il successo. Così, Renzi è riuscito a dissipare un patrimonio elettorale enorme, proprio come fece Berlusconi negli anni ‘90 e poi nel 2001, quando annunciò la sua rivoluzione liberale – mai neppure avviata, in vent’anni. Non a caso, come osserva Aldo Giannuli, Berlusconi e Renzi potrebbero sedere, insieme, nel futuro gruppo parlamentare del Partito della Nazione (sconfitta). Sono entrambi ridotti alla quasi-irrilevanza: il vecchio Silvio anche per ragioni anagrafiche, il giovane Matteo per via della sua ambizione sfrenata e basata sul nulla di un programma neoliberista, tristemente identico a quelli dell’atroce Monti e dell’esile Enrico Letta, il premier detronizzato nel modo più sleale. In altre parole: l’estinzione del Pd non corrisponde affatto a un’occasione perduta, per l’Italia, se non per un aspetto solo virtuale – la perdita di un efficace comunicatore come Renzi, che però ha sempre e solo fatto finta di fare il sindacalista degli italiani di fronte all’Europa.In realtà il programma politico di Renzi – puro neoliberismo globalista, sapientemente truccato da presunta italianità – era la fotocopia dell’agenda Monti, poi distillata nei governi Letta e Gentiloni. Niente di diverso, peraltro, dall’azione degli esecutivi Berlusconi e Prodi: la cosiddetta Seconda Repubblica, anticipata nel ‘91 dal referendum Segni (legge elettorale, maggioritario) era stata lungamente preparata da uomini come Andreatta, Ciampi, Dini, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Un quarto di secolo veramente infelice: nient’altro che un lungo commissariamento dell’Italia, vittima numero uno dell’oligarchia eurocratica che ha appaltato l’Unione Europea all’ordoliberismo teutonico, affamato di tagli al welfare e svalutazione dei salari per poter imporre il suo mercantilismo primitivo e ottocentesco, fondato sull’export. L’Europa di Bruxelles è quella non-comunità di paesi che ha potuto assistere, impassibile, alla crocifissione della Grecia: un supplizio senza anestesia, delle cui vittime – anziani senza pensione, bambini senza medicine – non importa assolutamente nulla né alla Bce né all’Ecofin. Non una lacrima, sul martirio ellenico, da nessuna cancelleria: dettaglio tutt’altro che scontato, che mandanti e killer hanno annotato sul loro diario. Vittoria piena: si uccide un innocente, e nessuno protesta. Luce verde, quindi, per altri analoghi delitti seriali.Riuscirà sempre a farla franca, l’assassino? Senz’altro, almeno fino a quando il poliziotto si chiamerà Renzi, oppure Hollande. Bravi a parole, ma smentiti dai fatti: hanno entrambi sparso il veleno dei loro Jobs Act, su richiesta del criminale a cui fingevano di dare la caccia in nome del riscatto sociale delle rispettive nazioni. Sono stati travolti: l’incolore Hollande liquidato dall’inquietante Macron, uomo Rothscild (in Francia il padrone ha occupato direttamente l’Eliseo, senza più intermediari), mentre Renzi e Berlusconi sono stati “asfaltati” da Di Maio e Salvini, cioè l’ex steward dello stadio San Paolo e l’ex hoolingan leghista, già a capo dei “comunisti padani”. Accorti, abili, flessibili, tempestivi: oggi, Di Maio e Salvini stanno sul pezzo. Sotto l’aspetto tattico sembrano all’altezza della situazione. Dispongono di 17 milioni di voti. Sanno perfettamente che, a eleggerli, è stata un’Italia prostrata dalla crisi, ormai insofferente ai bugiardi, cioè ai professorini del rigore e ai loro politici di complemento, ai partiti-sciagura che hanno eroso il paese per 25 anni, allontanandolo dal vertice europeo e mondiale del benessere. Tenteranno, i nuovi poliziotti, di aprire un’indagine seria sull’accaduto? Oseranno filare a sirene spiegate verso Bruxelles? L’unica certezza è che un muro di rassegnazione sta crollando. Per ora Bruxelles sta a guardare, cercando di capire il da farsi: provare a “comprare” anche questi nuovi politici, o sfrattarli brutalmente (come Berlusconi nel 2011). Sempre che il grande dormiente – il popolo – non si svegli del tutto, dopo il primo segnale del 4 marzo.Matteo Renzi bluffava, quando prometteva nuovi miracoli italiani, ma non è stato cestinato per questo: la sua rottamazione, franatagli addosso col referendum costituzionale, è stata decretata dall’ostilità istintiva nutrita da milioni di elettori. Colpa del suo stile troppo disinvolto, arrogante, spaccone. E colpa, anche, del quasi-plebiscito incassato nel 2014 alle europee, con il 40% dei suffragi al Pd: raramente, in Italia, si perdona il successo. Così, Renzi è riuscito a dissipare un patrimonio elettorale enorme, proprio come fece Berlusconi negli anni ‘90 e poi nel 2001, quando annunciò la sua rivoluzione liberale – mai neppure avviata, in vent’anni. Non a caso, come osserva Aldo Giannuli, Berlusconi e Renzi potrebbero sedere, insieme, nel futuro gruppo parlamentare del Partito della Nazione (sconfitta). Sono entrambi ridotti alla quasi-irrilevanza: il vecchio Silvio anche per ragioni anagrafiche, il giovane Matteo per via della sua ambizione sfrenata e basata sul nulla di un programma neoliberista, tristemente identico a quelli dell’atroce Monti e dell’esile Enrico Letta, il premier detronizzato nel modo più sleale. In altre parole: l’estinzione del Pd non corrisponde affatto a un’occasione perduta, per l’Italia, se non per un aspetto solo virtuale – la perdita di un efficace comunicatore come Renzi, che però ha sempre e solo fatto finta di fare il sindacalista degli italiani di fronte all’Europa.
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Accordi segreti: paghiamo tasse evase dalle multinazionali
Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».A nulla è servita la maxi-multa comminata all’Irlanda per aver favorito Apple. L’Unione Europea interviene solo a cose fatte, «quando le intese fiscali segrete si rivelano aiuti di Stato tali da condizionare la libera concorrenza». Contro gli abusi si agita il Parlamento Europeo, che però non ha potere. «Anche perché le grandi multinazionali hanno schierato l’artiglieria pesante: con il trucco degli accordi fiscali riescono a strappare condizioni da paradisi fiscali nel cuore del vecchio continente». Con i “tax ruling”, aggiunge “Business Insider”, le multinazionali possono concordare il trattamento fiscale che potrebbe essere loro riservato per un periodo di tempo predeterminato; ma in realtà il “tax ruling” è lo strumento che permette alle corporations di ridurre drasticamente il proprio carico fiscale globale. «Dal punto di vista formale, lo schema è sempre lo stesso: le grandi multinazionali promettono investimenti e occupazione in cambio di tassazioni agevolate, poi una volta stabilitesi spostano i profitti da una controllata all’altra per ridurre al minimo le imposte. Un meccanismo utilizzato già da Apple, Fiat, Amazon, Google, Starbucks e anche McDonald’s». In Italia gli accordi segreti sono 78, e l’“Espresso” ha rivelato che tre di questi riguardano Michelin, Microsoft e Philip Morris.Sono proprio questi accordi, spiega “Business Insider”, ad aver fatto del Lussemburgo lo snodo centrale della finanza europea: «Molte imprese versano al Granducato un’aliquota effettiva inferiore all’1% degli utili dichiarati». L’Ue è intervenuta in modo tardivo e sporadico. «I cittadini-contribuenti e altri attori economici, come le piccole e medie imprese, avrebbero tutto il diritto di conoscere e giudicare i trattamenti fiscali che le autorità nazionali riservano alle grandi corporation», sostiene Mikhail Maslennikov, “policy advisor” di Oxfam Italia per la giustizia fiscale. «Sempre più spesso – aggiunge – i “ruling” segreti dei paesi Ue si rivelano come un tassello fondamentale per la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali, facilitandone il “profit-shifting” verso giurisdizioni dal fisco amico e garantendo un trattamento fiscale ad hoc ai grandi colossi, che vedono ridursi considerevolmente le proprie aliquote effettive». I “ruling” segreti pongono seri interrogativi sul fairplay fiscale anche per Tove Maria Ryding, coordinatore del team di giustizia fiscale del network europeo “Eurodad”: «Le decisioni confidenziali assunte da un paese hanno impatti sulla contribuzione fiscale in tanti altri paesi», dice Ryding. «E spesso si tratta dei paesi più poveri e dei contesti più vulnerabili al mondo». O magari paesi come l’Italia, stritolati da una tassazione record.Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».