Archivio del Tag ‘Washington’
-
Gallino: elezioni europee per stracciare i trattati-capestro
Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».Per i neoliberisti, ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito-Pil. Ovvio: se il Pil italiano crescesse del 4% l’anno, cioè con un incremento di oltre 60 miliardi, il Fiscal Compact farebbe meno paura. Peccato però che – stando alle previsioni più ottimistiche – non si vada oltre l’1%. «Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto», scrive Gallino su “Micromega”, illustrando un possibile Piano-B. Per esempio: «Chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito-Pil la colossale spesa per interessi». L’idea sbagliata è che, «a forza di contrarre la spesa pubblica, si arrivi a ripagare il debito». Attenzione: «Grazie a tale idea perversa, lo Stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il paese in una spirale inarrestabile di deflazione».In altre parole, «l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna». Tema decisivo, «da sottoporre al più presto a una discussione pubblica». Luogo perfetto, per parlarne: il Parlamento Europeo, «a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno». La situazione è infatti palesemente insostenibile, e sarà ulteriormente aggravata dai nuovi trattati che la Ue si accinge a varare o che sono appena entrati in vigore. Trattati che «riguardano i salari pubblici e privati, i diritti del lavoro, le politiche sociali, lo stato della sanità pubblica, il sistema previdenziale, la sicurezza alimentare». Risultato: «La possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale». Le prossime elezioni europee? Fondamentali, per fermare almeno tre di questi trattati: oltre al Fiscal Compact, anche l’Unione bancaria e il Trattato Transatlanco.Sull’Unione bancaria, progettata per impedire che il costo di eventuali fallimenti ricada ancora sugli Stati, secondo Gallino la bozza approvata a dicembre è difettosa: da un lato affida troppo potere alla Bce, e dall’altro – con la scusa che non fa parte dell’Eurozona – esclude la Gran Bretagna, cioè «la maggior area finanzia del continente», con tre banche tra le prime 20 al mondo: Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland totalizzano un attivo di 7.000 miliardi di dollari. Inoltre, il Regno Unito è il paese in cui, nella primavera 2008 (prima ancora che negli Usa), si verificarono i maggiori disastri bancari. Il meccanismo dell’Unione bancaria «è complicatissimo e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire». Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare — con calma, entro il 2026 — per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: «Somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi». Il difetto peggiore? Secondo i teorici dell’Unione bancaria, la crisi apertasi nel 2008 è stata innescata da «difetti di regolazione del sistema bancario», piuttosto che da «un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito».Sulla strada dell’Unione bancaria, per ora, sorge l’ostacolo del Parlamento Europeo: al disegno della Troika si oppone il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz. «Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni». Periodo in cui «sulla testa degli europei» comincerà a incombere il Ttip, cioè il “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”, un piano che procede da circa un anno, in modo super-riservato. Lo stanno sviluppando 600 super-lobbysti, a nome delle maggiori multinazionali del pianeta, “dialogando” con Washington e Bruxelles. L’accordo, sintetizza Gallino, «offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa». Basti pensare che gli Usa «non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernenti la libertà di associazione sindacale, il diritto a contratti collettivi in tema di salari, la parità di retribuzione uomo-donna, il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica».Se il Ttip fosse approvato, conclude Gallino, «le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni». Le multinazionali «potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare Ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro», smantellando così l’attuale legislazione europea, «che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana». Per questo, il Ttip è accusato da numerose Ong di essere «un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire». Contro questa minaccia potrebbe alzare la voce il nuovo Parlamento Europeo, anche in base a come andranno le elezioni di maggio, in collaborazione con lo stesso Congresso Usa: il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid, ha appena ha respinto la richiesta di Obama di adottare una “pista veloce” (fast track), rallentando così la discussione sul Ttip. Che resta sul piatto del nostro immediato futuro, insieme all’insostenibile Fiscal Compact e al progetto di di Unione bancaria. Domanda: la strada del nostro declino civile è già segnata o sarà possibile invertire la rotta?Oltre all’Unione bancaria e al micidiale Ttip, il Trattato Transatlanco che “asfalterebbe” le residue tutele europee sul lavoro a unico vantaggio delle multinazionali, una delle maggiori minacce che da Bruxelles incombono sull’Italia è il Patto fiscale, avverte Luciano Gallino. Da quest’anno, il Fiscal Compact obbliga gli Stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1.560 miliardi. Il debito si aggira sui 2.060 miliardi, pari al 132% del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario, cioè la differenza tra le tasse che lo Stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi. Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. «Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno Stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu?».
-
Distruggere l’Ucraina: un piano da 5 miliardi di dollari
L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.Nessuno ne contestò l’elezione quando sconfisse Viktor Yushenko, anche se fu un boccone amaro per chi di Yushenko aveva finanziato l’ascesa. E gli aveva perfino procurato la moglie. Pochi sanno che la seconda moglie di Yushenko si chiama Katerina Chumacenko, che veniva direttamente dal Dipartimento di Stato Usa (incaricata dei “diritti umani”). Ancora meno sanno che Katerina, prima di fare carriera a Washington, era stata uno dei membri più attivi e influenti dell’organizzazione neo-nazista Oun-B della sua città natale, Chicago. Oun-B sta per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, di Stepan Bandera. L’Oun-B, tutt’altro che defunta, ha dato vita al Partito Svoboda, il cui slogan di battaglia è “l’Ucraina agli ucraini”, lo stesso che Bandera innalzava collaborando con Hitler durante la seconda guerra mondiale.Del resto Katerina era stata leader del Comitato del Congresso ucraino, il cui ispiratore era Jaroslav Stetsko, braccio destro di Stepan Bandera. Che è come dire che il governo americano si era sposato con i nazisti ucraini emigrati negli Usa, prima di mettere Katerina nel letto di Yushenko. Anche di questo il mainstream non parla. Ma ho fatto questa digressione per dire che, certo, gli ucraini hanno tutto il diritto di essere scontenti, molto scontenti di Yanukovic. E di avere cambiato idea. Anche noi abbiamo tutto il diritto di essere scontenti di Napolitano o del governo, ma questo non significa che pensiamo sia giusto assaltare il Quirinale a colpi di bombe molotov prima e poi di fucili mitragliatori. Essenziale sarebbe stato tenere conto di questi dati di fatto. Ma il piano, di lunga data, degli Stati Uniti era quello di assorbire l’Ucraina nell’Occidente. Se possibile tutta intera.Sentite cosa scriveva nel 1997 Zbignew Brzezinski, polacco: «Se Mosca ricupera il controllo sull’Ucraina, con i suoi 52 milioni di persone e le grandi risorse, riprendendo il controllo sul Mar Nero, la Russia tornerà automaticamente in possesso dei mezzi necessari per ridiventare uno Stato imperiale». Ecco dunque il perché dei 5 miliardi di cui parla la Nuland. Caduto Yushenko, in questi anni decine di Ong, fondazioni, istituti di ricerca, università europee e americane, e canadesi, hanno invaso la vita politica dell’Ucraina. Qualche nome? Freedom House, National Democratic Institute, International Foundation for Electoral Systems, International Research and Exchanges Board. E, mentre si «faceva cultura», e si compravano tutte le più importanti catene televisive e radio del paese, una parte dei fondi servivano per finanziare le squadre paramilitari che vediamo in azione in piazza Maidan. Che, grazie a questi aiuti, si sono moltiplicate.Adesso emerge il Pravij Sector (“Settore di destra” e “Spilna Prava”), ma il giornale polacco “Gazeta Wiborcza” ha parlato di squadre paramilitari polacche che agiscono a Maidan. E la piazza pullula di agenti dei servizi segreti occidentali: lo fanno in Siria, perché mai non dovrebbero farlo a Kiev? È perfino più facile: Yanukovic, dittatore sanguinario, appare più molle di Milosevic, altro strano dittatore sanguinario che si fece sconfiggere elettoralmente da Otpor (fondato e ampiamente finanziato dagli Usa). Tutto già visto. C’è solo un problema: Putin non è un pellegrino sprovveduto. È questo il popolo ucraino? Certo sono migliaia, anzi decine di migliaia, a mostrare il livello della rabbia popolare contro un regime inetto (non più inetto di quelli dei precedenti amici dell’Occidente, Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Timoshenko), ma chi guida è chiaro perfino dalle immagini televisive. E questa è la ex Galizia, ex polacca, e la Transcarpazia. Se crolla Yanukovic e prendono il potere costoro, sarà una diaspora sanguinosa.I primi ad andarsene saranno i russofoni dell’est e del nord, del Donbass dei minatori, che già stanno alzando le difese. E subito sarà la Crimea, che ha già detto quasi unanime che intende restare dalla parte della Russia, anche per tentare di salvarsi dalla furia antirussa di coloro che prenderanno il potere. È l’inizio delle secessioni, oggi perfino difficili da prevedere, dai contorni indefiniti, che produrranno non fronti militari ma selvagge rappresaglie all’interno di comunità che non saranno più solidali. L’Europa, fedele esecutrice dei piani di Washington, ha aperto il vaso di Pandora. Che adesso le esploderà tra le mani. I nuovi inquilini saranno di certo concordati (sempre che Putin abbia la garanzia che non sarà valicato il Rubicone dell’ingresso nella Nato), ma coloro che sono scesi in piazza armati hanno in testa un’idea di Europa molto diversa da quella che si figura Bruxelles.E quelli in buona fede che sono andati dietro i neonazisti – e sono sicuramente tanti – si aspettano di entrare in Europa domani. E saranno tremendamente delusi quando dovranno cominciare a pagare, e non potranno comunque entrare, perché nei documenti di Vilnius questo non è previsto. L’unico tra i commentatori italiani che ha scritto alcune cose sensate è stato Romano Prodi, ma le ha scritte sull’“International New York Times”. Rivolto agli europei li ha invitati a non mettere nel mirino solo Yanukovic, bensì condannare anche i rivoltosi. E ha aggiunto: «Coinvolgere Putin», visto che tutte le parti hanno «molto da perdere e nulla da guadagnare da ulteriori violenze». Giusto ma ottimista. Chi ha preparato la cena adesso vuole mangiare e non si fermerà. E l’isteria antirussa è il miglior condimento per altre avventure.(Giulietto Chiesa, “L’Occidente apre il vaso di Pandora”, da “Il Manifesto” del 21 febbraio 2014).L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.
-
2016, fine della democrazia: il privilegio sarà legge
Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.Se sarà approvato il Trattato Transatlatico, avverte Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, niente fermerà più l’appetito privatizzatore dei “padroni dell’universo”, specie nei settori di maggior interesse strategico: brevetti medici e fonti fossili di energia. Un sogno, a quel punto, concepire politiche di lotta all’inquinamento e per la protezione del clima terrestre. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata», che giù oggi ricatta molti Stati, dal Canada alla Germania. Il grande business lavora per eliminare le leggi statali per far posto a quella degli affari. Attualmente, negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali. Ognuna di esse, dice Wallach, «può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”». Peggio ancora per gli europei: sono addirittura 14.400 le compagnie statunitensi dislocate nell’Unione Europea, con una rete di 50.800 filiali. «In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici».L’aspetto più inquietante del “cantiere” del Trattato, un dispositivo destinato – se approvato – a sconvolgere la vita democratica di tutto l’Occidente – è la sua massima segretezza: la stampa è stata espressamente invitata a starsene alla larga. Si tratta di un ordinamento decisamente eversivo: il grande business si prepara ad emanare i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e politici compiacenti del Congresso e della Commissione Europea, ma ormai alla luce del sole, trasformando addirittura in legge il privilegio di una minoranza, contro la stragrande maggioranza della popolazione. L’autonomia istituzionale dello Stato? Completamente aggirata, disabilitata, in ogni settore: dalla protezione dell’ambiente a quello sanitario, dalle pensioni alla finanza, dai contratti di lavoro alla gestione dei beni comuni primari, come l’acqua potabile. Si avvicina la “grande privatizzazione definitiva” del mondo occidentale.Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali. E ancora: libertà del web, protezione della privacy, cultura e diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato», scrive Lori Wallach. Rispetto al Trattato Transatlantico, le condizioni-capestro oggi imposte dal Wto sono considerate “soft”. A decidere su tutto saranno tribunali speciali, formati da avvocati d’affari che si baseranno sulle “leggi” della Banca Mondiale. Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro». Neppure la fantasia di Orwell era arrivata a tanto. Eppure, è esattamente l’incubo che ci sta aspettando, se nessuno lo fermerà. Ed è inutile farsi illusioni: per ora, del “mostro” non parla nessuno. Non una parola, ovviamente, dalle comparse della politica, e neppure da giornali e televisioni. La grande minaccia si sta avvicinando indisturbata, all’insaputa di tutti.Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.
-
Renzi? Bugiardo e pericoloso: ha troppi padroni potenti
«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italianiQuando negli anni ‘80 Michael Ledeen varcava l’ingresso del dipartimento di Stato, ricorda Franco Fracassi su “Popoff”, chiunque avesse dimestichezza con il potere di Washington sapeva che si trattava di una finta: quello, per lo storico di Los Angeles, rappresentava solo un impiego di facciata, per nascondere il suo reale lavoro. E cioè: consulente strategico per la Cia e per la Casa Bianca. «Ledeen è stato la mente della strategia aggressiva nella Guerra Fredda di Ronald Reagan, è stato la mente degli squadroni della morte in Nicaragua, è stato consulente del Sismi negli anni della Strategia della tensione, è stato una delle menti della guerra al terrore promossa dall’amministrazione Bush, oltre che teorico della guerra all’Iraq e della potenziale guerra all’Iran, è stato uno dei consulenti del ministero degli Esteri israeliano. Oggi – aggiunge Fracassi – Michael Ledeen è una delle menti della politica estera del segretario del Partito democratico Matteo Renzi».Forse è stato anche per garantirsi la futura collaborazione di Ledeen che l’allora presidente della Provincia di Firenze si recò nel 2007 al dipartimento di Stato Usa «per un inspiegabile tour». Non è un caso, continua Fracassi, che il segretario di Stato Usa John Kerry abbia più volte espresso giudizi favorevoli nei confronti di Renzi. Ma sono principalmente i neocon ad appoggiare Renzi dagli Stati Uniti. Secondo il “New York Post”, ammiratori del sindaco di Firenze sarebbero gli ambienti della destra repubblicana, legati alle lobby che lavorano per Israele e per l’Arabia Saudita. «In questa direzione vanno anche il guru economico di Renzi, Yoram Gutgeld, e il suo principale consulente politico, Marco Carrai, entrambi molti vicini a Israele». Carrai, scrive Fracassi, ha addirittura propri interessi in Israele, dove si occupa di venture capital e nuove tecnologie. «Infine, anche il suppoter renziano Marco Bernabè ha forti legami con Tel Aviv, attraverso il fondo speculativo Wadi Ventures». Suo padre, Franco Bernabè, fino a pochi anni fa è stato «arcigno custode delle dorsali telefoniche mediterranee che collegano l’Italia a Israele».Forse aveva ragione l’ultimo cassiere dei Ds, Ugo Sposetti, quando disse: «Dietro i finanziamenti milionari a Renzi c’è Israele e la destra americana». O perfino Massimo D’Alema, che definì Renzi il terminale di «quei poteri forti che vogliono liquidare la sinistra». Dietro Renzi, continua Fracassi, ci sono anche i poteri forti economici, a partire dalla Morgan Stanley, una delle banche d’affari responsabile della crisi mondiale. «Davide Serra entrò in Morgan Stanley nel 2001, e fece subito carriera, scalando posizioni su posizioni, in un quinquennio che lo condusse a diventare direttore generale e capo degli analisti bancari». Una carriera, quella del giovane broker italiano, punteggiata di premi e riconoscimenti per le sue abilità di valutazione dei mercati. «In quegli anni trascorsi dentro il gruppo statunitense, Serra iniziò a frequentare anche i grandi nomi del mondo bancario italiano, da Matteo Arpe (che ancora era in Capitalia) ad Alessandro Profumo (Unicredit), passando per l’allora gran capo di Intesa-San Paolo Corrado Passera».Nel 2006 Serra decise tuttavia che era il momento di spiccare il volo. E con il francese Eric Halet lanciò Algebris Investments. Già nel primo anno Algebris passò da circa 700 milioni a quasi due miliardi di dollari gestiti. L’anno successivo Serra, con il suo hedge fund, lanciò l’attacco al colosso bancario olandese Abn Amro, compiendo la più importante scalata bancaria d’ogni tempo. Poi fu il turno del banchiere francese Antoine Bernheim a essere fatto fuori da Serra dalla presidenza di Generali, permettendo al rampante finanziere di mettere un piede in Mediobanca. Definito dall’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani «il bandito delle Cayman», Serra oggi ha quarantatré anni, vive nel più lussuoso quartiere di Londra (Mayfair), fa miliardi a palate scommettendo sui ribassi in Borsa (ovvero sulla crisi) ed è «il principale consulente finanziario di Renzi, nonché suo grande raccoglietore di denaro, attraverso cene organizzate da Algebris e dalla sua fondazione Metropolis».E così, nell’ultimo anno il gotha dell’industria e della finanza italiane si è schierato dalla parte di Renzi. A cominciare da Fedele Confalonieri che, riferendosi al sindaco di Firenze, disse: «Non saranno i Fini, i Casini e gli altri leader già presenti sulla scena politica a succedere a Berlusconi, sarà un giovane». Poi venne Carlo De Benedetti, con il suo potentissimo gruppo editoriale Espresso-Repubblica («I partiti hanno perduto il contatto con la gente, lui invece quel contatto ce l’ha»). E ancora, Diego Della Valle, il numero uno di Vodafone Vittorio Colao, il fondatore di Luxottica Leonardo Del Vecchio e l’amministratore delegato Andrea Guerra, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera con la moglie Afef, l’ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori, il patron di Eataly Oscar Farinetti, Francesco Gaetano Caltagirone, Cesare Romiti, Martina Mondadori, Barbara Berlusconi, il banchiere Claudio Costamagna, il numero uno di Assolombarda Gianfelice Rocca, il patron di Lega Coop Giuliano Poletti, Patrizio Bertelli di Prada e Fabrizio Palenzona di Unicredit.Fracassi cita anche il Monte dei Paschi di Siena, collegato al leader del Pd attraverso il controllo della Fondazione Montepaschi gestita dal renziano sindaco di Siena Bruno Valentini. Con Renzi anche l’amministratore delegato di Mediobanca, Albert Nagel, erede di Cuccia nell’istituto di credito. «Proprio sul giornale controllato da Mediobanca, il “Corriere della Sera”, da sempre schierato dalla parte dei poteri forti, è arrivato lo scoop su Monti e Napolitano, sui governi tecnici. Il “Corriere” ha ripreso alcuni passaggi dell’ultimo libro di Alan Friedman, altro uomo Rcs. Lo scoop ha colpito a fondo il governo Letta e aperto la strada di Palazzo Chigi a Renzi». Fracassi conclude citando il defunto segretario del Psi, Bettino Craxi, che diceva: «Guarda come si muove il “Corriere” e capirai dove si va a parare nella politica».Gad Lerner, recentemente, ha detto: «Non troverete alla Leopolda i portavoce del movimento degli sfrattati, né le mille voci del Quinto Stato dei precari all’italiana. Lui (Renzi) vuole impersonare una storia di successo. Gli sfigati non fanno audience». Ormai è tardi per tutto: il Pd – già in coma, da anni – si è completamente arreso all’ex Rottamatore. «Dove mai andrà il “voto utile” in mano a Renzi? In quale manovra di palazzo, in quale strategia dell’alta finanza verrebbe bruciato? In quale menzogna da Piano di rinascita democratica?», si domanda Pino Cabras. «Ogni complicità con il nuovo Sovversore dall’alto diventa intollerabile ogni minuto di più». Fine della cosiddetta sinistra italiana. Fuori tempo massimo, ora, «in tanti saranno costretti ad aprire gli occhi, e a comprendere la differenza fra militanti e militonti. Ma hanno riflessi troppo lenti. La riscossa – a trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer – passerà da altre parti».«Matteo Renzi è un mentitore pericoloso», taglia corto Pino Cabras su “Megachip”. «Ha illuso milioni di elettori con la narrazione del Rottamatore, ma ha rottamato solo chi gli si opponeva, imbarcando ogni genere di boss e sotto-boss nella sua scalata». Una lunga sequenza di menzogne: aveva «dichiarato solennemente di non voler andare a Palazzo Chigi senza legittimazione popolare», mentre ora – abbattendo Letta – disegna il nuovo scenario «con un Parlamento eletto con una legge incostituzionale», peraltro peggiorata con l’aiuto del Cavaliere, «con il quale – altra bugia per prendere i voti – diceva che non si potevano mai fare accordi». Il nuovo capo del Pd tradisce sistematicamente chi gli ha dato fiducia? «Certo, Renzi ha un disegno. Ma questo disegno non è nelle mani di alcuno che gli abbia dato fiducia dal basso. È nelle mani dei veri potenti che detengono le cambiali politiche che Renzi ha firmato durante la fase ascendente della sua parabola». E gli “azionisti” di Renzi non sono soltanto italiani.
-
Friedman affonda Napolitano, dopo di lui Prodi o Draghi
I super-poteri stranieri che ordinarono a Napolitano di silurare Berlusconi nel 2011 – alibi: lo spread e l’intimazione della Bce – sono gli stessi che oggi vogliono cacciare l’uomo del Colle. Sono i retroscena che ormai circolano liberamente, sui media, dopo lo scoop di Alan Friedman, a cui Romano Prodi, Carlo De Benedetti e lo stesso Monti hanno confermato ufficialmente – questa la notizia – quello che già si sapeva: e cioè che Berlusconi a fine 2011 “doveva” cadere, perché così volevano i poteri forti, da Washington a Bruxelles. Mentre non manca chi indica in Draghi l’imminente successore di Napolitano, c’è chi evoca interessi Usa per una staffetta Napolitano-Prodi. Il professore di Bologna, scrive “Dagospia”, è infatti ritenuto il personaggio perfetto per controllare e frenare l’inarrestabile Renzi. A tifare per Prodi sarebbero «i poteri marci della nazione, quelli devoti più al codice iban che alla Costituzione».Colpisce, scrive Paolo Bracalini sul “Giornale”, che Napolitano e Monti siano messi in imbarazzo dal “Corriere della Sera”, che ha pubblicato lo scoop di Friedman in anteprima mondiale, in tandem col “Financial Times”. Il quotidiano milanese è «lo stesso giornale che ai primi di luglio 2011, nei giorni dei colloqui “segreti” con De Benedetti e Prodi, pubblica due articoli di Monti che sembrano un manifesto della sua prossima premiership. Titoli: “Troppo timidi per crescere” e “Quello che serve davvero al Paese” (sottinteso: un governo Monti)». Ancora più pesante, Friedman, sul giornale finanziario londinese: il giornalista,già collaborare di Jimmy Carter e considerato non ostile all’establishment nonostante la denuncia dello scandalo Iraq-Contras (la vendita sottobanco di armi a Saddam Hussein da parte della Cia) ora parla di «seri dubbi costituzionali» rispetto alle manovre del Colle ed evocando «l’impeachment».Secondo Francesco Verderami, del “Corriere”, Berlusconi resta convinto che la manovra per scalzarlo tre anni fa da Palazzo Chigi fu ordita in alcune «precise cancellerie dell’Occidente». Non fa i nomi di Obama, Merkel e Sarkozy, ma c’è un motivo se ripete che gli hanno «voluto far pagare tutto», a partire dalla sua «amicizia con la Russia» e i legami con lo stesso Gheddafi. Sempre secondo Verderami, Berlusconi eviterà comunque di affiancare Grillo nell’offensiva per l’impeachment, nel timore che al Quirinale possa salire Prodi. Aggiunge il “Corriere”: «Che il re fosse “nudo”, che l’ex commissario europeo fosse il designato in pectore, era noto agli esponenti del governo di centrodestra». Tanto che l’allora ministro Altero Matteoli disse ben prima dell’evento: «Ci siamo accorti tardi di quanto sta accadendo attorno a noi. Il piano per portare Monti a Palazzo Chigi è in fase avanzata più di quello che potessimo credere». Infatti, «già in settembre, a Cernobbio, dopo l’intervento del capo dello Stato, in molti davano una pacca sulla spalla a Monti che stava lì in platea».Sui “mandanti”, Berlusconi non ha dubbi: non ha dimenticato quando Giulio Tremonti – di ritorno dall’ennesimo vertice a Bruxelles – gli disse: «Il problema sei tu». D’altronde, aggiunge Verderami, «l’offensiva sul debito italiano, le ineffabili risatine in pubblico tra Merkel e Sarkozy, e ancora prima quella visita lampo di Napolitano a Washington per incontrare Obama, rappresentano per il Cavaliere elementi a sostegno della sua tesi». Non solo: a Monti, ricorda Berlusconi, il Quirinale consentì di fare quel decreto sull’economia che non era stato consentito al suo governo. «Silvio, devi capire. È cambiato tutto», lo aveva avvisato Gianni Letta. L’ultimo avvertimento era stato l’attacco ai titoli Mediaset. Tre giorni dopo, la sera del 12 novembre 2011, capitolò. Nel suo libro “Il dilemma”, l’ex premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero conferma che al tesissimo vertice del G20 di Cannes, il 3-4 novembre 2011, sotto l’infuriare dello sprad Berlusconi «resisteva a tutti gli inviti che riceveva» ad accettare gli aiuti. Inviti provienti da Ue e Fmi. «Nei corridoi già si parlava di Mario Monti».Dopo Berlusconi, ora è il turno di Napolitano: per Marcello Foa, Alan Friedman è «il sicario» scelto dal super-potere per liquidare l’uomo del Colle. L’anziano ex comunista convertitosi all’europeismo ultra-atlantista ha deluso i suoi “azionisti”? Loro, i veri grandi manovratori: sono gli uomini del «vero potere», cioè «l’establishment europeista, transnazionale e finanziario», che ricatta interi popoli confiscando loro la moneta, speculando sul debito pubblico e imponendo leggi che esautorano i Parlamenti. Addio sovranità popolare: il nostro ormai è «un mondo in cui i governi non hanno quasi più poteri, i Parlamenti non riescono a legiferare e in cui la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e naturalmente l’Unione europea hanno poteri soverchianti». La vicenda Napolitano? Sembra “cosa loro”. Il presidente «pensava di appartenere a pieno titolo alla super-élite transnazionale», fino a sentirsi intoccabile? Errore: secondo le implacabili leggi non scritte di quell’establishment, c’è chi conta parecchio (come Draghi) e chi un po’ meno (come Napolitano). C’è «chi sa e chi non sa, chi viene cooptato nel girone divino e chi, pur partecipando, resta ai margini».«Napolitano – aggiunge Foa – apparteneva alla seconda categoria. E ora che non serve più o forse semplicemente perché ha deluso, viene abbandonato a se stesso. Con modalità che sono proprie di quegli ambienti, usando come sicario un giornalista americano, che di nome fa Alan e di cognome Friedman». A Mario Draghi allude un altro analista, Aldo Giannuli: non ci vuole Sherlock Holmes, scrive, per capire che la testa di Napolitano «è proprio l’obbiettivo della manovra», che vede coinvolti De Benedetti, Prodi e Monti, il “Corriere della Sera” e il “Financial Times”. Domanda: cui prodest? Certo, molti italiani – da Berlusconi a Grillo, da Salvini a Renzi – hanno probabilmente gioito per la rivelazione conclamata della “congiura”, «ma nessuno di loro aveva la possibilità di convincere il “Financial” ad assecondarli». Secondo Giannuli, per il dopo-Napolitano il Pd sarà costretto a cercare l’appoggio di Forza Italia, e potrebbe puntare sul nome di Draghi. Che, date le recenti difficoltà con la Germania – l’aperta ostilità della Corte Costituzionale tedesca sulle misure Bce in tema di acquisto di debiti sovrani dei paesi dell’Eurozona – potrebbe essere “giubilato” alla presidenza della repubblica italiana.I super-poteri stranieri che ordinarono a Napolitano di silurare Berlusconi nel 2011 – alibi: lo spread e l’intimazione della Bce – sono gli stessi che oggi vogliono cacciare l’uomo del Colle. Sono i retroscena che ormai circolano liberamente, sui media, dopo lo scoop di Alan Friedman, a cui Romano Prodi, Carlo De Benedetti e lo stesso Monti hanno confermato ufficialmente – questa la notizia – quello che già si sapeva: e cioè che Berlusconi a fine 2011 “doveva” cadere, perché così volevano i poteri forti, da Washington a Bruxelles. Mentre non manca chi indica in Draghi l’imminente successore di Napolitano, c’è chi evoca interessi Usa per una staffetta Napolitano-Prodi. Il professore di Bologna, scrive “Dagospia”, è infatti ritenuto il personaggio perfetto per controllare e frenare l’inarrestabile Renzi. A tifare per Prodi sarebbero «i poteri marci della nazione, quelli devoti più al codice iban che alla Costituzione».
-
Democrazia superflua, nel regime dei signori del Ttip
Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.Il boccone grosso del Trattato, infatti, è un altro: costringere gli Stati a farsi da parte, lasciando che a dettar legge – ufficialmente – siano i colossi dell’economia mondiale, a cominciare da quelli della finanza. Appena cinque anni dopo l’esplosione della crisi dei subprime, americani ed europei sono d’accordo sul fatto che le velleità di regolamentazione dell’industria finanziaria hanno fatto il loro tempo: il quadro che vogliono delineare, attraverso il nuovo Trattato Transatlantico, il devastante dispositivo legale destinato a sconvolgere lo scenario europeo e la residua libertà dei nostri Stati, prevede di eliminare tutti gli ostacoli in materia di investimenti a rischio. Vogliono impedire ai governi di controllare il volume, la natura e l’origine dei prodotti finanziari messi sul mercato, cancellando ogni tipo di regolamentazione. Secondo Lori Wallach, che dirige il Public Citizen’s Global Trade Watch di Washington, questo «stravagante ritorno alle vecchie idee thatcheriane» risponde ai desideri dell’associazione delle banche tedesche, inquieta per la timida riforma di Wall Street adottata dopo il 2008.La Deutsche Bank ora vuole «farla finita con la regolamentazione Volcker», chiave di volta della riforma di Wall street, che a suo avviso sovraccarica un «peso troppo grave sulle banche non statunitensi». Quello della Deutsche Bank, scrive Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, è il volto feroce della finanza europea, quella dell’euro-regime, pienamente allinenata con quella statunitense. Fa eco Insurance Europe, punta di lancia delle società assicurative europee: la compagnia auspica che il Ttip, il Trattato Transatlantico che si sta chiudendo lontano dai riflettori, «sopprima» le garanzie collaterali che dissuadono il settore dall’avventurarsi negli investimenti ad alto rischio. Quanto al Forum dei Servizi Europei, l’organizzazione padronale di cui fa parte la Deutsche Bank, si agita dietro le quinte affinché le autorità di controllo statunitensi cessino di ficcare il naso negli affari delle grandi banche straniere operanti sul loro territorio.«Da parte degli Usa – aggiunge la Wallach – si spera soprattutto che il Ttip affossi davvero il progetto europeo di tassare le transazioni finanziarie». La Commissione Europea, ovviamente, darà il via libera: infatti si è già affrettata a giudicare «non conforme alle regole del Wto» la tassa sulle rendite finanziarie. E dato che lo stesso Fmi si oppone a qualunque forma di controllo sui movimenti di capitali, ormai negli Stati Uniti la debole “Tobin tax” non preoccupa più nessuno. Ma le sirene della deregolamentazione non si fanno ascoltare solo nell’industria finanziaria. Il Ttip intende aprire alla concorrenza tutti i settori «invisibili» e di interesse generale. Gli Stati firmatari si vedranno costretti non soltanto a sottomettere i loro servizi pubblici alla logica del mercato, ma anche a rinunciare a qualunque intervento sui fornitori stranieri di servizi che ambiscono ai loro mercati. I margini politici di manovra in materia di sanità, energia, educazione, acqua e trasporti si ridurrebbero progressivamente. La febbre commerciale non risparmia nemmeno l’immigrazione, poiché gli istigatori del Ttip si arrogano il potere di stabilire una politica comune alle frontiere – senza dubbio per facilitare l’ingresso di un bene o un servizio da vendere, a svantaggio degli altri.A Washington, si crede che i dirigenti europei siano «pronti a qualunque cosa, pur di ravvivare una crescita economica moribonda, anche a costo di rinnegare il loro patto sociale». L’argomento dei promotori del Ttip, secondo cui il libero scambio deregolamentato faciliterebbe i commerci e sarebbe dunque creatore di impieghi, apparentemente ha maggior peso del timore di uno scisma sociale. Le barriere doganali che sussistono ancora tra l’Europa e gli Stati Uniti sono tuttavia già «abbastanza basse», come riconosce il rappresentante statunitense al commercio. I fautori del Ttip ammettono che il loro principale obiettivo non è quello di alleggerire i vincoli doganali, comunque insignificanti, ma di imporre «l’eliminazione, la riduzione e la prevenzione di politiche nazionali superflue», dal momento che viene considerato “superfluo” «tutto ciò che rallenta la circolazione delle merci, come la regolazione della finanza, la lotta contro il riscaldamento climatico o l’esercizio della democrazia».Pressoché tutti gli studi sul Ttip sono stati finanziati da istituzioni favorevoli al libero scambio o da organizzazioni imprenditoriali: per questo, osserva ancora Lori Wallach, «i costi sociali del trattato non appaiono mai, così come le sue vittime dirette, che potrebbero tuttavia ammontare a centinaia di milioni». Ma i giochi non sono ancora conclusi. E, come hanno mostrato le disavventure di analoghi trattati e alcuni cicli negoziali del Wto, «l’utilizzo del “commercio” come cavallo di Troia per smantellare le protezioni sociali e instaurare una giunta di incaricati d’affari, in passato ha fallito a più riprese». Nulla ci dice che non possa succedere anche stavolta, a patto però che – a partire dalle elezioni europee del prossimo maggio – la politica si svegli. Nel frattempo, anche in Italia, nessun leader di partito, in nessun telegiornale o talkshow, ha mai menzionato neppure per sbaglio il problema, cioè il nodo strategico su cui si gioca il nostro futuro.Un trattato-capestro, da imporre a un’Europa disperata perché devastata dalla crisi. E’ questa la premessa su cui sia gli Usa che l’Unione Europea sperano di concludere entro due anni i negoziati segreti per il Trattato Transatlantico. Obiettivo: assoggettare i governi, per legge, ai diktat delle multinazionali, con un liberismo ancora più sfrenato di quello del Wto. Vantaggi smisurati, però, solo per le grandi multinazionali: i rari studi dedicati alle conseguenze del Ttip non dicono nulla sulle sue reali ricadute sociali ed economiche. Si narra che il trattato darà alla popolazione del mercato transatlantico un aumento di ricchezza di 3 centesimi pro-capite al giorno «a partire dal 2029», mentre si valuta di appena lo 0,06% l’aumento del Pil in Europa e negli Usa con l’entrata in vigore del Ttip. Un risultato ridicolo, per chi ripete il libero scambio «dinamizza» la crescita economica. Teoria regolarmente confutata dai fatti: la quinta versione dell’iPhone di Apple ha generato negli Stati Uniti una crescita del Pil otto volte più importante.
-
Noi ex cittadini, ora sudditi del Trattato Transatlantico
C’era una volta lo Stato di diritto. Con il Ttip, il Trattato Transatlantico in via di approvazione semi-clandestina da parte degli Usa e dell’Unione Europea, nessun governo avrà più il potere di tutelare liberamente i diritti dei cittadini: scuola, sanità, ambiente, economia, sicurezza alimentare. L’ultima parola spetterà a tribunali speciali, chiamati a tutelare gli interessi del business contro quelli del cittadino. Allo Stato “colpevole” di difendere il suo popolo, con leggi a garanzia del lavoro e del welfare pubblico, non resterà che pagare salatissime sanzioni. E’ chiaramente eversivo il carattere del super-trattato che potrebbe entrare in vigore tra due anni, scritto sotto dettatura delle maggiori multinazionali e delle grandi lobby americane ed europee, col placet dell’Unione Europea. In pratica, a diventare legge – contro l’interesse pubblico dei cittadini – sarà il profitto dei “padroni dell’universo”. Un super-diktat, il loro, che sembra voler azzerare in un colpo solo due secoli di democrazia occidentale.I nuovi “tribunali” orwelliani dotati di poteri speciali, accusa Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique” in un intervento ripreso da “Micromega”, riconosceranno anche il diritto del capitale ad acquistare sempre più terre, risorse naturali, strutture, fabbriche, e senza alcuna contropartita: le multinazionali non avranno alcun obbligo verso gli Stati e potranno avviare delle cause dove e quando vorranno. Per capire quello che succederà basta sfogliare i giornali: società europee hanno già avviato contenziosi legali contro l’aumento del salario minimo in Egitto o contro la limitazioni delle emissioni tossiche in Perú, grazie alla protezione di trattati come il Nafta. Altro esempio: il gigante delle sigarette Philip Morris, contrariato dalla legislazione anti-tabacco dell’Uruguay e dell’Australia, ha portato i due paesi davanti a un tribunale speciale. E il gruppo farmaceutico americano Eli Lilly intende farsi giustizia contro il Canada, “colpevole” di aver varato un sistema di brevetti che rende alcuni medicinali più accessibili. E ancora: il fornitore svedese di elettricità Vattenfall esige diversi miliardi di euro dalla Germania per la sua “svolta energetica”, che norma più severamente le centrali a carbone e promette un’uscita dal nucleare.«Non ci sono limiti alle pene che un tribunale può infliggere a uno Stato a beneficio di una multinazionale», continua Lori Wallach. Un anno fa, l’Ecuador si è visto condannato a versare la somma record di 2 miliardi di euro a una compagnia petrolifera. E anche quando i governi vincono il processo, essi devono farsi carico delle spese giudiziarie e di varie commissioni, che ammontano mediamente a 8 milioni di dollari per caso, dilapidati a discapito del cittadino. «Calcolando ciò, i poteri pubblici preferiscono spesso negoziare con il querelante piuttosto che perorare la propria causa davanti al tribunale». Lo ha appena fatto il Canada, «abrogando velocemente il divieto di un additivo tossico utilizzato dall’industria petrolifera». A partire dal 2000, il numero di questioni sottoposte ai tribunali speciali è decuplicato, creando un fiorente vivaio di consulenti finanziari e avvocati d’affari. E’ il vivaio in cui sguazzano le super-lobby dei poteri forti, come il Trans-Atlantic Business Dialogue. Le stesse che dettano le loro regole – da anni – alla Commissione Europea, la quale poi le trasforma puntualmente in direttive comunitarie.Creata nel 1995 con il patrocinio della Commissione di Bruxelles e del ministero del commercio Usa, la super-lobby Tabd non è altro che «un raggruppamento di ricchi imprenditori», impegnato in un “dialogo” «altamente costruttivo» tra le élite economiche dei due continenti, l’amministrazione di Washington e i commissari di Bruxelles. Il Tabd «è un forum permanente che permette alle multinazionali di coordinare i loro attacchi contro le politiche di interesse generale che restano ancora in piedi sulle due coste dell’Atlantico». Il suo obiettivo, pubblicamente dichiarato, è di eliminare quelle che definisce come «discordie commerciali» (trade irritants), vale a dire di operare sui due continenti secondo le stesse regole e senza interferenze da parte dei poteri pubblici. Di fatto, archiviati i tradizionali strumenti di pressione, le super-lobby oggi si apprestano a ricattare gli Stati con minacce estorsive, dettando direttamente le nuove leggi. La Camera di Commercio Usa e la potente lobby “Business Europe”, ovvero «due tra le più grandi organizzazioni imprenditoriali del pianeta», hanno espressamente richiesto ai negoziatori del Ttip di riunire attorno a un tavolo di lavoro un campionario di grossi azionisti e di responsabili politici affinché questi «redigano insieme i testi di regolamentazione» che avranno successivamente forza di legge negli Stati uniti e in Unione Europea.Di fatto, aggiunge Lori Wallach, le multinazionali mostrano una notevole franchezza nell’esporre le loro intenzioni: sugli Ogm, ad esempio, la Monsanto auspica che «il baratro che si è scavato tra la deregolamentazione dei nuovi prodotti biotecnologici negli Stati uniti e la loro accoglienza in Europa» sia presto colmato, proprio grazie al Trattato Transatlantico che imporrebbe agli europei il loro catalogo di organismi geneticamente modificati. E l’offensiva non è meno vigorosa sul fronte della privacy. La Coalizione del commercio digitale (Digital Trade Coalition, Dtc), che raggruppa industriali del Net e del hi-tech, preme sui negoziatori del Ttip per togliere le barriere che impediscono ai flussi di dati personali di riversarsi liberamente dall’Europa verso gli Stati Uniti. E l’Us Council for International Business (Uscib), un gruppo di società che ha massicciamente rifornito la Nsa di dati personali, «l’accordo dovrebbe cercare di circoscrivere le eccezioni, come la sicurezza e la privacy, al fine di assicurarsi che esse non siano ostacoli cammuffati al commercio».Anche le norme sulla qualità nell’alimentazione sono prese di mira. L’industria statunitense della carne vuole ottenere la soppressione della regola europea che vieta i polli disinfettati al cloro. All’avanguardia di questa battaglia, il gruppo “Yum!”, proprietario della catena di fast food Kentucky Fried Chicken (Kfc), può contare sulla forza d’urto delle organizzazioni imprenditoriali. Un gruppo di pressione come l’Istituto Americano della Carne, deplora «il rifiuto ingiustificato [da parte di Bruxelles] delle carni addizionate di beta-agonisti, come il cloridrato di ractopamina», un medicinale utilizzato per gonfiare il tasso di carne magra di suini e bovini. A causa dei rischi per la salute degli animali e dei consumatori, la ractopamina è stata bandita in 160 paesi, tra cui gli stati membri dell’Unione Europea, la Russia e la Cina. Per la filiera statunitense del suino, invece, il divieto di impiegare quella sostanza «costituisce una distorsione della libera concorrenza a cui il Ttip deve urgentemente porre fine». Avvertono i produttori americani di suino: «Non accetteremo altro risultato che non sia la rimozione del divieto europeo della ractopamina».Nel frattempo, dall’altra parte dell’Atlantico, gli industriali raggruppati in “Business Europe”, denunciano le «barriere che colpiscono le esportazioni europee verso gli Stati uniti, come la legge americana sulla sicurezza alimentare». Dal 2011, essa autorizza infatti i servizi di controllo a ritirare dal mercato i prodotti d’importazione contaminati. Anche in questo caso, i negoziatori del Ttip sono pregati di fare tabula rasa. Si ripete lo stesso con i gas a effetto serra. L’organizzazione “Airlines for America” (A4A), braccio armato dei trasportatori aerei statunitensi, ha steso una lista di «regolamenti inutili che portano un pregiudizio considerevole alla [loro] industria» e che il Ttip, ovviamente, ha la missione di cancellare. Al primo posto di questa lista compare il sistema europeo di scambio di quote di emissioni, che obbliga le compagnie aeree a pagare per il loro inquinamento a carbone. Bruxelles ha provvisoriamente sospeso questo programma; A4A esige la sua soppressione definitiva in nome del «progresso». Se nessuno fermerà il Trattato Transatlantico, il destino della nostra civiltà è praticamente segnato.C’era una volta lo Stato di diritto. Con il Ttip, il Trattato Transatlantico in via di approvazione semi-clandestina da parte degli Usa e dell’Unione Europea, nessun governo avrà più il potere di tutelare liberamente i diritti dei cittadini: scuola, sanità, ambiente, economia, sicurezza alimentare. L’ultima parola spetterà a tribunali speciali, chiamati a tutelare gli interessi del business contro quelli del cittadino. Allo Stato “colpevole” di difendere il suo popolo, con leggi a garanzia del lavoro e del welfare pubblico, non resterà che pagare salatissime sanzioni. E’ chiaramente eversivo il carattere del super-trattato che potrebbe entrare in vigore tra due anni, scritto sotto dettatura delle maggiori multinazionali e delle grandi lobby americane ed europee, col placet dell’Unione Europea. In pratica, a diventare legge – contro l’interesse pubblico dei cittadini – sarà il profitto dei “padroni dell’universo”. Un super-diktat, il loro, che sembra voler azzerare in un colpo solo due secoli di democrazia occidentale.
-
Obama finanzia i terroristi, a insaputa degli americani
Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.Lo ricorda il francese Thierry Meyssan, giornalista indipendente, in un’analisi pubblicata da diverse testate e ripresa da “Megachip”. Il paradosso della guerra in Siria? «Le immagini sono esattamente il contrario della realtà». Secondo i media mainstream, il conflitto oppone da un lato gli Stati raccoltisi intorno a Washington e Riyadh, intenti a difendere la democrazia e condurre la lotta mondiale contro il terrorismo, e dall’altra la Siria e i suoi alleati russi, «diffamati come dittature che manipolano il terrorismo». Se tutti sono ben consapevoli del fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia, bensì una monarchia assoluta, «laddove la tirannia di una famiglia e di una setta controlla un intero popolo», gli Stati Uniti godono invece dell’immagine di un democrazia, paladina della “libertà”. Eppure, una notizia-bomba come quella del finanziamento ufficiale della guerriglia jihadista è stata censurata, dal momento che il Congresso «si è riunito segretamente per votare il finanziamento e l’armamento dei “ribelli” in Siria». Può sembrare incredibile, ma «il Congresso tiene incontri segreti che la stampa non può menzionare».Ecco perché la notizia,originariamente pubblicata dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è stata «scrupolosamente ignorata dalla stampa e dai media negli Stati Uniti e dalla maggior parte dei media in Europa occidentale e nel Golfo: solo gli abitanti del “resto del mondo” avevano il diritto di conoscere la verità». Poiché nessuno ha letto la legge appena approvata, aggiunge Meyssan, non si sa che cosa stabilisca esattamente. «Tuttavia, è chiaro che i “ribelli” in questione non mirano a rovesciare il governo siriano – ci hanno rinunciato – ma piuttosto a “insanguinarlo”. Ecco perché non si comportano come soldati, ma come terroristi». Sicché l’America, presunta vittima di Al-Qaeda l’11 Settembre e poi leader mondiale della “guerra al terrorismo”, di fatto finanzia «il principale focolaio terroristico internazionale», in cui agiscono due organizzazioni ufficialmente subordinate ad Al-Qaeda. «Non si tratta più di una manovra oscura dei servizi segreti, ma piuttosto di una legge, pienamente assunta, ancorché approvata a porte chiuse per non contraddire la propaganda».D’altra parte, continua Meyssan, ci si chiede in che modo la stampa occidentale – che da 13 anni imputa ad Al-Qaeda di essere l’autrice degli attentati dell’11 Settembre – potrebbe mai spiegare all’opinione pubblica la sua decisione. Infatti, la speciale procedura seguita in questo caso (Cog, “continuità di governo”) è protetta anch’essa dalla censura. «È anche per questo che gli occidentali non hanno mai saputo che, nel corso di quell’11 settembre, il potere era stato trasferito dai civili ai militari, dalle 10 del mattino fino a sera, e durante tutto quel giorno gli Stati Uniti erano governati da un’autorità segreta, in violazione delle loro leggi e della loro Costituzione». Lo stesso discorso annuale di Barack Obama sullo stato dell’Unione «si è trasformato in un eccezionale esercizio di menzogne». Davanti ai 538 membri del Congresso che sin dall’inizio lo applaudivano, il presidente ha dichiarato: «Una cosa non cambierà: la nostra determinazione a non permettere ai terroristi di lanciare altri attacchi contro il nostro paese». E ancora: «In Siria, sosterremo l’opposizione che respinge il programma delle reti terroristiche».Eppure, quando la delegazione siriana ai negoziati di “Ginevra 2” ha sottoposto – a quella che s’intendeva rappresentare come la sua “opposizione” – una mozione, esclusivamente basata sulle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, a condanna del terrorismo, questa è stata respinta senza causare alcuna protesta da parte di Washington. E per una buona ragione: il terrorismo sono gli Stati Uniti, e la delegazione “dell’opposizione” riceve i suoi ordini direttamente dall’ambasciatore Robert S. Ford, presente in loco». Ford è stato assistente di John Negroponte in Iraq. Nei primi anni ‘80, ricorda Meyssan, Negroponte aveva contrastato la rivoluzione nicaraguense arruolando migliaia di mercenari e alcuni collaboratori locali, costituendo i cosiddetti “Contras”. La Corte internazionale di giustizia, cioè il tribunale interno delle Nazioni Unite, ha condannato Washington per questa ingerenza che non osava pronunciare il proprio nome. Poi, negli anni Duemila, Negroponte e Ford riproposero lo stesso scenario in Iraq. Questa volta però l’intento era di annientare la resistenza nazionalista facendola combattere da Al-Qaeda.Oggi, mentre i siriani e la delegazione dell’“opposizione” discutevano a Ginevra, a Washington il presidente Obama, applaudito meccanicamente dal Congresso, ha continuato il suo esercizio di ipocrisia: «Noi lottiamo contro il terrorismo non grazie all’intelligence e alle operazioni militari, ma anche rimanendo fedeli agli ideali della nostra Costituzione e restando un esempio per il mondo intero. E continueremo a lavorare con la comunità internazionale per dare al popolo siriano il futuro che merita: un futuro senza dittatura, senza terrore e senza paura». La guerra orchestrata dalla Nato in Siria ha già causato più di 130.000 morti, secondo i dati del Mi6, l’intelligence inglese. La beffa: «I carnefici attribuiscono la responsabilità al popolo che osa contrastarli e al suo presidente, Bashar el-Assad». Durante la guerra fredda, conclude Meyssan, la Cia «finanziava lo scrittore George Orwell affinché immaginasse la dittatura del futuro: Washington ha creduto così di svegliare le coscienze di fronte alla minaccia sovietica». In realtà, l’Urss «non ha mai assomigliato all’incubo di “1984”, intanto che gli Stati Uniti ne sono diventati l’incarnazione».Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.
-
Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
-
Al-Qaeda, il killer pagato della Nato: scandalo in Turchia
Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.Nel momento in cui questo incredibile doppio gioco veniva portato alla luce ad Ankara, continua Meyssan in un post tradotto da “Megachip”, la polizia turca ha fermato vicino al confine siriano un camion che trasportava armi per Al-Qaeda. «Delle tre persone arrestate, una dichiarava di trasportare il carico per conto della Ihh, l’associazione “umanitaria” dei Fratelli Musulmani turchi, mentre un’altra affermava di essere un agente segreto turco in missione». In definitiva, il governo ha ostacolato la giustizia, confermando che «il trasporto era un’operazione segreta del Mit (i servizi segreti turchi)», e ha ordinato che il camion e il suo carico potessero riprendere il loro cammino. L’inchiesta mostra anche che il finanziamento turco di Al-Qaeda usava un’industria iraniana, sia per agire sotto copertura in Siria sia per condurre operazioni terroristiche in Iran. «La Nato disponeva già di complicità a Teheran durante l’operazione “Iran-Contras” presso i circoli vicini all’ex presidente Rafsanjani, come lo sceicco Rohani, divenuto poi l’attuale presidente».Questi fatti, aggiunge Meyssan, sono intervenuti nel momento in cui l’opposizione politica siriana in esilio lancia una nuova teoria alla vigilia della Conferenza di Ginevra: le milizie qaediste che hanno seminato strage in Siria sarebbero creature dei servizi di Assad, incaricate di terrorizzare la popolazione per indurla ad accettare la protezione del regime. «Saremmo dinque pregati di dimenticare tutto il bene che la stessa opposizione in esilio diceva di Al-Qaeda da tre anni, così come il silenzio degli Stati membri della Nato sulla diffusione del terrorismo in Siria». Pertanto, se si può ammettere che la maggior parte dei leader dell’Alleanza atlantica ignorasse del tutto il sostegno della loro organizzazione al terrorismo internazionale, per Meyssan «si dovrà anche ammettere che la Nato è il principale responsabile mondiale del terrorismo».Finora, le autorità Nato hanno sostenuto che il movimento jihadista internazionale, da esse sostenuto in occasione della sua formazione durante la guerra in Afghanistan contro i sovietici, si sarebbe ritorto contro di loro dopo la liberazione del Kuwait nel 1991. Gli Stati Uniti accusano Al-Qaeda di aver attaccato le ambasciate Usa in Kenya e in Somalia nel 1998 e di aver fomentato gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, ma ammettono che dopo la morte “ufficiale” di Osama Bin Laden, nel 2011, «certi elementi jihadisti hanno nuovamente collaborato con loro in Libia e in Siria». Tuttavia, Washington avrebbe messo fine a questo riavvicinamento tattico nel dicembre 2012. «In realtà, questa versione è contraddetta dai fatti», sottolinea Meyssan, perché Al-Qaeda ha sempre combattuto dalla parte della Nato, come ora viene confermato anche dallo scandalo turco.Il “banchiere” di Al-Qaeda, Yasin al-Qadi, ricercato dagli Stati Uniti dopo gli attentati contro le loro ambasciate in Kenya e Tanzania del 1998, era un amico personale sia dell’ex vicepresidente Usa Dick Cheney sia dell’attuale primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, che ha visitato almeno quattro volte nel 2012 facendo scalo a Istanbul dove – grazie alle telecamere oscurate – ha aggirato i controlli doganali, sotto la protezione degli agenti sicurezza turchi. Secondo la polizia e i magistrati turchi che hanno rivelato queste informazioni e incarcerato i collaboratori di svariati ministri coinvolti nel caso, il 17 dicembre 2013 – prima di essere spogliati delle indagini o sollevati dal loro incarico dal primo ministro – Yasin al-Qadi e Erdoğan avevano sviluppato un vasto sistema di distrazione di fondi per finanziare Al-Qaeda in Siria, racconta Thierry Meyssan, secondo cui lo scandalo che sta scutendo la Turchia rivela che Al-Qaeda, in realtà, «ha sempre combattuto gli stessi nemici dell’Alleanza Atlantica», fin dalla sua nascita nel 1979 come struttura di guerriglia contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan.
-
Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.
-
Mistero della Fed, il super-potere che domina il mondo
Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.Tutto chiaro: nuovo ordine mondiale. Ovvero: il capitalismo finanziario sfratta le sovranità nazionali, cioè l’economia pubblica e democratica, smantellando il potere degli Stati. Scomparso nel ’77, Quigley era un membro molto influente del “Council on Foreign Relations”, il super-salotto che detta l’agenda economica, finanziaria e geopolitica americana attraverso le sue sedi di Washington e New York. Tra i suoi 1.4000 membri, il vero super-potere mondiale, figurano militari e grandi banchieri, rettori universitari e direttori di giornali e televisioni, i vertici delle fondazioni Ford e Rockefeller, presidenti americani (Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon) e segretari di Stato come Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. Essendo la banca centrale più potente al mondo, la Federal Reserve – che ha appena compiuto cent’anni – era dunque destinata, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a un ruolo egemone per portare a termine il progetto globalista. Obiettivo: imporre la sua agenda ai governi, scavalcando la funzione pubblica.Murray Rothbard, economista americano di scuola austriaca, descrive così la banca centrale Usa: «L’operazione più segreta e meno riconducibile al governo federale non è, come ci si potrebbe aspettare, la Cia, la Dia, o qualche altra agenzia di intelligence super-segreta», perché tutte le strutture di intelligence sono comunque sottoposte al controllo democratico del Congresso. In segretezza, la Fed batte ogni altra struttura: «Il Federal Reserve System non è riconducibile a nessuno, non ha un budget, non è soggetto a nessun controllo e nessuna commissione del Congresso conosce le sue operazioni o le può davvero supervisionare». La Federal Reserve, che ha il controllo totale del sistema monetario statunitense, «non deve rendere conto a nessuno». Ecco perché per la Fed, come anche per le altre banche centrali, «è sempre stato importante investirsi di un’aura di solennità e di mistero». Infatti, «se la popolazione sapesse ciò che sta succedendo, se fosse in grado di strappare la tenda che copre l’imperscrutabile Mago di Oz, scoprirebbe ben presto che la Fed, lungi dall’essere la soluzione indispensabile al problema dell’inflazione, è essa stessa il cuore del problema».Nessuna sorpresa che un liberale puro con Rothbard abbia in odio la Fed, ammette Bottarelli su “Il Sussidiario”, ma il cuore del problema è: le banche centrali, Fed in testa, anche grazie a questa crisi sono oggi il potere principale a livello politico ed economico. «Cosa sarebbe oggi Wall Street senza la Fed e la sua liquidità? Dove sarebbero i tassi dei Treasuries e quindi il cuore stesso del sistema immobiliare dei mutui, già massacrato dai subprime? Cosa sarebbe l’America senza gli stop-and-go della Fed sul “taper”, capaci di livellare tassi e far sgonfiare e rigonfiare – evitando l’esplosione – la bolla di liquidità? Temo sarebbe un paese schiantato dalla più colossale crisi finanziaria dal 1929, superata – un eufemismo, vista l’economia reale e le sue grida di dolore – creando la più grossa bolla speculativa e di credito della storia. E, di fatto, rendendo il Congresso poco più che un’appendice, cui far recitare melodrammi a soggetto come quello dello “shutdown” o del “debt ceiling”, pantomime che tornano ciclicamente».La leva del comando è nelle mani della Fed, molto più che all’epoca di Alan Greenspan: «Lo sta diventando ora, grazie a questa crisi che ha reso tutti – finanza, economia, politica – dipendenti dalla Fed e dalle sue azioni. Se la Fed vuole crolla tutto, se non vuole gonfia bolle come bambini durante una festa e fa sfondare a Wall Street un record dopo l’altro, visto che comunque i suoi “azionisti di maggioranza” grazie a quei record e a quella liquidità fuori controllo, macinano soldi su soldi». E la stessa Bce? «Non è forse diventata il fulcro dell’intero sistema Europa, politico ed economico, grazie a questa crisi?». Unione bancaria, supervisione unica, regolamenti per i fallimenti e le nazionalizzazioni di istituti, tassi d’interesse, operazioni di finanziamento e rifinanziamento: «Quale Stato può andare contro la Bce? Nessuno, e l’Italia ne sa qualcosa. Chi ha creato, infatti, se non l’Eurotower, il cordone ombelicale tra debito sovrano e sistema bancario, con la liquidità offerta a costo zero alle banche affinché con quei soldi comprassero titoli di Stato dei paesi in crisi, abbassando artificialmente lo spread?».Quello che Bottarelli chiama «incesto» è oggi sotto gli occhi di tutti: «Solo le banche italiane hanno 450 miliardi di debito pubblico nei bilanci, quelle greche hanno ricomprato il 99% del debito ellenico detenuto da soggetti esteri, spalancando le porte al fallimento del paese senza conseguenze, quelle spagnole pure, quelle portoghesi anche». I governi di questi paesi possono forse fare qualcosa al riguardo? «No, devono sottostare alle regole della Bce, la quale può uccidere o lasciare in vita un governo come una banca con una semplice decisione sui tassi, visto che non esiste più alcuna leva di sovranità per le nazioni». La Bce di Trichet era così forte? «No, lo sta diventando sempre più e sempre più in fretta quella di Mario Draghi, uomo Goldman Sachs». Eccesso dietrologico? «Forse, ma rileggete le parole di Carroll Quigley, datate 1966». Nient’altro che un’unica, colossale “coincidenza”? Certo, ha il suo peso l’insaziabile avidità dei banchieri affaristi. Ma c’era soprattutto un duplice obiettivo da centrare: «Far purgare un sistema ormai marcio, tra derivati e altre porcherie, e contestualmente preparare il campo per l’ascesa della Fed e delle altre banche centrali a nuovi riferimenti politici».Perché chi ha visto nascere questa crisi è stato deriso e isolato? Evidente: rischiava di rivelare la vera natura dell’operazione. La verità è che il 15 settembre 2008 qualcuno ha deciso che la crisi doveva prendere un’altra piega e un’altra velocità, insiste Bottarelli. Chi ha deciso di far morire Lehman Brothers, salvando tutti gli altri? E’ stata proprio la Fed di Ben Bernanke, di concerto con l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson. Quel fallimento, aggiunge Bottarelli, aveva un scopo preciso: «Tramutare la Fed nel motore immobile del sistema economico-politico-finanziario Usa e mondiale». Inutili le proteste di Dick Fuld, già capo di Lehman Brothers: «Paulson ha fornito dati compromessi agli altri istituti di credito quando c’era bisogno di aiutarci, non avevamo problemi di liquidità». Il riferimento di Fuld è noto: nella notte del 14 settembre 2008, quindi il giorno prima della bancarotta, ci fu un meeting fra Paulson e i vertici delle principali banche di Wall Street. Erano presenti anche il presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, e il capo della Sec, Christopher Cox. Per tenere in piedi la Lehman Brothers servivano 100 miliardi di dollari. Ma a porre il veto furono Paulson e la Merrill Lynch. Gli altri non mossero un dito e Lehman fallì.Attenzione: nella stessa settimana della bancarotta di Lehman Brothers, aggiunge Bottarelli, sono state salvate American International Group e la stessa Merrill Lynch, mentre fu concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding bancarie. Perché invece a Lehman Brothers fu impedito di cambiare statuto? La Lehman non era certo la sola a ottenere liquidità a breve termine “esternalizzando” le perdite, «ma la differenza è che affondando Lehman Brothers si affondava un simbolo e si rimetteva Wall Street, così come il Congresso, nelle mani della Fed, inviando anche uno scossone globale agli altri sistemi finanziari esposti verso l’ex gigante». All’epoca, un maxi-salvataggio pubblico non sarebbe ancora stato facilmente digeribile dagli americani, dalla politica e dai mercati. «Ma poi i tempi cambiano», e alla Casa Bianca arriva il primo presidente di colore, che «promette di far pagare il conto della crisi a Wall Street», e invece «la facilita con ogni mossa, lasciando campo sempre più libero allo strapotere della Fed». Un altro democratico, Bill Clinton, grande alfiere della globalizzazione, fu il primo «a creare le condizioni della crisi subprime con la sua politica di mutui a cani e porci con garanzie zero», facendo «pagare il conto dei fallimenti ai cittadini che compravano qualsiasi cartaccia gli venisse proposta come investimento». Tutte coincidenze?Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.