Archivio del Tag ‘Washington Post’
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Golpe Usa: stanno cercando di rubare la vittoria a Trump
L’arte della menzogna sembra ormai la vera specialità di Barack Obama. E ora è ufficiale: sta tentando di rovesciare Donald Trump, cancellando il verdetto delle urne. Pressioni inaudite sui “grandi elettori”, riuniti il 19 dicembre a Washington per confermare l’elezione del presidente, rischiano di trasformare «una formalità, una tranquilla giornata di democrazia» in una sorta di colpo di Stato, avverte Marcello Foa, citando uno dei più autorevoli commentatori americani, Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Craig Roberts denuncia apertamente il tentativo di golpe attraverso la Cia, che nei giorni scorsi ha fabbricato il caso delle presunte infiltrazioni di hacker russi nelle elezioni statunitensi, come documenta Michael Snyder, che denuncia l’assedio a cui lo staff di Obama e Hillary sta sottoponendo i parlamentari chiamati a ratificare il risultato elettorale. Un clima inaudito, dice Foa, confermato anche dal “Washington Post”: «I grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump», definito un nemico dell’America al soldo dei russi.«Sono letteralmente bombardati di email e di telefonate in cui si evidenzia la pericolosità di Trump e in cui vengono evidenziati i rischi dell’America», scrive Foa sul “Giornale”, «mentre la Cia, l’Fbi e ovviamente Obama continuano a denunciare le interferenze russe nell’elezione nel tentativo, vano, di dimostrare che l’elezione non era regolare». Tentativo vano, insiste Foa, perché fino ad oggi non è stata presentata alcuna prova. Il significato della manovra, senza precedenti, è fin troppo chiaro: «Le élite globaliste che hanno governato l’America e indirettamente il mondo occidentale, stanno per uscire dalla stanza dei bottoni, visto che il magnate non ha piazzato i loro uomini nei dicasteri chiave», sottolinea Foa. «Quell’élite sta tentando di tutto per impedire che Trump entri davvero alla Casa Bianca e ribalti la politica estera e di sicurezza perseguita finora, a cominciare dai rapporti con la Russia e dalla lotta all’Isis, e corregga quella sulla globalizzazione incentivando la riscoperta di un “patriottismo imprenditoriale” sugli investimenti e sui posti di lavoro».Attenzione: quel che sta avvenendo in queste ore «è gravissimo ed è assolutamente incompatibile con i principi democratici», aggiunge Foa. «Speriamo che i “grandi elettori” non si lascino suggestionare», perché «se davvero Trump venisse rovesciato prima ancora di entrare in carica, gli Stati Uniti perderebbero qualunque legittimità di fronte al proprio popolo e al mondo». Alle élite importa poco? «A noi sì, tantissimo». Impressionante il succedersi degli eventi, nella ricostruzione che lo stesso Michael Snyder fornisce su “The Economic Collapse”, in un post ripreso da “Megachip”: «Donald Trump potrebbe ritrovarsi legalmente derubato della sua elezione il 19 dicembre, quando il collegio elettorale esprimerà il proprio voto, oppure il 6 gennaio, quando il Congresso si riunirà in seduta plenaria per contare questi voti». In questo momento, scrive Snyder, «gli apparati di potere sono nel panico completo e sembrano essersi accordati sul fatto che “l’interferenza russa nelle elezioni” sarà il pretesto che si propongono di utilizzare per cercare di sottrarre la presidenza a Trump».Obiettivo dei “golpisti”: «Convincere i membri del collegio elettorale, che dovrebbero essere vincolati al voto per Trump, affinché diano invece la loro preferenza a qualcun altro». E se questo non dovesse funzionare, «si sono già poste le basi affinché i voti del collegio elettorale possano essere potenzialmente invalidati quando il Congresso si riunirà in seduta plenaria per contare questi voti, il 6 gennaio». Un gruppo di 10 grandi elettori, scrive Snyder, ha già inviato una lettera al direttore della National Intelligence, James Clapper, chiedendo di «essere informati sui tentativi russi per interferire nelle elezioni di novembre». Questo gruppo è capeggiato dalla figlia di Nancy Pelosi, Christine. Inoltre, l’entourage della Clinton sta pubblicamente sostenendo la necessità che i membri del collegio elettorale vengano sottoposti ad un “briefing di intelligence” sulle interferenze russe, prima del loro voto. E il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha affermato che «Donald Trump ha chiesto alla Russia di hackerare i suoi oppositori», e ha quindi «beneficiato della malevola attività cibernetica dei russi». Come se non bastasse, il leader della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, ha annunciato che è favorevole ad una indagine «sull’interferenza elettorale russa», che sarebbe apprezzata dai senatori Chuck Shumer, Jack Reed, John McCain e Lindsey Graham, a detta degli interessati.Stesso improvviso attimismo alla Camera: il deputato David Cicilline ha esortato i “grandi elettori” a prendere in considerazione, prima di esprimere il loro voto, «l’entità delle interferenze straniere nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, che potrebbero averne influenzato il risultato finale». E il collega Jim Himes ha definito Donald Trump «un pericolo per la repubblica». La rivista “Time”, aggiunge Snyder, sta apertamente facendo pressioni sui membri del collegio elettorale affinché votino per qualcun altro. E l’ex direttore generale della Cia «ha baldanzosamente dichiarato che i tentativi russi di alterare il risultato delle elezioni presidenziali di novembre sono stati “l’equivalente politico dell’11 Settembre”». Non è tutto: Bob Baer, ex agente della Cia, ha parlato di recente alla “Cnn” dove ha pubblicamente chiesto nuove elezioni se, a causa delle interferenze russe, fosse provata l’illegittimità della prima votazione. Un altro “ex operativo” della Cia e già candidato presidenziale, Evan McMullin, ha affermato che Trump «non è un americano leale», perché i suoi orientamenti non sono abbastanza anti-russi.Nella contesa si schiera anche l’“Huffington Post”, che «sta spacciando una decisione della Corte federale, risalente al 1995, come un precedente che potrebbe essere usato per sottrarre la presidenza a Donald Trump ed offrirla ad Hillary Clinton, se un tribunale scoprisse che le interferenze russe hanno alterato il risultato elettorale». Il responsabile per le comunicazioni di Hillary Clinton, Jennifer Palmieri, ha dichiarato che «uno Stato straniero» ha cercato di penetrare nel suo account Gmail qualche giorno prima delle elezioni. Lo stesso Obama, infine, ha ordinato all’intelligence di raccogliere tutte le prove possibili sulle interferenze elettorali russe e di consegnare a lui le suddette prove prima del termine del suo mandato. «La maggior parte dei sostenitori di Trump non si rende conto di quanto tutto questo sia serio», aggiunge Snyder. «Il potere in carica odia Trump nel modo più assoluto e vuole trovare un modo per impedire il suo insediamento». In altre parole: «Vogliono una giustificazione per poter negare la presidenza a Donald Trump e per questo stanno trasformando questa “interferenza russa sulle elezioni” in un problema, il più grosso possibile». Il che è anche ridicolo, come ha puntualizzato Paul Joseph Watson, che dice: «Noi per primi abbiamo interferito con elezioni straniere per molti, molti anni».«Non è affatto divertente – continua Watson, rivolto ai “golpisti” – che tutti voi democratici, che vi lamentate delle influenze straniere, non abbiate avuto obiezioni di sorta sul fatto che l’Arabia Saudita finanziasse la campagna elettorale della Clinton. Non avevate problemi a prendere tutti quei soldi da George Soros, vero? Non avevate problemi con il Dipartimento di Stato di Obama che rovesciava il governo dell’Ucraina. Non avevate problemi con l’interferenza di Obama nel referendum del Regno Unito sulla permanenza nell’Ue». Una cosa è certa: l’establishment battuto a novembre farà davvero di tutto per scippare la vittoria di Trump. Se fosse possibile convincere 37 “grandi elettori” repubblicani a votare per qualcun altro, piuttosto che per Trump, questo rimanderebbe la questione alla Camera dei Rappresentanti, «e non è chiaro che cosa farebbe questo ramo del Parlamento in un simile scenario», scrive Snyder. «Se Trump non fosse fermato a livello di collegio elettorale, c’è però la possibilità che possa venir sabotato quando il Congresso si riunirà in sessione plenaria, il 6 gennaio, per la conta dei voti elettorali». Di fronte a obiezioni scritte sui voti di singoli Stati, il Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi in mondo vincolante. Annullando le elezioni? «Non so se questo succederà», dice Snyder. Ma, «se Donald Trump fosse derubato del risultato elettorale, la cosa getterebbe probabilmente l’intera nazione nel caos». Scenario possibile? Assolutamente sì: «Penso che, a questo punto, le élites preferirebbero rischiare il tutto e per tutto, pur di tenere Donald Trump fuori dalla Casa Bianca».L’arte della menzogna sembra ormai la vera specialità di Barack Obama. E ora è ufficiale: sta tentando di rovesciare Donald Trump, cancellando il verdetto delle urne. Pressioni inaudite sui “grandi elettori”, riuniti il 19 dicembre a Washington per confermare l’elezione del presidente, rischiano di trasformare «una formalità, una tranquilla giornata di democrazia» in una sorta di colpo di Stato, avverte Marcello Foa, citando uno dei più autorevoli commentatori americani, Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan. Craig Roberts denuncia apertamente il tentativo di golpe attraverso la Cia, che nei giorni scorsi ha fabbricato il caso delle presunte infiltrazioni di hacker russi nelle elezioni statunitensi, come documenta Michael Snyder, che denuncia l’assedio a cui lo staff di Obama e Hillary sta sottoponendo i parlamentari chiamati a ratificare il risultato elettorale. Un clima inaudito, dice Foa, confermato anche dal “Washington Post”: «I grandi elettori di ogni Stato, che dovrebbero semplicemente ribadire il risultato delle urne, stanno ricevendo incredibili pressioni al fine di indurli a non votare per Trump», definito un nemico dell’America al soldo dei russi.
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Clinton, sondaggi gonfiati. Wikileaks: eccovi le prove
Sondaggi manipolati, istruzioni per l’uso: le impartisce John Podesta, coordinatore della campagna elettorale di Hillary Clinton. Obiettivo, letteralmente: “sovra-rappresentare” settori del campione, per gonfiare il risultato. La segnalazione proviene da “Zero Hedge”, che parte da una recente email del comitato elettorale della Clinton, hackerata da Wikileaks, da cui emerge come «almeno dall’inizio dell’anno siano presumibilmente in corso manipolazioni dei sondaggi statunitensi pubblicati dagli organi di stampa allineati all’establishment democratico (quasi tutti), al fine di scoraggiare l’elettorato avversario», riporta “Voci dall’Estero”. «Le manipolazioni avvengono in modo piuttosto semplice: ci si assicura di “sovra-rappresentare” certe regioni e gruppi etnici più favorevoli ai democratici». Ancora il 23 ottobre, quando molti sondaggi mainstream danno la Clinton in vantaggio su Trump di “oltre 10 punti” (ma non “Bloomberg”, secondo cui Trump sarebbe in testa, in Stati-chiave come la Florida), “Zero Hedge” rileva «l’evidente distorsione nel campionamento dell’ultimo sondaggio “Abc/Washington Post”, il quale riportava un vantaggio di 12 punti percentuali a livello nazionale in favore della Clinton».Come molti dei recenti sondaggi di “Reuters”, “Abc” e “Washington Post”, in quell’ultimo sondaggio «c’era una distorsione di 9 punti percentuali nel campionamento in favore degli elettori del partito democratico». La rilevazione viene effettuata via telefono, in inglese e in spagnolo, su un campione di 874 probabili elettori a livello nazionale, estratto casualmente. I risultati hanno un margine di errore del 3,5%. «Anche se i democratici potrebbero godere effettivamente di un lieve vantaggio di un paio di punti, questo non ha niente a che fare coi 9 punti di distacco riportati», afferma “Zero Hedge”. A causa delle enormi variazioni di preferenze politiche legate ai fattori demografici, aggiunge il blog, «è abbastanza facile “manipolare” un sondaggio sovra-rappresentando un gruppo rispetto a un altro». Esempio: secondo un sondaggio “Abc/WaPo”, la Clinton avrebbe addirittura 79 punti di vantaggio su Trump tra gli elettori di colore. «Per di più, i sondaggisti non forniscono i dati demografici sul campione degli intervistati, e questo rende impossibile una verifica sulla eventuale distorsione “opportunistica”».A chi ancora non è convinto che i sondaggi pro-Cinton siano “aggiustati”, sempre “Zero Hedge” consiglia la lettura di una mail di Podesta, trapelata via Wikileaks, che esprime una richiesta di raccomandazione sulla «sovra-rappresentazione nei sondaggi», in modo da «massimizzare i nostri risultati nei sondaggi divulgati dai media». Scrive il capo-staff di Hillary: «Voglio che i vostri uomini di Atlas suggeriscano la sovra-rappresentazione nei nostri sondaggi prima dell’inizio, a febbraio. Una sovra-rappresentazione per aree di mercato, regioni, ecc. Vorrei che venisse compilato un elenco di raccomandazioni in modo da poter massimizzare i nostri risultati nei sondaggi divulgati dai media». La mail include anche una comoda guida in 37 pagine con precise raccomandazioni su come manipolare i sondaggi. In Arizona, ad esempio, è fortemente caldeggiata la sovra-rappresentazione dei nativi americani e dgli ispanici: «Usate la lingua spagnola nelle interviste (le persone che parlano solo spagnolo sono tra le popolazioni “target” dei democratici con la più bassa affluenza)». Per la Florida, Podesta raccomanda di «monitorare costantemente» i campioni intervistati, in modo da assicurarsi che «non siano troppo anziani» e «includano un numero sufficiente di afro-americani e di ispanici».Allo stesso tempo, gli elettori di candidati “indipendenti” di Tampa e Orlando sembrano essere più favorevoli al partito democratico, quindi il report suggerisce di iniziare a riempire le quote degli elettori indipendenti, nei sondaggi, a partire da queste città. «Tampa e Orlando hanno elettori di più facile persuasione rispetto al nord o al sud della Florida», scrive Podesta, che aggiunge: «Controllate però i sondaggi prima di arrivare a questa conclusione». E attenzione: «Se ci sono questioni di budget o sui campioni – prosegue – assicuratevi che Tampa e Orlando siano rappresentate per prime». Allo stesso tempo, Podesta suggerisce che i sondaggi a livello nazionale “sovra-rappresentino” adeguatamente «regioni e distretti chiave». Letteralmente: «Mettete a confronto i sondaggi per i gruppi razziali di riferimento, con sovra-rappresentazione quanto necessario». E inoltre: «Tenete monitorati i sondaggi per i gruppi razziali cruciali, con sovra-rappresentazione quanto necessario». Ed è così, chiosa “Zero Hedge”, che all’improvviso Hillary “vola” nei sondaggi.Sondaggi manipolati, istruzioni per l’uso: le impartisce John Podesta, coordinatore della campagna elettorale di Hillary Clinton. Obiettivo, letteralmente: “sovra-rappresentare” settori del campione, per gonfiare il risultato. La segnalazione proviene da “Zero Hedge”, che parte da una recente email del comitato elettorale della Clinton, hackerata da Wikileaks, da cui emerge come «almeno dall’inizio dell’anno siano presumibilmente in corso manipolazioni dei sondaggi statunitensi pubblicati dagli organi di stampa allineati all’establishment democratico (quasi tutti), al fine di scoraggiare l’elettorato avversario», riporta “Voci dall’Estero”. «Le manipolazioni avvengono in modo piuttosto semplice: ci si assicura di “sovra-rappresentare” certe regioni e gruppi etnici più favorevoli ai democratici». Ancora il 23 ottobre, quando molti sondaggi mainstream danno la Clinton in vantaggio su Trump di “oltre 10 punti” (ma non “Bloomberg”, secondo cui Trump sarebbe in testa, in Stati-chiave come la Florida), “Zero Hedge” rileva «l’evidente distorsione nel campionamento dell’ultimo sondaggio “Abc/Washington Post”, il quale riportava un vantaggio di 12 punti percentuali a livello nazionale in favore della Clinton».
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Trump e le donne: la cara, vecchia macchina del fango
Se c’è qualcuno che ancora non ha capito quale sia l’importanza del cosiddetto “media news cycle”, ovvero il ciclo giornaliero delle news americane, vorrei offrirgli questa breve riflessione. Io per abitudine guardo la “Cnn” almeno un’ora al giorno. Nell’arco di quell’ora, infatti, mi rendo conto di quale sia il ciclo particolare delle news di quel giorno (dopo un’ora le notizie cominciano a ripetersi, e a meno di eventi eccezionali non cambiano più fino al giorno dopo). Partiamo quindi dal clamoroso scoop del “Washington Post”, che venerdì 7 ottobre ha reso pubblico il video del 2005 nel quale Donald Trump si vantava di poter fare alle donne tutto quello che vuole, “perché tanto lui è famoso”. Non appena compresa l’importanza della notizia Trump è corso ai ripari, e nel giro di 8 ore (venerdì sera) ha pubblicato su Facebook un video nel quale “si scusava” per quelle dichiarazioni, giustificandosi con il fatto che «però Bill Clinton ne racconta di molto peggio, quando andiamo insieme a giocare a golf».Il sabato mediatico è quindi trascorso a decidere se le scuse di Trump fossero sufficienti (e sincere), oppure no. Poi c’è stato il confronto diretto con la Clinton, domenica sera, e l’argomento ha occupato una sana mezz’ora del dibattito a reti unificate. Durante questo dibattito il moderatore, Anderson Cooper, ha avuto l’astuzia di chiedere a Trump se le sue fossero state «soltanto vanterie», oppure se avesse fatto davvero quelle brutte cose alle donne. Trump è caduto nella trappola e ha negato di averle fatte veramente, dicendo che in fondo si trattava solo di “locker room talk” (discorsi da spogliatoio, tipicamente maschili). A partire da lunedì, quindi, hanno iniziato ad uscire allo scoperto diverse donne che accusavano Trump di averle molestate sessualmente nel corso degli anni. Il focus del “news cycle” si è quindi spostato su ciascuna di queste donne, e sulla credibilità delle loro accuse. Trump sosteneva che fossero state pagate per mentire, mentre le donne sostenevano di essere state realmente molestate.Siamo andati avanti così per diversi giorni, con nuove donne che uscivano allo scoperto praticamente ogni giorno, ciascuna riempiendo il “news cycle” con la propria vicenda personale. Ad oggi siamo arrivati a 9 donne diverse che accusano Trump di averle molestate sessualmente. E ora che il filone delle accusatrici sembra estinguersi, l’argomento è passato in mano agli sportivi. Proprio mentre scriviamo queste righe, alla “Cnn” stanno intervistando diversi sportivi famosi, i quali si fingono offesi e indignati dalle parole di Trump. «Non è vero che negli spogliatoi facciamo questi discorsi», dicono gli eroi nazionali del baseball e del basket: «Noi siamo persone serie, rispettiamo le donne e negli spogliatioi parliamo soprattutto di sport». Certo, come no. E ‘l mi babbo è Michael Jackson. Grazie quindi a questo mix di ipocrisia politically correct e di mastodontico spin mediatico, siamo arrivati al decimo giorno consecutivo in cui sulle televisioni americane non si parla d’altro che delle molestie sessuali di Trump. Guardate che non è affatto poco, per una nazione che sceglierà il proprio presidente fra meno di tre settimane.(Massimo Mazzucco, “L’importanza del news cycle sui media americani”, dal blog “Luogo Comune” del 16 ottobre 2016).Se c’è qualcuno che ancora non ha capito quale sia l’importanza del cosiddetto “media news cycle”, ovvero il ciclo giornaliero delle news americane, vorrei offrirgli questa breve riflessione. Io per abitudine guardo la “Cnn” almeno un’ora al giorno. Nell’arco di quell’ora, infatti, mi rendo conto di quale sia il ciclo particolare delle news di quel giorno (dopo un’ora le notizie cominciano a ripetersi, e a meno di eventi eccezionali non cambiano più fino al giorno dopo). Partiamo quindi dal clamoroso scoop del “Washington Post”, che venerdì 7 ottobre ha reso pubblico il video del 2005 nel quale Donald Trump si vantava di poter fare alle donne tutto quello che vuole, “perché tanto lui è famoso”. Non appena compresa l’importanza della notizia Trump è corso ai ripari, e nel giro di 8 ore (venerdì sera) ha pubblicato su Facebook un video nel quale “si scusava” per quelle dichiarazioni, giustificandosi con il fatto che «però Bill Clinton ne racconta di molto peggio, quando andiamo insieme a giocare a golf».
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Macchina del fango, contro Trump la grande stampa Usa
Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani – “Corriere”, “Stampa” e “Repubblica” – decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c’è qualcosa di poco “giornalistico” in un’operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il “New York Times”, il “Washington Post” e il “Los Angeles Times”, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il “Los Angeles Times” usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il “New York Times” e il “Washington Post”, che in un’azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell’uomo che nell’arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali.Il “Washington Post” ha pubblicato un paginone nel quale raccoglie tutte le presunte bugie e false affermazioni pronunciate da Trump negli ultimi mesi. Naturalmente, pur di aumentare il volume delle presunte “bugie”, il “Washington Post” non si fa scrupoli nell’elencare anche delle semplici opinioni di Donald Trump, che fa passare come “falsità” solo perché non sono supportate dai fatti (“unsupported claim”). Il “New York Times” è andato addirittura oltre, mettendo insieme una squadra di 20 giornalisti che sono stati incaricati di scavare nel passato di Trump, pur di far saltare fuori qualcosa di spiacevole sul suo conto. Ne è uscita una lista con dozzine di donne che sostengono di aver avuto con Trump un rapporto “ambiguo”, dove lui le avrebbe “usate” e contemporaneamente “denigrate” per il solo fatto di essere donne. Naturalmente, a nessuno del “New York Times” è venuto in mente che in certi casi possa essere la donna stessa a cercare questi rapporti “ambigui”, per ottenerne un chiaro vantaggio personale. Si chiama dare per avere. Berlusconi docet. Insomma, lo sbilanciamento contro Trump da parte delle testate più importanti è talmente evidente che porta a fare una riflessione: come mai in media di sistema temono così tanto un personaggio come Trump?Lo detestano semplicemente perchè è razzista e maschilista, o c’è sotto qualcosa di ben più grosso? (Di certo una presidenza Trump metterebbe un grosso freno alla politica imperialista espansionistica di Usa e Israele in Medio Oriente, tanto per dirne una). Ma la cosa più divertente è che i direttori di tutte queste testate si sono dimenticati di una cosa fondamentale: chi vota Donald Trump non legge certo né il “Los Angeles Times”, né il “New York Times” o il “Washington Post”. All’elettore razzista e xenofobo dell’Alabama non può fregar di meno di come Trump tratti le donne, e gliene frega ancor di meno del fatto che racconti bugie, visto che queste bugie coincidono regolarmente con quello che l’elettore repubblicano vuole sentirsi raccontare. Abbiamo quindi una totale spaccatura, sia a livello mediatico che a livello popolare, fra l’“intellighenzia” americana (localizzata sulle coste dell’Atlantico e del Pacifico) e il cuore profondo degli Stati Uniti, localizzato nel grande Mid-West, che ancora batte per veder sventolare in cima al Campidoglio la bandiera dei confederati. In America la Guerra Civile non è ancora finita. Quella di novembre sarà certamente una elezione che va ben oltre la semplice scelta fra un candidato democratico e uno repubblicano.(“Massimo Mazzucco, “La macchina del fango contro Donald Trump”, da “Luogo Comune” del 15 maggio 2016).Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani – “Corriere”, “Stampa” e “Repubblica” – decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c’è qualcosa di poco “giornalistico” in un’operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il “New York Times”, il “Washington Post” e il “Los Angeles Times”, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il “Los Angeles Times” usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il “New York Times” e il “Washington Post”, che in un’azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell’uomo che nell’arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali.
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Uranio e diamanti, gli Usa in Africa coi tagliagole Seleka
La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone – la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.Il gruppo con il quale le forze Usa hanno instaurato un collegamento è conosciuto come i ribelli Seleka, i cui membri sono a maggioranza musulmana. Negli ultimi due anni, i Seleka si sono impegnati in una guerra di bassa intensità con la fazione cristiana rivale “anti-Balaka” in una lotta di potere per il controllo del paese. La Repubblica Centrafricana è ricca di oro, diamanti, legname e uranio. Lo Stato, senza sbocco al mare, ha una massa equivalente a quella della sua ex potenza coloniale francese, ma una popolazione inferiore al 10% della Francia. Dall’ottenimento dell’indipendenza dalla Francia nel 1960, il paese ha assistito a cinque colpi di Stato, alcuni con il coinvolgimento segreto francese. Migliaia di civili sono stati uccisi finora nel ciclo di violenza settaria che dura da due anni, con milioni di sfollati, che spesso cercano rifugio in nascondigli di fortuna nella giungla. Il reale pericolo è che il percepito sostegno americano per un lato rispetto all’altro potrebbe innescare una strage ancora su maggiore scala.La scorsa settimana, il “Washington Post” ha riferito che le forze speciali americane avevano istituito una base nella giungla del nord-est della Repubblica Centrafricana, dove la milizia Seleka ha la propria roccaforte. «Il Pentagono non aveva precedentemente rivelato che stava cooperando con i Seleka ed otteneva informazioni dai ribelli. L’accordo ha messo le truppe americane in una posizione scomoda», secondo il “Post”. L’obiettivo dichiarato delle forze armate statunitensi è dare la caccia ad un noto signore della guerra, Joseph Kony, che gestisce un gruppo di guerriglia conosciuto come l’Esercito di Resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army – Lra). Kony e il suo Lra sono da ritenersi responsabili di atrocità di massa e del reclutamento di bambini soldato. Originario dell’Uganda, Kony e l’Lra guadagnarono notorietà quando l’ente di beneficenza statunitense Invisible Children diffuse un video quasi quattro anni fa che pubblicizzava le violazioni commesse del gruppo.Con le varie celebrità americane che avallavano il video, il presidente Usa Barack Obama inviò forze speciali in quattro paesi africani con la missione di rintracciare Kony ed i suoi complici. Questi paesi sono l’Uganda, il Sud Sudan, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana. Finora, Kony ha eluso la cattura, anche se Washington ha posto una taglia di 5 milioni di dollari sulla sua testa. Si ritiene che egli sia rintanato in una zona remota della giungla a cavallo tra i confini dei quattro paesi africani in cui le forze speciali degli Stati Uniti operano. Il terreno è costituito da una fitta giungla con poche strade e si dice copra un’area delle dimensioni della California. «Immaginate la ricerca di 200 criminali in un’area delle dimensioni della California coperta dalla giungla», afferma un funzionario militare statunitense citato dal “Post”. «Tra bracconieri, commercio di avorio e l’Lrs, non si sa chi è chi».In questa caccia sfuggente al signore della guerra Kony ed al suo Lra, i militari americani si stanno rivolgendo alla milizia Seleka per “informazioni”. Ma, come noto, quel legame con i Seleka sta causando qualche preoccupazione tra le truppe Usa sul terreno. Questo perché i Seleka hanno guadagnato una reputazione per le atrocità alla pari con quelle di Kony e dell’Lra, tra cui l’assassinio di civili, lo stupro di donne e il reclutamento di bambini soldato nei loro ranghi. Il “Post” riferisce: «Secondo i funzionari militari statunitensi, la squadra di truppe Usa a Sam Ouandja [la base nella giungla della Repubblica Centrafricana nord-orientale] si incontra regolarmente con i capi Seleka, ottiene informazioni dai ribelli e talvolta fornisce assistenza medica ai lealisti Seleka». Il documento aggiunge: «La cooperazione è un argomento delicato. Il Pentagono non pubblicizza i suoi rapporti con i Seleka e ha rifiutato di commentare in dettaglio le interazioni».La riluttanza del Pentagono a “pubblicizzare i propri rapporti” non è sorprendente. Nel 2013, la statunitense Human Rights Watch ha registrato un regno di terrore sotto i Seleka nella Repubblica Centrafricana, riferendo come le sue forze «hanno distrutto numerosi villaggi rurali, saccheggiato diffusamente nel paese e violentato donne e ragazze». “Hrw” ha riferito sulle uccisioni extragiudiziali perpetrate dai Seleka, alcune che coinvolgono l’assassinio di bambini con il taglio della gola. In un attacco brutale il 15 aprile 2013, il gruppo per i diritti ha riferito: «La milizia Seleka ha ucciso la 26enne moglie e la figlia diciottenne di un autista di camion, il cui veicolo volevano per trasportare merci rubate. Un testimone ha descritto come i Seleka hanno sparato al bambino nlla testa, prima di uccidere la madre mentre si avvicinava alla porta della casa di famiglia». In base alle sue scoperte, “Hrw” ha raccomandato che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe imporre sanzioni a tutti i capi Seleka.In un’altra atrocità riportata a maggio 2014, i militanti Seleka hanno ucciso 11 fedeli in una chiesa nella capitale Bangui, lanciando granate nell’edificio e attaccando la congregazione con armi da fuoco. Ma il Pentagono sta ora in collegamento con questa stessa milizia nella sua missione che dovrebbe rintracciare il signore della guerra Joseph Kony e il suo esercito di sbandati. I Seleka non sono certo l’unica milizia fuorilegge, operante nella Repubblica Centrafricana. La cristiana anti-Balaka ha perpetrato altrettante atrocità contro la minoritaria comunità musulmana del paese. Il presidente ad interim Catherine Samba Panza, che ha dovuto tornare in fretta dalla recente Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York a causa del deterioramento della situazione nel paese, ha accusato elementi del deposto presidente François Bozizé anche di orchestrare le violenze. Bozizé, che è cristiano, si era già avvalso della patrocinio della ex potenza coloniale francese, prima di essere cacciato dal paese dai Seleka nel marzo 2013.Il punto è che la tragedia che si svolge in Repubblica Centrafricana mostra come l’ingerenza da parte delle potenze occidentali serve a versare benzina sul fuoco di un esplosivo conflitto intestino. La dubbia missione delle forze speciali Usa nelle giungle dell’Africa – suppostamente per la cattura di un signore della guerra – sta avendo l’effetto di allineare Washington in una guerra civile che si va inasprendo, e al fianco di elementi le cui mani grondano di sangue. La scena è stata preparata per un’intensificazione ancora più sanguinosa. Il coinvolgimento di Washington può finora apparire come un fattore clandestino, ma non è meno incendiario. Si tratta di un ruolo incendiario che Washington interpreta ripetutamente, come visto in altri conflitti in corso, dalla Siria all’Iraq passando per l’Ucraina.(Finian Cunningham, “La mano nascosta di Washington nella guerra in Africa Centrale”, da “Stampa Libera” del 9 ottobre 2015).La scorsa settimana, decine di civili sono stati uccisi in scontri tra milizie cristiane e musulmane nella capitale della Repubblica Centrafricana, Bangui. L’ultimo ciclo di violenza è stato innescato dopo che un tassista musulmano è stato attaccato e decapitato da bande armate di machete. Fatto che a sua volta ha portato a rappresaglie contro le comunità cristiane. Il responsabile degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite Stephen O’Brien ha avvertito che il paese è sull’orlo del disastro, con più di 40.000 persone che hanno abbandonato la capitale nei giorni scorsi. In totale, circa 2,7 milioni di persone – la metà della popolazione – sono a rischio di essere tagliati fuori dagli aiuti umanitari da cui dipendono per la sopravvivenza. Il peggioramento del conflitto confessionale sta semplicemente rendendo troppo pericolosa l’opera delle agenzie di soccorso. A poter aggiungere benzina a questa crisi è la rivelazione della scorsa settimana che forze speciali Usa sono in collegamento con una delle milizie nella Repubblica Centrafricana.
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Caccia al nero, polizia killer: prove generali per Usa 2016
Stava durando a lungo, il silenzio dei media nostrani dagli Usa, che di solito riportano ogni piccolo soffio dal loro baricentro americano. Eppure hanno bucato per giorni una notizia di gran peso: un’importante città statunitense, Baltimora, vive ore di tensione drammatica dopo l’ennesimo episodio di violenza poliziesca, l’assassinio di Freddy Gray, un 25enne troppo poco bianco per gli standard della polizia d’oltreoceano. I nostri media, che cercano brutalità poliziesche solo ad Est, provano a non accorgersi di quel che accade a Ovest, né mettono in primo piano le esplosioni di rabbia che una folla inferocita di baltimoriani sta rivolgendo a ogni livello di autorità in risposta all’ennesima goccia di sangue che fa traboccare il vaso afroamericano. “La Repubblica” on line, per esempio, ha ammortizzato la notizia puntando tutto sul buffo video che mostra un’energica Big Mama prendere a ceffoni il figlio adolescente che partecipa alla sedizione. Il risultato è che il lettore sa poco della sedizione e si immerge nella melassa della “nuova icona social della rivolta”, senza nemmeno accedere allo hashtag autenticamente social del momento, #BaltimoreRiots.A volerle vedere, c’erano ben altre potenti icone. Come ci fa notare il blogger Zeroconsensus, i manifestanti si sono impadroniti perfino del municipio cittadino, ammainando la bandiera americana con i suoi tipici colori blu e rosso per issarne una dove i colori sono sostituiti dal nero. Provo a immaginare una scena simile in una metropoli russa, e immagino quale sarebbe stata la copertura dei nostri media. Secondo una recente statistica, oltre tremila persone sono state uccise dalla polizia statunitense a partire da maggio 2013, con una tendenza all’aumento degli episodi, punta dell’iceberg di un sistema vessatorio diffuso. Per rendersi conto di quanto questo sistema sia abnorme, si consideri che in Regno Unito nel 2013 la polizia non ha ucciso nessuno in un conflitto a fuoco, nel 2012 solo un individuo. “The Economist” calcola grosso modo che un cittadino britannico ha cento volte meno probabilità di un cittadino americano di essere ammazzato da un poliziotto. I dati europei non si discostano di molto. Questo tremendo calcolo di probabilità in Usa ha un’ulteriore distorsione: gli afroamericani sono poco meno del 13 per cento della popolazione, ma sono il 37 per cento delle vittime di uccisioni “legalmente giustificate”.Finisce qui? Macché. Frida Ghitis, in un editoriale sul sito della “Cnn”, spiega che il concetto di uccisioni “legalmente giustificate” contiene un’enorme rimozione, per la quale nessuna agenzia federale vuole fare uno straccio di statistica, ossia: quante sono le uccisioni che non sono legalmente giustificate? L’Fbi compila soltanto le statistiche che le inviano volontariamente appena 750 su 17.000 agenzie incaricate di far rispettare la legge. E le altre 16.250 agenzie che volontariamente non inviano nulla? Gli studiosi di criminologia analizzano in dettaglio queste discrepanze, sollevando di qualche migliaio il già spaventoso numero dei morti. In pratica, anche il “Washington Post” ha descritto una nuova strana forma di segreto di Stato: il non voler sapere. Che poi significa il non voler far sapere un ritratto spiacevole del potere in America. Ecco perché nelle dure manifestazioni di piazza sono tanti i giovani afroamericani che tengono un cartello: “Am I The Next?” (sono io il prossimo?).A Baltimora non bastano più nemmeno gli agenti in tenuta antisommossa. Bande numerose – composte sia da adolescenti sia da rivoltosi adulti – lanciano ogni tipo di oggetto anche sulla nuova generazione di agenti vestiti come Robocop, mentre rifiutano ogni tardiva offerta di dialogo. La polizia fa largo uso di lacrimogeni e proiettili di gomma, con centinaia di arresti e coprifuoco notturno (per i minorenni addirittura anche diurno), intanto che i grossi ipermercati e anche la University of Maryland serrano i loro cancelli. Eppure, non parliamo certo di una città degradata come Detroit, né di un ghetto di New Orleans, ma di una metropoli fra le più prospere degli Usa. Il biotech e l’elettronica militare a Baltimora hanno a disposizione catene brevettuali e centri di ricerca che assicurano lavoro e investimenti di qualità, all’avanguardia nel mondo. Cosa dimostra questo fatto? Dimostra che il caos può accadere ovunque negli Stati Uniti, data la postura della polizia americana, ovunque la stessa, ovunque con il grilletto facile, tanto nelle città scoppiate quanto nelle città in boom.Anche le autorità si sono accorte che la tenuta dell’ordine pubblico non regge alle condizioni attuali. Né tanto meno reggerebbe di fronte a un peggioramento dell’economia, ormai nell’ordine delle cose nonostante la vuota retorica sulla ripresa Usa. In risposta, però, il potere non sceglie “più democrazia”, ma “più tecnologia”, più Swat, più Robocop. Cioè una polizia più arcigna, invadente, militarizzata, meno capace di intelligence sociale, e perciò più pericolosa. Durante l’esercitazione militare denominata Jade Helm 15 – a partire da metà luglio fino a metà settembre 2015 – agenti militari si mescoleranno alla popolazione civile e potranno identificare eventuali “sacche ostili”. Come riassume “L’Antidiplomatico”, la cosa non è rassicurante: «Nonostante le smentite ufficiali dell’esercito che esclude l’introduzione della legge marziale negli Usa, esistono dei manuali operativi in proposito e uno è stato pubblicato nel 2006, utilizzato per un corso presso la scuola di polizia militare a Fort McClellan che fornisce le direttive per contrastare eventuali insurrezioni civili». Intanto a Baltimora sono stati inviati migliaia di soldati della Guardia Nazionale, preceduti da un’avanguardia di decine di automezzi Humvees blindati.Nei due anni finali del mandato del primo presidente nero, Barack Obama, la questione afroamericana ha tutta l’aria di dover pesare costantemente nella nuova campagna elettorale, ormai iniziata. Il clima tuttavia non è quello di una nuova stagione dei diritti civili, né a Baltimora né altrove negli Usa. Il sistema washingtoniano sembra pronto a usare questo clima incandescente per assecondare ogni nuovo salto verso l’aumento dei mezzi di sorveglianza-controllo-repressione, in coerenza con tutta la linea politica usata a partire dai mega-attentati dell’11 settembre 2001. Lo Usa Patriot Act, le nuove leggi liberticide, e poi il sistema totalitario di sorveglianza rivelato dallo scandalo Datagate erano appena i primi assaggi di una nuova strategia della tensione.(Pino Cabras, “Caos razziale a Baltimora, prove generali per Usa 2016”, da “Megachip” del 29 aprile 2015).Stava durando a lungo, il silenzio dei media nostrani dagli Usa, che di solito riportano ogni piccolo soffio dal loro baricentro americano. Eppure hanno bucato per giorni una notizia di gran peso: un’importante città statunitense, Baltimora, vive ore di tensione drammatica dopo l’ennesimo episodio di violenza poliziesca, l’assassinio di Freddy Gray, un 25enne troppo poco bianco per gli standard della polizia d’oltreoceano. I nostri media, che cercano brutalità poliziesche solo ad Est, provano a non accorgersi di quel che accade a Ovest, né mettono in primo piano le esplosioni di rabbia che una folla inferocita di baltimoriani sta rivolgendo a ogni livello di autorità in risposta all’ennesima goccia di sangue che fa traboccare il vaso afroamericano. “La Repubblica” on line, per esempio, ha ammortizzato la notizia puntando tutto sul buffo video che mostra un’energica Big Mama prendere a ceffoni il figlio adolescente che partecipa alla sedizione. Il risultato è che il lettore sa poco della sedizione e si immerge nella melassa della “nuova icona social della rivolta”, senza nemmeno accedere allo hashtag autenticamente social del momento, #BaltimoreRiots.
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Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.E’ sempre Israle che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», schiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.
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La ricchezza non gocciola: sempre più ricchi, a nostre spese
La dottrina del trickle-down esprime l’idea per cui la ricchezza di pochi finirà con ricadere vantaggiosamente sull’intera collettività, compresi i ceti meno abbienti. Risale agli anni di Reagan, e si sviluppa coerentemente all’interno di quell’ideologia che vede nel libero mercato la migliore e unica forma di interazione economico-sociale, attribuendogli taumaturgiche virtù auto-regolanti in un contesto di perfetta concorrenza, privo di asimmetrie informative, e dove la funzione dello Stato – detentore del potere coercitivo – dev’essere strettamente limitata a garantirne le condizioni ottimali di sviluppo. Il neoliberismo, all’epoca di Reagan, aveva già iniziato quel percorso che lo avrebbe portato, nel giro di qualche anno, a essere l’ideologia di riferimento della globalizzazione: fin dagli anni Settanta i Chicago-boys di Friedman avevano potuto farsi le ossa e testare la bontà della shock-economy presso le dittature sudamericane; Fmi e Banca Mondiale si stavano orientando decisamente verso quelle direttive di politica economica che in seguito sarebbero state formalizzate sotto il nome di “Washington consensus”.Il termine trickle-down può essere tradotto con la parola “gocciolamento”. Un’espressione che evoca processi naturali, e che serve a dare alla dottrina un carattere di spontaneità irrefutabile.I neoliberisti sono bravi, in queste narrazioni: l’arbitrio che viene tradotto come libertà di decisione; la subordinazione del bene individuale a quello comune descritta come una prevaricazione indebita dello Stato; la tutela dei più deboli vista come incoraggiamento alle tendenze parassitarie; i meccanismi di previdenza accusati di essere de-responsabilizzanti.(Esempi recenti li troviamo nella retorica della compagine governativa, in particolare quella del nostro caro leader, il facondo Renzi. L’ultimo che mi ha colpito è stata quando a proposito dell’idea di mettere il Tfr in busta paga ha affermato, più o meno, che doveva finire l’epoca dello “Stato-mamma”). In rete mi sono imbattuto in una vignetta che illustra molto bene il concetto di Trickle-down, come ce lo raccontano e come funziona veramente. Molto carina, vero?, ma restava una metafora senza supporto scientifico.Manco a farlo apposta, leggo sul “Washington Post” un articolo di Christopher Ingram a commento del grafico costruito da Pavlina Tcherneva sulla base di dati ricavati dal recente lavoro di Piketty. Il titolo dell’articolo è significativo: “Il deprimente grafico che segue dimostra che i ricchi non si stanno impossessando della fetta di torta più grande: si stanno prendendo tutta la torta”. Il grafico lo trovate qui sotto: rappresenta la distribuzione dell’incremento dei redditi dal secondo dopoguerra a oggi, fra il 10% più ricco della popolazione (in rosso) e il restante 90% (in blu), e dimostra che una quota sempre maggiore di ricchezza prodotta finisce nelle tasche dei più facoltosi. Notare l’inesorabile declino della quota blu a beneficio di quella rossa, culminato con il crollo degli anni ’80 grazie agli effetti della reaganomics e della pretestuosa trickle-down theory. Notare anche come la quota blu non solo è andata diminuendo, ma negli ultimi anni è diventata in termini reali addirittura negativa. Il grafico non dice nulla che non sapessimo o sospettassimo già, ma lo dice in maniera molto eloquente. Va ricordato però che sono dati riferiti alla realtà statunitense. Dati europei, ne sono convinto, mostrerebbero una distribuzione molto più equilibrata. O no?(Mauro Poggi, “Tricke-up, la ricchezza non gocciola”, da “Appello al Popolo” del 1° novembre 2014).La dottrina del trickle-down esprime l’idea per cui la ricchezza di pochi finirà con ricadere vantaggiosamente sull’intera collettività, compresi i ceti meno abbienti. Risale agli anni di Reagan, e si sviluppa coerentemente all’interno di quell’ideologia che vede nel libero mercato la migliore e unica forma di interazione economico-sociale, attribuendogli taumaturgiche virtù auto-regolanti in un contesto di perfetta concorrenza, privo di asimmetrie informative, e dove la funzione dello Stato – detentore del potere coercitivo – dev’essere strettamente limitata a garantirne le condizioni ottimali di sviluppo. Il neoliberismo, all’epoca di Reagan, aveva già iniziato quel percorso che lo avrebbe portato, nel giro di qualche anno, a essere l’ideologia di riferimento della globalizzazione: fin dagli anni Settanta i Chicago-boys di Friedman avevano potuto farsi le ossa e testare la bontà della shock-economy presso le dittature sudamericane; Fmi e Banca Mondiale si stavano orientando decisamente verso quelle direttive di politica economica che in seguito sarebbero state formalizzate sotto il nome di “Washington consensus”.
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Falchi, Wall Street e Israele: tutti pazzi per Hillary Clinton
Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.Se la propaganda presenterebbe la candidatura come opportunità di ringiovanimento e simbolo di speranza e cambiamento, ci pensa “Politico Magazine” a chiarire “perché Wall Street ama Hillary”, spiega Greenwald, in un post ruipreso da “Controinformazione”. «Giù a Wall Street non credono alla retorica populista della Clinton neanche per un minuto», scrive il magazine. «Mentre l’industria finanziaria effettivamente odia Warren, i grandi banchieri amano la Clinton e in linea di massima la vogliono a tutti i costi come presidente». Tra i super-banchieri dalla sua parte, oltre a Blankfein, spiccano James Gorman e Tom Nides (Morgan Stanley), nonché i capi di Jp Morgan Chase e Bank of America. «Considerano la Clinton una pragmatica risolutrice di problemi poco propensa alla retorica populista», scrive “Politico Magazine”. «Per loro è una che ha l’idea che tutti beneficiamo se Wall Street e il business americano prosperano». Ardente retorica populista? «Nessuno di loro pensa che lei faccia sul serio». La sostanza: «Wall Street, soprattutto, ama i vincitori, tanto più quelli che difficilmente toccheranno troppo il suo salvadanaio».Altro caposaldo della scalata di Hillary, la lobby israeliana. «Se dovesse diventare presidente, rapporti migliori con Israele sarebbero praticamente garantiti», assicura “Foreign Policy”. «Non dimentichiamo che i Clinton hanno già trattato con Bibi primo ministro». Non è mai stato facile, ma il rapporto con Netanyahu era chiaramente «molto più produttivo di quanto vediamo adesso», con Obama. Hillary? «E’ buona per Israele e si relaziona al paese in un modo in cui questo presidente non fa». La Clinton «è di un’altra generazione, e ha lavorato in un mondo politico in cui essere buoni per Israele era sia obbligatorio che intelligente», cioè conveniente. «Siamo chiari: quando si tratta di Israele, non esiste un Bill Clinton 2.0». L’ex presidente è stato probabilmente “unico”, sia «per la profondità dei suoi sentimenti per Israele» che per «la sua disponibilità a mettere da parte le proprie frustrazioni per certi aspetti del comportamento di Israele, come gli insediamenti». Ma questa intesa vale anche per Hillary, garantisce “Foreign Policy”. «Sia Bill che Hillary sono così innamorati dell’idea di Israele e della sua storia unica che sono propensi a fare certe concessioni sul comportamento del paese, come la continua costruzione di insediamenti».Poi ci sono loro, gli interventisti (ovvero i fanatici della guerra). Come Robert Kagan, il super-falco dell’entourage di Obama, marito di Victoria Nuland, architetto del golpe di Kiev per rovesciare il governo ucraino regolarmente eletto e aprire la sfida anche militare con Mosca. Molti “interventisti” come Kagan ripongono le loro speranze proprio nella Clinton, conferma il “New York Times”. «Mi sento a mio agio con lei in politica estera», ha ammesso Kagan, aggiungendo che il prossimo passo, dopo l’approccio “realista” di Obama, «potrebbe in teoria essere qualsiasi cosa Hillary porti in tavola», se eletta alla presidenza. «Se perseguirà la politica che noi crediamo perseguirà», ha aggiunto Kagan, «è qualcosa che si potrebbe chiamare neoconservatrice, ma chiaramente i suoi sostenitori non la definiranno così, la chiameranno in modo diverso». Di fatto, però, le idee sono quelle dei neo-con. Che sempre il “New York Times” ipotizza siano pronti ad allearsi con Hillary, «dopo quasi un decennio di esilio politico». Ovvero: «Mentre castigano Obama, i neo-con forse si stanno preparando per un’impresa più sfrontata: allinearsi con Hillary Rodham Clinton e la sua nascente campagna presidenziale, nel tentativo di tornare al posto di comando della politica estera americana». Lo conferma Max Boot, membro del Council on Foreign Relations: «Nei consigli dell’amministrazione, Hillary era una voce di principio per una posizione forte su questioni controverse, che fosse a supporto dell’insorgenza afghana o dell’intervento in Libia».Esatto: «La signora Clinton ha votato per la guerra in Iraq, ha supportato l’invio di armi ai ribelli siriani, ha paragonato il presidente russo Putin ad Adolf Hitler», scrive il “New York Times. Tuttora, Hillary «supporta appassionatamente Israele e sottolinea l’importanza di “promuovere la democrazia”». Dunque, «è facile immaginare che la signora Clinton nella sua amministrazione farà spazio ai neo-con. Nessuno la potrebbe incolpare di essere debole, nella sicurezza nazionale, con uno come Robert Kagan a bordo». Nel 1972, il primo a tracciare l’identità trasversale della lobby neo-con fu Robert Bartley, editorialista del “Wall Street Journal”, vicino ai neo-con: Bartley, dice il “New York Times”, «definì acutamente il movimento come “un gruppo altalenante tra i due maggiori partiti”», nonostante la decantata democrazia dell’alternanza bipolare. «Perciò beccatevi questo, cinici», conclude Greenwald. «Ci sono sacche di vibrante eccitazione politica che si stanno entusiasmando nel paese per una presidenza di Hillary Clinton. Si fanno poster, si attaccano distintivi, si preparano assegni, si bramano appuntamenti. I costituenti uniti, alleati, sinergici della plutocrazia e della guerra senza fine hanno la loro beneamata candidata. Ed è davvero difficile argomentare che la loro eccitazione ed affetto non sia giustifica».Aiuto, arriva Hillary Clinton. Facile fare i cinici, di fronte all’inevitabile e imminente campagna presidenziale dell’ex first lady, avverte Glenn Greenwald, che la definisce «una veterana dei giochi di potere di Washington», una persona «squallidamente senz’anima, priva di principi, assetata di potere». A prenotare la Casa Bianca dopo Obama è «il politico americano più banale che possa esserci». Unica qualità teorica: sarebbe la prima presidente donna. Aspetto che verrà sfruttato al massimo, «per oscurare il suo ruolo di guardiana dello status quo», neoliberista e imperiale. Non è solo amica dei grandi “bankster” di Wall Street: è la loro candidata numero uno. In più è la moglie di Bill: «Che sia la beneficiaria di una successione dinastica la rende ancora più invitante, per un mix di noia e disprezzo». Per il “Washington Post”, lei e il marito hanno “guadagnato” decine di milioni di dollari, «in gran parte parlando a globalisti, gruppi industriali, fondi avvoltoio». Il peggio di Wall Street tifa Hillary, a cominciare dal famigerato boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein.
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Attkisson, star della Cbs: è il potere a dettarci i telegiornali
C’era una volta la stampa americana. E in parte esiste ancora, ma soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà. Dai tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte della propria credibilità, sotto i colpi di una serie di inefficienze e talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media, l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero. Ora la Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall”. In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti americani siano liberal, ovvero di sinistra, e che riservino a Obama un atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era già stato denunciato da alcuni studiosi. Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni invisibili con l’establishment.
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Roberts: mentecatti europei, pagati per portarvi in guerra
Pagliacci pericolosi, pagati per mentire. Dal portoghese José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea prima del degno sostituto Juncker, fino al danese Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Obbediscono agli ordini di chi li ha piazzati al vertice: gli Stati Uniti. E l’ordine è semplice: raccontare il contrario della verità, in modo da “orientare” l’opinione pubblica grazie ai media mainstream, anch’essi “zerbini” del super-potere come i loro editori, per nulla indipendenti. E’ la dura accusa lanciata sul blog “Counterpunch” da Paul Craig Roberts, già editor e viceministro di Reagan, indignato per la criminale manipolazione delle notizie sul fronte ucraino, orchestrata dallo staff di Obama. E perché gli europei non si ribellano, visto che hanno tutto da perdere in caso di un’escalation con la Russia? Perché noi americani li paghiamo, scrive Roberts: tutti i leader europei sono stati elevati a ruoli di comando dallo Zio Sam. Grazie agli Usa hanno fatto carriera e ricevuto denaro a palate. Per questo, sono pronti a dire (e fare) qualsiasi cosa. Anche la guerra, persino contro una superpotenza nucleare.«Herbert E. Meyer, un pazzo che per un periodo aveva occupato il ruolo di assistente speciale del direttore della Cia durante l’amministrazione Reagan, ha scritto un articolo invitando all’assassinio del presidente russo Vladimir Putin», riferisce Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Dice l’ex uomo Cia: «Se dobbiamo farlo uscire dal Cremlino con i piedi in avanti e un foro di proiettile nella nuca, non avremmo problemi». Assassinare Putin? «Come il folle Meyer spiega – ribatte Roberts – il delirio che Washington ha diffuso nel mondo non ha limiti». Lo provano, su un altro piano, le bugie di Barroso, «messo alla presidenza della Commissione Europea come burattino degli Usa». Dopo una recente telefonata con Putin, Barroso ha raccontato ai media che il capo del Cremlino avrebbe espresso la seguente minaccia: «Se volessi, potrei prendermi Kiev in due settimane». C’è da mettersi a ridere, dice Roberts: «Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la disparità tra le forze russe e ucraine sa più che bene che alla Russia basterebbero 14 ore, e non 14 giorni, per prendersi l’Ucraina».Basta ricordarsi cosa accadde all’armata georgiana «addestrata e armata da Usa e Israele quando Washington aveva piazzato i suoi bambolotti georgiani nell’Ossezia del Sud». Le forze georgiane, precisa Roberts, sono collassate sotto il contrattacco russo in appena 5 ore.In ogni caso, «Putin non ha minacciato nessuno: una minaccia non sarebbe coerente con l’intero approccio attendista di Putin alla minaccia strategica che Washington e i suoi burattini della Nato hanno mosso alla Russia in Ucraina». Il rappresentante permanente della Russia all’Ue, Vladimir Chizhov, ha detto che se la menzogna di Barroso non verrà ritrattata, la Russia divulgherà la registrazione dell’intera conversazione. «La bugia che la marionetta di Washington Barroso ha raccontato non è degna di una persona rispettabile», scrive Roberts. «Ma dove, in Europa, c’è qualcuno di rispettabile al potere? Da nessuna parte. Le poche persone serie sono del tutto fuori dai centri di potere».Al vertice c’è gente come Rasmussen: era solo il premier della piccola Danimarca, e un giorno capì che «avrebbe potuto salire oltre, diventando una marionetta degli Usa». Come? Per esempio supportando l’invasione illegale dell’Iraq. E quindi, mentendo: «Sappiamo – disse – che Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa». Il danese conosceva le regole: «Chi serve Washington fa carriera, e Rasmussen ne ha fatta». Osserva Craig Roberts: «Il problema del mettere in certe posizioni dei mentecatti è che essi rischierebbero il mondo per la loro carriera». Ora, secondo l’ex viceministro di Reagan, il segretario della Nato ha «messo a rischio la sopravvivenza di tutta l’Europa, occidentale e orientale», annunciando al vertice di Newport la creazione di una forza speciale di attacco capace di operazioni-lampo in Russia. Ciò che «il burattino di Washington chiama “piano di azione immediata”» è giustificato come una risposta al quello che viene definito «l’atteggiamento aggressivo della Russia in Ucraina». Tutto falso, ovviamente. Inoltre, la “forza d’attacco fulminea” di Rasmussen «verrà spazzata via così come ogni capitale europea». Aggiunge Roberts: «Che tipo di idiota provoca in questo modo una superpotenza nucleare?». Risposta: un “idiota” prezzolato, riempito di dollari e quindi ricattabile.Racconta Craig Roberts: «Il mio professore di dibattito all’università, che è diventato un alto ufficiale del Pentagono con il compito di terminare la guerra in Vietnam, in risposta alla mia domanda su come Washington faccia sempre fare all’Europa ciò che vuole ha detto: “Soldi, diamo loro soldi”. “Aiuti stranieri?”, ho chiesto. “No, diamo ai politici europei un sacco di soldi. Loro sono in vendita. Noi li compriamo, e loro ci rendono conto”. Forse – aggiunge Roberts – questo spiega i 50 milioni di dollari guadagnati da Blair, in un anno, con il suo ufficio». Facile prendersela con Mosca, inventando di sana pianta ogni accusa: «La Russia se ne è stata in disparte mentre il governo-marionetta di Kiev ha accerchiato e bombardato insediamenti civili, ospedali, scuole, e lanciato una serie costante di bugie». Putin ha persino respinto le richieste delle province ora indipendenti del Sud e dell’Est dell’Ucraina, in passato territori russi, di venire nuovamente annesse. La verità è esattamente opposta: «Sono le milizie naziste ucraine ad attaccare i civili nei territori che appartenevano alla Russia». Infatti, «molti militari ucraini hanno disertato a favore delle repubbliche indipendenti».A quei soldati disertori non piaceva l’idea di bombardare civili inermi e di combattere accanto a dei neonazisti, alcuni ripresi con la svastica stampata sull’elmetto. «L’Ucraina dell’Ovest – ricorda Craig Roberts – è la dimora delle divisioni ucraine delle SS che combatterono al fianco di Hitler. Oggi le milizie organizzate dal “Right Sector” e altri partiti politici di destra indossano la divisa delle divisioni ucraine delle SS. Queste sono le persone che Washington e l’Ue sostengono. Se i nazisti ucraini potessero vincere contro la Russia, e non possono, si rivolterebbero all’Occidente. Esattamente come l’Isis, creato da Washington, e che Washington ha sguinzagliato contro Siria e Libia. Ora l’Isis sta ricreando un Medio Oriente unito, e Washington non sembra in grado di reagire. William Binney, un ex ufficiale dell’Nsa, ha scritto alla cancelliera tedesca Angela Merkel avvertendola di difendersi dalle menzogne di Obama al summit della Nato in Galles. Gli ufficiali dell’intelligence statunitense avvertono la Merkel di ricordarsi delle “armi di distruzione di massa” irachene e di non farsi ingannare nuovamente, entrando stavolta in conflitto con la Russia».La domanda è: chi rappresenta la Merkel? Washington o la Germania? «Fino ad ora», nella vertenza con Mosca sull’Ucraina, la cancelliera «ha rappresentato Washington, non gli interessi dell’economia tedesca, non il popolo tedesco, non la Germania come nazione», sostiene Roberts, ricordando che in una manifestazione di protesta, a Dresda, una folla ha ostacolato il discorso della Merkel gridandole “kriegstreiber” (guerrafondaia), “bugiarda” e “nessuna guerra contro la Russia”. Nulla, comunque, che abbia perforato il muro dei media mainstream, silenzio e menzogna. «I media occidentali, la più grande casa chiusa del mondo, agognano la guerra». Craig Roberts denuncia il “Washington Post”, «un giornale-trofeo nelle mani del proprietario miliardario di “Amazon.com”», divenuto «un zimbello mondiale» per «le bugie di Washington» su Putin, «sbrodolate» in editoriali come quello del 31 agosto. Putin avrenne «resuscitato la tirannia» per ricostituire l’impero russo. «Come ex editore del “Wall Street Journal” – replica Paul Craig Roberts – posso dire con assoluta certezza che una propaganda di questo tipo, spacciata per editoriale, sarebbe conseguita nell’immediato licenziamento di tutte le persone coinvolte».I nostri media evitando persino di riferire quello che Kiev racconta al Fmi: e cioè che l’Ucraina non è mai stata invasa. In caso di invasione, infatti, la guerra sarebbe conclamata. E una Ucraina ufficialmente in guerra con un paese straniero non potrebbe neppure ricevere le agognate sovvenzioni del Fondo Monetario. «Ma i media occidentali non si interessano ai fatti: bastano le bugie, solo le bugie. Il “Washington Post”, il “New York Times”, la “Cnn”, “Fox News”, “Die Welt”, la stampa francese e quella inglese pregano in coro: “Per favore, Washington, dacci altre bugie sensazionali da sbandierare. La nostra circolazione ne ha bisogno. Chissenefrega della guerra e della razza umana, se in cambio possiamo avere stabilità finanziaria”». Siamo seri, aggiunge Roberts: se unità militari russe fossero davvero in azione nell’Est del paese, l’Ucraina «non esisterebbe più» e sarebbe di nuovo «parte della Russia, come secoli prima che Washington sfruttasse il crollo dell’Unione Sovietica per separarla».Piuttosto, c’è da domandarsi «quanto durerà la pazienza russa di fronte alle continue bugie e provocazioni dell’Occidente», visto che «le menzogne di Washington, insieme a quelle dei suoi bambolotti europei e dei media occidentali, rendono inutili gli sforzi della Russia per risolvere la situazione con la diplomazia e un comportamento non aggressivo». Per Roberts, «non c’è nulla che la Nato possa fare se la Russia decide che un’Ucraina nelle mani di Washington è una minaccia strategica troppo grande per i propri interessi». Niente da fare, se Mosca decissere davvero di “reincorporare” Kiev: «Qualsiasi forza d’intervento della Nato inizierebbe una guerra che non potrebbe vincere. E la popolazione tedesca, memore delle conseguenze della guerra contro la Russia, ribalterebbe il governo burattino di Washington». A quel punto, «la Nato e la Ue crollerebbero, se la Germania si staccasse dall’assurdo costrutto asservito agli interessi di Washington a spese dell’Europa». Solo allora, finalmente, «il mondo avrebbe pace».Pagliacci pericolosi, pagati per mentire. Dal portoghese José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea prima del degno sostituto Juncker, fino al danese Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Obbediscono agli ordini di chi li ha piazzati al vertice: gli Stati Uniti. E l’ordine è semplice: raccontare il contrario della verità, in modo da “orientare” l’opinione pubblica grazie ai media mainstream, anch’essi “zerbini” del super-potere come i loro editori, per nulla indipendenti. E’ la dura accusa lanciata sul blog “Counterpunch” da Paul Craig Roberts, già editor e viceministro di Reagan, indignato per la criminale manipolazione delle notizie sul fronte ucraino, orchestrata dallo staff di Obama. E perché gli europei non si ribellano, visto che hanno tutto da perdere in caso di un’escalation con la Russia? Perché noi americani li paghiamo, scrive Roberts: tutti i leader europei sono stati elevati a ruoli di comando dallo Zio Sam. Grazie agli Usa hanno fatto carriera e ricevuto denaro a palate. Per questo, sono pronti a dire (e fare) qualsiasi cosa. Anche la guerra, persino contro una superpotenza nucleare.
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Estulin: vogliono sterminarci, è la cupola dell’apocalisse
«Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.Perché la Nato sta alzando i toni con la Russia? «Per capirlo bisogna guardare a Detroit, uno scenario post-apocalittico degno di un film di Will Smith. Le persone che tirano le fila del mondo vogliono le guerre, la crescita zero e la deindustrializzazione, vogliono che ogni città del mondo assomigli a Detroit». Progresso e sviluppo non dovrebbero essere direttamente proporzionali alla densità di popolazione? «Grazie ai progressi tecnologici, le società si sviluppano, creano ricchezza e costruiscono. Ma chi tira le fila del mondo sa che la Terra è un pianeta molto piccolo, con risorse naturali limitate e una popolazione in continua crescita. Ora siamo 7 miliardi e stiamo già esaurendo le risorse naturali. Ci sarà sempre abbastanza spazio sul pianeta, ma non abbastanza cibo e acqua per tutti. Perché i potenti sopravvivano, noi dobbiamo morire». Come intendono fare? «Distruggendo le nazioni a vantaggio delle strutture sovranazionali controllate dal denaro che gestiscono. Le corporazioni governano il mondo per conto dei governi che esse controllano. Così è successo con l’Unione Europea».E Putin non rientra in questo disegno. «Pensavano di poterlo controllare». Perché non ci riescono? «La Russia è una superpotenza nucleare. È questo che la rende tremendamente pericolosa agli occhi di questa gente. La Cina, per esempio, ha una grande popolazione ma non è una potenza nucleare. E per questo non è un pericolo. Mentre l’economia cinese può essere distrutta nel giro di un minuto, le tecnologie russe non possono essere annientate». Dove vogliono arrivare col conflitto in Ucraina? «Togliere il gas all’Europa per farla morire di freddo… Quando parlo di potere, non lo identifico con persone che siedono su un trono, ma con un concetto sovranazionale. L’idea è appunto distruggere ogni nazione». Alla fine non ci sarà più alcuna patria? «L’alleanza è orientata verso una struttura mondiale, che per essere controllata ha bisogno di nazioni deboli». È possibile fare qualche nome? «Christine Lagarde, Mario Draghi, Mario Monti, Petro Oleksijovyč Porošenko. Tutte queste persone sono sostituibili. Prendete Renzi: la sua politica conduce alla distruzione dell’Italia. Perché lo fa, dal momento che dovrebbe fare l’interesse del vostro paese? Non è logico».Non è poi tanto diverso da Monti. «I vari Renzi, Monti, Prodi sono traditori dell’Italia, non lavorano nell’interesse del paese. Renzi non ha mandato politico, nessuna legittimazione, non è stato eletto». L’ultimo premier eletto democraticamente è stato Berlusconi. «E questo è il motivo per cui c’è stato uno sforzo così ben orchestrato per distruggerlo». È il Bilderberg a tirare le fila? «Il Bilderberg era molto influente negli anni Cinquanta, nel mondo postbellico. Ora è molto meno importante di quanto non si creda. Organizzazioni come il Bilderberg o la Trilaterale non sono il vertice di nulla. Sono la cinghia di trasmissione. I veri processi decisionali hanno luogo ancora più in alto. L’Aspen Institute è molto più importate del Bilderberg». Nessuno ne parla. «I giornali mainstream fanno parte di questo gioco. Pensare che media come il “New York Times”, il “Washington Post” o “Le Monde” siano indipendenti, è da idioti. I giornalisti lavorano per azionisti che decidono la linea editoriale del giornale». Vale anche per l’Italia? «Il “Corriere della Sera”, “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore” siedono spesso alle riunioni del Bilderberg. Non c’è metodo più efficace che far passare le loro idee nella stampa mainstream».Anche l’estremismo e il terrorismo islamico rientrano in questo disegno? «Certamante. Non è possibile credere che Obama lavori nell’interesse degli Stati Uniti. Come è impensabile credere che un’organizzazione come l’Isis sia passata, nel giro di poche settimane, dall’anonimato più assoluto a rappresentare la peggiore organizzazione terroristica del mondo». Come si “costruisce” un nemico? «Con gruppi come Isis, Hamas, Hezbollah o Al-Qaeda, succede quello che chiamiamo “blow-back”, cioè quello che succede quando soffi il fumo e ti torna in faccia. L’effetto è sempre lo stesso: si costruisce e si finazia un gruppo terroristico, in Ucraina come in Medio Oriente, e dopo un certo periodo di gestazione questo ti torna indietro e ti colpisce. In ogni operazione non c’è mai un solo obiettivo, ma sempre molti obiettivi. Un obiettivo lavora per te, un altro contro di te».Tutto già calcolato? «Un qualsiasi attacco implica l’uso dell’esercito e, quindi, la necessità di investire soldi nell’industria bellica. La formula è la stessa, cambiano solo i giocatori. Oltre alla guerra ci sono modi diversi per ottenere lo stesso risultato: la fame, la siccità, le droghe, la malattie. Li stanno usando tutti. Così da un lato distruggono il mondo economicamente, dall’altro usano i soldi per sviluppare tecnologie così potenti e futuristiche da creare un gap tra noi e loro sempre più marcato». Eppure faticano a contrastare l’ebola… «Macché! È solo un esempio per vedere la reazione della popolazione mondiale. Viene presentata come un’epidemia ma ha ammazzato appena tremila persone negli ultimi dieci anni. Ogni anno raffreddore, tosse e influenza ne uccidono 30.000 solo negli Stati Uniti. La prossima volta che ci sarà una vera epidemia, conosceranno già le reazioni umane».(“Ecco chi tira i fili del terrore per sovvertire l’ordine mondiale”, intervista di Andrea Indini a Daniel Estulin, da “Il Giornale” dell’11 settembre 2014).«Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.