Archivio del Tag ‘Washington Post’
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Usa e Germania ci vendevano il programma con cui spiarci
Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.Tra i suoi clienti, nazioni democratiche e dittature: l’Iran prima e dopo la rivoluzione khomeinista, paesi del Terzo Mondo o Stati rivali fra di loro come India e Pakistan, e perfino il Vaticano. «Quello che nessuno ha mai saputo fino ad oggi – scrive Valentino – è che la Crypto Ag era segretamente di proprietà della Cia in società con la Bnd, i servizi segreti tedesco-occidentali». Gli 007 di Bonn «manipolavano sistematicamente le apparecchiature, in modo da poter poi facilmente rompere i codici usati dai vari paesi per mandare i loro messaggi segreti e leggerli». Negli Anni ‘80, aggiunge il “Corriere”, gli strumenti di Crypto consentivano di decodificare il 40% di tutti i cablo diplomatici e le altre comunicazioni intercettate dai servizi Usa. A rivelarlo, scrive sempre Valentino, è uno straordinario pezzo di giornalismo investigativo, realizzato insieme dal “Washington Post” e dalla “Zdf”, la seconda rete televisiva pubblica tedesca, basato su documenti interni sia della Cia che del Bnd, che raccontano sin dalle origini tutti i dettagli dell’operazione, all’inizio denominata Thesaurus e poi ribattezzata Rubicon.«E’ stato il colpo d’intelligence del secolo», si legge negli atti americani: «I governi stranieri pagavano senza saperlo milioni di dollari agli Stati Uniti e alla Germania Ovest per il privilegio di avere le loro più segrete comunicazioni lette dai nostri servizi». Non tutti però abboccavano alle lusinghe di Crypto Ag: «Nel clima di sospetto della Guerra Fredda, i paesi leader del campo rivale, l’Urss e la Cina, non furono mai clienti della premiata compagnia, svizzera solo di nome». Ma la lista di chi usava le apparecchiature truccate, «pagandole milioni di dollari e facendo fare grassi profitti alle due intelligence», comprendeva anche i più stretti alleati occidentali e membri della Nato: Spagna, Grecia, Turchia e ovviamente l’Italia. A partire dal 1970, racconta il “Washington Post”, fu la National Security Agency, l’intelligence militare americana, a prendere il controllo di tutte le operazioni di Crypto insieme ai partner tedeschi, «comprese le assunzioni, la scelta delle tecnologie, il sabotaggio degli algoritmi, la promozione delle campagne di vendita a clienti precisi».Tra il 1970 e il 1975, prosegue il “Corriere”, le vendite annuali di Crypto Ag esplosero: da 15 milioni, passarono a 51 milioni di franchi svizzeri. «Ascoltarono e decrittarono di tutto: i mullah iraniani durante al crisi degli ostaggi del 1979, le comunicazioni dei militari argentini durante la guerra delle Falkland nel 1982 debitamente girate agli inglesi, gli ordini per le campagne omicide delle dittature latino-americane come l’assassinio del leader socialista cileno Orlando Letelier, ucciso nel 1976 in piena Washington dagli agenti di Pinochet. Non ultimo, le comunicazioni del presidente egiziano Anwar Sadat col Cairo durante i negoziati di Camp David tra Egitto e Israele nel 1972». Per inciso, annota Valentino, la famosa gaffe di Reagan sulla Libia insospettì gli iraniani, che erano a conoscenza del fatto che anche i libici usassero la tecnologia svizzera per le comunicazioni segrete. Qualche anno dopo, gli ayatollah arrestarono a Teheran uno dei rappresentanti di Crypto Ag, un cittadino tedesco, e lo rilasciarono solo nove mesi dopo, dietro il pagamento di un riscatto di un milione di dollari: soldi forniti in segreto proprio dal Bnd, l’intelligence di Bonn, dopo che la Cia si era rifiutata di pagare, invocando la linea americana di non versare mai riscatti per ostaggi.Le due documentazioni, messe a confronto dai reporter del “Post” e della televisione di Berlino, rivelano incomprensioni e polemiche tra tedeschi e americani: i primi attenti soprattutto all’aspetto economico della joint venture, che portava milioni di dollari in cassa, gli altri mai stanchi di «ricordare che si trattava di un’operazione di spionaggio». Inoltre i tedeschi erano basiti di fronte alla determinazione e all’entusiasmo dei colleghi Usa nello «spiare su tutti gli alleati». Testualmente: «Gli americani si comportano con i paesi alleati esattamente come con quelli del Terzo Mondo», è la frase di Wolbert Smidt, già direttore del Bnd, citata nei documenti tedeschi. La collaborazione clandestina si concluse nel 1990, finita la Guerra Fredda, quando il governo tedesco ordinò al Bnd di uscire da Crypto Ag: «La Cia, semplicemente, acquistò le quote tedesche e continuò il vecchio andazzo». Crypto Ag non esiste più, ma i suoi prodotti sono venduti ancora oggi a una dozzina di paesi. La vecchia compagnia – conclude Valentino – è stata smembrata nel 2018, «liquidata da azionisti la cui identità rimane ben nascosta dalle leggi del Liechtenstein». Al suo posto ci sono due società: CyOne Security e Crypto International. «Entrambi affermano di non avere alcuna connessione con il mondo dell’intelligence. Ma questa è un’altra storia».Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.
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Master Roosevelt: per conoscere i segreti del grande potere
Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.Il corso è destinato a italiani disposti a ricevere una formazione speciale, che li metta nelle condizioni di vedersela alla pari con i grandi player dell’attualità. Storia della conoscenza, storia del potere e delle civiltà umane. E poi: economia post-keynesiana e rooseveltiana, finanza etica e conti pubblici, geopolitica. Comunicazione: marketing e pubblicità, giornalismo, media e televisione. Ma anche “scienza, polis e potere”, filosofia politica, ecologia, salute, arte e letteratura, cinema, musica e “affabulazione collettiva”. Sono alcune delle materie del “Master Roosevelt in Scienze della Polis”, al via a fine gennaio: 12 weekend intensivi, tra Roma e Milano, con anche il supporto video per chi non potrà partecipare a tutte le lezioni. «Solo il nostro master – assicurano i promotori – offre insegnamenti teorico-pratici che coprono tutto lo “scibile” contemporaneo». Informazioni preziose per affrontare il buongoverno della cosa pubblica, consapevoli dei propri diritti e doveri, oltre che della propria sovranità di cittadini. «Inoltre – aggiungono gli organizzatori – questo master soddisfa esigenze di conoscenza inter-disciplinare (di natura sia “materiale” che “spirituale”) che nessun’altra alta scuola di formazione può garantire».Basta dare un’occhiata alle docenze proposte. Per esempio: storia, teoria e pratica dei servizi segreti e dell’intelligence pubblica e privata. Oppure: esoterismo, iniziazioni e massoneria. Ancora: introduzione alla Kabbalah. E poi simbologia, ideologie e sistemi di pensiero. Un lavoro in profondità: si parlerà di archetipi psicologici e comportamenti politico-sociali, svelando «i segreti delle energie sottili e delle arti marziali e venusiane». Premessa: è il potere stesso – per chi non l’avesse ancora capito – a padroneggiare queste materie. E il Master Roosevelt è dunque la prima opportunità, offerta a tutti, di esplorare quel mondo elusivo, precluso ai più. Ad affermarlo è lo stesso Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha tolto il velo all’aspetto più segreto dell’establishment: «A muovere anche i massimi oligarchi è una sorta di “aristocrazia dello spirito”, che li induce a ritenersi gli unici depositari dei destini del mondo». Non la pensa così l’autore di “Massoni”, già inziato alla superloggia progressista “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. La sua tesi: «La vera massoneria è costituzionalmente progressista. Storicamente, è stata proprio la “libera muratoria” a produrre le forme della modernità, lo Stato di diritto, la relativa libertà del cittadino non più suddito e la facoltà di auto-governarsi mediante elezioni democratiche, una volta conquistato il suffragio universale».Pietra miliare: la Rivoluzione Francese, con la caduta dell’Ancien Régime. Da allora, lotte e rivolte in tutto il mondo, fino al Risorgimento italiano. Quindi i decenni gloriosi del boom, nell’ultimo dopoguerra: «Era massone Franklin Delano Roosevelt, che volle il Piano Marshall dopo aver sconfitto il nazismo. Era “libera muratrice” sua moglie Eleanor, madrina dei diritti umani. Era massone Keynes, lo stratega del benessere diffuso in Occidente. Ed erano massoni John Rawls e William Beveridge, gli inventori del welfare (concepito per eliminare il gap tra ricchi e poveri)». Nel suo saggio – un vero e proprio bestseller italiano – Magaldi scrive che la leadership culturale e politica delle superlogge progressiste fu sabotata con la violenza alla fine degli anni Sessanta, negli Usa, con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King: i rooseveltiani li avevano scelti, come presidente e vice, per cambiare faccia al mondo. Non è andata così: nel 1973 (proprio l’11 settembre) la superloggia “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller organizzò il golpe in Cile introducendo il neoliberismo con i carri armati. Due anni dopo, la Trilaterale avrebbe spiegato, con il manifesto “La crisi della democrazia”, che era iniziata la grande retromarcia storica: meno diritti, meno pace e meno benessere per tutti. Sulla base di cosa? Di un piano egemonico: la riconquista del pianeta, da parte di un’élite massonica che i sodali di Magaldi definiscono “controiniziata”, avendo rinnegato l’impegno massonico per il progresso democratico dell’umanità.Nel 2011, in televisione, lo stesso Magaldi si espose in prima persona per segnalare la militanza – nella supermassoneria reazionaria – di primattori come Mario Monti, il presidente Napolitano e lo stesso Draghi. Sei mesi dopo l’uscita del suo dirompente saggio (silenziato dai grandi media), Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt, un soggetto meta-partitico che si propone di “risvegliare” la politica italiana in modo trasversale, appellandosi a tutti i partiti per il ripristino della democrazia sostanziale nella governance, dominata da un’Ue non democratica. Nel 2019, viste le incertezze deludenti del governo gialloverde, Magaldi (insieme all’economista Nino Galloni, vicepresidente “rooseveltiano”) ha anche aperto il cantiere del “Partito che serve all’Italia”, work in progress politico-programmatico: fine dell’austerity, istruzioni per l’uso. E ora, con il master, si passa direttamente all’attività formativa. Nel corso di un anno, il programma affronta materie vaste e complesse: istituzioni democratiche e meccanismi elettorali, amministrativi e parlamentari, approfondendo anche le leggi ordinarie e quelle costituzionali. E poi relazioni istituzionali pubbliche e private, euro-atlantismo e Nato, area mediterranea e strategie militari globali, storia contemporanea e dinamiche planetarie.Tra le docenze non mancano “polis e disabilità”, rigenerazione urbana e architettura, organizzazione del lavoro, “percezione di sé e osservazione dell’ambiente”. Un impegno a 360 gradi: modelli democratici ed elettorali a confronto. Una bussola precisa: mente, coscienza ed etica, tra politica e società. In altre parole: si tratta di formare super-cittadini, capaci di misurarsi senza timidezza con qualsiasi interlocutore, per arrivare – domani – a irrobustire finalmente una classe politica diversa, più preparata, in grado di tutelare l’Italia nel solo modo che Magaldi e i suoi ritengono possibile, e cioè recuperando la sovranità democratica di concerto con il resto d’Europa e del mondo. Da qualche tempo, lo stesso Magaldi segnala indizi di un possibile cambiamento in corso: «L’élite massonica neoaristiocratica che ha messo in piedi quest’Europa post-democratica sta per cedere, di fronte al disastro socio-economico che ha prodotto: lo dimostrano anche le esternazioni pubbliche e private di un supermassone come Mario Draghi, tra i massimi architetti dell’austerity, che ora si dichiara pronto a tornare sui suoi passi, recuperando la lezione di Keynes e quella personalmente ricevuta dal grande economista italiano Federico Caffè».Durissimo nel denunciare le peggiori malefatte del potere e i suoi aspetti più occulti, Magaldi ha fiducia nel futuro: crede sinceramente che la democrazia sociale sperimentata in Europa nel dopoguerra possa riprendere il suo corso. Ma per sbriciolare il potere degli oligarchi, dice, occorre una nuova generazione di italiani, all’altezza della sfida. Occorre anche gettare nella spazzatura l’ipocrisia che, nel nostro paese, impedisce di riconoscere il ruolo della massoneria, menzionando le logge solo per demonizzarle. E se sono massoni molti dei protagonisti negativi dell’attuale establishment, è meglio acquisire quelle stesse competenze, anche senza entrare in massoneria. Pure questa, in fondo, è tra le missioni del Master Roosevelt: fare in modo che nessuno detenga il monopolio della conoscenza. Avverte Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sui misfatti neo-feudali del neoliberismo: ai “mostri” del vero potere, menti raffinatissime e preparatissime, non puoi opporre un branco di politicanti spesso mediocri e ignoranti come quelli italiani. Prima ancora che il servilismo, è la loro incompetenza a trasformarli fatalmente in docili maggiordomi, meri esecutori di decisioni prese altrove.Se siamo ridotti così, con governi-fantasma che prendono ordini da Bruxelles, da una Commissione Europea che è solo la cinghia di trasmissione del volere di potentati privati, secondo Magaldi dipende dagli snodi cruciali della storia recente. Per esempio l’eliminazione del massone progressista Olof Palme, campione del welfare svedese, alla vigilia delle trattative che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Da quel “frame” sciagurato non siamo ancora usciti: ci hanno fatto credere che il debito pubblico sia una colpa, e che lo Stato sia come una famiglia che, se s’indebita, poi deve ripagare tutto (e con gli interessi). Solo nel 2018, sulla base di questi presupposti – a essere sovrani sono i mercati finanziari, non i cittadini – Mattarella impedì a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. In quell’occasione, Magaldi chiese le dimissioni del presidente della Repubblica, che definì «un servizievole paramassone». Rispetto all’epoca del governo Monti, l’informazione alternativa ha fatto passi da gigante, grazie al web. E’ cresciuta una forte minoranza, finalmente informata. Fioriscono iniziative, convegni, gruppi. Ma manca ancora un progamma organico per mettere a fuoco il problema in modo esauriente, forgiando autentici esperti. Ed è esattamente a questo che punta il Master Roosevelt, prima scuola italiana che nasce per insegnare a sfidare, domani, questo potere che tiene prigioniero il paese.(L’avvio del Master Roosevelt in Scienze della Polis è previsto per sabato 25 gennaio 2020, ore 9, presso l’Istituto Sant’Orsola di via Livorno 50/a, Roma).Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.
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Il silenzio di Conte, l’avvocato delle spie: cosa ci nasconde?
È accaduto tutto così velocemente che ancora non tutto è chiaro. Il passaggio in 20 giorni da una coalizione orientata a destra, a un’altra di un colore opposto, è stato un tale cambio, e talmente improvviso, da non aver ancora sedimentato tutte le risposte sulle sue radici e ragioni – perché si è sgretolato il potere di Salvini proprio al suo culmine? Cosa ha rotto l’unità del governo? Come mai è sopravvissuto alla crisi della sua coalizione Giuseppe Conte, arrivando a guidarne una seconda di segno opposto? Le risposte sono tante e vanno dalle più fantasiose e oscure (doppi e tripli complotti) alle più politologiche, passando per l’inevitabile visita al sofà degli psicanalisti. Le rivelazioni del “New York Times” e del “Washington Post” sulle visite e gli incontri segreti avuti nel nostro paese dagli alti rappresentanti dell’amministrazione Trump con rappresentanti dell’intelligence italiana aggiungono ora altre domande, molto più inquietanti: come mai il presidente Conte non ha informato nessuno di questi contatti con gli americani e della loro missione in Italia? Avrebbe potuto? Avrebbe dovuto? O la sua è stata una opaca manovra, che ha in qualche modo interferito sul corso stesso della crisi e della sua composizione?Conte dovrà ora rispondere a queste e ad altre domande davanti al Copasir, il Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, che lo ha convocato. Dopo questa audizione, il premier risponderà poi anche pubblicamente, come lui stesso ha annunciato in queste ore. Ma basta rimettere in fila gli avvenimenti che hanno portato all’avvitarsi di questa crisi per nutrire più di un dubbio, se non un sospetto, sulla segretezza con cui questi contatti fra Palazzo Chigi e gli americani sono stati protetti. Dal calendario, infatti, risulta evidente, come si diceva, che la crisi si avvita in maniera velocissima, in primavera, e che a un certo punto incrocia vari appuntamenti. Prendendo a misura i rapporti di Salvini con la Russia, possiamo risalire al 15-16 luglio del 2018, il viaggio a Mosca per i mondiali di calcio del leader leghista. Il 17-18 ottobre del 2018 va di nuovo in Russia. Son i giorni anche del famoso incontro all’Hotel Metropol di suoi collaboratori con tre russi per un presunto finanziamento di 65 milioni per la Lega. L’incontro del Metropol viene svelato il 24 febbraio del 2019 dal settimanale “L’Espresso”. Il 17 giugno 2019 Salvini vola in Usa per incontrare Trump, ma vede solo il vicepresidente Pence e il segretario di Stato, ex capo della Cia fino al marzo, Mike Pompeo. Il 4 luglio Putin è a Roma in visita ufficiale. Il 10 luglio il sito “Buzzfeed” pubblica l’audio dell’incontro al Metropol fra i leghisti e i russi. Da quel momento assistiamo a una accelerazone.Il 17-18 luglio Salvini va a Helsinki per il vertice dei ministri dell’interno Ue e attacca l’alleanza di governo in Italia: «Con i 5 Stelle non c’è più fiducia, nemmeno personale», e evoca per la prima volta il voto anticipato. Il 31 luglio la riforma Bonafede viene approvata “salvo intese” da un diviso Cdm. Il 6 agosto il decreto sicurezza-bis è legge. Il giorno dopo, il 7 agosto, al Senato M5S e Salvini sostengono due opposte mozioni sulla Tav. L′8 agosto la crisi si formalizza con una nota in cui il leader della Lega annuncia che non c’è più maggioranza. Entrano in scena nuovi attori. È il 15 agosto, e nella Roma infuocata del ferragosto arriva una delegazione da Washington. Altissimo livello: il General Attorney, il ministro di giustizia William Barr. Non sappiamo ancora esattamente cosa cerchino gli uomini di Trump. Sappiamo solo che cercano in Italia le prove che l’inchiesta Mueller sui rapporti di Trump con i russi per orientare le elezioni americane sia stata tutta una invenzione dei democratici Usa. La posizione di Washington in merito non è molto velata: l’idea è che intelligence di alcuni paesi europei, Inghilterra e Italia nello specifico, abbiano aiutato un attacco alla democrazia in America. Di tutto questo sappiamo davvero poco. Ma sappiamo che, di qualunque cosa si tratti, Conte autorizza gli incontri.Ripetiamo: è il 15 agosto. Esattamente 5 giorni dopo, il 20 agosto, Conte va in Senato e pronuncia il famoso discorso con cui scarica Salvini e consuma la rottura della coalizione. Nel discorso l’attacco all’ex alleato, il rapporto con la Russia del leghista, e la vicenda Metropol hanno un grande rilievo. Il 24 agosto Conte si reca al G7 di Biarritz su Iran, dazi, e Russia. Trump, appena giunto alla cena di apertura si ferma a parlare per una decina di minuti con il premier italiano. Un colloquio molto fitto, dicono fonti di Palazzo Chigi, durante il quale il tycoon ha testimoniato molta considerazione e attenzione personale nei confronti del professore, assicurando che «i rapporti personali vanno al di là degli incarichi». Il 27 agosto Trump si fa più esplicito: «Spero che Giuseppi Conte resti premier». Il 5 settembre giura il nuovo governo M5S-Pd, con premier lo stesso Conte. Venerdì 27 settembre, nuova visita della delegazione Usa, stesso scopo. Eccetto che stavolta nella nuova coalizione del governo Conte c’è il Pd. Neanche in questo caso, come il 15 agosto, Conte informa l’alleato. E se si può dire che forse con Salvini la crisi era già consumata a metà agosto, con il Pd si è in piena luna di miele.La prima domanda è dunque: avrebbe dovuto informare i suoi alleati? E, se verificato al Copasir che non l’ha fatto, la sua scelta rivela un elemento di mancata “opportunità” o di opacità bella e buona? Insomma c’è una sorta di colpevole silenzio? L’avvocato Conte ha sempre voluto, e conservato gelosamente, il suo ruolo di capo dei servizi. La legge affida infatti al presidente del Consiglio “l’alta direzione e la responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza, nell’interesse e per la difesa della Repubblica e delle sue istituzioni democratiche”. La legge 3 agosto 2007 n. 124 all’articolo 3 prevede che il presidente del Consiglio possa delegare talune sue prerogative (eccetto quelle sue esclusive) a un ministro senza portafoglio o a un sottosegretario di Stato alla presidenza. La legge dice che può, ma non che deve. E il gioco del delegare o meno è sempre entrato a far parte della tessitura di tutti i governi come parte del profilo che intende prendere. Alcuni premier così hanno delegato; gli ultimi due, Gentiloni e Conte, non hanno delegato. Conte si è tenuto la delega nella formazione del governo di coalizione dei giallorossi, soprattutto come bilanciamento a Salvini agli interni. Conte tuttavia non ha delegato nemmeno dopo, quando è rimasto capo del governo con la coalizione con il Pd.Tenendosi questa delega il premier attuale è di fatto il capo di ogni responsabilità attinente l’intelligence. Nulla può muoversi senza la sua decisione. Ma è obbligato a informare i suoi colleghi? O può/deve mantenere il silenzio assoluto? Gli esperti sostengono che eccetto per il segreto di Stato, che riguarda però gravi emergenze, potenziali danni gravi che potrebbero derivare per il paese, vale per il resto una “opportunità” politica che spinge a informare l’apposito comitato ristretto del Consiglio dei ministri. In questo caso la “opportunità politica” non era forse tale da spingere/obbligare Conte a informare? La domanda si fa tanto più urgente se, come è il caso, si tratta non di uno ma di ben due esecutivi, di natura fra loro completamente diversa, con cui si è scelto il silenzio. Per semplificare: se è possibile che Conte abbia scelto di non informare Salvini sulla visita di Barr il 18 agosto perché ormai in piena rottura, perché non ha informato (o lo ha fatto ?) della visita il 27 settembre in piena luna di miele con il Pd? È, come si diceva, un intreccio di scelte e date che lascia inquieti: il rapporto fra Conte e l’amministrazione americana avviene infatti con tempi tali da sollevare almeno il dubbio che ci sia una forte relazione fra la crisi italiana, la conferma del premier e il consenso americano. Si intravvede uno scambio, e forse questo scambio c’è o forse no, ma Conte ci deve sicuramente una spiegazione. Il silenzio con cui ha custodito questi contatti è forse, infatti, l’elemento più inquietante di questa vicenda.(Lucia Annunziata, “L’avvocato delle spie”, articolo pubblicato dall’“Huffington Post” e ripreso da “Dagospia” il 4 ottobre 2019).È accaduto tutto così velocemente che ancora non tutto è chiaro. Il passaggio in 20 giorni da una coalizione orientata a destra, a un’altra di un colore opposto, è stato un tale cambio, e talmente improvviso, da non aver ancora sedimentato tutte le risposte sulle sue radici e ragioni – perché si è sgretolato il potere di Salvini proprio al suo culmine? Cosa ha rotto l’unità del governo? Come mai è sopravvissuto alla crisi della sua coalizione Giuseppe Conte, arrivando a guidarne una seconda di segno opposto? Le risposte sono tante e vanno dalle più fantasiose e oscure (doppi e tripli complotti) alle più politologiche, passando per l’inevitabile visita al sofà degli psicanalisti. Le rivelazioni del “New York Times” e del “Washington Post” sulle visite e gli incontri segreti avuti nel nostro paese dagli alti rappresentanti dell’amministrazione Trump con rappresentanti dell’intelligence italiana aggiungono ora altre domande, molto più inquietanti: come mai il presidente Conte non ha informato nessuno di questi contatti con gli americani e della loro missione in Italia? Avrebbe potuto? Avrebbe dovuto? O la sua è stata una opaca manovra, che ha in qualche modo interferito sul corso stesso della crisi e della sua composizione?
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Previsioni eco-apocalittiche, 50 anni di bufale tutte smentite
Moriremo di freddo, anzi di caldo. Peggio: moriremo di sete, anzi no: sommersi dall’acqua. Come diceva Gramsci, «la storia insegna, ma non ha scolari». Infatti, ricorda “Voci dall’Estero”, è da almeno mezzo secolo che scienziati e politici «prevedono a comando catastrofi climatiche naturali a causa delle attività umane», ma queste «si rivelano sempre gravemente esagerate, quando non totalmente infondate». Nonostante ciò, i media attuali continuano a propagandare previsioni catastrofiche per portare avanti iniziative come il Green New Deal americano, «senza farsi scrupoli nell’utilizzare allo scopo bambini affetti da sindrome di Asperger». Secondo “Voci dall’Estero”, che cita una spettacolare ricognizione eseguita per il “Washington Examiner” da Myron Ebell e Steven Milloy, «non c’è motivo di credere che le ultime previsioni siano minimamente più credibili delle precedenti». I due ricercatori ringraziano Tony Heller, che ha contribuito alla ricerca storica delle “fake news” circuitate per decenni dai media, pubblicandole su “Real Climate Science”. «I moderni predicatori di sventura – premettono i due analisti – prevedono un disastro climatico e ambientale fin dagli anni ’60», e come sappiamo «continuano a farlo anche oggi». Problema: «Nessuna delle apocalissi previste con tanto di data di scadenza si è finora rivelata vera».Quella che propongono i due ricercatori è una impressionante collezione delle previsioni, decisamente estreme, esternate da personaggi accreditati in ambito scientifico e governativo. «Più che limitarsi a mettere in evidenza le previsioni fallite – spiegano Ebell e Milloy – questa collezione mostra che i creatori di previsioni apocalittiche sono spesso persone che ricoprono posizioni rispettate, nel governo e nella scienza». Anche se questi pronostici «sono stati e continuano a essere entusiasticamente riportati dai media, affamati di titoli ad effetto», il loro sistematico fallimento poi non viene affatto pubblicato. Nel 1967, il “Salt Lake Tribune” annuncia “una grave carestia entro il 1975”. «È ormai troppo tardi – scrive – perché il modo possa evitare un lungo periodo di carestia». La fonte citata è un biologo dell’Università di Stanford, Paul Ebrlichm, secondo cui «la stagione delle carestie è alle porte e sarà al suo culmine e al massimo della distruzione entro il 1975». Apocaliasse in vista: «La popolazione degli Stati Uniti è già eccessiva, e il controllo delle nascite potrebbe essere ottenuto introducendo sostanze sterilizzanti negli alimenti di base e nell’acqua potabile». Due anni dopo ci si mette il “New York Times”, che il 10 agosto 1969 titola: “Spariremo tutti in una nuvola di vapore blu entro il 1989”.Secondo il biologo Paul Ehrlich, «mentre aspettiamo di avere abbastanza prove per convincere la gente, moriremo». Testualmente: «Spariremo tutti in una nuvola di vapore blu entro 20 anni». Dall’inquinamento all’emergenza climatica, ma di segno opposto rispetto a quella denunciata dai “gretini”. Il 16 aprile 1970, il “Boston Globe” annuncia “un’era glaciale entro il 2000”. «Gli scienziati – si legge – prevedono una nuova era glaciale entro il ventunesimo secolo». Spiegazione: «L’inquinamento dell’aria può oscurare il sole e provocare una nuova era glaciale nei primi 30 anni del prossimo secolo». Orrore: «La richiesta di acqua di raffreddamento prosciugherà l’intero flusso dei fiumi e dei torrenti degli Stati Uniti». Sempre nel ‘70, il “Redlands Daily Facts” avverte: «L’America sarà sottoposta a razionamento dell’acqua entro il 1974 e a razionamento del cibo entro il 1980». Uno scenario spaventoso, venduto come certezza: «Gli oceani saranno morti come il Lago Erie in meno di dieci anni». Mel 1971, a parlare di “nuova era glaciale in arrivo” è il “Washington Post”, che il 9 luglio cita un esperto aerospaziale e la Columbia University: «Nei prossimi 50 anni le polveri sottili che gli uomini emettono costantemente nell’atmosfera a causa dei combustibili fossili potrebbero oscurare una parte così importante della luce del sole che le temperature medie potrebbero calare di sei gradi».Se il trend continuasse per diversi anni, da cinque a dieci, «tale abbassamento della temperatura potrebbe essere sufficiente a innescare un’era glaciale», assicura il quotidiano di Washington. Nel 1972, il Noaa sposta al 2020 l’inizio della “nuova era glaciale”, sempre di origine antropica: lo affermano scienziati che hanno rivolto un appello al presidente degli Stati Uniti. Passano due anni, e a rilanciare il pronostico del gelo polare è l’inglese “Guardian”, secondo cui «i satelliti spaziali mostrano che una nuova era glaciale si sta avvicinando velocemente». Anche la rivista “Time” si beve l’inferno di ghiaccio e lo serve ai lettori il 24 giugno 1974: «I segni sono ovunque – dall’inaspettata persistenza e spessore dei ghiacci nelle acque intorno all’Islanda alla migrazione verso sud di creature che amano il caldo come gli armadilli nel Midwest». Sempre nel ‘74 nasce una nuova paura mediatica, quella del buco dell’ozono: «Il consumo dell’ozono è un grave pericolo per la vita». Dal ‘74, ricordano Ebell e Milloy, il cosiddetto “buco dell’ozono” è enormemente aumentato, per poi stabilizzarsi verso gli anni 2000, «ma senza alcuna conseguenza catastrofica».Meglio insistere con la storiella del raffreddamento glaciale. Lo fa la “New York Times Book Review” nel 1976: Stephen Schneider, giovane climatologo del Centro Nazionale per la Ricerca Atmosferica di Boulder, Colorado, spiega alla Casa Bianca perché le temperature caleranno in modo allarmante. A partire dal 1980 si apre un altro capitolo: le piogge acide. «La pioggia acida uccide la vita dei laghi», è la tesi ricorrente. Dieci anni dopo, il governo Usa smentisce: «Le piogge acide non rappresentano una crisi ambientale» (“Associated Press”). Ancora nel 1978, però, si insiste con l’imminenza dell’era glaciale: «Non si vede la fine del trend trentennale di raffreddamento dell’emisfero nord», scrive il “New York Times”, citando «un team internazionale di specialisti». Secondo i dati dei satelliti Nasa, invece – annotano Ebell e Milloy – a partire dal 1979 si osserva il contrario, cioè un piccolo trend di riscaldamento. Verso la fine degli anni ‘80, altro spettro: la carenza idrica. Nel 1988, sul “Miami News”, James Hansen prevede un aumento delle siccità regionali negli anni ‘90, nel Midwest. E invece, smentisce “Real Climate Science”, l’ultimo anno veramente secco del Midwest è stato il 1988, mentre gli anni recenti sono stati tra i più umidi registrati.Lo stesso Hansen, in forza alla Nasa, sul “Lansing State Journal” avverte i cittadini di Washington: «Preparatevi a estati lunghe e bollenti». I ricercatori smentiscono: «Il numero dei giorni “bollenti” nell’area di Washington ha raggiunto un picco nel 1911, e da allora sono in calo». Poi ci sono previsioni particolarmente spettacolari, del tipo: «Le Maldive saranno completamente sommerse entro 30 anni». Lo afferma nel 1988 l’agenzia “France Presse”: «Il livello dei mari minaccia di sommergere completamente questa nazione dell’Oceano». Attenzione: «La fine delle Maldive e dei loro 200.000 abitanti potrebbe avvenire anche prima, se la disponibilità di acqua potabile si dovesse prosciugare entro il 1992, come previsto». Per fortuna, l’oceano non ha sommerso le Maldive (dove l’acqua potabile non si è affatto prosciugata). Spara date precise anche la “Associated Press” nel 1989: «L’innalzamento dei mari ‘sommergerà’ le nazioni entro il 2000». Dalle isole alle vie di comunicazione: secondo l’allarme lanciato da “Salon” nel 1989, «l’autostrada Ovest di New York sarà sommersa dall’acqua entro il 2019». Fonte: sempre lui, Jim Hansen, il “profeta” che appena l’anno prima aveva vaticinato l’arrivo della siccità.Qualcuno, nel frattempo, comincia a coltivare dubbi. Il Competitive Enterprise Institute si accorge del fallimento dei modelli climatici adottati dal 1995 ad oggi: negli ultini 40 anni, la Terra si è surriscaldata di appena 0,3 gradi centigradi. Ma l’allarmismo è duro a morire. Il 20 marzo 2000, “The Independent” scrive: «Le nevicate sono ormai solo un ricordo del passato. I bambini semplicemente non sapranno che cosa sia la neve». Due anni dopo, nel 2002, il “Guardian” annuncia: «Avremo una carestia entro 10 anni». Nel 2004, lo stesso “Guardian” azzarda la seguente previsione: «L’Inghilterra avrà il clima della Siberia entro il 2020». Dal quotidiano, terribili certezze: «I cambiamenti climatici ci distruggeranno. L’inghilterra sprofonderà in un clima “siberiano” in meno di 20 anni. Conflitti nucleari, mega-siccità, carestie e rivolte diffuse emergeranno in tutto il mondo». Se per il quotiano inglese il problema è il freddo, per la “Associated Press” l’emergenza è il caldo: nel 2008, l’agenzia “spiega” che «l’Artico sarà privo di ghiaccio entro il 2018». Ci si mette anche Al Gore, peggiorando ulteriormente la previsione: «L’Artico non avrà più ghiaccio entro il 2013», addirittura. Invece, la calotta bianca è ancora lì.Arriva il 2009, e a parlare è il principe Carlo d’Inghilterra: «Abbiamo solo otto anni per salvare il pianeta». Testualmente: «Rimangono solo 96 mesi per salvare la Terra» (“The Independent”, 9 luglio). Gli fa eco l’allora premier, Gordon Brown, secondo cui però è ormai questione di minuti, per la fine del mondo: «Abbiamo meno di 50 giorni per salvare il pianeta dalla catastrofe». Dal canto suo, Al Gore rivede la sua profezia: il ghiaccio artico non sparirà più nel 2013, ma l’anno seguente (“Usa Today”). Per il “Guardian”, più ottimista, la fine della banchisa polare è rinviata al 2015. Il 14 maggio 2014, il ministro degli esteri francese Lauren Fabius si sbilancia: «Abbiamo solo 500 giorni prima del caos climatico». Ma la fine del mondo, a quanto pare, è rinviata. Il dato impressionante? La facilità con cui i media – sbagliando sempre – hanno annunciato la catastrofe, data ogni volta per imminente, nell’arco di mezzo secolo, accreditando le tesi di scienziati ed entità governative. Il guaio? Giornali, televisioni e agenzie di stampa non si premurano praticamente mai di controllare l’esattezza delle previsioni via via strombazzate, per nostra fortuna comicamente sballate.Moriremo di freddo, anzi di caldo. Peggio: moriremo di sete, anzi no: sommersi dall’acqua. Come diceva Gramsci, «la storia insegna, ma non ha scolari». Infatti, ricorda “Voci dall’Estero”, è da almeno mezzo secolo che scienziati e politici «prevedono a comando catastrofi climatiche naturali a causa delle attività umane», ma queste «si rivelano sempre gravemente esagerate, quando non totalmente infondate». Nonostante ciò, i media attuali continuano a propagandare previsioni catastrofiche per portare avanti iniziative come il Green New Deal americano, «senza farsi scrupoli nell’utilizzare allo scopo bambini affetti da sindrome di Asperger». Secondo “Voci dall’Estero”, che cita una spettacolare ricognizione eseguita per il “Washington Examiner” da Myron Ebell e Steven Milloy, «non c’è motivo di credere che le ultime previsioni siano minimamente più credibili delle precedenti». I due ricercatori ringraziano Tony Heller, che ha contribuito alla ricerca storica delle “fake news” circuitate per decenni dai media, pubblicandole su “Real Climate Science”. «I moderni predicatori di sventura – premettono i due analisti – prevedono un disastro climatico e ambientale fin dagli anni ’60», e come sappiamo «continuano a farlo anche oggi». Problema: «Nessuna delle apocalissi previste con tanto di data di scadenza si è finora rivelata vera».
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Israele, belve al lavoro: botte ai bambini e case demolite
Otto giorni fa, undici edifici palestinesi contenenti settanta appartamenti monofamiliari situati nel villaggio di Wadi al-Hummus, nella parte est di Gerusalemme occupata illegalmente da Israele, sono stati demoliti in un’operazione militare da oltre 1.000 fra soldati, poliziotti e lavoratori municipali israeliani, con l’utilizzo di bulldozer, terne ed esplosivi. I residenti che hanno provato a resistere sono stati picchiati dai soldati, buttati giù dalle scale ed anche colpiti a distanza ravvicinata con proiettili di gomma. I soldati sono stati filmati mentre ridevano e festeggiavano durante il loro sporco lavoro. Anche agli occupanti che non avevano opposto resistenza e che avevano alzato le mani in segno di resa non era stato risparmiato il bastone, così come agli osservatori stranieri che si trovavano sul posto per aggiungere la loro voce a coloro che protestavano contro il vile gesto. Le lesioni subite da alcune delle vittime sono state fotografate e sono disponibili online. Dodici palestinesi e quattro osservatori britannici sono stati feriti abbastanza gravemente, tanto da essere ricoverati in ospedale. Gli inglesi hanno riferito di essere stati «calpestati, trascinati per i capelli, strangolati con una sciarpa e irrorati con spray al peperoncino dalla polizia di frontiera israeliana».Uno dei ricoverati in ospedale ha descritto come i soldati israeliani lo avessero trascinato per i piedi, sollevandolo e prendendolo a calci nello stomaco, mentre un soldato gli calpestava la testa quattro volte «con tutta la sua forza», prima di tenerlo fermo e tirargli i capelli. Un altro ha avuto una costola fratturata dopo che «[il poliziotto] mi aveva colpito alla gola ed altri avevano iniziato a prendermi a pugni sul torace. E’ stata una sadica esibizione». Anche un’osservatrice straniera è stata trascinato fuori da una casa, «le sue mani sono state schiacciate in modo così grave da subire una frattura ad una nocca della mano sinistra, mentre la destra ha riportato gravi danni ai tessuti “che rimarranno permanentemente deformati, a meno che non subisca un intervento di chirurgia estetica”». Edmond Sichrovsky, un attivista austriaco di origine ebraica, che si trovava in una delle case, ha descritto come le forze israeliane avessero sfondato la porta, trascinando fuori i palestinesi per primi, «facendo cadere il nonno sul pavimento di fronte ai suoi nipoti che piangevano e gridavano». I telefoni cellulari erano stati rimossi con la forza per eliminare qualsiasi foto o ripresa prima che i soldati iniziassero ad attaccare lui ed altri quattro attivisti.«Mi hanno ripetutamente preso a calci e a ginocchiate, procurandomi una ferita al naso ed escoriazioni multiple, oltre a rompermi gli occhiali con una ginocchiata in faccia. Una volta fuori, mi hanno sbattuto contro un’auto mentre urlavano insulti contro di me e le attiviste, chiamandole puttane». Gli edifici sono stati demoliti con il pretesto che erano troppo vicini all’illegale muro divisorio di Israele, mentre il governo di Benjamin Netanyahu citava presunti “problemi di sicurezza”. Le famiglie residenti negli edifici che non avevano avuto né il tempo né la capacità di portar via i mobili e gli oggetti personali dovranno ora passare al setaccio le macerie per vedere che cosa riusciranno a recuperare, se i soldati israeliani daranno il loro benevolo consenso. Dovranno anche trovare un nuovo posto dove vivere, perché gli israeliani non hanno nessuna intenzione di fornire loro un tetto. Le case erano state legalmente costruite su terreni nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese (Pa), una sottigliezza che le autorità israeliane hanno ritenuto irrilevante. Quando i palestinesi si oppongono ad un tale arbitrario comportamento, vengono mandati davanti ai tribunali militari israeliani che ratificano sempre le decisioni del governo. E il cleptocratico regime di Netanyahu ha chiarito che non riconosce il diritto internazionale sul trattamento delle persone sotto occupazione militare.Gli edifici sono stati distrutti pochi giorni dopo che gli inferociti coloni israeliani in Cisgiordania avevano continuato la loro campagna di distruzione dei mezzi di sussistenza dei loro vicini palestinesi. Il 10 luglio, in Cisgiordania sono stati bruciati centinaia di ulivi, in un deliberato tentativo di scacciare gli arabi dalla loro terra, bloccando le attività agricole e strangolando l’economia locale. Gli ulivi sono particolarmente presi di mira perché sono redditizi e gli alberi impiegano molti anni per raggiungere la maturità e produrre. E’ anche risaputo che i coloni israeliani uccidono il bestiame, avvelenano l’acqua, distruggono i raccolti, bruciano gli edifici e picchiano, arrivando persino ad uccidere, i contadini palestinesi e le loro famiglie. A Hebron i coloni hanno circondato la città vecchia e scaricano escrementi e altri rifiuti sui negozi palestinesi sottostanti, che stanno ancora cercando di rimanere aperti. Non dovrebbe sorprendere nessuno che i coloni ebrei che praticano la violenza raramente vengano presi, ancor meno processati e quasi mai puniti. L’odioso governo di Benjamin Netanyahu ha dichiarato che quella che un tempo era la Palestina è ora un paese chiamato Israele, ed è solo per gli ebrei. L’uccisione di un palestinese da parte di un ebreo israeliano è considerato, di fatto, un reato minore.Intanto, a Gaza continua la carneficina, con il bilancio delle vittime fra i manifestanti disarmati che ora ammonta a più di 200, oltre a diverse migliaia di feriti, molti dei quali bambini e operatori sanitari. Di recente, ai cecchini dell’esercito israeliano è stato dato l’ordine di colpire i manifestanti alle caviglie, in modo da renderli sciancati a vita. Questo è ciò che serve per essere “l’esercito più etico del mondo”, come è stato definito dallo pseudo-intellettuale francese Bernard-Henri Levy, dimostrando ancora una volta che la tribù sa come fare causa comune. Ma i crimini di guerra compiuti da Israele richiedono anche un sostegno illimitato da parte degli Stati Uniti, sia in termini finanziari che di copertura politica, per fare in modo che tutto ciò possa accadere. Israele non ucciderebbe i palestinesi con tale impunità se non vi fosse il via libera di Donald Trump e del suo pseudo-ambasciatore prono al volere dei coloni, David Friedman, sostenuto da un Congresso che sembra avere a cuore più gli israeliani che gli americani. Com’è possibile che l’orrendo trattamento dei palestinesi da parte degli israeliani, sostenuto e favorito dalla diaspora ebraica mondiale, non sia presente nei titoli della stampa di tutto il mondo?Perché il mio governo, con la sua assai sospetta (ma comunque dichiarata) agenda di voler portare democrazia e libertà a tutti, non dice nulla sui palestinesi? O perché non condanna il comportamento israeliano, come aveva fatto tempo fa nei confronti del Sudafrica?Riuscireste ad immaginare i titoli del “New York Times” e del “Washington Post” se soldati e poliziotti americani stessero sfrattando e picchiando gli abitanti di un complesso residenziale in una qualsiasi città degli Stati Uniti? Ma, in qualche modo, Israele ottiene sempre il via libera, non importa cosa faccia, e i politici di entrambe le parti si dilettano nel descrivere come il “rapporto speciale” con lo Stato ebraico sia scolpito nella pietra. Dopo le demolizioni degli edifici, Washington ha ancora una volta protetto Israele dalla condanna delle Nazioni Unite per il suo comportamento, ponendo il veto al Consiglio di Sicurezza. Di conseguenza, lo Stato ebraico non è stato ritenuto responsabile per il suo comportamento scorretto; ad essere onesti, Israele è il regime-canaglia per antonomasia, dedito a trasformare i suoi vicini in rovine fumanti con l’assistenza degli Stati Uniti. È un programma diabolico e non è nell’interesse dell’America continuare ad essere trascinata lungo quella strada.(Philip Giraldi, “L’ultima impresa dell’esercito di Israele, il più etico del mondo”, da “Unz.com” del 30 luglio 2019, tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).Otto giorni fa, undici edifici palestinesi contenenti settanta appartamenti monofamiliari situati nel villaggio di Wadi al-Hummus, nella parte est di Gerusalemme occupata illegalmente da Israele, sono stati demoliti in un’operazione militare da oltre 1.000 fra soldati, poliziotti e lavoratori municipali israeliani, con l’utilizzo di bulldozer, terne ed esplosivi. I residenti che hanno provato a resistere sono stati picchiati dai soldati, buttati giù dalle scale ed anche colpiti a distanza ravvicinata con proiettili di gomma. I soldati sono stati filmati mentre ridevano e festeggiavano durante il loro sporco lavoro. Anche agli occupanti che non avevano opposto resistenza e che avevano alzato le mani in segno di resa non era stato risparmiato il bastone, così come agli osservatori stranieri che si trovavano sul posto per aggiungere la loro voce a coloro che protestavano contro il vile gesto. Le lesioni subite da alcune delle vittime sono state fotografate e sono disponibili online. Dodici palestinesi e quattro osservatori britannici sono stati feriti abbastanza gravemente, tanto da essere ricoverati in ospedale. Gli inglesi hanno riferito di essere stati «calpestati, trascinati per i capelli, strangolati con una sciarpa e irrorati con spray al peperoncino dalla polizia di frontiera israeliana».
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Giornali muti sulla crisi italiana, ma pronti a sbranare Feltri
Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».Le parole di Feltri sono andate in onda sulla Rai nella trasmissione radiofonica “I lunatici”, di Radio Due, condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. «Quel terrone mi ha stancato», dice Feltri, riferendosi al commissario siciliano interpretato in televisione da Luca Zingaretti. Tutte le volte che gli capita di vedere Montalbano in Tv, aggiunge il direttore di “Libero”, gli torna subito alla mente il fratello dell’attore, cioè il neosegretario Pd Nicola Zingaretti, che «non è proprio il massimo della simpatia». Aggiunge Feltri: «Questa però è una mia opinione un po’ così, scherzosa». Quanto all’anziano autore di Montalbano, invece, Feltri si esprime in questi termini: «Camilleri, che ha avuto successo dopo i 70 anni, in me suscita ammirazione perché è stato un grande narratore, che peraltro si inserisce nella tradizione siciliana della letteratura insieme a scrittori come Pirandello e Sciascia». Ma niente da fare, a Borrometi e Ruotolo non basta: «Abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione di Vittorio Feltri all’albo professionale», scrivono, anche se poi è il presidente stesso, Scarpa, a precisare: è solidale con loro, però dall’Ordine non ci si può “autosospendere”, ma solo cancellare.«Riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista», scrivono i due. «Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui». E aggiungono: «Quel “terrone che ci ha rotto i coglioni” per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione». Accusano: «Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia. “Dopo la miseria portano le malattie” (rivolto ovviamente ai migranti), l’ormai tristemente celebre “Bastardi islamici” o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come “Più patate, meno mimose” in occasione dell’8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il “patata bollente”) o “Renzi e Boschi non scopano”. Poi gli insulti a noi del sud con il celebre “Comandano i terroni” e infine il penultimo, di qualche mese fa, “vieni avanti Gretina” (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)». L’idea che il direttore di “Libero” offre, concludono Borrometi e Ruotolo, «è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico». A Feltri imputano mancanza di senso del limite, deontologia, misura, buon senso e addirittura dignità. «Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all’odio. Ne va della nostra credibilità».Nato a Modica (Ragusa), Borrometi vive sotto scorta da quando è stato aggredito, in Sicilia, per le sue scomode inchieste sul business mafioso. Cronista dell’Agi, è stato trasferito a Roma per metterlo al riparo dalle continue minacce. Il potere lo conosce da vicino: Borrometi è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Gentiloni, a Palazzo Madama da Pietro Grasso e in Vaticano da Papa Francesco, mentre Mattarella l’ha fatto “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”. Anche Ruotolo vive sotto scorta, dopo le minacce ricevute nel 2015 dal Clan dei Casalesi. Napoletano, è stato a fianco di Santoro dai tempi di “Samarcanda”, fine anni Ottanta. Nel 2013 si è candidato con Antonio Ingroia nella lista “Rivoluzione civile”, rimasta fuori dal Parlamento. Nel corso della campagna elettorale, al termine di un dibattito televisivo si è rifiutato di stringere la mano a Simone Di Stefano (CasaPound) dichiarandosi «orgogliosamente antifascista». E adesso, insieme a Borrometi, tuona contro Feltri: «O lui, o noi». Suona quasi come un appello perché il reprobo sia espulso dall’Ordine dei giornalisti, organismo che peraltro esiste solo in Italia, retaggio dell’occhiuta sorveglianza di Mussolini sulla stampa nazionale. A proposito: perché non abolirlo, l’inglorioso ordine professionale, visto che bastano e avanzano le leggi vigenti per tutelare sia i giornalisti che le vittime del propagandismo squadristico truccato da giornalismo?Ma il tema – libertà dell’informazione, senza recinti polverosamente post-fascisti – non sfiora Rutolo e Borrometi (non oggi, almeno). Il nemico si chiama Vittorio Feltri, monumento nazionale del giornalismo-contro (contro i giornalisti conformisti, in primis). Fieramente ostico, scontroso, sulfureo – spesso urticante, volutamente sgradevole – Feltri affonda i suoi strali quotidiani nella melassa inguardabile del mainstream gracidante, dei colleghi appiattiti sull’imbarazzante galateo del pensiero unico (politicamente corretto, ma per nulla giornalistico). Spariti Bocca, Biagi e Montanelli, è proprio la mediocrità desolante dei replicanti – i vari Giannini, Floris, Berlinguer, Formigli, Annunziata – a fare di Feltri il gigante che probabilmente non è. Amico personale della Fallaci, Feltri ha seguito la grandissima giornalista nella cecità assoluta dimostrata dall’Oriana nazionale di fronte all’11 Settembre, senza vedere che lo “scontro di civiltà” era una montatura terroristica interamente occidentale. Già berlusconiano e sempre controcorrente, pronto alla solitudine delle polemiche più aspre, a Feltri non difetta certo il coraggio: semmai, come quasi tutti gli altri, non ha compreso per tempo la reale natura del “golpe” neoliberale del 2011, dietro la maschera di Mario Monti. E ancora oggi, purtroppo, fatica a discernere tra debito pubblico e debito reale del sistema-paese, anche lui criminalizzando il deficit dello Stato, in un paese da decenni in avanzo primario: lo sa, Feltri, che lo Stato incassa con le tasse più di quanto non spenda per i cittadini?Quanto ai suoi detrattori – tantissimi, quasi tutti i suoi colleghi – va detto che, in questi anni, hanno brillato per renitenza professionale e alto tradimento dei lettori e dei telespettatori: se il famoso Ordine avesse un senso, quanti di loro avrebbero diritto di farne parte? Che c’azzeccano, con la categoria giornalistica, la Monica Maggioni reclutata dalla Trilaterale nonostante fosse dirigente Rai? E che dire di Lilli Gruber, ospite fissa del Bilderberg? Non hanno niente da dire, su questo, gli illustri Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi? Pensano davvero che siano gli eccessi polemici e le cadute di stile a compromettere la dignità professionale dei “cani da guardia della democrazia”? Dicono ancora qualcosa i nomi di Bob Woodward e Carl Bernstein (“Washington Post”) che nel remoto 1972 – ben prima dell’odierna era glaciale – fecero crollare la presidenza Nixon con lo scandalo Watergate? Vinsero il Pulitzer, ovviamente, ma non erano al guinzaglio di alcuna corporazione post-mussoliniana. Un altro Pulitzer, il connazionale Seymour Hersh, è stato franco quanto l’insopportabile Feltri: se i giornalisti non avessero abdicato al loro compito fondamentale, in questi anni avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché – di fronte a una stampa con la schiena diritta – il potere non avrebbe osato spingersi oltre certi limiti.Bassa macelleria fondata sulla menzogna sistematica, praticabile solo a patto di non avere noie, dalla stampa. Un caso mondiale, emblematico? Le inesistenti “armi di distruzioni di massa”, pretesto per invadere l’Iraq di Saddam ponendo le premesse per una destabilizzazione geopolitica di tipo stragistico, cominciata con l’abbattimento delle Twin Towers e culminata coi tagliagole dell’Isis a seminare il terrore sia in Medio Oriente che nel cuore dell’Europa, con attentati sinistramente massonici (non islamici) nella loro spietata simbologia. Chi lo dice? Gioele Magaldi, per esempio: un autore che per l’italico mainstream resta oscuro quanto il suo besteller, “Massoni”, letteralmente ignorato da tutti i talkshow nonostante facesse nomi e cognomi, da Napolitano in giù, come inutilmente ricordato persino in Parlamento dai 5 Stelle. Dove sono, i giornalisti italiani, quando qualcuno si espone per svelare i retroscena della crisi che sta sventrando il paese? Oggi sono tutti a fischiare comodamente il puzzone di turno, Matteo Salvini, mettendo nel mazzo – per buon peso – lo stesso Feltri, notorio estimatore del capo leghista. Tutto fa brodo, pur di non avvistare il pericolo: va benissimo anche lo scalpo di Armando Siri (solo indagato, tuttora) per colpire la Flat Tax e il governo gialloverde, che ha avuto l’improntitudine di pensare che l’Italia si potesse governare anche senza sottomettersi alle mafie politiche locali, succursali delle mafie politiche europee.Per il mainstream che odia Salvini e detesta Feltri, il supermassone occulto Mario Draghi, quasi onnipotente signore d’Europa dopo l’esordio sul Britannia da cui collaborò alla svendita del paese, resta essenzialmente Super-Mario, ipotetico futuro premier quando finalmente il vero potere si sarà scrollato di dosso gli intrusi dell’ultima ora, i pasticcioni gialloverdi. Il governo non è libero di decidere nulla – ha ammesso Pino Cabras, parlamentare pentastellato, in un convegno del Movimento Roosevelt a Londra – perché nei ministeri e nei palazzi-chiave, cominciando dal Quirinale, domina il Deep State. Qualcuno, della libera stampa italiana pronta ad azzannare Feltri per gli sberleffi a Montalbano, si è peritato di rilanciare la notizia? Gli specialisti dell’antimafia sono coraggiosamente impegnati sul fronte della micro-mafia nazionale. Ma i loro colleghi come si regolano, con la vera macro-mafia, quella eurocratica, che da trent’anni ha dichiarato guerra all’Italia sbaraccando la Prima Repubblica? Divorzio fra Tesoro e Bankitalia, Sme, Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, pareggio di bilancio. L’ex potenza industriale mediterranea ha perso il 25% del suo potenziale in una manciata di anni. Crisi, recessione, esasperazione. Dov’erano, i giornalisti, mentre tutto questo accadeva? E dove sono oggi? Nel solito posto: comodi, in platea, a distrarre il pubblico. Che screanzato, quel Feltri. Sia messo al bando, perché sciupa la foto di gruppo del glorioso giornalismo italiano.(Giorgio Cattaneo, “Con che coraggio attacca Feltri – per le battute su Montalbano – il giornalismo italiano che da trent’anni non dice la verità sulla crisi del paese?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 giugno 2019).Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».
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Guai a chi parla: l’arresto di Assange minaccia i giornalisti
L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoriana a Londra è un emblema dei tempi. Il potere contro il diritto. La forza contro la legge. L’indecenza contro il coraggio. Sei poliziotti hanno malmenato un giornalista malato, con gli occhi che si contraevano alla prima luce naturale dopo quasi sette anni. Che questo oltraggio si sia verificato nel cuore di Londra, nella terra della Magna Carta, dovrebbe far vergognare e arrabbiare tutti quelli che temono per la “democrazia”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, che gode del diritto di asilo secondo una precisa convenzione di cui la Gran Bretagna è firmataria. Le Nazioni Unite lo hanno chiarito nella sentenza del loro Working Group sulla detenzione arbitraria. Ma al diavolo. Che i criminali vadano avanti. Diretta dai semi-fascisti della Washington di Trump, in combutta con l’ecuadoriano Lenin Moreno, un ebreo latinoamericano bugiardo che cerca di nascondere il suo regime marcio, l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia. Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa da diversi milioni di sterline in Connaught Square, a Londra, in manette, pronto per la spedizione all’Aia. Secondo le regole di Norimberga, il “massimo crimine” di Blair è la morte di un milione di iracheni. Il crimine di Assange è il giornalismo: chiamare in causa i responsabili, esporre le loro bugie ed emancipare il popolo in tutto il mondo attraverso la verità.L’arresto scioccante di Assange porta con sé un avvertimento per tutti coloro che, come scrisse Oscar Wilde, «seminano il seme del malcontento [senza il quale] non ci sarebbe alcun progresso verso la civiltà». L’avvertimento è esplicito nei confronti dei giornalisti. Quello che è successo al fondatore ed editore di WikiLeaks può capitare a voi su un giornale, in uno studio televisivo, alla radio, quando fate un podcast. Il principale persecutore mediatico di Assange, il “Guardian”, un collaboratore dello Stato segreto, questa settimana ha dimostrato il suo nervosismo con un editoriale che ha raggiunto vette finora inviolate di subdola astuzia. Il “Guardian” ha sfruttato il lavoro di Assange e WikiLeaks in quello che il suo precedente direttore chiamava «il più grande scoop degli ultimi 30 anni». Il giornale ha decantato le rivelazioni di WikiLeaks e ha rivendicato i riconoscimenti e le ricchezze che gliene sono derivate. Senza che un solo penny sia andato a Julian Assange o a WikiLeaks, un libro pubblicato dal “Guardian” ha portato poi a un fruttoso film di Hollywood. Gli autori del libro, Luke Harding e David Leigh, hanno abusato della loro fonte rivelando la password segreta che Assange aveva dato in confidenza al giornale, il quale avrebbe dovuto proteggere un file digitale contenente documenti trapelati dell’ambasciata Usa.Mentre Assange era intrappolato nell’ambasciata ecuadoriana, Harding ha raggiunto la polizia che stava là fuori e ha gongolato sul suo blog, dicendo che «Scotland Yard potrebbe essere quello che ride per ultimo». Da allora il “Guardian” ha pubblicato una serie di falsità su Assange, non ultimo una dichiarazione poi smentita che un gruppo di russi e l’uomo di Trump, Paul Manafort, avevano fatto visita ad Assange nell’ambasciata. Gli incontri non sono mai avvenuti; era falso. Il tono ora è cambiato. «Il caso Assange è una intricata questione morale», commenta il giornale. «Lui (Assange) crede nella pubblicazione di cose che non si dovrebbero pubblicare… Ma ha sempre gettato luce su cose che non avrebbero mai dovuto essere nascoste». Queste “cose” sono la verità sul sistema omicida con cui l’America conduce le sue guerre coloniali, le menzogne del Foreign Office britannico sulla privazione dei diritti delle persone vulnerabili, come gli Chagos Islanders, l’esposizione di Hillary Clinton come sostenitrice e beneficiaria dello jihadismo in Medio Oriente, la descrizione dettagliata da parte degli ambasciatori americani su come riuscire a rovesciare i governi in Siria e in Venezuela, e molto altro ancora. È tutto disponibile sul sito WikiLeaks.Il “Guardian” è comprensibilmente nervoso. La polizia segreta ha già visitato il giornale e ha chiesto e ottenuto la distruzione rituale di un disco rigido. Su questo, il giornale ha il documento della richiesta. Nel 1983, un funzionario del Foreign Office, Sarah Tisdall, fece trapelare alcuni documenti del governo britannico che mostravano quando sarebbero arrivate in Europa le armi nucleari Cruise americane. Il “Guardian” fu inondato di elogi. Quando un’ingiunzione del tribunale chiese di conoscere la fonte, non è stato il direttore a farsi arrestare in nome del fondamentale principio di proteggere la sua fonte, ma la Tisdall è stata tradita, perseguita e ha scontato sei mesi in carcere. Se Assange viene estradato in America per aver pubblicato ciò che il “Guardian” definisce “cose” veritiere, cosa impedisce che lo segua l’attuale direttore, Katherine Viner, o il precedente direttore, Alan Rusbridger, o il prolifico propagandista Luke Harding? Che cosa deve impedire [che lo seguano] i direttori del “New York Times” e del “Washington Post”, che hanno anche loro pubblicato pezzi di quella verità che ha avuto origine da WikiLeaks, e il direttore di “El Pais” in Spagna, e “Der Spiegel” in Germania e del “Sydney Morning Herald” in Australia? L’elenco è lungo.David McCraw, legale del “New York Times”, ha scritto: «Penso che l’azione penale [contro Assange] sarebbe un pessimo precedente per gli editori… a quanto posso capire, egli si trova in qualche modo nella stessa posizione di un editore classico e sarebbe molto difficile da un punto di vista legale distinguere tra il “New York Times” e WikiLeaks». Anche se i giornalisti che hanno pubblicato i documenti trapelati da WikiLeaks non sono stati convocati da un gran giurì americano, l’intimidazione di Julian Assange e Chelsea Manning sarà sufficiente. Il vero giornalismo viene criminalizzato da delinquenti alla luce del sole. Il dissenso è diventato una debolezza. In Australia, l’attuale governo filo-americano sta perseguendo due informatori che hanno rivelato che delle spie di Canberra hanno installato microspie nella sala delle riunioni del nuovo governo di Timor Est, con il preciso scopo di sottrarre con l’inganno alla piccola e povera nazione la sua giusta quota di petrolio e le risorse di gas nel mare di Timor. Il loro processo si terrà in segreto. Il primo ministro australiano, Scott Morrison, è tristemente famoso per aver contribuito alla creazione di campi di concentramento per rifugiati nelle isole del Pacifico di Nauru e Manus, dove i bambini si feriscono e si suicidano. Nel 2014, Morrison ha proposto campi di detenzione di massa per 30.000 persone.Il vero giornalismo è il nemico di queste disgrazie. Una decina di anni fa, il ministero della difesa a Londra ha prodotto un documento segreto che descriveva le tre «principali minacce» all’ordine pubblico: terroristi, spie russe e giornalisti investigativi. Questi ultimi erano considerati la minaccia più grave. Il documento è stato debitamente divulgato da WikiLeaks, che lo ha pubblicato. «Non avevamo scelta», mi ha detto Assange. «È molto semplice: le persone hanno il diritto di sapere e il diritto di mettere in discussione e sfidare il potere: questa è la vera democrazia». Cosa succederebbe se Assange e Manning ed altri sull’onda – se ce ne fossero altri – fossero messi a tacere e «il diritto di conoscere, mettere in discussione e sfidare» fosse eliminato? Negli anni ’70 incontrai Leni Reifenstahl, intima amica di Adolf Hitler, i cui film contribuirono a lanciare l’incantesimo nazista sulla Germania. Mi disse che il messaggio nei suoi film, la propaganda, non dipendeva da «ordini dall’alto», ma da quello che lei chiamava la «vuota sottomissione» del pubblico. «Questa vuota sottomissione include la borghesia liberale e istruita?», le chiesi. «Certamente», disse lei, «specialmente l’intellighenzia… Quando le persone non si pongono più domande serie, diventano sottomesse e malleabili. Tutto può succedere». Ed è successo. Il resto, avrebbe potuto aggiungere, è storia.(John Pilger, “L’arresto di Assange è un avvertimento della storia”, dal blog di Pilger del 13 aprile 2019; articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).L’immagine di Julian Assange trascinato fuori dall’ambasciata ecuadoriana a Londra è un emblema dei tempi. Il potere contro il diritto. La forza contro la legge. L’indecenza contro il coraggio. Sei poliziotti hanno malmenato un giornalista malato, con gli occhi che si contraevano alla prima luce naturale dopo quasi sette anni. Che questo oltraggio si sia verificato nel cuore di Londra, nella terra della Magna Carta, dovrebbe far vergognare e arrabbiare tutti quelli che temono per la “democrazia”. Assange è un rifugiato politico protetto dal diritto internazionale, che gode del diritto di asilo secondo una precisa convenzione di cui la Gran Bretagna è firmataria. Le Nazioni Unite lo hanno chiarito nella sentenza del loro Working Group sulla detenzione arbitraria. Ma al diavolo. Che i criminali vadano avanti. Diretta dai semi-fascisti della Washington di Trump, in combutta con l’ecuadoriano Lenin Moreno, un ebreo latinoamericano bugiardo che cerca di nascondere il suo regime marcio, l’élite britannica ha abbandonato il suo ultimo mito imperiale: quello dell’equità e della giustizia. Immaginate Tony Blair trascinato fuori dalla sua casa da diversi milioni di sterline in Connaught Square, a Londra, in manette, pronto per la spedizione all’Aia. Secondo le regole di Norimberga, il “massimo crimine” di Blair è la morte di un milione di iracheni. Il crimine di Assange è il giornalismo: chiamare in causa i responsabili, esporre le loro bugie ed emancipare il popolo in tutto il mondo attraverso la verità.
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Vietato svelare la verità: con Assange muore il giornalismo
La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.Il caso del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (Doj) contro Assange è fragile, nel migliore dei casi. Tutto ha a che fare essenzialmente con la pubblicazione di informazioni classificate nel 2010: 90mila file militari in Afghanistan, 400mila file sull’Iraq e 250mila cablogrammi diplomatici diffusi su gran parte del pianeta. Assange è accusato di aver aiutato Chelsea Manning, l’ex analista dell’intelligence statunitense, ad ottenere questi documenti. Ma la faccenda diventa più complicata. È anche presumibilmente colpevole di “incoraggiare” Manning a raccogliere più informazioni. Non c’è altro modo di interpretarla. Ciò equivale, senza più alcuna esclusione di colpi, alla criminalizzazione totale della pratica giornalistica. Per il momento, Assange è accusato di “cospirazione volta a commettere intrusioni informatiche”. L’accusa sostiene che Assange ha aiutato Manning a decifrare una password memorizzata sui computer del Pentagono collegati al Secret Internet Protocol Network (SiprNet). Nei registri delle chat del marzo 2010 ottenuti dal governo Usa, Manning parla con qualcuno chiamato alternativamente “Ox” e “associazione di stampa”. Il Doj è convinto che questo interlocutore sia Assange. Ma devono dimostrarlo definitivamente.Manning e questa persona, presumibilmente Assange, si sono impegnati in “discussioni”. «Durante uno scambio, Manning disse ad Assange che ‘dopo questo upload, è tutto quello che mi è rimasto’. Al che Assange rispose: ‘degli occhi curiosi non sono mai rimasti all’asciutto nel corso della mia esperienza’». Tutto questo non regge. I grandi media privati statunitensi pubblicano regolarmente fughe illegali di informazioni classificate. Manning offrì i documenti che aveva già scaricato sia al “New York Times” che al “Washington Post” – e fu respinto. Solo allora si avvicinò a Wikileaks. L’accusa secondo cui Assange abbia cercato di aiutare a decifrare la password di un computer è in giro dal 2010. Il Dipartimento di Giustizia sotto Obama ha rifiutato di avallarla, consapevole di ciò che significherebbe in termini di potenziale messa al bando del giornalismo investigativo. Non c’è da stupirsi che i media privati statunitensi, spogliati di uno scoop della massima importanza, abbiano successivamente iniziato a denunciare WikiLeaks come agente russo.Il grande Daniel “Pentagon Papers” Ellsberg aveva già avvertito nel 2017: «Obama ha aperto la campagna legale contro la stampa andando alle radici dei rapporti investigativi sulla sicurezza nazionale – le fonti – e Trump andrà dietro agli stessi raccoglitori/giardinieri (e i loro capi, gli editori). Per cambiare metafora, un’accusa ad Assange è il “primo uso” dell’opzione nucleare contro la protezione che il Primo Emendamento assicura alla stampa libera». Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia – essenzialmente il furto di una password del computer – sono appena l’inizio della valanga. Almeno per ora, la pubblicazione non è un crimine. Eppure, qualora sia estradato, Assange potrebbe essere accusato anche di ulteriori cospirazioni e persino della violazione della Legge sullo Spionaggio del 1917. Quantunque debba ancora chiedere il consenso di Londra per avanzare ulteriori accuse, al Dipartimento di Giustizia non mancano gli avvocati in grado di applicare sofismi per evocare un crimine dal nulla.Jennifer Robinson, l’abilissimo avvocato di Assange, ha giustamente sottolineato che il suo arresto è «un problema di libertà di parola» perché «riguarda i modi in cui i giornalisti possono comunicare con le loro fonti». L’inestimabile Ray McGovern, che conosce una o due cose sulla comunità di spionaggio degli Stati Uniti, ha evocato un requiem del quarto potere. Il contesto completo dell’arresto di Assange viene alla luce una volta esaminato che risulta conseguente al fatto che Chelsea Manning ha trascorso un mese in isolamento in una prigione della Virginia per aver rifiutato di denunciare Assange di fronte a un gran giurì. Non c’è dubbio che la tattica del Dipartimento di Giustizia sia quella di spezzare Manning con ogni mezzo disponibile. Ecco cosa dice la squadra legale di Manning: «L’atto d’accusa contro Julian Assange, dissigillato oggi, è stato ottenuto un anno prima che Chelsea comparisse davanti al Gran Giurì e si fosse rifiutato di rendere testimonianza. Il fatto che questa incriminazione sia esistita da oltre un anno sottolinea quanto la squadra legale di Chelsea e la stessa Chelsea hanno detto da quando è stata emessa una citazione per comparire di fronte ad un Gran Giurì federale nel distretto orientale della Virginia: che convincere Chelsea a testimoniare avrebbe duplicato le prove già in possesso del Gran Giurì e questo non era necessario affinché gli avvocati statunitensi ottenessero un’accusa contro Assange.»La palla è ora presso un tribunale del Regno Unito. Assange rimarrà indubbiamente in prigione per alcuni mesi per evitare la cauzione mentre procede l’estradizione secondo il dossier statunitense. Il Dipartimento di Giustizia ha verosimilmente discusso con Londra su come un giudice “adatto” possa fornire il risultato desiderato. Assange è un editore. Di suo non ha fatto trapelare assolutamente nulla. Anche il “New York Times” e il “Guardian” hanno pubblicato ciò che Manning aveva scoperto. “Collateral Murder”, tra le decine di migliaia di prove, dovrebbe essere sempre in prima linea nell’intera discussione: si tratta di crimini di guerra commessi in Afghanistan e in Iraq. Quindi non c’è da meravigliarsi che lo Stato Profondo americano non perdonerà mai Manning e Assange, benché il “New York Times”, in un altro lampante esempio di due pesi e due misure, potrebbe ottenere un lasciapassare. Il dramma alla fine avrà bisogno di essere chiuso nell’Eastern District della Virginia perché la sicurezza nazionale e l’apparato dell’intelligence hanno lavorato per anni a questa sceneggiatura, a tempo pieno.In qualità di direttore della Cia, Mike Pompeo è andato dritto al punto: «È tempo di chiamare Wikileaks per quello che è realmente: un servizio di intelligence ostile non statale spesso favorito da attori statali come la Russia». Quel che di fatto equivale a una dichiarazione di guerra sottolinea quanto in realtà sia pericoloso Wikileaks, per il solo fatto di aver praticato del giornalismo investigativo. Le attuali accuse del Dipartimento di Giustizia non hanno assolutamente nulla a che fare con l’ormai demistificato Russiagate. Ma aspettatevi che il successivo calcio politico sia roboante. Il campo di Trump al momento è diviso. Assange è sia un eroe pop che combatte contro la palude dello Stato Profondo, sia un umile scagnozzo del Cremlino. Allo stesso tempo, Joe Manchin, un senatore democratico del Sud, gioisce, stando agli atti, come un proprietario di una piantagione del diciannovesimo secolo, sul fatto che Assange sia ora “nostra proprietà”. La strategia democratica sarà quella di usare Assange per arrivare a Trump. E poi c’è l’Unione Europea, di cui alla fine la Gran Bretagna potrebbe non far parte, più tardi piuttosto che più presto. L’Unione Europea sarà molto vigile sul fatto che Assange venga estradato nell’“America di Trump”, poiché lo Stato Profondo si assicura che i giornalisti di tutto il mondo abbiano effettivamente il diritto: di rimanere sempre in silenzio.(Pepe Escobar, “Hai il diritto di rimanere sempre in silenzio”, da “Asia Times” del 13 aprile 2019; articolo tradotto da Costantino Ceoldo per “Megachip”).La data – 11 aprile 2019 – vivrà nell’infamia negli annali dei “valori” occidentali e della “libertà di espressione”. L’immagine è desolata. Un giornalista ed editore ammanettato è stato trascinato fuori con la forza dall’interno di un’ambasciata, mentre stringeva un libro di Gore Vidal sulla storia dello Stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Il meccanismo è brutale. Il co-fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, è stato arrestato perché gli Stati Uniti lo pretendevano dal governo britannico dei Tory, che per parte sua ha sostenuto di non aver fatto pressione sull’Ecuador per revocare l’asilo ad Assange. Gli Stati Uniti cancellano magicamente i problemi finanziari dell’Ecuador, ordinando al Fmi di rilasciare un provvidenziale prestito di 4,2 miliardi di dollari. Subito dopo, i diplomatici ecuadoriani “invitano” la polizia metropolitana di Londra a entrare nella loro ambasciata per arrestare il loro ospite di lungo termine. Andiamo al sodo. Julian Assange non è un cittadino statunitense, bensì australiano. WikiLeaks non è un’organizzazione di media basata negli Stati Uniti. Se il governo Usa dovesse ottenere che Assange sia estradato, processato e incarcerato, legittimerebbe il suo diritto di perseguire chiunque, comunque, ovunque, in qualsiasi momento. Chiamatelo l’Uccisione del Giornalismo.
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India, reddito universale in arrivo. L’Italia può sognarselo
In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».Il Sikkim ha un’economia basata sul un turismo di élite e sulla vendita dell’energia derivante dalle risorse idriche di cui dispone, alimentate dai ghiacciai dell’Himalaya. Lo Stato inolte garantisce la casa a tutti i cittadini, a cui ora darà anche un reddito. «La finalità della decisione è quella di accorciare il gap economico fra i cittadini, con la speranza che, almeno localmente, non segua il trend mondiale che vede i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri», spiega Guido da Landriano. “Scenari Economici” fa notare che esistono altri esperimenti in corso, nel mondo, sul reddito universale o reddito di cittadinanza: a Stockton, in California, tutti cittadini senza lavoro hanno ricevuto 630 dollari per 18 mesi. «Solo che nel Sikkim a ricevere il denaro saranno tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che ricevano un reddito o meno». Proprio la difficoltà nel dedurre l’identità degli aventi diritto ha invece paralizzato il governo italiano, a cui l’Unione Europea ha peraltro accorciato ulteriormente la “coperta” disponibile per soccorrere le fasce sociali più deboli.«A questo punto, viste le affermazioni dei politici italiani – chiosa “Scenari Economici” – ci sarà da attendere un boom di vendite della catena “Divani & Divani”, perché tutti i cittadini cesseranno di lavorare». Aggiunge, Guido da Landriano: «Tutti, poveri e ricchi, smetteranno di lavorare perché avranno un reddito minimo». C’è da sperare che, su quei divani, «si trasferiscano un po’ di deputati di Forza Italia e del Pd che, purtroppo, infestano il dibattito politico italiano». Se la cosiddetta opposizione spara a man salva sui provvedimenti sociali dell’esecutivo Conte, va però ricordato che gli stessi gialloverdi – dopo aver promesso un vero reddito di cittadinanza, nel “contratto di governo” – non hanno osato resistere al diktat neoliberista dell’Ue, votato al rigore più suicida: prima hanno proposto nel Def 2019 un timidissimo deficit al 2,4% (inferiore al tetto del 3% fissato arbitrariamente da Maastricht) e poi hanno rinunciato pure a quello, ripiegando sull’umiliante 2,04%. Tradotto: l’Italia non può fare come il Sikkim. Anche perché l’India è un paese sovrano, dotato di propria moneta: non deve rispondere a nessuna Ue, né tantomeno pagare per avere il denaro che le serve.In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».
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Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
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Trump contro la Merkel, cioè l’ordoliberismo imposto all’Ue
Il “Washington Post” di Jeff Bezos, patron di Amazon, cioè «uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al Deep State che non ama Donald Trump», ha puntualmente anticipato la notizia: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35.000 soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi», scrive Fulvio Scaglione su “Linkiesta”: sono studi, dicono ufficialmente, che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della difesa. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame, ed chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso, osserva Scaglione, specie se si pensa che Trump «ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio». Forse la Merkel “se l’era cercata”, «andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia».Ma le “caramelle” che Trump ha messo sul tavolo dell’ultimo G7, unite alla firma negata al comunicato finale, sono state uno schiaffo. «Se poi fosse confermato il progetto di ritirare le truppe (e magari spostarle nella fedele Polonia, come si vocifera), capiremmo che Trump vuole anche ritirare la delega a garante del sistema euro-atlantico che la Germania storicamente detiene, un po’ come il Giappone la detiene in Asia», aggiunge Scaglione. Perché Trump ce l’ha con la Germania? Dalla Casa Bianca, scrive “Linkiesta”, si nota con evidenza che negli ultimi anni l’Unione Europea ha avuto una sola guida (quella tedesca) e una sola politica: quella decisa, o consentita, dalla Germania. Mortificare la Merkel, approfittando delle sue attuali difficoltà, significa mortificare tutta la gestione tecnocratica dell’orribile Ue. All’America, secondo Scaglione, possono dare fastidio – Cina e Russia a parte – solo le grandi coalizioni a forte impatto economico, come appunto l’Unione Europea. «In altre parole: stronchi la Germania e tagli la testa alla Ue». Trump denuncia lo scarso contributo che la Germania offre alle spese della Nato. Su Twitter ha scritto che la Germania «versa (lentamente) l’1% del proprio Pil alla Nato», mentre gli Usa versano il 4% di un Pil molto più grande. Il messaggio: «Proteggiamo l’Europa (il che è una buona cosa) al prezzo di un grande sforzo economico».E da questo a temere che Trump abbia in mente un ridimensionamento dell’impegno Usa nella Nato per alcuni il passo è breve, scriove Scaglione: soprattutto negli Usa, in quel complesso militar-industriale che condiziona in modo molto pesante la politica americana, arricchendosi con guerre e impegni militari. E siamo all’oggi: l’11 e 12 luglio Trump sarà a Bruxelles per il summit della Nato, il 13 sarà a Londra per incontrare Theresa May che organizza la Brexit e il 16 a Helsinki per vedersi con Vladimir Putin. «Un filotto che fa fibrillare molte cancellerie, e infatti già si agitano gli sherpa: ex ambasciatori, esperti e giornalisti impegnati a sottolineare quanto sarebbe rischioso, per l’Europa, se il criticone Trump, magari incautamente perché è uno sciocco, promettesse chissà che allo Zar». E allora, aggiunge Scaglione, «vai con il Russiagate e le bufale accluse, mentre ancora aspettiamo le famose chiarissime prove dell’avvelenamento col gas nervino “made in Russia” di Skripal padre e figlia».È chiaro, chiosa “Linkiesta”: se produci carri armati e bombardieri, ti fa comodo annunciare un giorno sì e uno no che il nemico è alle porte. Ma i governi di Francia, Germania, Italia e Spagna credono davvero che l’Armata Rossa aspetti solo il momento di marciare verso Ovest? E che non ci sarebbero stati Trump, Brexit, Catalogna e governo gialloverde in Italia se gli hacker russi non avessero digitato come pazzi? Quello che la Ue non riesce a capire, sostiene Scaglione, è che siamo entrati in un mondo nuovo: «La vecchia idea che tutti insieme si commercia, si guadagna e si sorride è morta con la crisi finanziaria del 2008. E l’idea, ancor più vecchia, che basta nascondersi sotto le gonne dello Zio Sam, delle sue rivoluzioni colorate e dei suoi convenienti cambi di regime, è morta in Ucraina e in Siria». Beninteso: «Non è Trump che ha cambiato il mondo, è il mondo cambiato che ha fatto arrivare lui alla Casa Bianca. La Ue è un nano politico anche perché non vuole accettarlo. E prima di decidere alcunché si chiede “ma questo piacerà o non piacerà a Putin?”, mentre il suo vero problema è quel che piace o non piace a Trump».Il “Washington Post” di Jeff Bezos, patron di Amazon, cioè «uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al Deep State che non ama Donald Trump», ha puntualmente anticipato la notizia: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35.000 soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi», scrive Fulvio Scaglione su “Linkiesta”: sono studi, dicono ufficialmente, che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della difesa. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame, ed chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso, osserva Scaglione, specie se si pensa che Trump «ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio». Forse la Merkel “se l’era cercata”, «andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia».
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Clinton, pedofili al potere: e Trump mobilita il Pentagono
Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dai Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, prove alla mano) hanno il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.«Che i media siano controllati e che si auto-censurino per salvarsi il sedere, lo sa anche un cacciavite», premette. «Ma che due notizie bomba sul presidente della nazione più potente del mondo, e accessibili a tutti, scomparire nel nulla sui maggiori media occidentali, per un ordine di scuderia, questo non lo credevo». Attenti: nei Pentagon Papers, nel Watergate, nell’Iran-Contras, nell’Iraq-gate, i fatti erano occulti. Qui invece «sono pubblici e accessibili da una pensionata, riguardano l’uomo più potente del pianeta, eppure sono stati ‘suicidati’ e sepolti da tutti i grandi media con un accordo e con una sincronia scioccanti». In pratica, «i media non esistono più». Trump è sotto attacco da parte di due “Stati ombra” ben noti: il raggruppamento dei servizi segreti (Cia, Nsa, Nga, Fbi) che va sotto il nome di Shadow Government, e le maggiori corporations coi loro lobbysti che foraggiano il Congresso: Big Oil, Big Pharma, Big Banks, Big Media, Arms Industry e Silicon Valley, che passano sotto il nome di Deep State. Nota per gli scettici: chiunque neghi l’esistenza e i poteri di questi apparati, liquidandoli con la parola “complottismo”, «non ha mai letto una pagina del “New York Times”, del “Washington Post” o sentito di P2 e stragismo in Italia, quindi è un cretino».Donald Trump? Un presidente «incontrollabile, e forse anche mentalmente instabile», ma proprio per questo «ha devastato la sacra tradizione di almeno 70 anni di presidenze americane, dove le politiche reali furono sempre influenzate o truccate da Shadow Government e Deep State, fino alla presidenza Obama inclusa». Conclusione: «Trump va quindi abbattuto. Ma quest’uomo è molto meno fesso di ciò che appare», scrive Barnard. O meglio: «Si è circondato di alcuni dei più brillanti ‘Rasputin’ di tutta la storia moderna». Messo sotto assedio, ha quindi contrattaccato con quei due numeri, 13818 – 82 FR 60839. Premessa: «Donald Trump è sotto una ‘Dresda’ di bombe per abbatterlo», fra cui il presunto accordo-scandalo con Putin per truccare le elezioni 2016, che coinvolge anche la sua famiglia (e la relativa inchiesta è nelle mani dell’implacabile ex direttore dell’Fbi Robert Mueller). Sconta «accuse di grave instabilità mentale da impeachment», apparentemente documentate dall’esplosivo bestseller “Fire and Fury” di Michael Wolff: «Una presunta serie di abusi sessuali ai danni di donne lungo la sua carriera sia da businessman che come politico». Poi c’è una sfilza di accuse a membri del suo governo (Steve Mnuchin, Ryan Zinke, Tom Price) per uso personale di denaro pubblico. «Tutti questi scandali s’appoggiano pesantemente sui poteri e/o sulle spiate dello Shadow Government».Ce n’è a sufficienza per demolire chiunque, osserva Barnard. E Trump, senza quel micidiale documento (che ha firmato il 20 dicembre 2017) sembrava un gigante dai piedi d’argilla. «Non controlla l’Fbi, prima diretta dal suo arci-nemico Comey e oggi da Christopher Wray che a sua volta non controlla l’Fbi». In più Trump «non controlla la Cia, diretta da Mike Pompeo, che a sua volta non controlla la Cia». Di più: «Non controlla la Nsa diretta dall’ammiraglio Michael Rogers, che a sua volta non controlla la Nsa». Donald Trump «non ha nessuna influenza sulla Nga, che gioca un ruolo centrale in tutte le inchieste di massima sicurezza in America». Questo, per quanto riguarda lo Shadow Government. «Poi è troppo ricco per poter essere comprato dal Deep State, che – specialmente con Wall Street e la dirigenza ebraica americana – è lo sponsor principale dei democratici, e di tutti i repubblicani ostili al presidente». Poi, continua Barnard, quattro giorni prima di Natale cade la bomba 13818 – 82 FR 60839. «E, usando un’impareggiabile espressione americana, “the shit hit the fan” (la merda finì nelle pale del ventilatore)». Attenzione: l’ordine esecutivo «è uno degli atti legislativi americani più dirompenti da sessant’anni». Cosa dice? Colpisce con le massime armi – militari, giuridiche e finanziarie – chiunque si renda colpevole di violazioni dei diritti umani e di corruzione, negli Usa e nel mondo».L’ordine esecutivo presidenziale «colpisce anche i governi esteri coinvolti, i loro funzionari, e qualsiasi complice in qualsiasi forma». Di più: «Va a colpire queste infami catene là dove gli fa più male, cioè nei soldi, con il blocco e la confisca dei loro denari, proprietà, titoli, azioni, anche nelle loro forme più maliziosamente nascoste o lontanamente imparentate». Certo, «sappiamo che Trump non è Mandela», e infatti quel decreto è stato scritto «per mitragliare a morte un settore ben preciso delle violazioni dei diritti umani». Nel mirino c’è una piaga indicibile: «Il mercato dei minori per pedofilia, nel bacino più ampio dei trafficanti di persone». Infatti, spiega Barnard, il presidente aveva anticipato questa legge il 23 febbraio 2017 in conferenza stampa, rilanciata dalla “Associated Press”, «dove parlò proprio di traffici umani per pedofilia». Ma perché? «Perché Trump sa bene che questo abominio, l’abuso di minori venduti, sembra aver infettato la maggioranza dei vertici del Deep State, col silenzio dello Shadow Government, e con un presunto forte coinvolgimento di una notissima beneficienza: la Clinton Foundation». Come fa Trump a saperlo? «Da anni ne parla in pubblico un ex pezzo grosso della Cia, più altre fonti autorevoli». Sicché, il suo “executive order” «colpirà proprio i suoi nemici».In questo preciso momento, giura Barnard, «negli Stati Uniti alcuni altissimi nomi stanno tremando, e precisamente dalla mattina del 21 dicembre scorso, quando l’“executive order” 13818 – 82 FR 60839 è stato pubblicato ‘in Gazzetta’ a Washington». Un conrattacco mortale: «Jfk fu ucciso per meno, a quanto sappiamo fino ad oggi. Infatti i ‘Rasputin’ di Trump sapevano che la vita del presidente sarebbe stata immediatamente in pericolo dopo quell’ordine esecutivo». Proprio per questo, infatti, «hanno fatto la pensata di tutte le pensate». Cioè: il ricorso d’emergenza al Pentagono. Nelle prime righe dell’“executive order”, il presidente scrive: «Io perciò decido che i gravi abusi dei diritti umani, e la corruzione, nel mondo costituiscono un’insolita e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale». Notare: le parole “minaccia” e “sicurezza nazionale”, pronunciate dal presidente degli Stati Uniti, «implicano l’immediata mobilitazione di tutto l’esercito americano, cioè del Pentagono. E’ di fatto un preallarme di guerra, e di conseguenza le protezioni intorno al presidente divengono massime. E quando si muove il Pentagono non esiste nulla al mondo, se non un arsenale nucleare straniero, che possa batterlo. Questo è ultra-chiaro a tutti gli apparati di Deep State e Shadow Government, che ora sono in “deep shit”, nella merda fino al collo, per essere chiari».Non è stato un caso che Trump abbia messo nei posti chiave a Washington tre generali, e un ammiraglio a capo dei più potenti 007 degli Usa, sottolinea Barnard. «Abbiamo il generale James “Mad Dog” Mattis come ministro della difesa, il generale John Kelly come White House Chief of Staff e il generale H. R. McMaster come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Poi, anche se boicottato dai suoi sottoposti, c’è l’ammiraglio Michael Rogers a capo dalla Nsa. Insomma, il Pentagono. Trump sarà anche scemo, ma cosa sia lo Shadow Government lo sapeva benissimo, e si è protetto». Protezioni salva-vita, ora che Trump – per sfuggire all’assedio di cui è vittima – incalza i suoi nemici, capeggiati da Hillary Clinton, con quell’ordine esecutivo concepito «per metterli in un angolo con indagini profonde sul traffico internazionale di minori per pedofilia, in cui sarebbero coinvolti molti vertici Usa del Deep State, inclusi i Clinton, col silenzio dello Shadow Government». “The Donald” lo sta facendo «coprendosi le spalle con l’intero esercito degli Stati Uniti». Del resto, l’argomento toccato è off limits: pedofilia e potere, “non aprite quella porta”. Nessuno aveva mai osato tanto: l’abuso di bambini, nelle alte sfere, è un tabù inaccessibile. Chi tocca, muore.«Esisterebbe dunque un traffico di minori per pedofili di altissimo livello ai vertici del Deep State, inclusi i Clinton», scrive Barnard. «Trump apprende questo da molte fonti, la prima delle quali è l’ex agente e dirigente pluridecorato della Cia Kevin M. Shipp. Costui, senza la fama attribuita al suo collega ‘whistleblower’ Edward Snowden, sta rivelando da anni il livello di marciume criminale che davvero permea lo Shadow Government in America». Shipp è stato esperto di anti-terrorismo, guardia del corpo di due direttori della Cia. Era ai vertici della Counterintelligence, ed è stato citato dal “New York Times” come «veterano della Central Intelligence Agency». In altre parole: «Non è proprio un signor nessuno nello Shadow Government americano». Barnard ricorda che da anni il “Washington Times”, il “New York Post” e l’inglese “Guardian” «riportavano notizie certe sui cosiddetti “Voli Lolita” – cioè voli su un jet privato per orge con minori – organizzati dal miliardario pedofilo Jeffrey Epstein». Per dire: «Bill Clinton, secondo gli atti del processo che condannò Epstein, fu ospite 26 volte su quei voli». Altri nomi di alto rango trovati nell’agenda “nera” del miliardario «furono Tony Blair, Michael Bloomberg, Richard Branson fra molti altri, e i cellulari delle minori schiave del sesso fra cui “Jane Doe N.3”», una ragazzina che negli atti processuali ha dichiarato di «essere stata costretta a rapporti sessuali con diversi politici americani, top businessmen, un premier famosissimo e altri leader internazionali».Nel 2006, continua Barnard, «Epstein fece una grassa donazione alla Clinton Foundation». Nella capitale Usa, la Ong di Conchita Sarnoff, “Alliance to Rescue Victims of Trafficking”, ha decine di files su “potere e pedofilia”. Un incubo? Certo. «Ora, provate a trovare traccia sui grandi media italiani o americani dell’esplosivo affare». Niente: silenzio assoluto sui nomi coinvolti, «come Bill e Hillary Clinton, Robert Mueller, Kevin M. Shipp». Sui media, le espressioni Deep State e Shadow Government neppure compaiono. «Attenti, non parliamo di una legge del Nicaragua, ma del presidente americano più discusso e delegittimato della storia». Silenzio stampa totale: ne accenna il solo “Financial Times”, «ma svuotando tutta la news». Peggio: il 19 gennaio, giunge al Congresso un memorandum «che sembra contenere le prove delle azioni della Clinton, coi soldi del Partito Democratico, col silenzio di Cia ed Fbi, per usare i poteri “tech” della Nsa permessi dalla legge Fisa, sotto la presidenza di Obama… e il tutto per spiare la campagna elettorale di Trump, per corrompere testimoni russi a dire il falso contro il neo-eletto presidente, e con la collusione di Londra».“Fox News” titola: “Molto più grave del Watergate”. Il sito di finanza “Zero Hedge” pubblica all’istante i Tweet di alcuni senatori americani sotto shock, con parole come «questo memorandum manderà a spasso un sacco di gente, al Dipartimento della Giustizia, e certi nomi finiranno in galera», dalla bocca del senatore Matt Gaetz. Roba da invadere le prime pagine di “New York Times” e “Repubblica”, passando per “Cnn”, “Bbc” e “Rai”. «Nulla. Vado su “Fox News”, e in prima non c’è più nulla! Perdo il fiato. Ma lo recupero quando “Zero Hedge” pubblica un Tweet del più autorevole fra gli autorevoli, Edward Snowden, che conferma tutto». Eppure, di nuovo – scrive Barnard – ago e filo «hanno cucito la bocca e le dita di tutto il mondo dei media che contano in un istante, e con un potere di assolutismo che davvero non credevo possibile a questo livello». Ipotesi: «E’ possibile che lo stesso Donald Trump sia parte di questa incredibile congiura del silenzio, per barattare coi suoi nemici e per poterli poi ricattare per anni, ma ciò non cambia la sostanza». Sotto i nostri piedi si sta spalancando un abisso: «Non fate figli», chiosa Barnard.Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dal clan Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, probabilmente ricattabili a vita) hanno comunque il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.