Archivio del Tag ‘Vladimir Putin’
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Chiesa: siamo seri, Putin non voleva nemmeno la Crimea
L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.Vero, per carità, che Putin non ha “controparti interne”. Ma occorre aggiungere che il consenso che oggi circonda Putin è altissimo e tale che nemmeno in Occidente lo si mette in discussione (se non per dire che i russi sono un popolo bue, incompatibile con la nostra, superiore democrazia). Resta il fatto che il grande pubblico della società dello spettacolo, al 99%, non sa nulla né delle reali intenzioni della Russia di Putin, né dei suoi gesti politici. Si afferma, come un dato scontato (e scontato non è affatto) che Putin voglia conquistare l’Ucraina e che lo stia facendo in modo subdolo, “allestendo la protesta sul suolo ucraino”. Ho numerosi argomenti forti a sostegno della tesi che Putin desidera, in ogni modo, evitare l’annessione delle due regioni del sud est ucraino, cioè il Donbass e il Lugansk. Aggiungo che ho abbondanza di prove che Putin avrebbe volentieri evitato anche il referendum della Crimea.Ma capisco che questo lo si può capire solo se ci si libera di una parte del veleno russofobico che tutti siamo costretti a ingoiare. Basti un solo dato di fatto, incontrovertibile. I dodici milioni di russi dell’Ucraina sud-orientale (inclusi i due milioni di crimeani) non hanno mosso nemmeno il mignolo del piede sinistro durante i cinque mesi che hanno preceduto il colpo di Stato che ha abbattuto Yanukovic. Come mai? Il fatto è che non Putin ha assunto l’iniziativa dell’offensiva, ma gli Stati Uniti. I russi di Ucraina sono stati tranquilli e sottomessi fino a che non è emersa a Kiev la giunta con le pustole naziste che adesso conosciamo. Solo allora hanno cominciato, all’improvviso, a preoccuparsi, prima, e poi a reagire. Se si pensa che sia Putin a allestire la protesta nel Donbass, temo che si sbagli. Un conto è sostenere il peso dell’ingresso della Crimea. Un altro conto sarebbe assumersi il peso di un paese di oltre dieci milioni di persone, due volte la Svizzera.E, probabilmente, non si sa nulla della lettera che, nel pieno della crisi, Putin ha inviato a diciotto capi di governo dell’Europa, invitandoli a sedersi attorno a un tavolo per risolvere, insieme, il problema economico e sociale dell’Ucraina. Il mainstream italiano ha negato le notizie essenziali. L’altro errore, sesquipedale, è nel considerare Yanukovic come un uomo di Putin. Se avessimo seguito da vicino le vicende ucraine degli ultimi 23 anni, sapremmo che nessuno dei quattro presidenti che si sono succeduti a Kiev dopo la sua prima e unica indipendenza nazionale è stato “uomo di Mosca”. Sono stati tutti e quattro degli agenti dell’Occidente. Lo fu Kravchuk; lo fu Kuchma; lo fu, ovviamente, l’arancione Yushenko. Lo era anche l’oligarca Yanukovic. Il quale promosse e condusse, con totale miopia e stupidità, la trattativa con l’Europa che avrebbe dovuto sfociare nel trattato di Vilnius.Ovvio che Putin abbia cercato di fermarlo, nell’interesse della Russia. Ma non risulta che abbia organizzato un colpo di Stato per abbatterlo. Gli promise un prestito a tasso agevolato di 15 miliardi di dollari, più due miliardi all’anno di sconto sulla bolletta del gas. Se questa è un’aggressione, allora io devo aver dimenticato il vocabolario italiano. E poi, una domanda: tutti fanno i propri interessi, o sbaglio? E perché mai l’unico cui non è permesso di fare i propri interessi, per giunta senza spargimento di sangue, per giunta nelle immediate vicinanze delle sue frontiere, dovrebbe essere Putin? Strane pretese. E quale “civile difesa” dei propri diritti resterebbe ai russi di Ucraina alla luce del mostruoso pogrom di Odessa?Mi fermo qui. Io non sono né un “volontario forzato”, né un “partigiano senza domande”. A me pare di ragionare da europeo con la testa sul collo. Questa crisi è stata creata artificialmente da Washington (ricordate il “fuck Eu” della signora Victoria Nuland?). È destinata a colpire la Russia, senza dubbio, ma anche l’Europa, sottoponendola a un controllo strettissimo da parte Usa e tagliandole legami economici vitali, a cominciare da quelli energetici, con la Russia. Resta la domanda: ma non potevano aspettare le prossime elezioni, tra un anno, per fare fuori Yanukovic? Invece hanno avuto fretta. Proviamo a chiederci da dove è venuta tanta fretta americana e di parte dell’Europa. Io penso che l’Europa dovrebbe avere con la Russia un partenariato strategico amplissimo. Non vorrei più essere suddito dell’Impero, proprio mentre l’Impero non è più tale, vacilla, diventa sempre più aggressivo e irresponsabile. Dunque pericoloso. Non voglio andare in guerra. Contro nessuno. Dunque penso. Dunque cerco di difendermi.(Giulietto Chiesa, sintesi dell’intervento “Russia-Ucraina, chi fa propaganda e chi la subisce”, pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” il 7 maggio 2014, in risposta alle domande di un lettore).L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.
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Vergogna Europa, critica Putin ma non tutela Snowden
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».In Ucraina, «l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia», scrive la Spinelli in un intervento su “Repubblica”, ripreso da “Micromega”. «Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe». Così, non sapendo parlare con Mosca, gli europei «lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos, inasprendolo: è Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est». L’Europa «sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita, quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario».Depoliticizzata, l’Europa «subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano», che vorrebbe fare di Kiev il nuovo scudo orientale della Nato, «nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità». Si pensa ad un’Ucraina «occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia». Ha ragione Mosca, che «chiede che il paese diventi una federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti». Strano, aggiunge Barbara Spinelli, che a domandarlo «non sia l’Europa, con le sue esperienze». Ma è questa Europa, assolutamente passiva nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). «Una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici».Anche Barbara Spinelli condivide l’allarme da più parti segnalato: «Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti». Salute a rischio: «I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost». E sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sulle emissioni di anidride carbonica. «Una controffensiva Ue contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa». Il piatto è magro: solo un aumento dello 0,5% del Pil, a pieno regime (nel 2027) secondo l’istito “Prometeia”, mentre l’istituto austriaco “Öfse” (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione del mercato del lavoro imposta dal Trattato Transatlantico.Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. «Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe». Tutto questo, in nome della “semplificazione burocratica”: «Parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa». Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè «parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci e molto altro ancora». Eppure, per l’Europa va bene così. D’altronde, questa è l’Europa della battaglia «indolente e infruttuosa» contro i piani di sorveglianza della Nsa disvelati da Edward Snowden nel 2013.Un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici: «Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza». I governi dell’Unione? «Hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente». In un messaggio al Parlamento Europeo, stesso Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati: totalmente impotenti di fronte al Datagate. «La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica», osserva Spinelli. «L’esistenza di smascheratori di misfatti – non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione – potenzia la democrazia». Proprio per questo, è paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso – il “soffiatore di fischietto” – abbia trovato riparo «non in un’Europa che promette nella sua Carta la “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, ma nella Russia di Putin».Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».
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Kiev, la guerra sporca di Obama per fermare la Cina
«Le provocazioni degli Stati Uniti in Ucraina non possono essere comprese se si prescinde dal “Pivot Asiatico”», ovvero il grande piano strategico concepito da Washington «porre sotto controllo la crescita cinese, in modo da renderla compatibile con le ambizioni egemoniche degli Stati Uniti». I “cacciatori di draghi”, sostiene Mike Whitney, sono per una strategia di contenimento, mentre i “panda huggers”, cioè gli occidentali filo-Pechino, vorrebbero un “fidanzamento”. Non si sa chi riuscirà a prevalere, ma è chiaro fin d’ora che «dipenderà in modo pesante dalla forza militare», considerando anche le ostilità in atto nel Mar Cinese Meridionale e nelle isole Senkaku, contese al Giappone. Cos’ha a che fare il controllo della Cina con il polverone alzato in Ucraina? Facile: Washington teme la Russia come formidabile fornitore di energia, lungo l’asse eurasiatico. Ecco perché «ha deciso di utilizzare l’Ucraina come banco di prova per un attacco contro la Russia: una Russia forte ed economicamente integrata con l’Europa è una minaccia per l’egemonia degli Stati Uniti».Washington, scrive Whitney in un post su “Counterpunch” ripreso da “Come Don Chisciotte”, vuole una Russia debole, impossibilitata a sfidare la presenza americana in Asia Centrale, dove gli Usa puntano a controllare le risorse energetiche vitali. «La Russia fornisce attualmente circa il 30% del gas naturale necessario all’Europa Centrale e all’Occidente, il 60% del quale transita attraverso l’Ucraina. Le popolazioni e le imprese europee dipendono dal gas russo per riscaldare le loro case e per fornire energia ai loro macchinari». Il rapporto di scambio tra Ue e Russia? E’ «reciprocamente vantaggioso», perché «rafforza sia il compratore che il venditore», mentre escude gli Usa, che «non guadagnano nulla dal partenariato Ue-Russia, ragione per cui Washington vuole bloccare l’accesso di Mosca ai mercati “critici”: questa forma di sabotaggio commerciale va considerato come un atto di guerra».I rappresentanti delle “Big Oil”, le più grandi multinazionali del settore energetico, conosciute anche come “supermajors”, tempo fa pensavano di poter competere con Mosca attraverso la costruzione di sistemi alternativi, come il Nabucco. «Ma il piano è fallito, e così Washington è passata al piano-B, ovvero al taglio del flusso di gas dalla Russia verso l’Ue». Interponendosi tra i due partner commerciali, continua Whitney, gli Stati Uniti «sperano di poter sovrintendere alla futura distribuzione delle forniture energetiche, e di controllare la crescita economica dei due continenti». Il problema che Obama sta per avere? «Convincere i cittadini dell’Ue che i loro interessi siano stati effettivamente serviti, visto che dovranno pagare il gas, nel 2015, il doppio di quanto hanno fatto nel 2014 – che è quello che succederà se il piano statunitense dovesse riuscire». Per centrare l’obiettivo, gli Stati Uniti «stanno facendo di tutto per attirare Putin in un “confronto”, in modo che i media lo possano trattare alla stregua di un vizioso aggressore che minaccia la sicurezza europea».La demonizzazione di Putin, aggiunge Whitney, fornirà le giustificazioni necessarie per fermare il flusso di gas fra la Russia e l’Ue, indebolendo ulteriormente l’economia russa e dando nuove opportunità alla Nato per impiantare basi operative sul perimetro occidentale della Russia. «Non fa alcuna differenza, per Obama, se le persone saranno strozzate dai prezzi del gas, o se dovranno semplicemente morire congelate dal freddo. Ciò che conta davvero è la politica del “pivot” nei riguardi dei mercati più prosperi e promettenti del prossimo secolo». Ciò che conta, per la Casa Bianca, «è schiacciare Mosca tagliando le sue vendite di gas naturale, erodendo al contempo la sua capacità di difesa ed i suoi interessi». Per cui, «seguire gli incidenti giornalieri in Ucraina come se fossero separati dal quadro generale è semplicemente ridicolo», osserva Whitney. «Fanno tutti parte della stessa folle strategia».Ne parla apertamente uno stratega come Zbigniew Brzezinski, che a “Foreign Affairs” spiega che «l’Eurasia è ora la scacchiera geopolitica decisiva: non si può più adottare una politica per l’Europa ed un’altra per l’Asia», visto che l’obiettivo è «il primato globale dell’America». Per questo, dice Whitney, «la Cia ed il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti hanno attuato il colpo di Stato per rovesciare il presidente ucraino Viktor Yanukovich, per poterlo rimpiazzare con un loro fantoccio», il premier Arseniy Yatsenyuk, che a sua volta ha ordinato due “operazioni antiterrorismo” per «reprimere gli attivisti disarmati dell’Ucraina Orientale che si oppongono alla giunta di Kiev». Obama, inoltre, «ha evitato d’impegnarsi con Putin in un dialogo costruttivo, volto a trovare una soluzione pacifica alla crisi attuale», perché «vuole impegnare il Cremlino in una lunga guerra civile per indebolire la Russia, screditare Putin e spostare l’opinione pubblica dalla parte degli Stati Uniti e della Nato».Putin sa già quello che vuole Obama: la guerra. «Ecco perché il direttore della Cia, John Brennan, è apparso a Kiev il giorno precedente a quello in cui il premier-golpista Yatsenyuk ha ordinato il primo giro di vite sui manifestanti pro-russi nell’est del paese». Ed ecco perché il vicepresidente americano Joe Biden è apparso a Kiev «solo poche ore prima che Yatsenyuk lanciasse il suo secondo giro di vite su quei manifestanti». Alimentare l’incendio: è quello a cui mira Washington, cercando di coinvolgere l’Europa in sempre nuove sanzioni contro Mosca. Dettaglio decisivo: a rimetterci è soprattutto l’Europa. Il peggio, ovviamente, è l’escalation militare. «Sembra che Washington abbia la necessità di attirare le truppe russe in un conflitto», aggiunge Whitney. «Putin ha dichiarato ripetutamente che “risponderà”, se dei russi dovessero essere uccisi in Ucraina. E’ questa la linea rossa da non superare». L’ha ripetuto il ministro degli esteri Sergej Lavrov, solitamente pacato, definendo «criminale» l’attacco di Yatsenyuk ai civili ucraini: «Un attacco ai cittadini russi – avverte Lavrov – sarà considerato come un attacco alla Federazione Russa». Putin finirà nella mischia? Nel caso, è meglio non dimentare la posta in gioco: Mosca, per Obama, è solo l’antipasto. Poi viene Pechino.«Le provocazioni degli Stati Uniti in Ucraina non possono essere comprese se si prescinde dal “Pivot Asiatico”», ovvero il grande piano strategico concepito da Washington «porre sotto controllo la crescita cinese, in modo da renderla compatibile con le ambizioni egemoniche degli Stati Uniti». I “cacciatori di draghi”, sostiene Mike Whitney, sono per una strategia di contenimento, mentre i “panda huggers”, cioè gli occidentali filo-Pechino, vorrebbero un “fidanzamento”. Non si sa chi riuscirà a prevalere, ma è chiaro fin d’ora che «dipenderà in modo pesante dalla forza militare», considerando anche le ostilità in atto nel Mar Cinese Meridionale e nelle isole Senkaku, contese al Giappone. Cos’ha a che fare il controllo della Cina con il polverone alzato in Ucraina? Facile: Washington teme la Russia come formidabile fornitore di energia, lungo l’asse eurasiatico. Ecco perché «ha deciso di utilizzare l’Ucraina come banco di prova per un attacco contro la Russia: una Russia forte ed economicamente integrata con l’Europa è una minaccia per l’egemonia degli Stati Uniti».
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Licenziamo i cialtroni del gas: solo rinnovabili dal 2030
Attenti ai soliti furbastri dell’energia sporca: saranno i primi ad approfittare della crisi tra Usa e Russia sull’Ucraina, secondo la più classica “Shock Doctrine”, che consiste nel creare un allarme a tavolino per imporre soluzioni d’emergenza che frutteranno miliardi. Lo sostiene Naomi Klein, secondo cui le pressioni americane per sganciare l’Europa dal gas russo sono una autentica follia, addirittura letale per l’ecologia statunitense, il cui territorio verrebbe letteralmente terremotato dal fracking. Ma la vera pazzia è illudersi che il metano sia una sorta di energia pulita, un “ponte” tra le fonti fossili – petrolio e carbone – e le rinnovabili. Unica soluzione veramente strategica e intelligente? Pensare da subito all’adozione di tecnologie di massa per rimpiazzare la vecchia energia, gas compreso, puntando a una produzione “pulita” al 100%, fatta solo di acqua, sole e vento.La crescente isteria anti-russa, scrive la Klein in un intervento sul “Guardian” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ha produtto due disegni di legge presentati frettolosamente al Congresso Usa, che propongono l’esportazione di gas naturale liquefatto (Lng), in nome di un aiuto all’Europa per svincolarla dalla dipendenza dai combuatibili fossili di Putin e migliorare la sicurezza nazionale statunitense. Dietro alla manovra, non è difficile individuare la “firma” di colossi come Chevron e Shell, che beneficiano dello “stato d’emergenza” creato con le tensioni con Mosca. «Perché questa strategia funzioni, è importante non cercare mai il pelo nell’uovo. Come il fatto che gran parte del gas non andrà mai in Europa – perché gli accordi dicono che il gas deve essere venduto sul mercato mondiale a qualsiasi paese faccia parte del Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. O il fatto che per anni l’industria ha fatto passare il messaggio che l’America debba accettare il rischio che corrono, a causa del fracking idraulico, il territorio, l’acqua e l’aria, pur di aiutare il paese a raggiungere “l’indipendenza energetica”».E adesso, aggiunge la Klein, «all’improvviso e di nascosto, l’obiettivo è stato spostato sulla “sicurezza energetica”», il che significa «vendere sul mercato mondiale il gas “fracked”», creando «una dipendenza energetica all’estero». Ma la cosa più importante, secondo la saggista, è che nessuno dica mai che «la costruzione delle infrastrutture necessarie per esportare il gas su larga scala richiede molti anni». Un singolo terminale Lng «può arrivare a costare sette miliardi di dollari, deve essere alimentato da una fitta rete a incastro di metanodotti e di centrali di compressione, e ha bisogno di una propria centrale elettrica solo per generare l’energia che serve per liquefare il gas attraverso il super-raffreddamento». Nell’attesa che questi progetti industriali tanto complessi entrino in funzione, Germania e Russia potrebbero anche essere diventati amici tra di loro. «Ma poi qualcuno si ricorderà che la crisi in Crimea fu solo una scusa colta al volo dall’industria dei petrolieri per far avverare il loro eterno sogno di esportare il gas, a prescindere dalle conseguenze per la società che provoca il fracking e quello che sarà di un pianeta sempre più cotto».Per Naomi Kleni, quello delle “sette sorelle” è «un vero talento nello sfruttare le crisi», realizzando profitti stellari. «Sappiamo tutti come funziona: in tempi di crisi – vera o artificiosa – le nostre élites riescono sempre a far imporre scelte politiche impopolari che sono dannose per tutti, ma che vengono adottate per motivi di emergenza. Certo che ci sono obiezioni – dagli scienziati del clima che avvertono dell’elevato potere di riscaldamento di metano, o dalle comunità locali che non vogliono che i porti delle loro amate coste diventino zone ad alto rischio – ma chi ha tempo per parlarne? E’ un’emergenza! Bisogna chiamare il 911, subito! Prima approviamo le leggi, al resto penseremo più tardi. Ci sono un sacco di imprese brave in questa strategia, ma nessuna è tanto brava a sfruttare con tanta razionalità i tentennamenti prodotti dalle crisi come l’industria del gas a livello mondiale».Negli ultimi quattro anni, prosegue Naomi Klein, la lobby del gas si è servita della crisi economica in Europa per raccontare a paesi come la Grecia che il modo migliore per uscire dal debito e dalla disperazione è far trapanare le loro coste e i loro bei mari. «E ha usato le stesse argomentazioni per razionalizzare il fracking in tutto il Nord America e nel Regno Unito». Il conflitto in Ucraina? «Viene utilizzato come un ariete per abbattere le forti restrizioni sulle esportazioni di gas naturale e per sostenerle forzando un controverso accordo di libero scambio con l’Europa. E’ proprio un bell’affare: si mettono insieme le economie delle imprese più aperte al libero scambio, quelle più inquinanti e quelle che intrappolano il calore del gas nell’atmosfera. Tutti lavorano per risolvere il problema di una crisi energetica, che in gran parte è tutta un’invenzione».Proprio l’industria del gas naturale, ricorda la Klein, è stata la più abile a sfruttare la crisi del cambiamento climatico stesso. «Non importa che la singolare soluzione trovata dall’industria per la crisi climatica sia una notevole espansione del processo di estrazione con il fracking, che emette enormi quantità di metano destabilizzante per il clima e per la nostra atmosfera». Attenzione: «Il metano è uno dei gas serra più potenti – 34 volte più potente dell’anidride carbonica, secondo le ultime stime del Intergovernmental Panel on Climate Change. E questo per un periodo di 100 anni, quanto è il tempo che impiega il metano a ridurre i suoi effetti nel tempo». Per il biochimico Robert Howarth della Cornell University, uno dei maggiori esperti mondiali sulle emissioni di metano, è molto più importante osservare l’impatto del gas nel raggio dei prossimi 15-20 anni, «periodo nel quale si svilupperà il potenziale di riscaldamento globale del metano», anche 100 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. «E’ in questo lasso di tempo che rischiamo noi stessi di sprofondare in un riscaldamento globale molto rapido».Altra regola, sistematicamente violata: mai costruire infrastrutture multimilionarie a meno che non si pensi di usarle per almeno 40 anni. «E invece noi rispondiamo alla crisi del riscaldamento del nostro pianeta con la costruzione di una rete di forni atmosferici ultra-potenti», senza neppure conoscere l’esatto peso dell’impatto sull’ambiente dell’intera filiera del gas: estrazione, trasformazione, distribuzione. «Ma siamo pazzi?». La stessa industria del gas, nel 1981, sostenne che il gas naturale sarebbe stato un “ponte” verso un futuro di energia pulita. «Questo succedeva 33 anni fa. Un lungo ponte. E la costa, dall’altra parte, ancora non si vede». Nel 1988 – l’anno in cui il climatologo James Hansen avvertiva il Congresso, con una testimonianza storica, del problema urgente del riscaldamento globale – la American Gas Association cominciò a pubblicizzare esplicitamente il suo prodotto come una risposta all’“effetto serra”. «Non perse tempo, in altre parole, a vendersi come la soluzione a una crisi globale che aveva contribuito a creare».Ora, però, di fronte al pretesto della crisi ucraina – l’emergenza travestita da soluzione per la “sicurezza energetica” – siamo in molti di più a sapere «dove stanno le vere bugie sulla sicurezza energetica». Secondo ricercatori come Mark Jacobson e il suo team di Stanford, «sappiamo che il mondo può, entro il 2030, alimentarsi completamente con energia rinnovabile». E, grazie agli ultimi rapporti allarmistici dell’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu, sappiamo che seguire queste indicazioni adesso è un imperativo esistenziale. «Questa è l’infrastruttura che dobbiamo sbrigarci a costruire, non quei colossali progetti industriali che ci bloccheranno ancora dentro una pericolosa dipendenza dai combustibili fossili per altri decenni». Per la transizione, basteranno petrolio e carbone, senza ricorrere ai metodi di estrazione ultra-inquinanti come le sabbie bituminose e il fracking. In vent’anni, dice Jacobson, usando solo il petrolio e l’attuale gas convenzionale, potremmo arrivare ad alimentare il mondo con «nuove infrastrutture interamente pulite e rinnovabili: infrastrutture eoliche, idriche e solari». Più che a emanciparsi dal gas russo, conclude Naomi Klein, l’Europa dovrebbe pensare soprattutto alla riconversione ecologica dell’energia, completamente autoprodotta, lasciando perdere le pericolose offerte americane.Attenti ai soliti furbastri dell’energia sporca: saranno i primi ad approfittare della crisi tra Usa e Russia sull’Ucraina, secondo la più classica “Shock Doctrine”, che consiste nel creare un allarme a tavolino per imporre soluzioni d’emergenza che frutteranno miliardi. Lo sostiene Naomi Klein, secondo cui le pressioni americane per sganciare l’Europa dal gas russo sono una autentica follia, addirittura letale per l’ecologia statunitense, il cui territorio verrebbe letteralmente terremotato dal fracking. Ma la vera pazzia è illudersi che il metano sia una sorta di energia pulita, un “ponte” tra le fonti fossili – petrolio e carbone – e le rinnovabili. Unica soluzione veramente strategica e intelligente? Pensare da subito all’adozione di tecnologie di massa per rimpiazzare la vecchia energia, gas compreso, puntando a una produzione “pulita” al 100%, fatta solo di acqua, sole e vento.
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Tempi duri per i nuovi Goebbels: il web li smaschera
Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.La propaganda moderna inizia con la pubblicazione a Londra del Rapporto Bryce sui crimini di guerra tedeschi, che fu tradotto in trenta lingue. Secondo questo documento, l’esercito tedesco aveva violentato migliaia di donne in Belgio, e pertanto l’ armata britannica lottava contro la barbarie. È stato scoperto alla fine della Prima Guerra Mondiale che l’intera relazione era una bufala, composta di false testimonianze con l’aiuto di giornalisti. Da parte sua, negli Stati Uniti, George Creel inventò un mito secondo il quale la Seconda Guerra Mondiale era una crociata delle democrazie per una pace volta a realizzare i diritti dell’umanità. Gli storici hanno dimostrato che la guerra mondiale rispondeva sia a cause immediate sia a cause profonde, delle quali la più importante era la competizione tra le grandi potenze per espandere i loro imperi coloniali.Gli uffici britannici e statunitensi erano organizzazioni segrete che lavoravano per conto dei loro Stati. A differenza della propaganda leninista, che aspirava a “rivelare la verità” alle masse ignoranti, gli anglosassoni cercavano di ingannarle per manipolarle. E per questo le agenzie statali anglosassoni dovevano nascondersi e usurpare delle false identità. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno trascurato la propaganda e le hanno preferito le pubbliche relazioni. Non si trattava più di mentire, ma accompagnare per mano i giornalisti affinché vedessero solo ciò che gli veniva mostrato. Durante la guerra del Kosovo, la Nato ricorse ad Alastair Campbell, consigliere del primo ministro britannico, affinché raccontasse alla stampa una storia edificante al giorno. Mentre i giornalisti la riproducevano, l’Alleanza poteva bombardare “in pace”. Lo storytelling puntava meno a mentire quanto semmai a distrarre.Tuttavia, lo storytelling è tornato in forze con i fatti dell’11 settembre 2001: si trattava di focalizzare l’attenzione del pubblico sugli attentati contro New York e Washington affinché non percepisse il colpo di Stato militare organizzato in quel giorno: il trasferimento dei poteri esecutivi del presidente Bush a un’unità militare segreta e gli arresti domiciliari di tutti i parlamentari. Questo avvelenamento avveniva particolarmente ad opera di Benjamin Rhodes, oggi consigliere di Barack Obama. Nel corso degli anni successivi, la Casa Bianca ha installato un sistema di intossicazione con i suoi alleati chiave (Regno Unito, Canada, Australia e naturalmente Israele). Ogni giorno questi quattro governi hanno ricevuto istruzioni o discorsi pre-scritti dall’Ufficio dei media globali per giustificare la guerra in Iraq o diffamare l’Iran. Per la rapida diffusione delle sue bugie, Washington si è appoggiata, sin dal dal 1989, alla Cnn. Nel corso del tempo, gli Stati Uniti hanno creato un cartello di catene d’informazione satellitari (Al-Arabiya, Al-Jazeera, Bbc, Cnn, France 24, Sky).Nel 2011, durante il bombardamento di Tripoli, la Nato giunse a sorpresa a convincere i libici che avevano perso la guerra e che era inutile resistere ancora. Ma nel 2012, la Nato non è riuscita a replicare questo modello e a convincere i siriani che il loro governo sarebbe inevitabilmente caduto. Questa tattica è fallita perché i siriani erano a conoscenza della manipolazione effettuata dalle televisioni internazionali in Libia e hanno potuto prepararsi. E questo fallimento segna la fine dell’egemonia di questo cartello dell’“informazione”. L’attuale crisi tra Washington e Mosca sull’Ucraina ha costretto l’amministrazione Obama a rivedere il proprio sistema. Infatti, Washington ora non è più la sola a parlare, deve contraddire il governo e i media russi, accessibili ovunque nel mondo via satellite e via internet. Il Segretario di Stato John Kerry ha perciò nominato un nuovo vice per la propaganda, nella persona dell’ex direttore di “Time Magazine”, Richard Stengel. Ancor prima di prestare giuramento, il 15 aprile, stava già occupando il suo ufficio e, dal 5 marzo, ha inviato ai principali mezzi di comunicazione atlantisti una “Scheda documentata” sulle “10 contro-verità” che Putin avrebbe enunciato sull’Ucraina. Si ripeteva il 13 aprile con una seconda scheda che presentava “10 altre contro-verità”.Ciò che colpisce nel leggere questa prosa è la sua inettitudine. Punta a convalidare la storia ufficiale di una rivoluzione a Kiev e screditare il discorso russo sulla presenza di nazisti nel nuovo governo. Tuttavia, ora sappiamo che in realtà più che di una rivoluzione, si trattava casomai di un colpo di Stato organizzato dalla Nato e attuato dalla Polonia e da Israele mescolando le ricette delle “rivoluzioni colorate” e delle “primavere arabe”. I giornalisti che hanno ricevuto queste schede e le hanno ritrasmesse conoscevano perfettamente le registrazioni delle conversazioni telefoniche dell’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, sulla maniera in cui Washington avrebbe cambiato il regime a spese dell’Unione europea, e il ministro affari esteri estone Urmas Paets sulla vera identità dei cecchini di Maidan. Inoltre, hanno poi appreso le rivelazioni del settimanale polacco “Nie” sulla formazione – due mesi prima degli eventi – dei rivoltosi nazisti presso l’Accademia di polizia polacca.Quanto a negare la presenza di nazisti nel nuovo governo ucraino, equivale ad affermare che la notte è luminosa. Non è nemmeno necessario andare a Kiev, per constatarlo basta leggere gli scritti degli attuali ministri o ascoltare i loro propositi. In definitiva, se questi argomenti contribuiscono a dare l’illusione di un ampio consenso dei media atlantisti, non hanno alcuna possibilità di convincere i cittadini curiosi. Al contrario, è così facile con Internet scoprire l’inganno che questo tipo di manipolazione non potrà che intaccare ancora di più la credibilità di Washington. L’unanimità dei media atlantisti in occasione dell’11 Settembre ha consentito di convincere l’opinione pubblica internazionale, ma il lavoro svolto da molti giornalisti e cittadini – di cui sono stato precursore – ha dimostrato l’impossibilità materiale della versione ufficiale. Tredici anni dopo, centinaia di milioni di persone sono diventate consapevoli di quelle menzogne.Questo processo potrà solo crescere, dato il nuovo dispositivo di propaganda statunitense. In definitiva, tutti coloro che riamplificano gli argomenti della Casa Bianca, specie i governi e i media della Nato, distruggono da soli la propria credibilità. Barack Obama e Benjamin Rhodes, John Kerry e Richard Stengel hanno effetto solo a breve termine. La loro propaganda convince le masse solo per poche settimane e fa sì che si ribellino quando capiscono la manipolazione. Involontariamente, minano la credibilità delle istituzioni degli Stati della Nato che le ritrasmettono consapevolmente. Hanno dimenticato che la propaganda del XX secolo poteva avere successo solo perché il mondo era diviso in blocchi che non comunicavano tra loro, e che il suo principio monolitico è incompatibile con i nuovi mezzi di comunicazione. La crisi ucraina non è finita, ma ha già profondamente cambiato il mondo: nel contraddire in pubblico il presidente degli Stati Uniti, Vladimir Putin ha compiuto un passo che ormai impedisce il successo della propaganda statunitense.(Thierry Meyssan, “Verso la fine della propaganda statunitense”, da “Megachip” del 20 aprile 2014).Da sempre i governanti tentano di persuaderci circa la correttezza delle loro azioni, perché le folle non seguono gli uomini di cui si conosca appieno la cattiveria. Il XX secolo ha visto comparire nuove modalità di diffusione delle idee che non si fanno intralciare dalla verità. Gli occidentali fanno risalire la propaganda moderna al ministro nazista Joseph Goebbels. È un modo per far dimenticare che l’arte di distorcere la percezione delle cose è stata precedentemente sviluppata dagli anglosassoni. Nel 1916, il Regno Unito creò la Wellington House a Londra, seguita dalla Crewe House. Contemporaneamente, gli Stati Uniti crearono il Committee on Public Information (Cpi). Considerando che la Prima Guerra Mondiale contrapponeva le masse e non più solo le forze armate, queste organizzazioni hanno tentato di intossicare la propria popolazione altrettanto quanto quelle dei loro alleati e dei loro nemici.
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Crisi ucraina, perché il Fatto attacca Giulietto Chiesa?
«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».Perché il “Fatto” si scaglia contro l’ex corripondente da Mosca? Giulietto Chiesa ha lavorato per “L’Unità”, per “La Stampa”, per la Rai, per il Tg5. Ha insegnato all’università negli Stati Uniti, ha fondato con Mikhail Gorbaciov il “World Political Forum”, assise internazionale permanente per riflettere sulla governance mondiale dopo la fine della guerra fredda. Soprattutto, da almeno dieci anni, è impegnato nella denuncia sulle falsisficazioni del massimo tabù nel nuovo secolo, gli attentati dell’11 Settembre frettolosamente attribuiti a Bin Laden, già plenipotenziario della Cia in Afghanistan prima di diventare “lo sceicco del terrore”, capace di accendere la miccia da cui sono scaturite tutte le guerre degli ultimi anni, a cominciare dall’Afghanistan e dall’Iraq. Di tutti gli opinion leader più in vista, forti del loro riconosciuto prestigio personale – scrisse tempo fa un osservatore scomodo e intransigente come Paolo Barnard – Giulietto Chiesa è l’unico che sia stato capace di rinunciare davvero a tutte le comodità del suo rango pur di continuare a impegnarsi, senza compromessi, per lo smascheramento delle menzogne ufficiali.«Se ci fosse un’informazione decente in questo paese, non avrei pensato a fondare “Pandora Tv”», replica oggi Chiesa. Che accusa: sull’Ucraina, i media mainstream hanno oscurato la notizia principale, all’inizio della crisi, e cioè «non ha mostrato le immagini dei poliziotti di Maidan bruciati dai pacifici dimostranti nazisti armati di lanciafiamme». Al “Fatto”, Giulietto Chiesa risponde così: «Fornite le notizie, non censuratele». In altre parole: meglio la voce di “Rt” che le “veline” di John Kerry. Sempre più spesso, oggi, si invertono gli schemi: increscioso, per Barbara Spinelli, che a dare asilo a Edward Snowden non sia stata la civile Europa, colpita dal Datagate persino con lo spionaggio ai danni del telefono personale di Angela Merkel. Snowden, cui dobbiamo la verità sulle intercettazioni di massa della Nsa, ha ottenuto rifugio solo presso Vladimir Putin.Giulietto Chiesa si dichiara stupito che questo attacco «personale, diretto, insultante» non provenga da “Repubblica” o dal “Corriere”, ma dal “Fatto”. Giovanni Miotto, un abbonato del giornale di Padellaro, Gomez e Travaglio, protesta pubblicamente, dando ragione a Chiesa: «Nelle pagine del “Fatto” dedicate agli esteri, da mesi ormai regna la disinformazione». Miotto riferisce di aver appena scritto «una mail di protesta» alla direzione del giornale, lamentandosi «dell’insostenibile livello di quanto pubblicato sull’Ucraina». Quanto a “Russia Today” – che “Pandora” riprende in italiano, via web – ha semplicemente raccontato i fatti, sottraendosi alla censura occidentale organizzata proprio da Kerry. «Dire che siamo dei “velinari di Rt” è semplicemente un insulto: e si ricorre all’insulto quando non si hanno argomenti», aggiunge Chiesa, presentato dal “Fatto” come una sorta di “dipendente” di Putin. «Qui ci sarebbero gli estremi per una querela, ma non voglio aspettare dieci anni per avere ragione: la ragione è già tutta nella mia storia professionale di corrispondente e di scrittore, non ho bisogno di altro». Il primo a calunniarlo, accusandolo di «essere stato pagato dal Kgb», fu Bettino Craxi, poi condannato per diffamazione.«Giulietto Chiesa mente», scrisse tanti anni fa l’agenzia Tass, quando al Cremlino c’era Breznev, che evidentemente non gradiva l’indipendenza del corrispondente italiano. Oggi, nel 2014, lo stesso Chiesa viene definito «più zarista di Putin». Da chi? Dal “Fatto Quotidiano”, che per colpire l’autore de “La guerra infinita” il 26 aprile ospita un insolito corsivo «non firmato, quindi redazionale», che per Chiesa è «un attacco in perfetto stile maccartista, proprio da caccia alle streghe». L’imputazione: passare, su “Pandora Tv”, «le veline di “Russia Today”, il network mediatico del Cremlino», arrivando a sostenere che l’Est dell’Ucraina sia abitato da “russi”. «Se lo sentisse Putin, lo licenzierebbe», scrive il “Fatto”. Replica Chiesa: «Chi scrive non sa, evidentemente, che in Ucraina ci sono all’incirca dieci milioni di russi», cioè cittadini ucraini di etnia russa che «non si fidano dei gestori provvisori di Kiev». E attenzione: «Non sono solo russi, quelli che si difendono contro la giunta militare golpista di Kiev: ci sono anche molti ucraini non russi».
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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.
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Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia
Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.(Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
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Frantumare il mondo: a chi serve la macchietta Renzi
Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.I serial-mass-killer insediati nella Casa Bianca dal 1991 hanno ammazzato 3 milioni in Iraq, 40 mila in Afghanistan, 4000 in Serbia, 100 mila in Libia, 130 mila in Siria, migliaia in Pakistan, Yemen, Somalia. Altri milioni li hanno fatti uccidere da proconsoli e ascari in Ruanda (dove si sono confrontati Francia e Usa per chi facesse scannare più hutu), Congo, Mali, Rac, Latinoamerica. E abbiamo saltato Vietnam, Corea, Centroamerica. Con il 4% della popolazione mondiale contano per il 75% dell’inquinamento globale, l’80% del traffico e consumo di stupefacenti e il 65% dell’acqua dolce del mondo è stata avvelenata dagli agro-tossici Usa. Ogni anno la polizia Usa uccide più di 5.000 persone disarmate. Con 2,5 milioni di detenuti, sono il paese con il più alto tasso di carcerazione del mondo. Lo 0,01 più ricco possiede il 23% della ricchezza nazionale, il 90% più povero il 4%. La loro teoria economica chiamata “crisi” ha procurato al 3% un più 75% di ricchezza, alle multinazionali più 171%.Una macchina da devastazione, saccheggio, terrorismo e morte che, nel nostro paese, ha espettorato una serie di zombie addestrati a tirarsi uova marce di giorno e banchettare insieme di notte, come dal ‘700, sotto varie denominazioni, partito repubblicano e partito democratico nordamericani insegnano. E, come in ogni teatro di marionette che si rispetti, i pupi si scambiano i ruoli, a seconda delle temperie e delle urgenze di “cambiamento” e “innovazionie”, da Bertinotti a Renzi, da Occhetto a Letta, da Berlusconi ai fascisti dichiarati. Di questo avvicendarsi di parti in commedia oggi vediamo l’espressione più chiara, del tutto de-mimetizzata: il blob che si definisce centrosinistra, socialdemocrazia, rappresentante di classe operaia e ceti popolari, mette in campo un manipolo di trucidi e sciacquette che soffiano al finto avversario il modello Chiesa-Wall Street-Pentagono-mafia; gli altri, mutati da grassatori, puttanieri, ladri, in “moderati”, saltano il fosso e si pretendono a fianco di operai, ceti medi scarnificati, euroschifati e perfino Putin.Di tutto questo l’incarnazione più lineare è il capobastone del Colle, transitato dagli inni ai carri sovietici di Budapest a quelli agli F-35 Usa. E’ vero che il sangue nelle vene di costoro, se non intorbidito, si deve essere un bel po’ diluito, se riusciamo a resistere in poltrona davanti a certi vaudeville, oltre a tutto sempre più Grand Guignol. Con, per opposizione, solo una ruspa truccata da tanko di chi si vorrebbe fare lo stesso spettacolo tutto da solo. Lo stupefacente e agghiacciante fatto che un saltimbanco, incolto e abissalmente ignorante, spargitore di fuffa tossica, manifestamente imbroglione e bugiardo al solo sguardo volpino da pusher, al solo arricciarsi della boccuccia a culo di gallina, possa aver affascinato, interessato, anche solo incuriosito, questi vasti pezzi di società italiana (fuori se la ridono), è la dimostrazione di cosa ci hanno fatto vent’anni di vaudeville berlusconiana, con la stuoina “centrosinistra” a fargli strofinare le scarpe.Il volgare e mediocre Stenterello schiamazzone, accademico ineguagliato di populismo, restauratore mascherato da rottamatore, confezionato con un tweet di Bilderberg e carburato da euro-merda e cianuro, ha fatto meglio in pochi mesi di Andreotti in quarant’anni. Si permette di definirsi rullo compressore e, pur essendo di cartone, l’ignavia di massa gli consente di fare il lavoro dello schiacciasassi che tutto asfalta e sotto cui niente vive. Assimilata la pseudo-opposizione parlamentare sindacale e mediatica, quella residua delle istituzioni e dell’intelletto è considerata stravaganza di comici e, insistendo in piazza, eversione e terrorismo (vedi No Tav o No Muos). Nessun Mussolini, nessun Hitler e nemmeno i falsari elettorali delle democrazie borghesi avrebbero avuto la protervia di presentarci una legge elettorale così spudoratamente da roulette truccata con la calamita sotto. Una legge che vieta agli elettori di scegliere i loro rappresentanti, che, escludendo da ogni voce in capitolo milionate di cittadini, dà, alla tibetana, potere di vita e di morte sui sudditi a chi arriva al 20% del 50% di italiani che votano.Neanche la Gorgone Fornero, del rettilario bancario, avrebbe osato sognare la socialdemocratica riduzione in panico e schiavitù delle generazioni presenti e a venire, grazie ai 36 mesi a tempo determinato, a zompi intervallati di 4 mesi, dopodiché fuori dalle palle e sotto un altro. Infine, per elevare l’indispensabile tasso di criminalità, il bellimbusto pitocco fa passare una legge sulla custodia cautelare che esime dal gabbio quelli che, forse, si beccherebbero fino a 4 anni, cioè in prima fila i compari elettori e finanziatori dai colletti bianchi. Dopo l’avvenuta evirazione dei Comuni, abolizione delle provincie per collocare negli enti sostitutivi altri 30 mila clienti, come dimostrato dai Cinque Stelle, ma soprattutto per togliere di mezzo gli organismi intermedi di rappresentanza, potenzialmente più vicini al territorio e più distanti dalle cosche apicali. Obliterazione, grazie allo tsunami propagandistico dei “costi della politica”, di quell’istanza d’appello e di controllo che è il Senato. La sua scomparsa, per risparmiare, dicono, 300 milioni (fatti passare per 1 miliardo) ci costerà quanto costò alle libertà romane, nel passaggio dalla Repubblica al Principato, il Senato trasformato in innocua camera di compensazione di latifondisti e usurai. Riduzione delle pene per il voto di scambio, per chi si fa comprare – e obbligare – dai voti procurati dall’altra criminalità, a conferma dell’unità di gestione aziendale di Stato e mafia.Mascherine da festa cotillon che si agitano ai piani bassi dei palazzi dove, in alto, si scatenano i lupi mannari di Wall Street. Rispetto a quella realizzata nel ‘22, la loro dittatura in fieri parrebbe l’avanspettacolo di Bonolis a fronte di una tragedia di Euripide. Ma le cose stanno molto peggio. Rispetto ai triumviri e federali di Mussolini, ai gauleiter e feldmarescialli di Hitler, fenomeno assediato dal resto del mondo, questi sono i tentacoli di una piovra gigante che abbranca mezzo emisfero, tre quarti di tutte le bombe atomiche, mezzo patrimonio produttivo e finanziario, le tecnologie di controllo e soppressione più avanzate e la complicità del più potente istituto per la manipolazione religiosa di coscienze di tutti i tempi. A proposito di quest’ultimo, capeggiato oggi dal quasi-santo Francesco, a strappare i veli dall’umile buonismo esibito da costui basta la pronuncia della gerarchia cattolica del Venezuela, capeggiata dal nunzio nominato dal papa, Parolin, avverso al “despota” Maduro, e a sostegno delle bande di terroristi scatenati dalla Cia contro la nazione bolivariana. Oscenità imperialista che si affianca alla nomina a consigliere del papa di Oscar Maradiaga, primate dell’Honduras e complice di quei golpisti che proseguono nella strage di oppositori, contadini e indigeni. Fin dal suo primo “buonasera”, si sarebbe dovuto capire che il Bergoglio silente tra i generali argentini sarebbe stato l’anti-Chavez dell’America Latina.Del rilievo dato al burattino italiota dalla strategia del Nuovo Ordine Mondiale sono stati testimoni gli augusti visitatori che si sono precipitati a Roma a completare l’agenda che a Renzi era stata commissionata nei giri per Londra, Berlino, Bruxelles e Parigi. Per Obama, d’intesa con il proconsole sul Colle, è stata la consueta intimazione-consacrazione del vassallo di turno. Per la regina Elisabetta è stato il rinnovo del patto tra classe dirigente italiana e la secolare loggia Rothschild-Windsor, sancito nel 1992 in forma definitiva sul suo yacht “Britannia”, quando emissari come Soros, Draghi, Andreatta e bancari vari, concordarono con Ciampi e poi Amato e Prodi la privatizzazione dell’Italia e la sua riduzione a piattaforma mediterranea di guerre d’aggressione e a hub del traffico di energia e stupefacenti, terra di rapina per multinazionali perfezionata nel Ttip, “Partneriato Transatlantico per Commercio e Investimenti”.Prima mossa domestica, capitoletto dell’ordine di servizio imperiale eseguito in Ucraina, Venezuela, Iran, Siria, non i soli F-35, ma la messa fuori gioco di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Non si tratta di compiangere un lestofante, con stipendio milionario, che s’è aperto la strada verso giacimenti e rotte petroliferi in tutto il mondo a forza di creste e tangenti. Così fan tutte ed è la condizione in questo mondo di merda per assicurare al tuo paese rifornimenti energetici. Specie se di fornitori incorrotti ne hai solo uno, il Venezuela e quell’altro onesto, la Libia, l’hai regalato ai terroristi Al Qaida. E per farcene prevedere la detronizzazione basterebbe la corifea delle banche (“basta col contante, tutto per via bancaria”), Milena Gabanelli, con la sua ossessiva denuncia delle malefatte del capo dell’Eni, in “profonda sintonia” con l’avversione al tipo da parte di governanti e petrolieri angloamericani, per le libertà che si prendeva nel saltare, insieme a russi, iraniani, africani e centroasiatici, i tubi del petrolio e del gas sotto controllo Usa. Per molto meno Enrico Mattei e Giorgio Mazzanti furono fatti fuori, uno per attentato, l’altro per scandalo.Sette sorelle, vecchie, ma sempre arrapate. In un sistema in cui i petrolieri texani devono tenere in mano il rubinetto dell’energia e neutralizzare, come predica Brzezinski, demonio all’orecchio di Obama, Bush, Clinton, Reagan e Nixon, la fisiologica tentazione europea verso l’orizzonte euroasiatico, uno come Scaroni risulta incompatibile. Ci vogliono, come per la Jugoslavia, quinte colonne imperiali che contribuiscano alla debolezza e subalternità del proprio continente e dei suoi singoli Stati. Renzi è perfetto. Il frenetico tour di Obama tra i valvassori europei e partner del Golfo va visto in sinergia con le mattanze in atto in Afghanistan, avamposto asiatico anti-russo, il caos creativo del terrorismo nel Pakistan nucleare, le stragi da droni in Somalia e Yemen, capisaldi geostrategici non normalizzati, lo sminuzzamento della Siria antisraeliana, come prima della Libia, le spedizioni degli ascari francesi nel Sahel dell’uranio e del petrolio, lo spolpamento dell’Ucraina dagli enormi terreni da assegnare alle multinazionali del cibo e dell’agrocombustibile e dei missili da piazzare sui piedi di Putin, lo scatenamento del naziterrorismo contro il Venezuela bolivariano.E’ in gioco una dittatura mondiale, fatta gestire agli Usa con stampelle anglosassoni che, attraverso il controllo del rubinetto dell’energia, regoli i rapporti di forza globali. Il Pakistan e l’Iran non devono realizzare l’oleodotto che li unirebbe. Iran, Iraq e Siria non si sognino di approvvigionare, con una nuova pipeline, l’Europa. Russia ed Europa non devono collegarsi tramite i due tubi “North Stream” e “South Stream”. Il Venezuela la deve smettere di assicurare a basso prezzo e con notevoli ricadute politiche e sociali i paesi poveri dell’area e, magari, domani l’Europa. I recentemente scoperti enormi giacimenti di gas nel bacino est del Mediterraneo devono essere sottratti a titolari come Siria, Libano, Gaza, Egitto (apposta paralizzati da costanti fibrillazioni indotte) e Cipro e messi tutti sotto controllo israeliano. Ovunque, in questi fastidi recati a “Big Oil”, c’è stata anche lo zampino dell’Eni di Scaroni (“Senza il gas russo siamo nei guai”). Tutti i percorsi indicati lacerano per il lungo e per il largo la rete sotto controllo anglo-franco-statunitense, solleticano l’insubordinazione dell’America Latina, legano Europa ai detestati Russia e Iran, garantiscono i rifornimenti alla secca Cina.Fratturare il mondo? Lo strumento si chiama scisti. Il metodo per estrarli dal sottosuolo, “fracking”, fratturazione idraulica. L’esito, la destabilizzazione del pianeta dalle profondità alla superficie, l’inquinamento delle falde e dei terreni attraverso l’immissione forzata di enormi quantità d’acqua mista a sostanze chimiche tossiche che spaccano la roccia e liberano le riserve fossili. E, come sperano, la graduale riduzione dei flussi dagli Stati indipendenti, sostituiti dal gas liquefatto che dai destinatari deve poi essere rigassificato. Costi di gran lunga superiori all’estrazione dai giacimenti e perfino alle energie rinnovabili (quelle che i petrolieri raccomandano a Sgarbi di demonizzare) e, perciò, uso della potenza militare, di cecchini nazisti, tagliagole jihadisti e vicerè obbedienti, per imporne l’inconveniente adozione.Il commercio tra Europa e Russia è 10 volte quello tra Europa e Usa. L’Europa orientale trae un terzo della sua energia dalla Russia e una bella fetta dall’Iran. L’Italia quasi metà, con il resto che arriva dall’Algeria, anche per questo in costante guerra di bassa intensità con le armate di complemento jihadiste, non più dalla Libia, e da fonti minori. Berlino ha 6.000 aziende operanti in Russia. Unica a far valere questa situazione è la Germania, che tenta una resistenza sia alle sanzioni a Mosca, sia alla deriva nazista dell’Ucraina favorita dagli Usa (il suo candidato al governo di Kiev era il “moderato” Klitschko, “fottuto”, nelle sue stesse parole, dalla sottosegretaria Usa, Nuland, con il candidato amerikano Jatseniuk). Renzianamente, Obama (vengono tutti dalla stessa caverna) ha promesso a noi e agli altri bischeri europei tanto gas dai suoi scisti da farci rinunciare a quello finora preso dalla Russia. E’ vero che le riserve nordamericane sembrano vaste e sono già fratturate da migliaia di trivelle (con altrettante rivolte della popolazione locale).Ma, se l’Europa ha un po’ di rigassificatori per il gas liquefatto negli Usa, questo paese non dispone neanche di un solo liquefattore. Nella migliore delle ipotesi il gas da scisti arriverà in Europa fra quattro anni, convogliato dal primo liquefattore costruito, capace di spedirci la miseria di 4 miliardi di Bcf di gas al giorno. Basta appena per il Belgio. E ricordiamo: il fracking per scisti incastrati tra rocce da far esplodere, e che dovrà col Ttip essere imposto a un’Europa che già si è dichiarata disponibile e ha iniziato a spaccare il sottosuolo (anche in Italia), sarà costosissimo e quindi provocherà ribellioni tra i consumatori. Sconvolge la pancia della Terra con l’immissione forzata di gigantesche quantità d’acqua – in prospettiva della guerra dell’acqua che si sta per scatenare in tutto il pianeta – e conseguente rottura verticale e orizzontale di ciò che stabilizza i nostri piedi e le nostre case. Scarseggerà l’acqua per bere, per irrigare, per tutto, e conflitti e mega-migrazioni sconvolgeranno quel che resta della stabilità globale.(Fulvio Grimaldi, estratti dall’intervento “Il fracking di Renzi e quello di Obama”, dal blog di Grimaldi dell’8 aprile 2014).Se avete visto il magnifico e sconvolgente “The wolf of Wall Street”, di quel bimbo di Andersen (“Il re è nudo”) che è Martin Scorsese, avrete compreso l’affinità antropologica tra quei cannibali e il loro sottoprodotto al mandolino, Renzi. Ma, per capire il modello che stanno mettendo in opera, conviene fare un breve elenco dei tratti fisiognomici di una classe di criminali che ha imperversato sulle Americhe e poi sul mondo dalla Mayflower in qua. Dal genocidio degli indio-americani a oggi, gli Usa hanno superato qualsiasi altro Stato della storia per numero di guerre e vittime; in media una guerra all’anno, sempre portate, mai ricevute. Dal 1945 al 2014 sono intervenuti militarmente in 90 paesi. Attualmente sono impegnati con forze speciali, Ong, quinte colonne, bombardieri e droni, colpi di Stato effettuati o tentati, sanzioni, destabilizzazioni e mercenariato surrogato, in 135 paesi.
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Perché i russi amano Putin? Scoprirlo è molto istruttivo
Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.Democrazia? Per i russi normali, soprattutto nella periferia del paese, spesso è una parolaccia. La nuova borghesia? Sulle rive della Moscova la parola suona dispregiativa. La prepotenza del regime contro un оligarca democratico come Khodorkovskij che voleva sfidare Putin alle urne? Per moltissimi sotto le mura del Cremlino è il minimo sindacale di un atto di giustizia contro i tanti oligarchi arricchiti e non sazi di soldi e di potere. Ucraina, Crimea, prezzo del gas… una continua commedia degli equivoci che rende impossibile capirsi. E tutto comincia nei “terribili” anni Novanta. La notte del 25 dicembre 1991 i russi non riuscirono a dormire. Il giorno prima erano cittadini di un paese, l’Unione Sovietica; da quel momento, non lo erano più. Fu uno shock. Milioni di persone di nazionalità russa si ritrovarono, abbandonati dalla Madrepatria, cittadini di paesi che non li volevano e che spesso, come è accaduto nelle Repubbliche baltiche, negavano loro i diritti minimi della cittadinanza. Ma non c’era tempo, né forza per occuparsene.Presto le cose cominciarono ad andare peggio di quanto mai si sarebbe potuto immaginare. Arrivò la politica del Fondo monetario e degli Harvard Boys, introdotta dal governo di Boris Eltsin: liberalizzazione e privatizzazione. Fu chiamata “terapia shock”. Uno shock sullo shock. La promessa era che alla fine del tunnel ci sarebbe stato un paese finalmente libero, democratico e benestante. I russi si fidavano, erano pronti ai sacrifici. Pensavano che l’Occidente, essendo stato capace di offrire benessere, democrazia e giustizia a casa propria, lo avrebbe fatto anche da loro. La fiducia crollò lentamente, ma inesorabilmente, sotto i colpi della realtà. Sotto gli occhi impotenti della gente, per il bene del paese, le aziende cominciarono ad essere vendute per un prezzo vicino allo zero, tra l’1,5 e il 2 per cento del loro valore. In tutto, lo Stato realizzò dall’operazione circa il 10 per cento del valore effettivo, beni mobili e immobili inclusi.Alle persone normali fu dato un pezzo di carta, si chiamava voucher, che era l’equivalente della quota a cui avevano diritto. Valevano 10 mila rubli. Natalja Fjodorovna, l’anziana mamma di una mia cara amica, fu la prima a pronunciare quella che credevo fosse una battuta: «Muzhiki prodadut za butilku», gli uomini lo venderanno per una bottiglia. Ci volle poco a capire che non era una boutade. I voucher si vendevano agli angoli delle strade per una vodka, tremila rubli. Come scrive Naomi Klein nel suo “Shock Economy”, «nel 1998, oltre l’80% delle aziende agricole erano in bancarotta, e circa 70 mila fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un’epidemia di disoccupazione». E «74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà, secondo la Banca Mondiale». Lavoro non ce n’era nel modo più assoluto. I ragazzi sognavano di fuggire e chiedevano i computer, le pensioni arrivavano in ritardo, gli stipendi non arrivavano più; medici, insegnanti, professori, chi poteva cercava un lavoretto all’estero.Le file nei negozi erano scomparse, come i soldi per comprare. Ovunque fiorivano tetri negozietti temporanei dove si pagava direttamente in dollari. Gli ospedali non davano più neanche le lenzuola. La criminalità fioriva, al punto che era diventato rischioso girare di notte anche in una città come Mosca. Nel frattempo, tutti i soldi della Russia erano passati nella tasche di pochi intraprendenti, che diventarono miliardari e potenti, i cosiddetti oligarchi. A proposito di Khodorkhovskij, quando fu arrestato, nel 2003, era il padrone della Yukos, il terzo colosso petrolifero del paese, e l’aveva acquistata partecipando ad un’asta, sebbene fosse stato proprietario della banca Menatep che quell’asta aveva gestito. In pratica, come spiegò poi il responsabile del programma di privatizzazione Alfred Kokh, aveva comprato la Yukos con i soldi della Yukos. Ottenne il 77 per cento delle azioni con 309 milioni di dollari. E poiché il valore reale si aggirava intorno ai 30 miliardi, entrò direttamente a far parte degli uomini più ricchi del mondo (“Forbes”).Così la vedono i russi. Che hanno ritrovato un po’ di fiducia il giorno in cui è arrivato Putin e ha ripreso in mano, nel bene e nel male, il paese. Questo dice Natalia Fjodorovna, che ha avuto una vita lunga e difficile, e partorì il suo primo figlio su un treno mentre fuggiva non sapeva dove coi nazisti alle calcagna. Ogni russo ha una storia incredibile da raccontare, una storia che – proprio come ha dimostrato Emmanuel Carrère con “Limonov” – vale un romanzo. Loro sì che possono spiegarci perché non si è ancora formata una vera borghesia in Russia. Ma per favore, almeno a Mosca, non chiamatela così.(Fiammetta Cucurnia, “Come si spiega il consenso russo per Putin”, da “Il Venerdì di Repubblica” dell’11 aprile 2014, ripreso da “Megachip”).Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.
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Obama mente: ridetegli in faccia, o vi porterà in guerra
«Ma Obama si rende conto che sta conducendo gli Usa ed i loro Stati-fantoccio verso la guerra con la Russia e la Cina?». Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro con Ronald Reagan, lancia l’allarme: l’inquilino della Casa Bianca sembra manipolato dai neo-conservatori del suo governo. «La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono state il prodotto di ambizioni e di errori di un piccolo numero di persone». Nella “Genesi della Guerra Mondiale”, Harry Elmer Barnes dimostra che la Grande Guerra è stata causata dalla miopia di un pugno di politici, come il presidente francese Raymond Poincaré e il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov. «Poincaré chiedeva alla Germania l’ Alsazia-Lorena, e i russi volevano Istanbul e il Bosforo, che collega il Mar Nero al Mediterraneo. Si resero conto che le loro ambizioni richiedevano una guerra generale europea e lavorarono per produrre proprio quella guerra».Il kaiser tedesco Guglielmo II fu accusato di essere responsabile del conflitto, e invece «fece tutto il possibile per evitarlo», dice Craig Roberts. Il libro di Barnes fu pubblicato nel 1926, e l’autore fu accusato di esser stato pagato dai tedeschi per “assolvere” la Germania. Ma, 86 anni dopo, lo storico Christopher Clark nel suo libro “I sonnambuli”, arriva alla stessa conclusione di Barnes. «Mi è stato insegnato che la colpa della guerra fu della Germania, che sfidò la supremazia navale britannica costruendo un eccessivo numero di navi corazzate». Falso. «Gli storici di corte che ci hanno propinato questa storia – dice Roberts – furono gli stessi che gettarono le basi per la Seconda Guerra Mondiale». Oggi, continua l’analista americano, «siamo di nuovo su una strada che conduce ad una guerra mondiale».Cent’anni fa, le basi per dare il via alla guerra furono costruite «con l’inganno»: la Germania «doveva essere presa alla sprovvista», e gli inglesi «manipolati», come l’opinione pubblica degli altri paesi coinvolti, sottoposta «a un lavaggio del cervello e a una propaganda aggressiva». Oggi, dice Roberts, è più che evidente chi sta lavorando per la guerra: «Le bugie dette sono palesi e tutto l’Occidente sta partecipando, con i suoi governi e i suoi media». Come il primo ministro canadese Stephen Harper, che Roberts definisce «il burattino americano», che avrebbe «mentito spudoratamente a una televisione canadese quando ha affermato che il presidente russo Putin ha invaso la Crimea, minacciato l’Ucraina e dato il via ad una nuova guerra fredda». L’altra metà del problema? Il conduttore del programma televisivo: «Era lì seduto e annuiva con la testa, in accordo con queste chiare menzogne».«Il copione che Washington ha fornito al suo fantoccio canadese – scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – è lo stesso che è stato dato a tutti i burattini di Washington». Ovunque, in Occidente, il messaggio è lo stesso: Putin ha invaso e annesso la Crimea, Putin è determinato a ricostruire l’impero sovietico, Putin dev’essere fermato. Craig Roberts riferisce di aver sentito molti canadesi «piuttosto indignati nel vedere che il loro governo rappresenti Washington e non il Canada». E nonostante Harper «sia quello che è», “Fox News” e Obama «sono molto, molto peggio». La Fox? E’ «l’organo di propaganda di Murdoch», secondo cui Putin avrebbe di fatto «ripristinato la pratica sovietica dell’esercizio della forza bruta». Un “esperto” invitato in studio non ha dubbi: Putin, ovviamente, «incarna una specie di “giovane Hitler”». Secondo Craig Roberts, «la totale ignoranza storica dell’Occidente dà credito ad Obama, o ai suoi “gestori” o “programmatori”», che possono manipolare notizie e opinione pubblica.Obama, poi, è ben oltre la decenza: ha appena dichiarato che la distruzione dell’Iraq da parte di Washington – bilancio: un milione di morti, quattro milioni di profughi, infrastrutture devastate, esplosione della violenza settaria e totale rovina di un paese – non va considerata così grave come «l’accettazione da parte della Russia dell’autodeterminazione della Crimea». Surreale, continua Craig Robert, il discorso di Obama a Bruxelles lo scorso 26 marzo: la Russia, dice l’inquilino della Casa Bianca, «deve essere punita dall’Occidente per aver permesso alla Crimea di autodeterminarsi». E cioè: «Il ritorno per propria volontà di una provincia russa alla sua madre patria dopo 200 anni viene considerato come un’azione dittatoriale, tirannica e antidemocratica». Parola di Obama, l’uomo che «ha appena rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina sostituendolo con dei tirapiedi scelti da Washington», e ora parla di «sacro ideale delle genti di tutte le nazioni, libere di prendere le proprie decisioni sul loro futuro». Ridicolo: «Questo è esattamente ciò che ha fatto la Crimea, e che – al contrario – il golpe degli Stati Uniti a Kiev ha violato».E dov’è finito, tra l’altro, lo Stato di diritto negli Usa? «L’habeas corpus, il giusto processo, il diritto di istituire un processo e di determinare la colpa prima dell’arresto o dell’esecuzione e il diritto alla privacy, sono stati tutti calpestati dal regimi Bush e Obama. Gli Stati Uniti e il diritto internazionale sono contrari alla tortura: eppure Washington ha istituito in tutto il mondo prigioni che praticano la tortura. Come è possibile che il rappresentante del governo degli Stati Uniti, di fatto criminale di guerra, possa stare davanti ad un pubblico europeo e parlare di “stato di diritto”, “diritti individuali”, “dignità umana”, “autodeterminazione” e “libertà”, senza che il pubblico scoppi a ridere?». Quello di Washington, continua Craig Roberts, «è il governo che ha invaso e distrutto l’Afghanistan e l’Iraq basandosi su bugie», lo stesso governo «che ha finanziato e organizzato il rovesciamento dei governi libico e honduregno e che sta tentando di fare la stessa cosa in Siria e in Venezuela».E’ un governo, quello di Washington, che «attacca con droni e bombe popolazioni dei paesi sovrani del Pakistan e dello Yemen», e intanto riempie di truppe tutta l’Africa e «ha circondato la Russia, la Cina, l’Iran con basi militari». Seriamente: «E’ proprio questo gruppo di guerrafondai che ha l’ardire di continuare ad affermare che sta difendendo gli ideali internazionali contro la Russia?». Nessuno ha applaudito il discorso di Obama, «ma il fatto che l’Europa accetti tali menzogne senza protestare equivale a un benestare a Washington per scatenare una guerra». Obama chiede più truppe Nato di stanza in Europa orientale allo scopo di «contenere la Russia», cosa che «tranquillizzerebbe la Polonia e gli Stati baltici che, come membri della Nato, sarebbero protetti da un’eventuale aggressione della Russia». Ma, oltre a Obama, c’è qualcuno – sano di mente – che pensa davvero che la Russia stia per invadere la Polonia o il Baltico?Obama, poi, «non dice quale effetto avranno sulla Russia l’escalation militare Usa-Nato e gli altri giochi di guerra sul confine russo». Ovvero: «Sarà il governo russo a dedurre di essere sul procinto di venire attaccato e colpirà per primo? La sconsiderata disattenzione di Obama è proprio quello che di solito provoca le guerre». La situazione è davvero molto pericolosa, insiste Craig Roberts, perché l’Occidente sta davvero minacciando la Russia, trascinando l’Europa verso il disastro. «Chi potrebbe mai credere che Obama, il cui governo è responsabile ogni giorno della morte di persone in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen, Libia e Siria, si curi davvero di un briciolo di democrazia in Ucraina?». Il presidente ha rovesciato il governo di Kiev per poter annettere l’Ucraina nella Nato, cacciare la Russia dalla base navale in Crimea e installare basi missilistiche sul confine russo. «Obama è arrabbiato che il suo piano non stia andando come previsto e sfoga questa sua rabbia e frustrazione contro la Russia», facendo crescere «l’ipocrisia e la presunzione» insieme alla pretesa di «punire la Russia e Putin e demonizzarli ulteriormente». C’è da aspettarsi il peggio: i media soffieranno sul fuoco della propaganda anti-russa destabilizzando ulteirormente l’Ucraina dell’Est, magari al punto di «costringere Putin a inviare davvero delle truppe per difendere i russi».Perché la gente «è così cieca da non vedere che Obama sta conducendo il mondo verso una guerra definitiva?». La pericolosa aggressività di Obama, dice Craig Roberts, ricorda da vicino il trionfalismo di inglesi, francesi e americani dopo la vittoria della Prima Guerra Mondiale, come fosse stato «il trionfo del loro idealismo contro le ambizioni territoriali tedesche e austriache». Ma alla Conferenza di Versailles, ricorda Roberts, furono i bolscevichi – i rivoluzionari vittoriosi a Mosca – a rivelare «l’esistenza dei famigerati Trattati Segreti», il patto di spartizione che avrebbe sostanzialmente amputato la Germania, preparando il terreno per il risentimento popolare del quale poi avrebbe approfittato Hitler. «Nella guerra, gli scopi segreti britannici, russi e francesi erano sconosciuti alla gente, fustigata da una battente propaganda creata appositamente per sostenere una guerra i cui esiti furono ben diversi dalle intenzioni di coloro che la provocarono. Le persone – conclude Roberts – sembrano incapaci di imparare dalla storia. Ora, ancora una volta, vediamo il mondo trascinato lungo un sentiero che attraversa un bosco di menzogne e di propaganda, questa volta a favore dell’egemonia mondiale da parte dell’America».«Ma Obama si rende conto che sta conducendo gli Usa ed i loro Stati-fantoccio verso la guerra con la Russia e la Cina?». Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro con Ronald Reagan, lancia l’allarme: l’inquilino della Casa Bianca sembra manipolato dai neo-conservatori del suo governo. «La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono state il prodotto di ambizioni e di errori di un piccolo numero di persone». Nella “Genesi della Guerra Mondiale”, Harry Elmer Barnes dimostra che la Grande Guerra è stata causata dalla miopia di un pugno di politici, come il presidente francese Raymond Poincaré e il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov. «Poincaré chiedeva alla Germania l’ Alsazia-Lorena, e i russi volevano Istanbul e il Bosforo, che collega il Mar Nero al Mediterraneo. Si resero conto che le loro ambizioni richiedevano una guerra generale europea e lavorarono per produrre proprio quella guerra».
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Guerra e gas, obbedire a Obama è un pessimo affare
Dall’abbraccio mortale con Obama abbiamo tutto da perdere, se il presidente americano pretende che l’Europa si prepari a una guerra – fredda, o addirittura calda – con la Russia di Putin. Lo sostiene Manlio Dinucci, considerando il “pacco atlantico” che la Casa Bianca ha proposto all’Unione Europea. Per dirla con Susan Rice, consigliera per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la loro missione consiste nel «premere per l’unità dell’Occidente» di fronte alla «invasione russa della Crimea». Primo passo, l’ulteriore rafforzamento della Nato, cioè «l’alleanza militare che, sotto comando Usa, ha inglobato nel 1999-2009 tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre dell’ex Urss e due ex repubbliche della Jugoslavia (distrutta dalla Nato con la guerra)». Inarrestabile marcia verso est: basi, forza militare, capacità nucleare, “scudo antimissile” per minacciare Mosca. Fino al “golpe” di Kiev che ha spinto la Crimea a tornare sotto l’ala del Cremlino. Completa il quadro lo sviluppo del Trattato Transatlantico, il Ttip, detto anche “la Nato economica”, funzionale al sistema geopolitico Usa.Significativo, scrive Dinucci sul “Manifesto”, è che la visita di Obama in Europa si sia aperta con il terzo summit sulla sicurezza nucleare: una creazione dello stesso Obama, «non a caso Premio Nobel per la Pace», per “mettere in sicurezza” l’immenso arsenale atomico occidentale: alle 8.000 testate nucleari americane, tra cui 2.150 pronte al lancio, si aggiungono le 500 testate francesi e britaniche, che portano il totale Nato a oltre 2.600 testate pronte al lancio, a fronte delle circa 1.800 russe. Potenziale ora accresciuto dalla fornitura del Giappone agli Usa di oltre 300 chili di plutonio e una grossa quantità di uranio arricchito adatti alla fabbricazione di armi nucleari, cui si aggiungono 20 chili da parte dell’Italia. Nel club nucleare c’è anche Israele, l’unica potenza nucleare in Medio Oriente (non aderente al Trattato di non-proliferazione), che possiede fino a 300 testate e produce tanto plutonio da fabbricare ogni anno 10-15 bombe tipo quella di Nagasaki.Obama ha ordinato che circa 200 bombe B-61 schierate in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia (violando il trattato di non-proliferazione) siano sostituite con nuove bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, progettate in particolare per il caccia F-35, comprese quelle anti-bunker per distruggere i centri di comando in un “first strike” nucleare. La strategia di Washington ha un duplice scopo, sostiene Dinucci: da un lato, ridimensionare la Russia, che ha rilanciato la sua politica estera (si veda il ruolo svolto in Siria) e si è riavvicinata alla Cina, e dall’altro «alimentare in Europa uno stato di tensione che permetta agli Usa di mantenere tramite la Nato la loro leadership sugli alleati». Alcuni sono veri e propri alleati, come la Germania: «Con il governo tedesco Washington tratta per la spartizione di aree di influenza». Con altri, come l’Italia, semplici paesi satelliti, la Casa Bianca «si limita a pacche sulle spalle sapendo di poter ottenere ciò che vuole».Contemporaneamente, continua Dinucci, Obama preme sugli alleati europei perché riducano le importazioni di gas e petrolio russo. Obiettivo non facile. L’Unione Europea dipende per circa un terzo dalle forniture energetiche russe: Germania e Italia per il 30%, Svezia e Romania per il 45%, Finlandia e Repubblica Ceca per il 75%, Polonia e Lituania per oltre il 90%. L’amministrazione Obama, scrive il “New York Times”, persegue una «strategia aggressiva» che mira a ridurre le forniture energetiche russe all’Europa: essa prevede che la Exxon Mobil e altre compagnie statunitensi forniscano crescenti quantità di gas all’Europa, sfruttando i giacimenti mediorientali, africani e altri, compresi quelli statunitensi la cui produzione è aumentata permettendo agli Usa di esportare gas liquefatto.In questo quadro rientra la “guerra dei gasdotti”: obiettivo statunitense è bloccare il Nord Stream, che porta nella Ue il gas russo attraverso il Mar Baltico, e impedire la realizzazione del South Stream, che lo porterebbe nella Ue attraverso il Mar Nero. Entrambi i grandi gasdotti aggirano l’Ucraina, attraverso cui passa oggi il grosso del gas russo, e sono realizzati da consorzi guidati dalla Gazprom di cui fanno parte compagnie europee. Paolo Scaroni, numero uno dell’Eni, ha avvertito il governo che, se venisse bloccato il progetto South Stream, l’Italia perderebbe ricchi contratti, come l’appalto da 2 miliardi di euro che la Saipem si è aggiudicata per la costruzione del tratto sottomarino.Dall’abbraccio mortale con Obama abbiamo tutto da perdere, se il presidente americano pretende che l’Europa si prepari a una guerra – fredda, o addirittura calda – con la Russia di Putin. Lo sostiene Manlio Dinucci, considerando il “pacco atlantico” che la Casa Bianca ha proposto all’Unione Europea. Per dirla con Susan Rice, consigliera per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la loro missione consiste nel «premere per l’unità dell’Occidente» di fronte alla «invasione russa della Crimea». Primo passo, l’ulteriore rafforzamento della Nato, cioè «l’alleanza militare che, sotto comando Usa, ha inglobato nel 1999-2009 tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, tre dell’ex Urss e due ex repubbliche della Jugoslavia (distrutta dalla Nato con la guerra)». Inarrestabile marcia verso est: basi, forza militare, capacità nucleare, “scudo antimissile” per minacciare Mosca. Fino al “golpe” di Kiev che ha spinto la Crimea a tornare sotto l’ala del Cremlino. Completa il quadro lo sviluppo del Trattato Transatlantico, il Ttip, detto anche “la Nato economica”, funzionale al sistema geopolitico Usa.