Archivio del Tag ‘Vladimir Putin’
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Via dall’euro e addio Troika, se solo avessimo un leader
«Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».Renzi «pensava di affascinare l’Europa con la sua riforma del Senato», ma «non se l’è bevuta nessuno», scrive Giannuli nel suo blog. All’Ue, invece, «interessa la precarizzazione totale del lavoro in Italia, arraffare quel po’ che ancora ha un valore (Eni, Cdp, Telecom, forse qualche pezzetto di Finmeccanica) e che gli italiani si spremano sino all’ultima goccia di sangue, diano fondo ai risparmi e si vendano casa per pagare gli interessi sul debito pubblico e, se possibile, ne restituiscano una parte attraverso il Fiscal Compact». Tutto il resto sono solo chiacchiere. Problema: con l’economia in recessione, il debito esplode. E presto metterà fine alla bonaccia dello spread. Sul “Sole 24 Ore”, l’economista neoliberale Luigi Zingales scrive che «non saremo mai in grado di soddisfare il Fiscal Compact», e inoltre «la situazione del nostro debito pubblico è insostenibile, a meno di una significativa ripresa dell’inflazione», che è sempre stata il maggior alleato dei paesi debitori. «Ma questo – puntualizza Giannuli – presuppone la sovranità monetaria del debitore, cosa che l’euro ci ha tolto».Il problema, continua l’analista, è che, mentre gli italiani hanno capitalizzato i loro risparmi in beni reali (essenzialmente immobili), i tedeschi li hanno impiegati per l’acquisto di titoli finanziari, prevalentemente in euro. Per cui, un’inflazione al 3% sarebbe una grande boccata di ossigeno per i paesi indebitati come Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, ma «alle orecchie dei tedeschi suonerebbe come una tassa patrimoniale di pari importo sui titoli». E siccome la moneta comune «non è mai la “moneta di tutti”, ma sempre e solo del più forte», questo non si può fare: «Per i tedeschi la soluzione sta nella spoliazione dei paesi debitori, del loro patrimonio pubblico (aziende, immobili, riserva aurea, Cdp) e di quello privato (risparmi, proprietà immobiliari e, fosse per loro, anche vendita dei figli al mercato degli schiavi)». Per liquidare l’Italia, occorre «azionare con la massima decisione la leva fiscale (ovviamente al rialzo) e svendere subito il patrimonio pubblico», due cose che Monti aveva iniziato a fare «con grande sollievo della platea “europea”». Ovviamente, «dopo una “cura” del genere un paese entra in una fase di estrema decadenza economica per interi decenni», ma questo non interessa all’“Europa”. «Per i tedeschi, i partner europei sono solo sgabelli su cui arrampicarsi per reggere la sfida della globalizzazione».Certo, Renzi «non sta dando le risposte attese», limitandosi «a giocare al “piccolo leader”, cosa sommamente irritante». Per la verità, l’“Europa” non ha soluzioni politiche di ricambio, spiega Giannuli: «La destra berlusconiana l’ha già cacciata una volta ed è decotta, il centro non esiste e nel Pd non c’è nessuno che possa dare il cambio al fiorentino». E allora che si fa? Semplice: «Si commissaria l’Italia. Si fa governare il paese dalla Troika». A costringere l’Italia a invocarne “l’aiuto”, basterà «un nuovo “assedio dello spread”»: quando il differenziale sul rendimento dei titoli di Stato risalirà oltre i 500-600 punti, «gli italiani, soprattutto grazie al loro ineffabile Capo dello Stato, faranno quello che devono fare e si troverà il Monti di turno che faccia il lacchè della Troika». Niente di difficile, peraltro: «A preparare il terreno ci sta già pensando Scalfari». Un segnale chiaro, riguardo al pensiero dei poteri forti europei e dei loro esponenti italiani. E Renzi? «Il “bersagliere del nulla” ha solo due scelte davanti: o fa quello che la Bce gli dice, alla lettera e senza capricci, oppure fa saltare il tavolo». Il ricatto del debitore: se io vado in default, mi trascino dietro tutti, comprese le banche tedesche, così salta anche l’euro. Oppure: ristrutturiamo il debito senza ricatti e rivediamo tutti gli accordi, inziando a negoziare l’uscita dall’infame moneta unica.«La forza negoziale dell’Italia sta proprio nel fatto che è un grande debitore, con i suoi oltre 2.000 miliardi di debito», continua Giannuli. «La Ue e l’euro potrebbero resistere agevolmente a un default greco, pari a 300 miliardi, e forse potrebbero incassare anche un tracollo portoghese, ma un colpo da 2.000 miliardi è decisamente troppo». Si sa: un piccolo debito è un problema del debitore, ma un grande debito è un problema del creditore. Forse, a quel punto, «potrebbero accodarsi spagnoli, greci e portoghesi», insieme ai variegati movimenti “euroscettici”. «Dunque, la via sarebbe quella di sedersi tutti al tavolo e assumere il problema del debito come problema comune a debitori e creditori. Questo non è un tempo normale: la grande crisi chiede scelte radicali. Nel nostro caso, o servi della Troika o ribelli decisi a far saltare il tavolo, tertium non datur». Questo, però, «richiederebbe una intelligenza, una preparazione, un coraggio politico di cui non sospettiamo lontanamente Renzi». La sua «patetica impennata in difesa della sovranità nazionale» resta del tutto irrilevante. Il Fiorentino «sarà travolto prima di aver finito di parlare, ma quello che verrà dopo sarà anche peggiore: prepariamoci».«Come si sa, questo è un paese in cui le cose serie si decidono a ferragosto. Poi, al rientro, gli italiani trovano il piatto cotto in tavola». Fatti da parte, suggerisce Scalfari a Renzi, confermando l’allarme di De Bortoli sull’imminente arrivo della Troika, caldeggiato da Draghi. «E’ stato come se il travolgente successo alle europee, non solo non consacrasse la leadership di Renzi, ma quasi la indebolisse: arginato il M5S, Renzi non serve più», secondo Aldo Giannuli. «E il preannuncio del licenziamento è arrivato con la bacchettata di Draghi, che ha detto papale papale: “Caro Renzi, non mi incanti con la riforma del Senato, sono altre le riforme che devi fare” e, il sottinteso, neanche tanto dissimulato, era “altrimenti togliti di mezzo”». Renzi prima si è messo sull’attenti, poi ha tentato di dire che sulle riforme deciderà lui. «Povero illuso, non si rende conto di avere pochissime frecce al suo arco e di avere troppi avversari: gli americani lo detestano per le sue aperture a Putin, la Merkel non lo digerisce, la Buba gli darebbe fuoco, la finanza che sogna di avventarsi sul peculio berlusconiano non gli perdona il tentativo di salvare il Cavaliere, adesso ci si mette anche Draghi».
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Grazie a Renzi, anche l’Eni potrebbe lasciare l’Italia
Quello di Monti era il governo della Goldman Sachs. Quello di Letta, il nipote, era il governo dell’Aspen Institute. Per dire che erano entrambi molto orientati a fare gli interessi della finanza anglo-americana. Non a caso il governo Monti realizzò lo scorporo della Snam, che gestisce la rete di distribuzione del gas in Italia, dalla holding Eni. Una richiesta che era venuta «non soltanto dagli esponenti della canaglia liberista in Italia (legati mani e piedi agli ambienti di Wall Street e della City) ma anche da azionisti dell’Eni come il fondo di investimento americano Knight Winke, che si era assunto il ruolo di assillare il governo con tale questione che poi Monti aveva finito per risolvere a suo modo all’inizio del 2012». Anche Matteo Renzi, che nel 2009 il settimanale americano “Time” aveva definito “l’Obama italiano”, si è mostrato fedele alla linea “atlantica” e ha avviato le grandi manovre per mettere in vendita quote azionarie di società sotto controllo pubblico come Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e Fincantieri, ma anche Enav, Cdp Reti, Rai Way e Stm.In particolare, scrive Giuliano Augusto su “Rinascita”, Renzi è intenzionato a vendere una quota del 5% di Eni ed Enel portando in tal modo la quota pubblica dal 30% al 25%. Attualmente l’Enel è controllato dal Tesoro con una quota del 31,244% mentre l’Eni è controllata al 26,369% dalla Cassa Depositi e Prestiti (il cui principale azionista è il Tesoro con l’80,1%) e dal Tesoro con il 3,94%. Collegata a queste operazioni c’è la questione dell’Opa obbligatoria che il Pd al governo vorrebbe fare scendere al 25% dall’attuale 30%, mentre il relatore del provvedimento alla Camera, Massimo Mucchetti, voleva portarla al 20%. Il che avrebbe obbligato il Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti a vendere la quota azionaria eccedente quella percentuale, sia che si tratti di quota diretta (Tesoro) che indiretta (Cdp). Obiettivo: tutelare «gli interessi esteri anglofoni». Renzi? «L’uomo giusto al posto giusto». Per la prima volta, nell’ente fondato da Enrico Mattei come leva strategica della rinascita italiana nel dopoguerra, i soci privati stranieri sono diventati maggioritari: potrebbero essere le premesse per trasferire l’Eni all’estero, «tanto per gettare le premesse di un futuro assorbimento da parte di un colosso concorrente come l’americana Exxon».«La linea di Renzi – scrive Augusto – è in buona sostanza quella di trasformare Eni, Enel e le altre società a controllo statale in “pubblic company”», società ad azionariato diffuso «nelle quali non ci sia più un socio di riferimento ma dove i tanti soci privati eleggano di volta in volta gli amministratori». Così, addio Eni sullo scenario internazionale, con buona pace di «qualsiasi possibilità dell’Italia di avere una politica energetica autonoma in Europa e nel mondo». Questa sarebbe la risposta dell’“amerikano” Renzi alle critiche venute dagli europei “atlantici” e dagli stessi Stati Uniti per l’eccessiva “simpatia” italiana verso la Russia di Putin? Il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha stimato in appena 10 miliardi il ricavato delle privatizzazioni (svendite). Soldi che sarebbero usati per coprire una parte irrisoria dell’enorme debito pubblico italiano. Tra le cessioni, la vendita a gruppi cinesi del 49% di CdP-Reti, società che controlla appunto la Snam. «Tra americani e cinesi cambia poco. Continua la colonizzazione del nostro paese».Quello di Monti era il governo della Goldman Sachs. Quello di Letta, il nipote, era il governo dell’Aspen Institute. Per dire che erano entrambi molto orientati a fare gli interessi della finanza anglo-americana. Non a caso il governo Monti realizzò lo scorporo della Snam, che gestisce la rete di distribuzione del gas in Italia, dalla holding Eni. Una richiesta che era venuta «non soltanto dagli esponenti della canaglia liberista in Italia (legati mani e piedi agli ambienti di Wall Street e della City) ma anche da azionisti dell’Eni come il fondo di investimento americano Knight Winke, che si era assunto il ruolo di assillare il governo con tale questione che poi Monti aveva finito per risolvere a suo modo all’inizio del 2012». Anche Matteo Renzi, che nel 2009 il settimanale americano “Time” aveva definito “l’Obama italiano”, si è mostrato fedele alla linea “atlantica” e ha avviato le grandi manovre per mettere in vendita quote azionarie di società sotto controllo pubblico come Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e Fincantieri, ma anche Enav, Cdp Reti, Rai Way e Stm.
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Anche Wall Street scommette sulla Terza Guerra Mondiale
Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Timoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?Perché infine rovesciare Yanukovic quando lo stesso quarto e ultimo presidente dell’Ucraina aveva già venduto il Donbass alla Chevron e alla Shell? La bellezza di quasi 8.000 chilometri quadrati di territorio per la durata di 50 anni, un accordo segreto in gran parte valutato 10 miliardi di dollari, alla ricerca del gas da scisti bituminosi che avrebbe liberato “per sempre” l’Ucraina dalla dipendenza energetica dall’odiata Russia. Insomma: Yanukovic – presentato come «l’uomo di Mosca» da tutti i media occidentali – non era poi quel grande amico di Putin. Perché farlo fuori così brutalmente? Che bisogno c’era? Solo perché non aveva firmato a Vilnius il documento giugulatorio di “associazione” all’Unione Europea? Ma fino al novembre dell’anno precedente Viktor Yanukovic aveva negoziato, lasciando sperare in un successo europeo totale. Il documento era già pronto, anche se in parte assai segreto. Bastava aspettare qualche mese e sarebbe stato imposto, con le buone o con le cattive.No, tutti questi interrogativi non avevano risposte adeguate. Doveva esserci qualcos’altro. La fretta con cui Washington aveva premuto, e Varsavia aveva agito ai suoi ordini, indicava qualche altra impellente necessità. A me fu subito chiaro che il golpe – non a caso un golpe con le stigmate naziste così visibili – era diretto non contro Yanukovic, pedina di nessun peso, ma contro la Russia. I neocon, tramite la esecutrice Victoria Nuland, volevano una crisi di valenza internazionale, se non addirittura mondiale. Ma perché la fretta? Perché accelerare lo scontro e portare la Nato praticamente sul portone del Cremlino? Era, in fondo, uno scenario che io stesso avevo previsto sarebbe accaduto. Ma assistevo a un’improvvisa e drammatica accelerazione. Doveva esserci qualcos’altro a spiegare la fretta. E le dimensioni della rottura che si stava creando. Non si trattava di una crisi regionale, non un episodio passeggero. Le potenziali ripercussioni erano evidenti: uno scontro di portata non minore di quello della crisi dei missili a Cuba del 1962.Bisognava spiegare il senso e le ragioni dell’accelerazione. Io non sono un economista (lo ripeto sempre, per non eccitare le rimostranze degli scopritori dell’aria calda). Non sono neanche un esperto dei sotterfugi della finanza mondiale. Credo poco o nulla ai numeri che arrivano da quella parte, convinto ormai da tempo che sono in gran parte falsi o comunque molto manipolati. Ma tutto il nervosismo che da tempo leggo nei commenti di coloro che dicono d’intendersene (anche perché su quei trucchi ci hanno vissuto e ci vivono), mi ha fatto pensare che qualcosa non funzionava nei ragionamenti sopra esposti. Così mi sono trovato, con qualche sorpresa, in buona compagnia a parlare di “inizio della Terza Guerra Mondiale”. Devo prima di tutto esprimere i miei ringraziamenti a Roberto Savio, ideatore di quel fondamentale bollettino che si chiama “Other News”, con sottotitolo esplicativo: “L’informazione che i mercati eliminano”. Il primo di agosto, “Other News” ha pubblicato una rassegna che riprende numerosi spunti dal “Washington’s Blog”, così intitolata: “Un gruppo di esperti finanziari ai massimi livelli afferma che la Terza Guerra Mondiale è in arrivo, a meno che non la fermiamo”. Saccheggerò questa rassegna, che mi pare estremamente istruttiva.In primo luogo i nomi sono effettivamente grossi calibri, a giudicare dalla frequenza con cui i mercati li citano. Prendiamo per esempio Nouriel Rubini, che a gennaio di quest’anno twittava da Davos: «Molti oratori qui paragonano il 2014 con il 1914, quando la Prima Guerra Mondiale esplose e nessuno se l’aspettava. Siamo di fronte a un cigno nero nella forma di una guerra tra Cina e Giappone?» Fuochino. Ma gli fa eco Kile Bass, multimiliardario manager di hedge funds, che prima cita un «influente analista cinese» e poi lo stesso premier giapponese Abe, che «non escludono un confronto militare tra Cina e Giappone». Aggiungendo previsioni molto ben descritte, che in bocca a un gestore finanziario di quel calibro non possono essere trascurate. «Miliardi di dollari di depositi bancari saranno ristrutturati – ci informa Kile Bass – e milioni di prudenti risparmiatori finanziari perderanno grandi percentuali del loro reale potere d’acquisto esattamente nel momento sbagliato delle loro vite [sempre che ci sia un momento giusto per perdere i propri averi, ndr]. Neanche questa volta il mondo finirà, ma la struttura sociale delle nazioni influenti sarà posta in acuta tensione e in qualche caso fatta a pezzi. (…) Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza dell’attuale situazione economica globale».Gli fa eco l’ex capo dell’Office for Management and Budget ai tempi di Reagan, David Stockman. Anche per lui lo scontro in atto tra America e Russia condurrà alla terza guerra mondiale. Un po’ più generico sulle modalità, ma convinto anche lui che si sta andando verso «una grossa guerra» (“a major war”) è l’ex analista tecnico di Goldman Sachs, Charles Nenner, che, ora in proprio, vanta tra i suoi clienti numerosi importanti hedge funds, banche, e un certo numero di ricchissimi investitori internazionali. Altrettanto, con qualche variazione, pensano investitori americani di primo piano come James Dines e Marc Faber. Quest’ultimo afferma apertamente che il governo americano comincerà nuove guerre in risposta alla crisi economica in atto. «La prossima cosa che il governo farà per distrarre l’attenzione della gente dalle cattive condizioni economiche – scrive Marc Faber – sarà di cominciare una qualche guerra da qualche parte».Tutto chiaro, ma allora come mai i giornali e le tv ci dicono che l’America va fortissimo? Pochi giorni fa Martin Armstrong – un gestore di fondi d’investimenti sovrani multimiliardari – dice la stessa cosa: «Occorre distrarre la gente dall’imminente declino economico». Gli ultimi due pezzi che ha scritto li ha intitolati così: “Andremo in guerra contro la Russia” e “Prepariamoci alla terza guerra mondiale”. Non è ben chiaro se tutti questi profeti stiano enunciando prognosi sincere o siano semplicemente festeggiando in anticipo i futuri successi economico-finanziari che si aspettano dalla guerra, essendo evidente, da sempre, che le guerre ingrassano prima di tutto i banchieri e poi i produttori di armi. Ma l’insistenza con cui il tema viene sollevato indica comunque che il puzzo di bruciato tutti costoro lo sentono in anticipo.Altri, per esempio la presidentessa del Brasile, Dilma Rousseff, osservano che il mondo è attraversato da una «guerra delle valute» che sta diventando globale, cioè di tutti contro tutti. Da non dimenticare che la seconda guerra mondiale arrivò dopo una serie violenta di svalutazioni competitive. Sta accadendo ora la stessa cosa, quando le nazioni svalutano per rendere più competitive le loro merci e per incentivare le esportazioni. E molti si stanno accorgendo che la nuova banca, creata dal Brics, con capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, basata in Cina, costituisce una novità impressionante nel panorama globale, dove un numero crescente di transazioni avviene in yuan, in rubli, invece che in dollari Usa. Come scrive Jim Rickards – che nel 2009 partecipò ai primi “giochi di guerra finanziari” organizzati dal Pentagono – c’è il rischio che gli Stati Uniti si trovino «trascinati» in «guerre asimmetriche» di valute, in grado di accrescere le incertezze globali. È evidente che Rickards sta dalla parte americana. Ma, se il Pentagono – e non la Federal Reserve – organizza questo tipo di “giochi”, vuol dire che ci siamo già dentro fino al collo e che il loro carattere militare è fuori discussione.Del resto (questa volta parla il multimiliardario Hugo Salinas Price) «sono molti a chiedersi quali siano state le ragioni vere che hanno portato all’eliminazione di Gheddafi. Egli stava pianificando una valuta pan-africana. La stessa cosa accadde a Saddam Hussein. Gli Stati Uniti non tollerano alcun’altra solida valuta in grado di competere con il dollaro». Altri mettono il dito sulla crescente scarsità di risorse, soprattutto energetiche. Altri ancora guardano alla Cina come a un avversario bisbetico e sempre più incontrollabile – forse il protagonista di quella guerra asimmetrica citata da Jim Rickards. Gerald Celente, autore di accurate previsioni finanziarie e geopolitiche da molti anni, va anche lui seccamente alla conclusione: «Una terza guerra mondiale comincerà presto». Jim Rogers, un altro investitore internazionale miliardario, punta gli occhi sull’Europa: «Se si continua a salvare uno Stato dietro l’altro si finirà in un’altra guerra mondiale». Dunque continuiamo a strozzare i popoli europei, con l’obiettivo di evitare la guerra. Un pacifismo molto sospetto, ma comunque allarmato. Ovviamente sarà utile guardarsi da certi “pacifisti”. Ma questa rassegna è utile per capire che l’allarme è in aumento.La Cina, senza fare troppo rumore, fa provvista di risorse, energetiche e territoriali, solo che invece di mandare le proprie cannoniere (non è il tempo), quelle risorse se le compra, con i denari del debito americano. Putin deve fronteggiare la prima offensiva e non ha tempo da perdere. Tra l’altro un tribunale olandese, senza alcuna autorità o potere, ha decretato che la Russia dovrà pagare 50 miliardi di dollari, più gl’interessi, alla Yukos, cioè a quel bandito di Mikhail Khodorkovskij che la Russia ha scarcerato qualche mese fa con un gesto di distensione verso l’Europa (si noti che il tribunale sedeva nello stesso paese che aveva avuto il più alto numero di vittime nell’abbattimento del Boeing delle linee aeree malaysiane). Sarà stato un caso? Comunque, uno dei più vicini consiglieri di Putin, di fronte alla domanda “cosa farà la Russia di fronte a quella sentenza?”, ha risposto stringendosi nelle spalle: «C’è una guerra alle porte in Europa. Lei pensa realmente che una tale decisione abbia qualche importanza?».Giuridicamente non ce l’ha, ma sarà usata dai centri di comando dell’Occidente per colpire i beni russi all’estero, per sequestrare e congelare conti bancari, proprietà azionarie. Ecco una guerra asimmetrica appena iniziata senza essere stata nemmeno dichiarata. Un influente settimanale americano ha dedicato la sua copertina a Vladimir Putin, con questo commento: “Il Paria”. Un titolo che è, invece, una dichiarazione di guerra. Solo che non è stata pronunciata dal Dipartimento di Stato, bensì dal “ministero della propaganda”, cioè dai media occidentali. È stato Paul Craig Roberts a usare questa definizione in un articolo di qualche giorno fa. Chi è Paul Craig Roberts? È stato Assistente Segretario al Tesoro durante la presidenza Reagan, ex editore del “Wall Street Journal”, considerato dal “who’s who” americano come uno dei mille pensatori politici più influenti del mondo. L’articolo era intitolato: “La guerra sta arrivando” (“War is coming”).(Giulietto Chiesa, “Chi parla di Terza Guerra Mondiale?”, da “Megachip” del 6 agosto 2014).Della crisi ucraina ho già scritto a più riprese. La prima cosa che mi colpì, nel momento in cui Viktor Yanukovic fu rovesciato da un colpo di stato plateale, appoggiato patentemente dagli Stati Uniti (meglio dire da loro promosso) con l’attiva partecipazione della Polonia, della Lituania e dell’Estonia, e dei fantocci al potere a Bruxelles, fu la sua apparente inutilità. Perché mettere in atto un golpe se Yanukovic poteva essere tranquillamente tolto di mezzo tra un anno con regolari elezioni? E altre domande portavano tutte a conclusioni analoghe. Perché rovesciare il tavolo quando l’Ucraina era già nelle mani degli americani, completamente – Yanukovic o non Yanukovic – da diversi anni? Sicuramente dai tempi della cosiddetta “rivoluzione arancione” di Yushenko-Tymoshenko, che consegnarono nelle mani della Cia gli ultimi rimasugli di sovranità nazionale, dopo quelli svenduti dai precedenti presidenti dell’Ucraina “indipendente”, Kravchuk e Kuchma?
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Craig Roberts: vogliono la guerra, è un’élite di pazzi
La propaganda straordinaria condotta contro la Russia dai governi statunitense e britannico e dai ministeri della propaganda noti come “media occidentali” ha lo scopo di portare il mondo ad una guerra che nessuno potrà vincere. I governi europei devono scuotersi dalla noncuranza, perché l’Europa sarà la prima ad essere vaporizzata a causa delle basi missilistiche statunitensi che ospita per garantire la sua “sicurezza”. Come riportato da Tyler Durden di “Zero Hedge”, la risposta russa alla sentenza extragiudiziale di un corrotto tribunale olandese, che non aveva alcuna giurisdizione sul caso che ha arbitrato, sentenza che ordina al governo russo di pagare 50 miliardi di dollari agli azionisti della Yukos (un’entità corrotta che stava saccheggiando la Russia ed evadendo le tasse), è molto significativa. Quando gli è stato chiesto come la Russia si comporterà riguardo la sentenza, un consigliere del presidente Putin ha risposto: «C’è una guerra che sta arrivando in Europa. Crede davvero che questa sentenza abbia importanza?».L’Occidente si è coalizzato contro la Russia perché è totalmente corrotto. La ricchezza delle élite è ottenuta non solo depredando i paesi più deboli, i cui leader possono essere comprati (per istruirvi su come funziona il saccheggio leggete “Confessions of an Economic Hit Man” di John Perkins), ma anche derubando i loro stessi cittadini. Le élite americane eccellono nel saccheggio dei loro connazionali e hanno spazzato via gran parte della classe media statunitense nel nuovo 21° secolo. Al contrario, la Russia è emersa dalla tirannia e da un governo basato sulle menzogne, mentre gli Usa e il Regno Unito sono sommersi da una tirannia schermata da menzogne. Le élite occidentali vorrebbero depredare la Russia, un premio succulento, e Putin sbarra loro la strada. La soluzione è sbarazzarsi di lui, come in Ucraina si sono sbarazzati del presidente Yanukovich. Le élite predatorie e gli egemonisti neoconservatori hanno lo stesso obiettivo: fare della Russia uno Stato vassallo.Questo obiettivo unisce gli imperialisti finanziari occidentali con gli imperialisti politici. Ho raccolto per i lettori la propaganda che viene usata per demonizzare Putin e la Russia. Ma perfino io sono rimasto scioccato dalle strabilianti e aggressive bugie del giornale britannico “The Economist” del 26 luglio. In copertina c’è il viso di Putin in una ragnatela e, avete indovinato, il titolo di copertina è “Una rete di bugie”. Dovete leggere questa propaganda per constatare sia il livello di spazzatura della propaganda occidentale, sia l’evidente spinta verso la guerra. Non viene presentata la minima prova per supportare le accuse estreme dell’“Economist” e la sua richiesta che l’Occidente smetta di essere conciliante con la Russia e intraprenda le azioni più dure possibili contro Putin. Questo genere di menzogne incoscienti e di lampante propaganda non ha altro scopo che di condurre il mondo alla guerra. Le élite occidentali e i governi non sono solo totalmente corrotti, sono anche pazzi. Come ho scritto precedentemente, non aspettatevi di vivere ancora a lungo.(Paul Craig Roberts, “La guerra sta arrivando”, dal blog di Craig Roberts del 28 luglio 2014, ripreso da “Controinformazione.info”. Craig Roberts è stato viceministro dell’economia del governo Reagan. Nel post, mostra anche un video nel quale uno dei consiglieri di Putin e alcuni giornalisti russi parlano apertamente dei piani statunitensi per attaccare la Russia).La propaganda straordinaria condotta contro la Russia dai governi statunitense e britannico e dai ministeri della propaganda noti come “media occidentali” ha lo scopo di portare il mondo ad una guerra che nessuno potrà vincere. I governi europei devono scuotersi dalla noncuranza, perché l’Europa sarà la prima ad essere vaporizzata a causa delle basi missilistiche statunitensi che ospita per garantire la sua “sicurezza”. Come riportato da Tyler Durden di “Zero Hedge”, la risposta russa alla sentenza extragiudiziale di un corrotto tribunale olandese, che non aveva alcuna giurisdizione sul caso che ha arbitrato, sentenza che ordina al governo russo di pagare 50 miliardi di dollari agli azionisti della Yukos (un’entità corrotta che stava saccheggiando la Russia ed evadendo le tasse), è molto significativa. Quando gli è stato chiesto come la Russia si comporterà riguardo la sentenza, un consigliere del presidente Putin ha risposto: «C’è una guerra che sta arrivando in Europa. Crede davvero che questa sentenza abbia importanza?».
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Vogliono mangiarsi la Russia, piani di guerra in autunno
Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.Semplicemente incredibile, rileva Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, la vicenda del volo Mh17 della Malaysia Airlines abbattuto da un caccia di Kiev nei cieli dell’Est Ucraina: a inchiodare i golpisti ucraini sostenuti dalla Nato, le testimonianze di un osservatore canadese dell’Ocse e di un pilota tedesco. «Tutto punta ad un cannone da 30 millimetri di un Su-25 ucraino che fa fuoco sulla cabina di pilotaggio dell’Mh17, causando una decompressione istantanea e lo schianto». Nessun razzo, dunque, men che meno il missile aria-aria evocato nelle «prime, frenetiche dichiarazioni statunitensi». In più, le nuove versioni collimano con le testimonianze oculari in loco registrate dalla Bbc in un reportage «notoriamente “scomparso”». Conclusione: incidente pianificato dagli Usa e messo in atto da Kiev per incolpare Mosca. «Ci si può solo lontanamente immaginare il terremoto geopolitico se il “false flag” fosse reso di pubblico dominio».Nebbia, ovviamente, sulle indagini: la Malesia ha consegnato i registratori dell’Mh17 al Regno Unito, «quindi alla Nato, quindi alle manipolazioni della Cia», mentre il volo Air Algerie Ah5017, precipitato dopo l’Mh17, è già stato chiarito grazie a un’indagine prontamente divulgata. «Sorge spontanea la domanda sul perché ci sta volendo così tanto per analizzare/manipolare le scatole nere dell’Mh17». Fare chiarezza ostacolerebbe il gioco sporco delle sanzioni: «La Russia resta colpevole – senza alcuna prova – quindi deve essere punita». L’Ue? «Ha seguito servilmente la voce del padrone e ha adottato tutte le sanzioni estreme contro la Russia». Mosca avrà accesso ridotto ai mercati in dollari ed euro, e alle banche di Stato russe sarà proibito vendere azioni o bond in Occidente. Ma ci sono scappatoie decisive: Sberbank, la più grande banca russa, non è stata sanzionata. Nel medio-breve termine, la Russia dovrà finanziarsi da sola? «Le banche cinesi possono facilmente rimpiazzare quel tipo di prestiti».E’ ormai strategica la partnership con Pechino. «Come se Mosca avesse bisogno di altri avvertimenti che l’unico modo per farcela è abbandonare sempre più il sistema dollaro». Gli Stati dell’Ue ne soffriranno molto, continua Escobar: Bp ha una partecipazione del 20% nella Rosneft, e per la cronaca «sta già dando di matto». Anche Exxon Mobil, la Statoil norvegese e la Shell saranno penalizzate. Le sanzioni non toccano l’industria del gas: se così fosse stato, «la stupidità controproducente dell’Ue sarebbe schizzata a livelli galattici». La Polonia, «che istericamente incolpa la Russia per qualsiasi cosa accada», compra da essa più dell’80% del gas, e «le non meno isteriche Repubbliche Baltiche, così come la Finlandia, il 100%». Il veto sui prodotti a doppio uso – militare e civile – creeranno invece problemi alla Germania, il maggior esportatore dell’Ue verso la Russia. Nel ramo della difesa saranno Francia e Regno Unito a soffrire: quest’ultimo ha almeno 200 contratti di vendita di armi e controlli per il lancio di missili in Russia; tuttavia la vendita da 1,2 miliardi di euro (1,6 miliardi di dollari) di navi d’assalto “Mistral” alla Russia da parte della Francia continuerà a procedere.Il consigliere economico di Putin, Sergei Glazyev, sostiene che l’economia europea dovrebbe stare veramente attenta nel proteggere i propri interessi, mentre gli Usa cercano di «scatenare una guerra in Europa e una Guerra Fredda contro la Russia». Conclusione: «Settori chiave della plutocrazia occidentale vogliono una continua e indefinita guerra con la Russia». Il piano-A della Nato, aggiunge Escobar, prevede di impiantare batterie di missili in Ucraina: «Se dovesse accadere, per Mosca la linea rossa verrebbe oltrepassata di parecchio», visto che a quel punto «si darebbe la possibilità di un primo attacco ai confini russi occidentali». Nel frattempo, Washington punta a isolare dalla Russia i separatisti dell’Est Ucraina. «Ciò implica finanziare direttamente e massivamente Kiev e parallelamente costruire e armare, per mezzo di consiglieri statunitensi già sul posto, una enorme armata (circa 500.000 entro la fine dell’anno, secondo le proiezioni di Glazyev)». Lo scacco matto: rinchiudere i federalisti in una minuscola area. Per il presidente ucraino Petro Poroshenko, dovrebbe accadere entro settembre, alla peggio entro la fine del 2014.«Negli Stati Uniti e in gran parte dell’Ue, si è sviluppata una mostruosa caricatura che rappresenta Putin come il nuovo Osama Bin Laden stalinista», scrive Escobar. «Fino ad ora la sua strategia sull’Ucraina si è basata sulla pazienza», cioè «stare a guardare le gang di Kiev suicidarsi mentre si tentava di sedersi civilmente con l’Ue per trovare una soluzione politica». Ora però ci potremmo trovare di fronte a una variabile che cambia i giochi, perché «l’ammassarsi di prove, che Glazyev e l’intelligence russa stanno fornendo a Putin, indicano l’Ucraina come campo di battaglia, come una spinta ad un cambio di regime a Mosca, verso una Russia destabilizzata». Si avvicina dunque la possibilità di «una provocazione definitiva». Geopolitica mondiale: «Mosca, alleata con i Brics, sta lavorando attivamente per bypassare il dollaro – che rappresenta il punto di riferimento di una economia di guerra statunitense basata sulla stampa di inutili pezzi di carta verde. I progressi sono lenti ma tangibili: non solo i Brics, ma anche gli aspiranti Brics, i G-77, il Movimento Non Allineato e tutto il Sud del mondo ne hanno piene le tasche dell’eterno bullismo dell’Impero del Caos e vogliono un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali».Gli Usa contano sulla Nato – che manipolano a loro piacimento – e sul “cane pazzo” Israele, e forse sul Ggg (Consiglio di Cooperazione del Golfo), le petro-monarchie sunnite complici nel massacro di Gaza, che possono essere comprate e messe a tacere «con uno schiaffo sul polso». A Mosca, i nervi sono stati messi a dura prova: «La tentazione per Putin di invadere l’Ucraina dell’Est in 24 ore e ridurre in polvere le milizie di Kiev deve essere stata sovrumana. Specialmente con la crescente escalation di follia: missili in Polonia e presto in Ucraina, bombardamenti indiscriminati di civili nel Donbass, la tragedia dell’Mh17, l’isterica demonizzazione da parte dell’Occidente». Moltissima pazienza, finora, da parte dell’“orso” russo – pazienza non illimitata, però. «Putin è programmato per giocare la partita a lungo termine. La finestra per un attacco-lampo ormai s’è chiusa: quella mossa di kung fu avrebbe fermato la Nato con un fatto compiuto e la pulizia etnica di 8 milioni di russi e russofoni nel Donbass non sarebbe mai iniziata». Putin, però, non “invaderà” l’Ucraina: sa che «l’opinione pubblica russa non vuole che lo faccia».Mosca, aggiunge Escobar, continuerà a sostenere quello che si configura come un movimento di resistenza de facto nel Donbass: tra due mesi al massimo, «l’inverno inizierà ad imporsi in quelle lande ucraine distrutte e saccheggiate dal Fmi». Il piano di pace russo-tedesco da poco trapelato, continua l’analista di “Asia Times”, potrà essere sviluppato «sul cadavere di Washington». Ecco perché questo nuovo “Grande Gioco” promosso dagli Usa punta a prevenire un’integrazione delle economie di Ue e Russia attraverso la Germania, «che diverrebbe parte di una più estesa integrazione eurasiatica che includa la Cina e la sua moltitudine di vie della seta». Se i commerci della Russia con l’Europa – circa 410 miliardi di dollari nel 2013 – stanno per ricevere un colpo a causa delle sanzioni, ciò implica un movimento che spinga ad Est. Il che comporta un aggiustamento del progetto di Unione Economica Eurasiatica, o una Grande Europa da Lisbona a Vladivostock, «l’idea iniziale di Putin», in tandem coi cinesi. «Tradotto, sta a significare una forte partnership Cina-Russia nel cuore dell’Eurasia – una terrificante maledizione per i Padroni dell’Universo».Non si sbaglia, la partnership strategica Cina-Russia continuerà a svilupparsi velocemente – con Pechino in simbiosi con le immense risorse naturali e tecnologico-militari di Mosca. Per non menzionare i benefici a livello strategico, aggiunge Escobar: «Una cosa del genere non accadeva dai tempi di Genghis Khan. Ma in questo caso, Xi Jinping non sta arruolando un Khan per sottomettere la Siberia ed oltre». Attenzione: «La guerra fredda 2.0 è ormai inevitabile perché l’Impero del Caos non accetterà mai che la Russia abbia una sfera di influenza in zone dell’Eurasia (come non accetta che ce l’abbia la Cina). Non accetterà mai la Russia come un partner paritario (l’eccezionalismo non ha eguali) e non perdonerà mai la Russia – come la Cina – per aver apertamente sfidato il cigolante e eccezionalista ordine imposto dagli Stati Uniti». Per cui, «se il Dipartimento di Stato Usa, guidato da quelle nullità che passano per leader, nella disperazione, andasse un passo troppo avanti – potrebbe avvenire un genocidio nel Donbass, un attacco della Nato in Crimea o, nel peggiore dei casi, un attacco alla Russia stessa – attenzione: l’orso colpirà».Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.
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Klare: senza le rinnovabili, è guerra ovunque per l’energia
Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.Gli esportatori – come Iraq e Nigeria, Russia e Sudan del Sud – spesso esercitano un’influenza sproporzionata, sulla scena mondiale, rispetto al loro reale peso specifico politico. Proprio la lotta per le risorse energetiche, scrive Klare in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, è stato un fattore evidente in diversi conflitti recenti, tra cui la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, la Guerra del Golfo del 1990-1991 e la guerra civile sudanese del 1983-2005. «A prima vista, il fattore legato ai combustibili fossili nei più recenti focolai di tensione e di guerra può sembrare meno evidente, ma se si guarda più da vicino si vede che ognuno di questi conflitti è, in effetti, una guerra per l’energia». Gli estremisti sunniti dell’Isis, che sperano di fondare un giorno un “califfato islamico” in Medio Oriente, oggi occupano le aree-chiave per l’estrazione del greggio in Siria e gli impianti di raffinazione in Iraq. «Pare che l’Isis venda petrolio proveniente dai giacimenti sotto il suo controllo a oscuri intermediari, che a loro volta organizzano il trasporto – per lo più tramite autobotti – alla volta di acquirenti che si trovano in Iraq, Siria e Turchia. Si dice che queste vendite forniscano all’organizzazione i fondi necessari per pagare le sue truppe e acquisire le sue vaste scorte di armi e munizioni».Molti osservatori, aggiunge Klare, sostengono anche che l’Isis stia vendendo petrolio al regime di Assad in cambio di immunità dagli attacchi aerei governativi lanciati contro i restanti gruppi ribelli. «In qualsiasi modo gli attuali combattimenti nel nord dell’Iraq si sviluppino, è ovvio che anche lì il petrolio sia il fattore chiave», anche perché l’Isis «mira sia a negare le forniture di petrolio e le entrate ad esso legate al governo di Baghdad, sia a sostenere le proprie casse, migliorando la sua capacità di costruire una vera e propria nazione e facilitando ulteriori progressi militari». Dal petrolio al gas, è sempre l’energia al centro della contesta in Ucraina, dove transita il 30% del gas russo destinato all’Europa: non deve sorprendere che l’accordo di associazione tra Bruxelles e Kiev preveda l’estensione delle norme energetiche dell’Ue al sistema energetico ucraino, eliminando di fatto i benevoli accordi intercorsi tra le élite ucraine e la russa Gazprom. Non solo militare, ma anche energetico, il significato della contromossa di Putin, cioè il recupero della Crimea: si ritiene che la penisola sul Mar Nero ospiti miliardi di barili di petrolio e vaste riserve di gas, come dimostrato dalla pressione esercitata da Exxon Mobil, prima della crisi, per mettere le mani proprio sulla Crimea.Si scrive guerra ma si legge energia anche in Nigeria: le cronache parlano dei ribelli islamisti di Boko Haram, decisi ad abbattere un regime corrotto, ma spesso dimenticano di spiegare che il paese è il più grande produttore africano di petrolio, grazie a un’estrazione giornaliera di circa 2,5 milioni di barili. Profitti: decine di miliardi di dollari l’anno. Se venissero usati per stimolare lo sviluppo e migliorare la sorte della popolazione, scrive Klare, «la Nigeria potrebbe essere un grandioso faro di speranza per tutta l’Africa». Invece, «gran parte del denaro scompare nelle tasche (e relativi conti bancari esteri) di élite nigeriane ben ammanicate». Per molti nigeriani, la maggior parte dei quali vive con meno di 2 dollari al giorno, la corruzione della capitale Abuja, combinata con la brutalità indiscriminata della polizia, è una fonte costante di rabbia: risentimento che genera reclute per gruppi di insorti come Boko Haram e conquista l’ammirazione della popolazione. Soldi e petrolio sono alla base anche della guerra infinita in Sudan, inclusa la tragedia del Darfur. Avviata nel 1995, la prima guerra civile tra il nord islamico e il sud animista e cristiano si concluse nel 1972. Ma quando fu scoperto il petrolio nel sud, i governanti del nord revocarono l’autonomia concessa: la seconda guerra civile, protrattasi dal 1983 al 2005 per il controllo dei giacimenti, ha fatto 2 milioni di morti prima che si arrivasse alla secessione del sud, nel 2011. Ma il Sud Sudan non trova pace neppure ora: l’élite al potere combatte contro i competitori interni, in scontri continui attorno ai campi petroliferi, proprio come in Siria e in Iraq.Altro teatro di pericolosa instabilità geopolitica di origine energetica, il Mar della Cina: sia in quello meridionale che in quello orientale, «la Cina e i suoi vicini rivendicano la proprietà di vari atolli e isole che si trovano a cavallo di vaste riserve sottomarine di petrolio e di gas», ricorda Klare, citando gli scontri navali ormai ricorrenti. Quel mare, una propaggine del Pacifico occidentale molto ricca di energia, è circondato da Cina, Vietnam, Borneo e Filippine. «Le tensioni hanno raggiunto il picco in maggio, quando i cinesi schierarono il loro più grande impianto di perforazione per acque profonde, l’Hd-981, nelle acque rivendicate dal Vietnam», proteggendolo con una flotta da guerra. «Quando le navi della guardia costiera vietnamita hanno provato a penetrare all’interno di questo anello difensivo, nel tentativo di scacciare l’impianto di perforazione, sono state speronate dalle navi cinesi e colpite con cannoni ad acqua». In mare nessun morto, ma la rivolta anti-cinese in Vietnam ha fatto parecchie vittime. C’è chi parla di risentimenti storici, ma in realtà la China National Offshore Oil Company (Cnooc) stima che nel Mar Cinese Meridionale ci siano da 23 a 30 miliardi di tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale, pari a un terzo del totale delle risorse petrolifere e di gas della Cina, che oggi è il più grande consumatore mondiale di energia.Non c’è via d’uscita, dice Klare: la guerra per l’energia continuerà in tutto il mondo. «Mentre le divisioni etniche e religiose possono fornire il carburante politico e ideologico di queste battaglie», è decisivo il movente economico: si parla di «profitti mastodontici», oltre che di “benzina” per alimentare le strutture militari belligeranti. In un mondo ancora legato a doppio filo ai combustibili fossili, il controllo delle riserve di petrolio e gas è una componente essenziale del potere nazionale. «Il petrolio potenzia più di automobili e aeroplani», ha detto Robert Ebel del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali durante un audizione del Dipartimento di Stato Usa nel 2002. «Il petrolio potenzia la forza militare, il Tesoro nazionale e la politica internazionale». È molto più del normale commercio di una materia prima: «E’ un fattore determinante del benessere, della sicurezza nazionale e della potenza in campo internazionale per coloro che possiedono questa risorsa vitale e il contrario per coloro che non ne hanno». Forse, conclude Klare, ne usciremo solo il giorno in cui, finalmente, il mondo passerà davvero alle energie rinnovabili.Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.
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Chiesa: Kiev, i massacri della storia scritta dai vincitori
Mentre il neogoverno europeo dell’Ucraina (che credevamo occupata da Putin e scopriamo occupata dalla Nato) sta massacrando definitivamente i russi suoi cittadini che vivono nel Donbass (già venduto alla Shell tutto intero da Yanukovic, che credevamo un “uomo di Mosca” e invece era un uomo della Shell), mi vengono alla mente episodi lontani che ho avuto la sorte di vedere mentre avvenivano. Penso a quell’8 dicembre 1991, quando le agenzie del mio ufficio di corrispondenza di Mosca cominciarono a battere la notizia che l’Unione Sovietica aveva “cessato di esistere”. Lo decisero tre ometti, ubriachi di vodka e di potere, che non avevano la minima idea di quello che stavano facendo e delle onde lunghe e grandi che alzavano e che si sarebbero rovesciate, anche dopo molti decenni, su tutte le spiagge del pianeta. Ho già scritto qui queste righe, scoprendo che qualche lettore le interpretava come segno di “nostalgia”, di una qualche “mia” nostalgia. Niente affatto. E’ una constatazione.Ci sono atti politici che hanno enormi conseguenze. Che spesso non si vedono (non le vedono coloro che li compiono). La differenza tra i leader politici è che ve ne sono di totalmente incapaci di calcolare gli effetti di ciò che fanno. Oppure che sono del tutto indifferenti a tutto ciò che fuoriesce dai confini modesti dei loro interessi contingenti. Io penso che in quell’8 dicembre 1991 si posero le basi per il massacro dei russi di Ucraina di oggi. Lo penso oggi, ma lo pensai anche allora. E posso dirlo perché lo scrissi. In un libro che in Italia passò quasi inosservato, che si intitolava “Russia Addio!”. Quel libro fu pubblicato anche per il pubblico russo. Con lo stesso titolo: “Proshchai Rossija!”. Il libro fu letto, in Russia, da decine di migliaia di persone. Lo lesse tutta l’élite politica. Fui attaccato, allora, dai liberali democratici filo-occidentali e dai comunisti sovietici ultra ortodossi. Per motivi opposti, naturalmente.Da osservatore straniero fui l’unico che ebbe il coraggio e la libertà intellettuale di dire tutta la verità che, con quel gesto, si spalancava davanti alla Russia (quella che si poteva immaginare e intuire, ovviamente). In tutti questi anni – ne sono passati 23 – nessuno degli scrittori russi, dei giornalisti russi, degl’intellettuali russi, ha avuto la forza di raccontare, neanche a posteriori, ciò che poteva essere visto già allora. C’è ovviamente un’enorme pubblicistica in merito: memorie, racconti, romanzi, tomi, cronache, interviste. Ma una visione d’insieme manca ancora. E la ragione è semplice: quasi nessuno di coloro che videro, agirono, assunsero responsabilità, può raccontare senza censurarsi. Questo in Russia. In Occidente tutta quella storia è stata raccontata dai “vincitori”. Ed è ovviamente falsa. E, essendo falsa, produce conseguenze catastrofiche nei comportamenti dei dirigenti di oggi. Quelli che prendono le decisioni di oggi. E che, per la loro ignoranza, per la loro superficialità, provocano i massacri di oggi. E di domani.(Giulietto Chiesa, “Ucraina, la storia secondo i vincitori e i massacri di oggi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 6 luglio 2014).Mentre il neogoverno europeo dell’Ucraina (che credevamo occupata da Putin e scopriamo occupata dalla Nato) sta massacrando definitivamente i russi suoi cittadini che vivono nel Donbass (già venduto alla Shell tutto intero da Yanukovic, che credevamo un “uomo di Mosca” e invece era un uomo della Shell), mi vengono alla mente episodi lontani che ho avuto la sorte di vedere mentre avvenivano. Penso a quell’8 dicembre 1991, quando le agenzie del mio ufficio di corrispondenza di Mosca cominciarono a battere la notizia che l’Unione Sovietica aveva “cessato di esistere”. Lo decisero tre ometti, ubriachi di vodka e di potere, che non avevano la minima idea di quello che stavano facendo e delle onde lunghe e grandi che alzavano e che si sarebbero rovesciate, anche dopo molti decenni, su tutte le spiagge del pianeta. Ho già scritto qui queste righe, scoprendo che qualche lettore le interpretava come segno di “nostalgia”, di una qualche “mia” nostalgia. Niente affatto. E’ una constatazione.
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Il business avverte Obama: basta sanzioni contro Putin
«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.«Le povere previsioni per l’economia americana – segnala Craig Roberts in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – hanno indotto due tra le più grandi lobby d’affari, la Camera di Commercio degli Stati Uniti e l’associazione nazionale dei produttori (o quello che rimane di essa) a prendere posizione contro l’amministrazione Obama per la paura di ulteriori sanzioni contro la Russia». E’ stata “Bloomberg News” ad annunciare la campagna promossa dai gruppi d’affari con pagine su “New York Times”, “Wall Street Journal” e “Washington Post” contro ulteriori sanzioni nei confronti del Cremlino. «Queste organizzazioni dicono che le sanzioni diminuiranno i loro profitti avendo come risultato la perdita di posti di lavoro americani». Si tratta delle due maggiori corporazioni commerciali Usa, «fonti importantissime di finanziamento delle campagne elettorali dei vari partiti politici», e ora «hanno finalmente aggiunto la loro voce a quella del mondo degli affari tedesco, francese e italiano».«Tutti, tranne l’opinione pubblica americana – dice Craig Roberts – sanno che la crisi in Ucraina è totalmente un “business” creato da Washington. Gli imprenditori europei e americani si stanno chiedendo “perché i nostri profitti e i nostri lavoratori debbano soffrire a causa della propaganda di Washington contro la Russia”». Secondo l’ex viceministro di Reagan, «Obama non sa cosa dire». Magari qualche risposta verrà dalla «feccia neocon» imbarcata alla Casa Bianca: Victoria Nuland, Samantha Powers, Susan Rice. «Obama può affidarsi al “New York Times”, al “Washington Post”, al “Wall Street Journal” e al “Weekly Standard” per spiegare perché milioni di americani ed europei debbano soffrire affinché il “ratto” dell’Ucraina vada a buon fine». In realtà, «le bugie di Washington si stanno ritorcendo contro Obama». Se la cancelliera Merkel «è completamente assoggettata ai voleri Usa», in compenso «l’industria tedesca sta dicendo all’amica americana che il valore dei propri affari in Russia è maggiore del valore sofferto a causa delle pretese imperialistiche del governo Usa».Idem il mondo imprenditoriale francese: «Sta chiedendo a Hollande cosa voglia fare con la mancanza di posti di lavoro e se lui stesso porta avanti gli interessi americani». Le sanzioni contro la Russia, inoltre, «costituiscono un colpo mortale al settore italiano più famoso e universalmente riconosciuto al mondo, quello del lusso e della moda». Così, in Europa «si sta spandendo a macchia d’olio il dissenso nei confronti di Washington». Secondo recenti sondaggi, 3 tedeschi su 4 «sono contrari alla permanenza delle basi Nato in Polonia e negli Stati baltici». L’ex Cecoslovacchia, attualmente divisa in Slovacchia e Repubblica Ceca, benché membro Nato si è opposta alla presenza americana sul suo territorio. «Recentemente, un ministrro tedesco ha detto che fare un piacere a Washington è come fare sesso orale senza ricevere nulla in cambio». Di fatto, «la pressione che i pazzi a Washington stanno mettendo sulla Nato potrebbe mandare in frantumi l’organizzazione: preghiamo perché sia così», dichiara Craig Roberts. «La scusa all’esistenza della Nato è scomparsa 23 anni anni fa con il collasso dell’Unione Sovietica. Washington ha fatto espandere la Nato molto oltre i limiti segnati dal Trattato del Nord-Atlantico».La Nato ora interviene su un territorio che va dal Baltico all’Asia Centrale: «Quindi, per giustificare la continua espansione delle operazioni, Washington ha dovuto fare della Russia un nemico». Il problema? «La Russia non vuole assolutamente essere un nemico della Nato o di Washington». A premere per lo scontro è il complesso apparato militare di sicurezza statunitense, che assorbe più di un trilione di dollari dalle tasche degli americani: la lobby della guerra «ha bisogno di una scusa per continuare a far lievitare i profitti». Avverte Craig Roberts: «Sfortunatamente, gli imbecilli di Washington hanno scelto un nemico pericoloso: la Russia è una potenza nucleare, un paese di vaste dimensioni che vanta un’alleanza strategica con la Cina. Solo un governo imbevuto di arroganza e hybris, o gestito da psicopatici e sociopatici, sceglierebbe un nemico del genere».Per fortuna, al Cremlino c’è Putin, forte del consenso del 76% dei russi «nonostante le forti opposizioni delle Ong russe finanziate da Washington». Putin ha più volte fatto notare all’Europa come le politiche americane in Medio Oriente e in Libia non siano state solo un completo fallimento, ma anche devastanti e pericolose per l’Europa e la Russia. «I pazzi a Washington hanno rimosso dei governi che tenevano a bada gli jihadisti, e ora questi violenti sono sguinzagliati e senza alcun tipo di controllo». In Medio Oriente, gli jihadisti «sono al lavoro per ridefinire i confini stabiliti dagli inglesi e dai francesi dopo la Prima Guerra Mondiale». Attenzione: «Europa, Russia e Cina hanno tutte una percentuale di popolazione musulmana e ora si preoccupano che la violenza che Washington ha scatenato in Medio Oriente possa destabilizzare anche loro stesse».Per di più, il dollaro americano è nei guai: il biglietto verde «è tenuto a galla attraverso la manipolazione del mercato finanziario e Washington sta mettendo sotto pressione i suoi Stati vassalli perché sostengano il valore del dollaro attraverso la stampa delle loro monete e il conseguente acquisto di dollari». Per tenere il dollaro in vita, aggiunge Craig Roberts, larga parte del mondo patirà le conseguenze dell’inflazione: «Quando la gente finalmente lo capirà e correrà a comprare oro, in quel momento ce lo avranno tutto i cinesi». A sentire Sergej Glazyeb, un consigliere del Cremlino, «solo un’alleanza contro il dollaro potrebbe fermare le ambizioni degli Stati Uniti». Anche per Craig Roberts «non ci può essere pace fino a che Washington continua a stampare moneta per finanziare nuove guerre: come ha detto il governo cinese, è tempo di “de-americanizzare il mondo”». Secondo Roberts, la leadership degli Stati Uniti ha completamente fallito, producendo null’altro che bugie, violenze e morte, devastando 7 paesi nel XXI secolo. «A meno che la leadership degli Stati Uniti non venga sostituita con una più a misura d’uomo, la vita sulla Terra non ha futuro».«Nessuno al mondo ha una vera ragione per amare gli Stati Uniti, meno che mai gli stessi americani dissanguati per le pretese di dominio di Washington sul mondo». Mentre 3 russi su 4 vorrebbero che Putin restasse al Cremlino anche dopo il 2018, il tasso di popolarità di Obama scivola al 41%. E l’economia americana traballa: la strombazzata crescita del primo trimestre 2014, di almeno il 2,6% secondo gli economisti mainstream, viene sbriciolata dalla dura realtà, che rivela uno scivolone pari al -2,9%. Non se ne stupisce Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan: «Qualsiasi economista libero e non a libro paga di Wall Street, del governo e dei poteri forti sapeva che il 2,6% era una buffonata». La verità è che «l’economia americana non può crescere perché le multinazionali spinte da Wall Street hanno portato l’economia reale fuori dai confini Usa: tutta la produzione americana è stata trasferita all’estero». E ora – questa la notizia – i poteri forti chiedono a Obama di cessare l’offensiva contro la Russia di Putin, prima che l’America ci rimetta l’osso del collo.
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Cheney: presto un altro 11 Settembre, ancora più letale
Il primo passo è semplice, costruire un nemico: ieri l’Islam, oggi la Russia di Putin. La seconda mossa è scritta nella storia, da Pearl Harbor al falso attacco contro navi americane nel Golfo del Tonchino, casus belli per la guerra in Vietnam. L’avvertimento questa volta viene da un personaggio particolarmente inquietante come l’ex vicepresidente Dick Cheney, secondo molti analisti la vera “mente” della gestione politica degli attentati dell’11 Settembre, perfetti per avviare l’assedio strategico della Cina con l’occupazione dell’Afghanistan e quindi ipotecare il petrolio del Golfo grazie alla campagna contro le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E’ il “Daily Mail”, il 25 giugno 2014, a rivelare che, secondo Cheney, entro il 2010 molto probabilmente ci sarà un attacco terroristico di gran lunga peggiore rispetto a quello contro le Twin Towers, attribuito al “fantasma” di Bin Laden, già emissario della Cia in Afghanistan. In altre parole: starebbe per tornare d’attualità lo stesso copione del terrore, il pretesto per una nuova guerra.«Penso che ci sarà un altro attacco», ha detto Cheney. «E la prossima volta credo che sarà ben più letale dell’ultima». Aggiunge l’ex vice di Bush: «Immaginate cosa sarebbe se qualcuno riuscisse a portare nel paese una testata atomica, la mettesse dentro un container e la portasse sin alle porte di Washington». Parole più che inquietanti, osserva Salvatore Santoru in un post su “Informazione consapevole” ripreso da “Vox Populi”, vista l’identità del dichiarante: «Un personaggio che anche Richard Clarke, principale consigliere anti-terrorismo sotto l’amministrazione Bush, ha definito come “criminale di guerra”». Inoltre, aggiunge Santoru, «bisogna ricordare che Cheney, vicepresidente durante gli attacchi dell’11 Settembre, è anche un membro di spicco del “Project for The New American Century“ (Pnac), il famigerato gruppo di potere alla base del movimento neocon». Il gruppo – formato anche da Rumsfeld, Wolfowitz, Condoleezza Rice – è noto per aver redatto nel 2000 il documento “Rebuilding America’s Defenses”, «in cui si auspicava una “nuova Pearl Harbor” da usare come casus belli per giustificare la politica imperialista statunitense in Medio Oriente».Nel 2007, ricorda Santoru, in un’intervista per l’emittente televisiva “Democracy Now”, l’ex generale Wesley Clark, citando proprio quel documento, rivelò che la guerra in Iraq era stata pianificata con largo anticipo sugli “incidenti” costruiti ad arte, così come altri conflitti, dall’Afghanistan sino alla Libia e all’Iran. «Tenendo presente che gli attacchi dell’11 Settembre secondo molti ricercatori non furono altro che delle operazioni “false flag”, forse si dovrebbero prendere in seria considerazione le parole di Cheney, e intenderle anche come una seria minaccia per il popolo statunitense, sperando che questa volta i progetti sinistri di certi personaggi e gruppi di potere non raggiungano il proprio obiettivo, come è stato per il 9/11, e si riesca a fermarli il prima possibile». Impresa proibitiva: il Premio Nobel per la Pace che attualmente siede alla Casa Bianca sostiene di aver assassinato Bin Laden (senza una sola foto che ne documenti la morte) e un anno fa ha cercato di bombardare la Siria dopo aver armato i miliziani jihadisti per scatenare la guerra civile a Damasco. Oggi, Obama è direttamente alle prese con la Cina: mentre sta spostando nel Pacifico la proiezione navale statunitense, sta minacciando direttamente la Russia dopo aver insediato in Ucraina un governo golpista dominato da neonazisti. In questo scenario, le dichiarazioni di Cheney rivelano tutta la loro pericolosità.Il primo passo è semplice, costruire un nemico: ieri l’Islam, oggi la Russia di Putin. La seconda mossa è scritta nella storia, da Pearl Harbor al falso attacco contro navi americane nel Golfo del Tonchino, casus belli per la guerra in Vietnam. L’avvertimento questa volta viene da un personaggio particolarmente inquietante come l’ex vicepresidente Dick Cheney, secondo molti analisti la vera “mente” della gestione politica degli attentati dell’11 Settembre, perfetti per avviare l’assedio strategico della Cina con l’occupazione dell’Afghanistan e quindi ipotecare il petrolio del Golfo grazie alla campagna contro le inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. E’ il “Daily Mail”, il 25 giugno 2014, a rivelare che, secondo Cheney, entro il 2020 molto probabilmente ci sarà un attacco terroristico di gran lunga peggiore rispetto a quello contro le Twin Towers, attribuito al “fantasma” di Bin Laden, già emissario della Cia in Afghanistan. In altre parole: starebbe per tornare d’attualità lo stesso copione del terrore, il pretesto per una nuova guerra.
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Renzi, atroce imbroglio: la faccia allegra della catastrofe
Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?E non si venga a dire che gli 80 euro sono una rottura di questa politica. Chi fa credere questo è in totale malafede. Quell’assegno è stato concordato tra Renzi e Merkel per indorare la pillola del rigore alla vigilia delle elezioni, e verrà restituito con gli interessi, con le tasse i ticket e i tagli ulteriori alla spesa sociale. Però bisogna ammettere che l’operazione gattopardesca per il momento è riuscita. Durante i governi Monti e Letta si parlava sempre più di vincoli europei e di austerità. Ora non se ne parla più, le questioni economiche e sociali vengono dopo il calcio. Si parla di legge elettorale e di abolizione del Senato elettivo, di riforme di tutti i tipi, ma di austerità non si parla più, la si attua e basta. Gli scandali delle grandi opere non provocano più nessuna pubblica discussione sulla loro necessità, ma solo uno stanco ritorno delle campagne di moralizzazione ipocrita e inconcludente, con Renzi naturalmente alla loro testa. Anche Grillo pare esserci cascato in pieno… la crisi economica si risolve con le riforme… Ma va, son venti anni che i liberisti fanno questa propaganda e attuano questa politica e la crisi si aggrava sempre di più.Comunque con ben maggiore efficacia rispetto al suo ammiratore invidioso e frustrato, Berlusconi, Renzi può compiere un’opera di distrazione di massa. Naturalmente non c’è la fa da solo, con lui stanno tutti i poteri forti nazionali e internazionali e un sistema informativo vergognoso, che è saltato sul suo carro come quei giornalisti “embedded” che stavano in Iraq sui carri armati di Bush e raccontavano quelle menzogne che han fatto danno sino ad oggi. Qualcuno parla ancora di Fiscal Compact? Nel nuovo Pd di Renzi che vuol battere i pugni in Europa, qualcuno propone forse di abolire quella mostruosità unica che è il pareggio di bilancio costituzionale? Cameron, quando quella riforma fu approvata, disse che Keynes, cioè lo stato sociale, erano stati messi fuori legge. Nelle elezioni locali qualche candidato del Pd si è forse impegnato a mettere in discussione il patto di stabilità? No di certo, perché Renzi spinge a fare i primi della classe in Europa. Forse anche per questo il vertice europeo torinese è stato rinviato: vuoi mai che per colpa delle parole di qualche sconsiderato burocrate i temi dell’austerità potessero tornare di pubblico confronto?Bisogna depistare e nascondere, noi siamo la seconda cavia di Europa dopo la Grecia. Si mette in atto la stessa politica, ma con un metodo diverso, quello di Renzi. Che si paragona a Obama ma in realtà è un epigono di Blair, che ha distrutto in Gran Bretagna tutto ciò che aveva resistito alla signora Thatcher. Compreso il suo partito. Attenti, sostenitori esultanti e anestetizzati del Pd: alla fine sarà proprio il vostro partito a pagare la politica del suo leader. Intanto però si festeggia e le fragili e tremebonde opposizioni ufficiali di destra e sinistra si inchinano al regime. Berlusconi e la Lega son sempre più parte del gioco. La Cgil ha adottato come massima forma di protesta il borbottio, anche se riceve uno schiaffone al giorno. Grillo dialoga sulle riforme e la lista Tsipras ha già le prime scissioni verso il Pd. Il presidente del consiglio sta sbancando.Eppure, nonostante i clamorosi successi attuali, il progetto di Renzi è destinato a fallire per due ragioni di fondo. La prima è che la crisi economica si trasforma in stagnazione e continuerà così, senza nessuna luce in fondo al tunnel. D’altra parte la politica di Renzi non serve ad uscire dalla crisi, ma solo ad abituarci a convivere con essa. Dobbiamo accettare la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, e imparare a sopravvivere arrangiandoci. Ci dobbiamo rassegnare alla ingiustizia e alla diseguaglianza, questo insegnano il Jobs Act o il feroce articolo 5 del decreto Lupi, che colpisce con crudeltà da Ottocento vittoriano i senza casa. Il punto non è la soluzione della crisi, impossibile con l’austerità, ma la passività sociale. È su questa che contano Renzi e la signora Merkel per andare avanti. Ed è su questo che falliranno.Certo ora sfiducia e rassegnazione sono massimi, mai in Italia si è fatto così tanto danno alle persone con così poche reazioni. Ma questa situazione finirà, il conflitto ripartirà e Renzi rischierà allora di apparire per come lo dipinge il suo unico oppositore televisivo, il comico Maurizio Crozza. La seconda ragione è che l’Europa della signora Merkel che ha benedetto Renzi ha rivelato tutta la sua subalternità e fragilità mondiale. Il governo ucraino con i suoi ministri nazifascisti ha rotto il disegno della Germania di portare l’Europa da essa dominata alla intesa cordiale con Putin e ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. La nuova guerra, anzi la guerra mai finita in Iraq, rafforza la stessa spinta di fondo. Gli Usa hanno ripreso il controllo del blocco occidentale con la vecchia Nato e ancor di più lo faranno con il Ttip, il patto liberista tra le due sponde dell’Atlantico che vuole trasformare la Ue in appendice di Usa e Canada, mentre di fronte si delinea la nuova alleanza globale di Russia e Cina.Forse non ce ne siamo accorti nel teatrino della nostra politica, ma la globalizzazione è morta, si torna ai grandi schieramenti di potenze e un’Europa indebolita da anni di austerità viene assorbita nel vecchio impero americano. Povero Renzi, che c’entra la sua politica con tutto questo? Nulla, e ancora una volta il conto di un potere politico gattopardesco, che sta indietro rispetto alla realtà del mondo, lo pagheremo tutti noi. Bisogna augurarsi allora che il regime di Renzi non ci metta i venti anni di quello berlusconiano per farci scoprire tutti i suoi danni. Bisogna augurarselo e bisogna agire perché questo regime fallisca il prima possibile. Solo con la sconfitta di Renzi e del renzismo si ridà un futuro a questo paese.(Giorgio Cremaschi, estratto dall’intervento “Facciamo fallire il regime renziano”, da “Micromega” del 20 giugno 2014).Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?
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I Brics: addio dollaro, così fermeremo i missili Usa
Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal progressivo impoverimento della sua esistenza, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.Sono molti, segnala “Zero Hedge” in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, i paesi che stanno «gettando le basi per questa guerra valutaria finale». Valentin Madrescu, di “Vor”, spiega che la “riconversione” sta avvenendo «lentamente ma inesorabilmente, nei paesi del Brics». Lavori in corso: Elvira Nabiullina, governatore della banca centrale russa, ha concertato con Putin l’imminente accordo rublo-yuan con la Banca Popolare Cinese. Sergej Glaziev, consigliere economico di Putin, sostiene la necessità di «creare un’alleanza internazionale di paesi disposti a sbarazzarsi del dollaro per i loro commerci internazionali e a rifiutarsi di continuare a stoccare dollari come riserve valutarie». L’obiettivo finale, rileva “Zero Hedge”, sarebbe quello di «far ingrippare la macchina-stampa-soldi di Washington che serve ad alimentare il suo complesso militare e industriale, che sta permettendo agli Usa di diffondere il caos in tutto il mondo, fomentando le guerre civili in Libia, Iraq, Siria e in Ucraina».La missione tecnica dei banchieri russi e cinesi: semplificare il finanziamento del commercio internazionale. «Stiamo discutendo con la Cina e con i nostri parter del Brics sull’istituzione di un sistema di scambi multilaterali, che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario», dice Glaziev a “Prime News Agency”. «Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo», cioè la creazione del nuovo sistema.«Sembra che il Cremlino abbia scelto l’approccio all-in-one per costruire la sua alleanza anti-dollaro», scrive Tyler Durden. «Uno scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Allo stesso tempo, il nuovo sistema potrà anche agire come sostituto de facto del Fondo Monetario Internazionale, perché permetterà ai membri dell’alleanza di usare le risorse per finanziare i paesi più deboli». I Brics probabilmente useranno le loro attuali riserve in dollari per sostenere il nuovo sistema, «riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti».Gli scettici, aggiunde Durden, sicuramente diranno che l’alleanza dei Brics contro il dollaro non riuscirà a privare il biglietto verde del suo status di valuta di riserva globale. In compenso, bisogna ammettere che Washington «sta facendo del suo meglio per allargare le fila dei nemici del dollaro». Quando il canale televisivio “Russia 24” ha chiesto a Sergej Kostin di commentare le dichiarazioni della Nabiullina, tra le più convinte sostenitrici della svolta anti-dollaro, ha ottenuto una risposta illuminante sui contraccolpi in Europa: l’asse tra la valuta russa e quella cinese è ormai imminente, la modalità dei pagamenti rublo-yuan «sarà lasciata libera», mentre la stessa Banca di Francia – per proteggere Bnp Paribas da Wall Street – per bocca del governatore Christian Noyer annuncia che il commercio con la Cina sarà «gestito in yuan o in euro», non più in dollari. «Se la tendenza attuale dovesse continuare – rileva Durden su “Zero Hedge” – presto il dollaro sarà abbandonato dalle più importanti economie globali e sbattuto fuori dalla finanza del commercio globale. Il bullismo di Washington porterà anche i suoi alleati storici a dover scegliere l’allenza dei Brics, invece del sistema monetario attuale basato sul dollaro». Secondo Durden, «il punto di non-ritorno per il dollaro potrebbe essere molto più vicino di quanto si creda».Porre fine al monopolio del dollaro come valuta internazionale. Obiettivo: frenare l’aggressività militare degli Usa, che sta mettendo in pericolo la stabilità geopolitica del mondo. Russia e Cina guidano i Brics verso la de-dollarizzazione del pianeta, allo scopo di sottrarre linfa all’apparato industriale-militare statunitense. Grandi manovre sono ormai in corso, conferma “Zero Hegde”, per re-impostare il commercio mondiale costruendo un’alternativa al dollaro come moneta di scambio. «Mentre i governi di tutto il mondo sono occupati a nascondere alla loro devastata classe media la vera faccia del mercato e a distrarla dal suo progressivo impoverimento, dietro le quinte sta avvenendo qualcosa di veramente importante, di cui solo pochissimi si rendono conto». Un nuovo sistema di scambio monetario tra le banche centrali dei Brics faciliterà il finanziamento del commercio, bypassando completamente il dollaro. Il nuovo sistema «potrà agire anche come sostituto de facto del Fmi», segnando la fine di un’epoca.