Archivio del Tag ‘vittime’
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Maometto e l’Arca dell’Alleanza sepolta dai russi in Antartide
Un’oscura strage alla Mecca e una strana spedizione navale russa in Antartide, con tappa a Gedda in Arabia Saudita. Vox populi, dal web: i russi, attraverso il patriarca ortodosso Kirill, avrebbero preso in custodia nientemeno che la leggendaria “Arca di Gabriele”, risalente a Maometto, per metterla al sicuro dalle parti del Polo Sud, in una base militare. Succedeva alla fine del 2015. Pochi giorni dopo, Putin scatenava l’offensiva dell’aviazione di Mosca contro l’Isis in Siria. E la misteriosa Arca dell’Alleanza? Sarebbe stata portata alla luce il 12 settembre nei sotterranei della Grande Moschea della Mecca. I 15 operai impegnati nell’operazione sarebbero morti, folgorati dall’imprecisata “energia” emanata dal manufatto. L’esplosione sarebbe stata così violenta da uccidere anche 107 pellegrini, al piano superiore. Le vittime sono reali, anche se le autorità saudite le hanno attribuite a cause accidentali: un incidente cantieristico nel sottosuolo avrebbe scatenato il panico in superficie, provocando il fuggi-fuggi culminato nella carneficina. Verificata anche l’anomala “visita di lavoro” della delegazione russa in Arabia Saudita, con la nave da ricerca “Admiral Vladimirsky” ormeggiata nel porto saudita di Gedda, a due passi dalla Mecca.La nave è poi ripartita diretta proprio in Antartide, scortata da una potente flotta capitanata dall’incrociatore lanciamissili “Varyag” e dalla nave da battaglia “Bystry”. Poche settimane dopo, lo stesso patriarca Kirill si è fatto fotografare tra i pinguini, in Antartide. Motivo ufficiale della missione religiosa: benedire una chiesa ortodossa. La notizia non poteva passare inosservata e, come annota l’inglese “Daily Star”, non poteva non eccitare i dietrologi di mezzo pianeta. La tesi: una volta scatenatosi il potere energetico dell’Arca, i sauditi si sono immediatamente rivolti ai russi per un motivo preciso, storico. Nel remoto 1204, all’epoca della Quarta Crociata, sarebbe stato proprio il clero ortodosso a mettere in salvo un documento cruciale, fino a quel tempo custodito nella basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, saccheggiata dai crociati. Per mille anni sarebbero quindi state custodite dagli ortodossi slavi le “Istruzioni di Gabriele a Maometto”, vale a dire il “vademecum” per l’utilizzo dell’Arca che “l’arcangelo” avrebbe consegnato al profeta dell’Islam. Un’Arca diversa, quella di Gabriele, rispetto a quella che – secondo la Bibbia – Yahvè ordinò a Mosè di costruire, per riporvi le Tavole della Legge?Il Libro dell’Esodo la descrive come una cassa in legno d’acacia rivestita d’oro, lunga 110 centimetri, alta 66 e profonda altrettanto, sigillata da un coperchio di oro puro. Solo un oggetto di culto o anche un potente generatore energetico? Così la interpreta Mauro Biglino, a lungo traduttore della Bibbia per le Edizioni San Paolo: quell’Arca era pericolosa, al punto che gli addetti alla sua manutenzione – accuratamente prescelti – dovevano indossare esclusivamente panni di lino, materiale notoriamente “neutro”, adatto a proteggere il corpo dall’elettricità. Una specie di “ordigno energetico” temibile, esattamente come quello che – esplodendo – travolge i nemici di Harrison Ford (Indiana Jones) nel kolossal “I predatori dell’Arca perduta”, diretto da Spielberg nel 1981. Molto suggestiva, ovviamente, l’inconsueta triangolazione che – alla vigilia della guerra di Putin contro l’Isis – mette insieme Mosca, la Mecca e il continente antartico, “blindato” come zona militare off limits. Tra i blog propensi ad accreditare la versione “segreta” della vicenda si distingue “Segnali dal cielo”, che cita un dispaccio del ministero della difesa russo datato 6 dicembre 2015. La squadra navale sarebbe salpata l’8 dicembre 2015 da Gedda, alla volta dell’Antartide, con a bordo «un misterioso artefatto dall’Arabia Saudita».Si sarebbe trattato di «uno dei più strani trasporti mai organizzati dal Cremlino». La spedizione sarebbe stata espressamente richiesta dal leader della Chiesa ortodossa russa, il patriarca Kirill di Mosca, il quale «si è incontrato in Antartide con l’armata navale della Federazione Russa», incaricata di trasportare e scortare la mitica “Arca di Gabriele”. Dall’Arabia Saudita, l’Arca sarebbe giunta in Antartide «per essere affidata nelle mani del Custode delle due Sacre Moschee, in modo da propiziare un “antico rito” attraverso la lettura di un “testo segreto”». E attenzione: il misterioso “testo segreto” sarebbe stato fornito che da Papa Francesco, che ha incontrato Kirill a Cuba nello storico meeting interreligioso del 12 febbraio 2016. A mietere vittime alla Mecca, mesi prima, sarebbe stata una potente emissione di “energia-plasma” scaturita dall’Arca di Gabriele.Anche se il citato rapporto del ministero della difesa russo «non dice praticamente nulla sulle conversazioni tenute tra sua santità il patriarca Kirill e gli emissari della Grande Moschea, con riferimento a questa misteriosa “arma-dispositivo”», scrive il sito “Intermatrix”, colpisce l’automatismo in base al quale Putin, «informato di questa grave situazione», il 27 settembre 2015 «ha immediatamente ordinato la missione in Antartide per la nave “Vladimirsky”», la cui missione sarebbe stata ulteriomente protetta da satelliti militari. Tra le fonti russe, il sito “Imbf” conferma: la nave “Vladimirsky” ha fatto davvero scalo nel porto di Gedda, anche se «non c’è stata una spiegazione ufficiale dei motivi della chiamata» (i media si sono limitati a parlare di “visite di lavoro”. Secondo il newsmagazine moscovita, il 17 febbraio 2016, il patriarca Kirill avrebbe davvero eseguito “l’antico rituale” sulla cosiddetta Arca di Gabriele. Dove? «Nella chiesa ortodossa russa della Santissima Trinità, l’unica chiesa presente in Antartide», con l’aiuto di quel “testo segreto” «datogli da Papa Francesco». Subito dopo, il “misterioso artefatto” sarebbe stato «trasportato in profondità, in quel vasto e freddo continente, da un’unità di forze speciali».Pochi mesi dopo, l’11 novembre 2016, l’allora segretario di Stato americano John Kerry è volato a sua volta in Antartide, dove – ricorda sempre “Imbf” – ha avuto luogo una discussione, a porte chiuse, per la firma del «nuovo trattato intergovernativo, secondo cui le visite private in Antartide, senza previo consenso, sono state chiuse per 35 anni». Domande: cosa avrebbe comunicato il Papa cattolico al patriarca Cirillo all’Avana? E perché il sovrano saudita avrebbe precipitosamente chiesto a Putin di trasportare tra i ghiacci antartici l’ipotetica Arca trovata nel sottosuolo della Mecca? E poi: in cosa si differenzia, la cosiddetta Arca di Gabriele, da quella più celebre in Occidente, cioè l’Arca dell’Alleanza biblica tra Yahvè e la famiglia israelita di Giacobbe? Secondo la tradizione copta, quell’Arca sarebbe custodita in Etiopia, nella cattedrale di Nostra Signora Maria di Sion, ad Axum. Si tratterebbe di «una delle reliquie più antiche e misteriose della storia», sottolinea il newsmagazine “Si Viaggia”. Si trova davvero lì, l’Arca di Yahvè? «Nessuno può dirlo con certezza. La cattedrale che la custodisce infatti è sorvegliata da un sacerdote, che ha l’ordine di non lasciare la cappella dove si trova il manufatto per nessuna ragione al mondo».Secondo la Bibbia, da quello strano arnese «scaturivano aloni di luce e lampi “divini”, che colpivano chiunque vi si avvicinasse». E come sarebbe finita in Africa, l’Arca dell’Alleanza? Il mito – spiega sempre “Si Viaggia” – prende spunto dal testo sacro etiope Kebra Nagast (“Gloria dei Re”), secondo il quale Re Salomone l’avrebbe donata a Menelik I, il figlio avuto dalla regina di Saba, leggendaria fondatrice dell’Etiopia. «Da allora, l’Arca sarebbe custodita nella cattedrale di Axum, e ancora oggi i religiosi copti sostengono che si trovi lì». Nel 2009, l’allora patriarca etiopico Abuna Paulos dichiarò che l’Arca dell’Alleanza «si trova da tremila anni in Etiopia, e con la volontà di Dio continuerà ad essere lì». Nella cattedrale di Axum, meta di pellegrinaggi da ogni parte del pianeta, «possono entrare soltanto i monaci, e uno di loro è il guardiano dell’Arca: l’unico al mondo che può vederla». E la pericolosa Arca di Gabriele? E’ ancora Mauro Biglino a inquadrare sotto un’altra luce le notizie di origine biblica, attraverso la traduzione letterale del testo: quelle narrate dalla Bibbia (libro senza fonti, costantemente rimaneggiato fino all’epoca medievale di Carlo Magno) sono notizie essenzialmente storiche, politiche e militari, ma non religiose.Il nome Gabriele (Jibril, in arabo) non designa un individuo, ma una categoria di persone: in ebraico antico, Ghever-El significa “plenipotenziario di un El”. E nella Bibbia – aggiunge Biglino – l’espressione El (comandante) è il plurale di Elohim, termine che indica quegli individui che, come Yahvè, esercitavano il loro potere “coloniale” sugli umani. La Bibbia ne cita una ventina: sono analoghi agli Anunnaki sumeri, agli Netheru egizi, ai Theoi greci e ai Deva indiani. Extraterrestri, successivamente divinizzati – dopo millenni – con la nascita dei monoteismi? Non stupiscono le voci sulla presunta pericolosità dell’Arca della Mecca, che avrebbe costretto i sauditi a mobilitare la flotta militare russa: anche l’Arca di Yahvè, sottolinea Biglino, era un dispositivo da maneggiare con cura. Era guardato a vista nella dimora di Yahvè da personale altamente specializzato. E dal locale che la ospitava si udiva l’incessante ronzio dei “serafini”, simile a quello emanato dalle turbine dei generatori elettrici. Per Biglino, ovviamente, la Bibbia non parla di Dio: l’alleanza tra il governatore Yahvè e gli israeliti non aveva carattere mistico, ma militare. E proprio quell’Arca poteva essere una sorta di arma letale. Quella della Mecca – che secondo la tradizione fu consegnata a Maometto da un Ghever-El, a sua volta spiritualizzato e trasformato in “arcangelo” – era un esemplare gemello di quello di Gerusalemme, che ora sarebbe custodito ad Axum? Difficile sperare in conferme, tantomeno ufficiali. Specie se c’è di mezzo l’Antartide.Un’oscura strage alla Mecca e una strana spedizione navale russa in Antartide, con tappa a Gedda in Arabia Saudita. Vox populi, dal web: i russi, attraverso il patriarca ortodosso Kirill, avrebbero preso in custodia nientemeno che la leggendaria “Arca di Gabriele”, risalente a Maometto, per metterla al sicuro dalle parti del Polo Sud, in una base militare. Succedeva alla fine del 2015. Pochi giorni dopo, Putin scatenava l’offensiva dell’aviazione di Mosca contro l’Isis in Siria. E la misteriosa Arca dell’Alleanza? Sarebbe stata portata alla luce il 12 settembre nei sotterranei della Grande Moschea della Mecca. I 15 operai impegnati nell’operazione sarebbero morti, folgorati dall’imprecisata “energia” emanata dal manufatto. L’esplosione sarebbe stata così violenta da uccidere anche 107 pellegrini, al piano superiore. Le vittime sono reali, anche se le autorità saudite le hanno attribuite a cause accidentali: un incidente cantieristico nel sottosuolo avrebbe scatenato il panico in superficie, provocando il fuggi-fuggi culminato nella carneficina. Verificata anche l’anomala “visita di lavoro” della delegazione russa in Arabia Saudita, con la nave da ricerca “Admiral Vladimirsky” ormeggiata nel porto saudita di Gedda, a due passi dalla Mecca.
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Piano Usa: guerra, per rovesciare Maduro (e frenare la Cina)
A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.A fornire gli elementi di questa analisi geopolitica è il giovane Giacomo Gabellini, redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. Gabellini è autore di diversi volumi, in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali è “Eurocrack”, sul disastro politico-economico e strategico dell’Europa, uscito nel 2015 per Anteo Edizioni. Sul sito di Arianna Editrice, ora Gabellini inquadra le grandi manovre del fronte statunitense per accelerare il collasso del regime di Maduro. «La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò – premette Gabellini – rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile, rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011». Un’analogia che emerge anche dal pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation, fino al recente embargo finanziario, al congelamento dei beni venezuelani in territorio Usa e al declassamento del debito di Caracas.Nel momento in cui il governo venezuelano ha cercato di difendersi svincolando la propria economia dal dollaro attraverso la creazione del “petro”, criptovaluta ancorata alle ricchezze minerarie ed energetiche, l’amministrazione Trump ha reagito vietando qualsiasi transazione nella nuova moneta all’interno degli Stati Uniti ed estendendo le sanzioni al settore dell’oro, minerale di cui il Venezuela è particolarmente ricco. «Una mossa, quest’ultima, che ha impedito al Venezuela di ricevere certificazioni straniere sulla qualità del proprio metallo prezioso, con conseguente interruzione o forte limitazione dei rapporti commerciali con le imprese operanti nel settore aurifero venezuelano». Simultaneamente, aggiunge Gabellini, Trump ha imposto pesanti sanzioni contro otto magistrati del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), con lo scopo di colpire quegli apparati istituzionali venezuelani ritenuti colpevoli di aver bloccato la proposta di intervento militare contro l’esecutivo, avanzata dal Parlamento controllato dall’opposizione. «In precedenza, una delegazione senatoriale Usa aveva sondato il terreno con il presidente colombiano Manuel Santos, maggiore alleato degli Usa in America Latina, per lanciare un’operazione militare congiunta atta a «permettere alla Colombia di difendersi dalle provocazioni venezuelane».Proprio in Colombia, ricorda Gabellini, staziona il più corposo contingente militare di cui gli Stati Uniti dispongano in tutto il continente. E accanto ai soldati americani operano le formazioni paramilitari di estrema destra vicine all’ex presidente Alvaro Uribe, «resesi responsabili di innumerevoli scorribande in territorio venezuelano». In quest’ambito rientrano anche operazioni sotto falsa bandiera: «In passato, alcuni miliziani colombiani erano stati arrestati dalle forze dell’ordine di Caracas con indosso divise della polizia venezuelana». Circostanze, osserva Gabellini, che rendono il ruolo svolto dalla Colombia nella crisi venezuelana «molto simile a quello esercitato dalla Turchia rispetto al conflitto siriano». Il presidente colombiano Manuel Santos ha infatti fornito «supporto attivo alle frange paramilitari annidate nella giungla colombiana in funzione anti-bolivariana». Sono le stesse milizie che, scrive l’analista, nella scorsa primavera presero d’assalto una stazione della polizia venezuelana al confine con la Colombia, «al fine di assumere il controllo di alcune aree strategicamente fondamentali per condurre operazioni di sabotaggio verso le regioni più interne».Ma le analogie con la crisi siriana non finiscono qui: già nel 2002, le forze venezuelane di opposizione tentarono un colpo di Stato contro Hugo Chavez, nel corso del quale «cecchini mai identificati aprirono il fuoco tanto sui civili quanto sulle forze di polizia, con lo scopo di invelenire il clima e destabilizzare l’ordine pubblico». Stesso schema in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010. Poi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria nel 2011, e in Ucraina nel 2014. «Tutte manovre finalizzate al cambio di regime, dietro le quali si è intravista in controluce la longa manus degli Stati Uniti». In molte di esse, il clima preparatorio era stato predisposto tramite l’infiltrazione di Ong «riconducibili a George Soros o direttamente al Dipartimento di Stato», le quali «allacciarono contatti con partiti di opposizione e gruppi organizzati». Sotto questo aspetto, aggiunge Gabellini, il caso del Venezuela appare paradigmatico, se anche una fonte insospettabile come “The Independent” è arrivata a riconoscere che «oltre ad appoggiare le forze che arrestarono Chavez nel 2002, gli Usa hanno inviato centinaia di migliaia di dollari ai suoi avversari attraverso la National Endowment for Democracy».Le manovre di Washington però non si limitano a questo, rivela Gabellini: lo conferma un documento di 11 pagine firmato già nel 2018 dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del SouthCom (Southern Command), in cui si dichiara apertamente che gli Usa «hanno già predisposto un piano operativo finalizzato al rovesciamento del presidente Nicolas Maduro». Un’analisi spietata: la tenuta della “dittatura chavista” è ormai minata da problemi interni, a partire dalla scarsità di cibo e dalla caduta dei proventi petroliferi, oltre che dalla corruzione dilagante. Ma il problema, per l’ammiraglio Tidd è che le forze d’opposizione «che combattono per la democrazia e il ripristino di livelli di vita accettabili per la popolazione» cioè gli uomini di Juan Guaidò, «non sono in grado di porre fine all’incubo in cui il paese è sprofondato». Motivo? Gli oppositori di Mauduro, secondo l’ammiraglio, scontano tra le loro fila il peso di «una corruzione comparabile a quella dei loro nemici». Corruzione che «impedisce loro di prendere le decisioni necessarie a ribaltare la situazione».Ecco perché, se questo è lo scenario, non resta che «l’entrata in scena negli Sati Uniti», sottolinea Gabellini, «per “recuperare” il Venezuela e reinserirlo nel novero dei paesi latino-americani alleati di Washington». Un club in cui hanno appena fatto ritorno nazioni di grande rilevanza, dall’Argentina del neoliberista Mauricio Macrì al Brasile del parafascista Jair Bolsonaro. Per far cadere anche il Venezuela, prosegue Gabellini, secondo il documento di Tidd, occorre «indebolire le strutture politiche su cui si basa il movimento “bolivariano” collegandole al narcotraffico», nientemeno. Poi bisognerebbe “lavorare ai fianchi” il regime di Maduro per favorire la diserzione dei tecnici più qualificati, alienandogli così il favore della borghesia di lingua spagnola, la stessa su cui fecero perno gli Usa durante il tentato golpe contro Chavez del 2002. Per Tidd, si tratta di agire «fomentando discordia e insoddisfazione popolare, minando l’ordine pubblico, lavorando per aggravare la penuria di cibo, esacerbando le divisioni interne alla struttura di potere chavista», nonché ovviamente «screditando il presidente Maduro, presentandolo come un leader incapace, degradato al grado di fantoccio di Cuba». Attenzione: è necessario anche «provocare vittime, stando attenti a far ricadere la responsabilità sul governo», e inoltre «ingigantire agli occhi del mondo le proporzioni della crisi in atto».L’ammiraglio Tidd raccomanda di far ulteriormente esplodere l’inflazione attraverso nuove sanzioni, così da incoraggiare una fuga di capitali dal paese, scoraggiare eventuali investitori stranieri e far colare a picco la quotazione della moneta nazionale. Occorre inoltre avvalersi di «tutte le competenze acquisite dagli Usa in materia di guerra psicologica», per orchestrare una campagna di disinformazione mirata a screditare le iniziative finalizzate all’integrazione continentale – quali l’Alba e il Petrocaribe – promosse da Caracas nel corso degli ultimi anni. «Tutto il necessario, insomma – scrive Gabellini – per scatenare lo sdegno della popolazione e indirizzarlo contro le autorità, secondo uno schema già palesatosi con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e anche nello stesso Venezuela». Come già nel 2002, si suggerisce di mettere in crisi il rapporto di fedeltà che lega le forze armate al governo. Come agire? Utilizzando «gli alleati interni», incoraggiandoli a «organizzare manifestazioni e fomentare disordini e insicurezza, mediante saccheggi, furti, attentati e sequestro di mezzi di trasporto, in modo da mettere a repentaglio la sicurezza dei paesi limitrofi».Dal punto di vista statunitense, continua Gabellini, esacerbare le tensioni tra il Venezuela e i suoi vicini rappresentava un fattore determinante a garantire il conseguimento del “regime change”, nel caso in cui la rivolta interna fomentata dall’estero non si rivelasse sufficiente a scalzare Maduro dal potere. Nel documento si sottolinea infatti l’importanza di approfittare del crescente attivismo dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che sta rapidamente colmando la voragine apertasi con la cessazione delle attività da parte delle Farc. Altra pedina menzionata cinicamente da Tidd: i narcos del Cartello del Golfo, utili per alimentare la tensione lungo il confine con la Colombia, «così da provocare incidenti con le forze di sicurezza schierate lungo il confine venezuelano». Occorrerebbe inoltre favorire «la moltiplicazione delle incursioni armate da parte di gruppi paramilitari», i cui ranghi dovrebbero essere rinfoltiti attraverso «reclutamenti presso i campi che ospitano i rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander», vaste aree abitate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora intendono rientrare nel loro paese.Il tutto, con l’obiettivo finale di «gettare le basi per il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio agli ufficiali venezuelani» eventualmente disertori. Fondamentale, a questo riguardo, risulta ingraziarsi «il supporto e la cooperazione delle autorità dei paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana)», ma anche organizzare l’approvvigionamento delle truppe e l’appoggio logistico, di concerto con Panama. E quindi: dislocare «aerei da combattimento, elicotteri e blindati», oltre a installare «centri d’intelligence destinati ad ospitare anche unità militari specializzate nell’ambito della logistica». Per dare una parvenza di legalità all’intervento, si suggerisce di ottenere l’avallo dell’Organizzazione degli Stati Americani e di adoperarsi affinché si stabilisca una «unità di intenti da parte di Brasile, Argentina, Colombia e Panama», paesi «la cui posizione geografica e la cui collaudata capacità ad operare in scenari non convenzionali come la giungla assumono un’importanza capitale». La dimensione internazionale dell’operazione «verrà rafforzata dalla presenza di forze speciali Usa, che andranno ad affiancarsi alle unità da combattimento degli Stati summenzionati». È bene, a questo proposito, «far sì che le operazioni scattino prima che il dittatore abbia il tempo di consolidare il proprio consenso e il controllo sullo scacchiere interno».Tutto ciò, osserva Gabellini, si inscrive alla perfezione nel disegno strategico dell’amministrazione Trump, «che ambisce in tutta evidenza a riportare saldamente l’America Latina nella sfera egemonica statunitense attraverso l’appoggio a tutta una serie di clientes locali». Tra questi Lenin Moreno (Ecuador), Enrique Peña Neto (Messico) e Luis Almagro (Uruguay), oltre ai già citati Macrì e Bolsonaro. Attori continentali «con i quali concordare il ripristino di una sorta di nuova Operazione Condor rivisitata e corretta». Affidando le redini del potere nei vari Stati dell’America Latina a questi nuovi e ben più concilianti interlocutori, aggiunge Gabellini, Washington «prevede di realizzare un’integrazione economica su scala continentale, concepita appositamente per contrastare la penetrazione cinese». Ecco il punto: negli ultimi anni, osserva l’analista, la Cina ha infatti investito qualcosa come 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua. Sarebbe in grado di rivaleggiare con quello di Panama, controllato dagli Stati Uniti. Pechino ha inoltre messo in cantiere una ferrovia per collegare Pacifico e Atlantico attraverso Brasile e Perù.Un anno fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha presenziato al vertice annuale della Communiy of Latin American and Caribbean States tenutosi a Santiago del Cile, per estendere ai 33 Stati membri l’invito a partecipare al progetto della Belt and Road Initiative, con lo scopo di «costruire collegamenti attraverso il continente, farli convergere verso le coste affacciate sul Pacifico e agganciarli ai porti locali da cui si diramano le linee di rifornimento marittimo verso la costa cinese». Una sorta di “Via della Seta Pacifica”. Nessuna competizione geopolitica, aveva sostenuto Wang Yi: «Il progetto è conforme al principio di raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione». Ma gli Stati Uniti non sono dello stesso avviso. Dal canto suo, l’ammiraglio Tidd ha ricordato a una commissione del Senato che la Cina ha già investito 500 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo dell’America Latina, e ha in programma di mettere sul piatto altri 250 miliardi entro il 2030. Tidd ha inoltre aggiunto che «la più grande sfida strategica posta dalla Cina in questa regione non è ancora una sfida militare: è una sfida di tipo economico, che potrebbe richiedere un nuovo approccio da parte nostra, che ci permetta di affrontare efficacemente gli sforzi coordinati della Cina nelle Americhe».La raccomandazione di Tidd, accolta con entusiasmo da Trump, secondo Gabellini era quindi quella di rispolverare e riadattare alle esigenze del momento la cara, vecchia Dottrina Monroe, che all’epoca in cui fu enunciata (1823) contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza europea. «Oggi, a differenza di allora, si tratta di sbarrare alla Cina la porte dell’America Latina, attraverso il collegamento di quest’ultima alla comunità economica nordamericana costituita pochi mesi fa con la radicale ristrutturazione del Nafta». In questo senso, conclude l’analista, «lo scatenamento del caos in Venezuela si configura come una tappa cruciale in vista della “risistemazione” definitiva dell’America Latina». In altre parole: il governo Maduro sembra avere le ore contate. Si trova nei guai anche per gravi errori nella sua gestione della politica economica. Ma il giorno che cadesse, non sarà per un moto spontaneo del popolo venezuelano ridotto all’esasperazione: i piani sono pronti – e non da oggi – per tornare a far sventolare la bandiera americana sul paese dove crebbe, a furor di popolo, il sogno indipendentista di Hugo Chavez.A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.
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Tutte le altre stragi, senza nessuna Giornata della Memoria
E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».Il genocidio africano prosegue nel ‘900 «per opera di fantocci dell’Occidente e delle multinazionali che controllano i territori delle risorse minerarie attraverso l’intervento del protettorato franco-statunitense del Ruanda e l’uso di milizie tribali». Ma l’Italia non è da meno, ricorda Grimaldi: «Mussolini, nella guerra d’Etiopia, fa uccidere da Graziani e Badoglio 280mila abissini, 5 milioni di buoi, 7 milioni di ovini, 1 milione di cavalli, 700mila cammelli». Vengono bruciate 2.000 chiese e distrutte 525.000 case e capanne. L’Italia perde 4.350 militari, coscritti o volontari. Per «colonizzare il Sud Tirolo» e assicurare all’Italia Trento e Trieste, «che l’Austria è pronta a cedere se l’Italia non dovesse entrare in guerra», il potere industriale e bancario italiano «commissiona al governo Salandra e al re Vittorio Emanuele III l’ingresso in guerra». Nel primo conflitto mondiale «cadono 600mila italiani, perlopiù contadini e operai, molti fucilati dai propri ufficiali». Di fatto, annota Grimaldi, «scompare una generazione». Poi c’è la pagina nera della decolonizzazione del Nordafrica, cui la Francia si oppone strenuamente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: «Nella guerra d’Algeria il regime colonialista francese rinchiude 3 milioni di algerini in campi di concentramento, della tortura e dello stupro».Il bilancio della carneficina algerina è terrificante: «Un milione di algerini, su 10 milioni scarsi di abitanti, viene ucciso». Grimaldi calcola che un altro milione di persone, composto da «tedeschi antinazisti», fosse stato ucciso dal regime di Hitler tra il 1933 e il 1940. Aggiunge: «Vogliamo parlare di Palestina 1945-2019?». Di tutte le stragi divenute croniche, quella ai danni dei palestinesi è la più “invisibile”, sui media che celebrano il ricordo della Shoah. L’argomento resta controverso: se da una parte si contesta il fatto che la memoria sia “obbligatoria” solo per l’ecatombe di Auschwitz, dall’altro vale ricordare che soltanto lo sterminio nazista degli ebrei sia stato così meticolosamente progettato e realizzato, e per motivi dichiaratamente “razziali”: tutte le altre stragi, sostengono gli storici, hanno avuto motivazioni diverse, più tristemente “convenzionali” (geopolitica, imperialismo, economia, nazionalismo). Solo nel caso del nazismo, si sottolinea, il motore del genocidio fu l’odio, alimentato dal fanatismo ideologico della “purezza razziale”. A Grimaldi non basta: lo indigna il fatto che non si celebri nessuna “giornata della memoria” per tutte gli altri abissi di abominio. «Ci fermiamo qui – conclude – con un pensiero al bambino che, oggi, ogni 3 secondi muore di fame e malattia nel mondo per il modo di gestire l’umanità da parte dell’Occidente (il primo servizio su questo infanticidio planetario del capitalismo lo feci nel 1992 per il Tg3)».E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».
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Aquisgrana, due piccoli avvoltoi sul cadavere dell’Europa
Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.Di fronte alle pressioni americane (e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato, a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni), Francia e Germania se ne escono con questo trattato che, almeno sulla carta, «disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee». Secondo Alessandro Mangia siamo di fronte a una struttura polifunzionale, «destinata a operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada». Oppure, se lo sfaldamento dell’Ue accelera dopo le elezioni europee, Francia e Germania hanno già messo in cantiere questo possibile Piano-B: un disegno «che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa», tuttora sottoposte a un severo regime di sfruttamento colonialistico. E ora? L’Unione Europea «diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale».Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata, sottolinea il professor Mangia: si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. «La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato a infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese – osserva Mangia – si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista». Al di fuori di armi e tecnologia militare, aggiunge Mangia, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. «E infatti questo trattato è un “no” chiaro e tondo alle richieste americane: e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano». Scenario realistico? Manca esprime forti dubbi: «Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure, il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo».Quanto al testo del trattato, il livello di cooperazione (sulla carta) è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune, di un Consiglio dei ministri franco-tedesco, di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli dei ministri dell’altro Stato. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici, avverte Manca: nell’articolo 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. «E’ chiaro che, se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante». Tradotto: «Se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea».Nella sostanza, sottolinea Manca, il trattato si prefigge di formalizzare quell’idea di “Europa core” che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. «Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione». Non è casuale, infatti, che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma: il luogo-simbolo del Sacro Romano Impero. «Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli – aggiunge il professore – ci si muove in una dimensione apertamente politica. Ricordate le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì». E partendo da Aquisgrana dove si può arrivare? La Merkel, «quasi dimissionaria in patria», ha delle mire precise sulla prossima Commissione Europea. Dall’altra parte c’è Macron, «che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande», e che da dieci settimane si trova la città messe a ferro e a fuoco, nel weekend, dai Gilet Gialli. La sua unica strategia? «Lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime».Merkel e Macron, per Alessandro Manca, «sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione». Sul breve periodo, hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda. Ma il professore insiste ancora sul profilo militare: in Germania, oltre che sulle infrastrutture, si è giocato al risparmio anche sulle spese militari per la Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Ma dall’estate scorsa, «dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra». E qui, il partner ideale è la Francia. «Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare». La Francia ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato, e dispone di capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. «Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio – aggiunge Manca – la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi».Quanto all’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, Alessandro Manca sorride: ve le immaginate le risate, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office inglese, il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi, «con quello che stanno facendo passare al governo britannico sulla Brexit?». Per non parlare di Russia e Cina, «che “non aspettano altro” di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali». Come dire: uno scenario solo virtuale, del tutto irrealistico. Poi però ci siamo noi, l’Italia, insieme agli altri paesi esclusi dall’accordo: che conseguenze avrà, sulla nostra pelle, questo evidente progetto di dominio? «Questa è la nota più dolente, almeno a breve». Un asse franco-tedesco «che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia». Siamo «l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania». L’Ue ha sgretolato le antiche alleanze. La prima vittima del Trattato di Aquisgrana, secondo Manca, sarà proprio l’industria militare italiana, «che è diretta concorrente dell’industria francese».Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.
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Italia assediata, Francia e Germania ci imporranno Draghi
Se il governo Conte crolla di colpo, c’è già pronto Cottarelli. Ma il vero pericolo si chiama Mario Draghi: il presidente uscente della Bce potrebbe ripiegare su Palazzo Chigi, se non andasse in porto il piano principale che lo riguarda, cioè arrivare alla presidenza del Fmi e sottrarre il Fondo Monetario all’egemonia Usa, per metterlo al guinzaglio di Berlino e Parigi. Secondo l’analisi di Gianfranco Carpeoro, per l’Italia si è acceso l’allarme rosso: l’incredibile Trattato di Aquisgrana, che demolisce qualsiasi prospettiva comunitaria proiettando anche ufficialmente Germania e Francia nel ruolo di “padrone” neo-coloniali dell’Ue, ha come vittima principale proprio il Belpaese. A Roma non si perdona l’insubordinazione del governo gialloverde, l’unico esecutivo teoricamente all’opposizione di Bruxelles. Lo dimostra la “macchina del fango” scatenatasi contro Lega e 5 Stelle, per indebolirne la leadership. Il polverone sul padre di Di Maio (lavoro nero) e su quello di Di Battista (debiti), unitamente alla mazzata giudiziaria sui leghisti (maxi-risarcimento da 49 milioni di euro) a questo servono: a impedire che l’elettorato italiano si sollevi, nel caso in cui una crisi pilotata – banche, spread – precipitasse il paese nella bufera, replicando le condizioni del “golpe bianco” che nel 2011 consentì alla “sovragestione” europea di costringere alla resa Berlusconi e imporre il commissariamento dell’Italia, tramite Monti.Autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che svela i retroscena supermassonici di area Nato dietro ai recenti attentati affidati in Europa alla manovalanza dell’Isis, Carpeoro individua la Loggia P1 (mai riconosciuta, ufficialmente) come la vera “quinta colonna” del peggior potere internazionale, utilizzata per manipolare e indebolire la politica italiana, grazie al prezioso contributo di un establishment “collaborazionista”, reclutato da poteri stranieri per dominare il nostro paese. L’oligarchia Ue è in fibrillazione, in vista delle europee, dal momento in cui Lega e 5 Stelle – con tutti i loro limiti – hanno inserito l’Italia in una traiettoria di collisione con Bruxelles. Da qui le pressioni della Bce e della Banca d’Italia, le impennate dello spread e il “niet” di Mattarella per impedire a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. Infine, il lungo braccio di ferro sul deficit 2019 – non ancora concluso – con il governo italiano sottoposto alla minaccia della procedura d’infrazione. Obiettivo dei “sovragestori”: spuntare le armi dei gialloverdi e costringerli a rimediare una figuraccia davanti ai loro elettori, non consentendo loro di mantenere nessuna delle promesse elettorali. Guai se il “virus” della ribellione italiana – aumentare il deficit, violando il rigore di Maastricht – dovesse propagarsi in altri paesi, incoraggiando analoghe svolte politiche. Ad aumentare la tensione ha contribuito certamente anche la rivolta francese dei Gilet Gialli, capaci di spaventare seriamente i poteri che hanno insediato Macron all’Eliseo.Ora, su questo scenario già instabile piomba come un macigno l’inaudito accordo siglato da Francia e Germania, che toglie qualsiasi residua credibilità alla dimensione comunitaria dell’Ue: i due paesi si impegnano a coordinare le loro politiche economiche, fino al punto di istituire formalmente un “Consiglio dei ministri franco-tedesco”. «Si tratta di un atto gravissimo e senza precedenti», dichiara Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Un accordo apertamente ostile agli altri partner europei, «al quale si uniranno sicuramente anche quei lestofanti degli olandesi, che hanno già contribuito a impoverire l’Italia introducendo una normativa fiscale sleale, che ha sottratto al nostro paese ingenti risorse, attraverso il trasferimento in Olanda della domiciliazione fiscale di grandi aziende italiane». Con il nuovo trattato, dice Carpeoro, l’asse franco-tedesco getta la maschera e si prepara a colpire l’Italia in modo frontale, contando anche sull’immancabile collaborazione delle “quinte colonne” interne, «sempre pronte, come già nel Rinascimento, ad allearsi con lo straniero pur di far cadere il governo in carica».Ora il cerchio si stringe, par di capire: il Trattato di Aquisgrana – con l’Italia esclusa dall’Europa che conta – piomba come un fulmine su una situazione già molto allarmante, con la spada di Damocle della procedura d’infrazione (sempre presente) e la lettera della Bce che chiede alle banche italiane di liberarsi dei crediti inesigibili, dopo che il governo ha appena compiuto il salvataggio della genovese Carige. All’affronto franco-tedesco, dice Carperoro, l’Italia dovrebbe rispondere in modo simmetrico: cercando di siglare analoghi trattati – altrettanto ostili – con paesi mediterranei, come la Spagna e la stessa Grecia. Lo farà? Difficile dirlo: bombardato dai grandi media, tutti allineati al potere Ue, il governo Conte potrebbe cedere. Di Maio è stato bersagliato da un killeraggio inaudito, e presto potrebbe venire il turno di Salvini. L’unico vero alleato dell’Italia, cioè Donald Trump, appare isolato. Starebbe sostanzialmente evaporando una certa “sovragestione” americana esercitata fin dall’inizio sui 5 Stelle, quand’era il neocon Michael Ledeen, esponente del Jewish Institute, ad accompagnare Di Maio nei santuari del potere finanziario supermassonico. Ora si punta a indebolire e “sovragestire” l’imprudente Salvini, sommerso dalle polemiche (giustificate) per aver partecipato alla cena romana con l’entourage Pd di Maria Elena Boschi, che sulle banche interveniva per motivi di famiglia.Tutto questo, sintetizza Carpeoro, non fa che indebolire l’Italia: se il governo Conte dovesse cadere all’improvviso, sarebbe spianata la strada per il solito – orrendo – governo “tecnico”, i realtà pilotato dalla consueta élite supermassonica e, nel caso, affidato al neoliberista Carlo Cottarelli, già dirigente del Fmi, tra i massimi responsabili della catastrofe che ha messo in ginocchio la Grecia sotto i colpi dell’austerity. In prospettiva, comunque, secondo Carpeoro la minaccia maggiore viene da Draghi: proprio sul presidente della Bce, ormai in scadenza, punterebbero le oligarchie reazionarie europee per commissariare l’Italia in modo devastante, se a Draghi non riuscirà di conquistare la guida del Fondo Monetario Internazionale con l’obiettivo di sottrarlo all’influenza statunitense. Il piano: mettere il Fmi a completo servizio dell’ordoliberismo europeo: quello che oggi utilizza Francia e Germania come potenze neo-coloniali, come già alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, per spegnere sul nascere qualsiasi tentazione di riforma dell’Ue in senso democratico. Uno scenario che i “sovragestori” temono possa rafforzarsi se alle prossime europee dovesse imporsi l’onda “populista” in diversi paesi, grazie anche al “cattivo esempio” dell’odiata Italia gialloverde, cioè il paese a cui il Trattato di Aquisgrana punta a “spezzare le reni”.Se il governo Conte crolla di colpo, c’è già pronto Cottarelli. Ma il vero pericolo si chiama Mario Draghi: il presidente uscente della Bce potrebbe ripiegare su Palazzo Chigi, se non andasse in porto il piano principale che lo riguarda, cioè arrivare alla presidenza del Fmi e sottrarre il Fondo Monetario all’egemonia Usa, per metterlo al guinzaglio di Berlino e Parigi. Secondo l’analisi di Gianfranco Carpeoro, per l’Italia si è acceso l’allarme rosso: l’incredibile Trattato di Aquisgrana, che demolisce qualsiasi prospettiva comunitaria proiettando anche ufficialmente Germania e Francia nel ruolo di “padrone” neo-coloniali dell’Ue, ha come vittima principale proprio il Belpaese. A Roma non si perdona l’insubordinazione del governo gialloverde, l’unico esecutivo teoricamente all’opposizione di Bruxelles. Lo dimostra la “macchina del fango” scatenatasi contro Lega e 5 Stelle, per indebolirne la leadership. Il polverone sul padre di Di Maio (lavoro nero) e su quello di Di Battista (debiti), unitamente alla mazzata giudiziaria sui leghisti (maxi-risarcimento da 49 milioni di euro) a questo servono: a impedire che l’elettorato italiano si sollevi, nel caso in cui una crisi pilotata – banche, spread – precipitasse il paese nella bufera, replicando le condizioni del “golpe bianco” che nel 2011 consentì alla “sovragestione” europea di costringere alla resa Berlusconi e imporre il commissariamento dell’Italia, tramite Monti.
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Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
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Chiesa, Mazzucco, Messora, Fusaro: quante verità oscurate
«È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Lo dice uno straordinario Humphrey Bogart alla fine del film “Deadline” di Richard Brooks (in italiano, “L’ultima minaccia”). Era il 1952: una profezia. Ancora oggi, ufficialmente, le Torri Gemelle sono crollate per colpa dell’impatto con aerei dirottati. La “demolizione programmata” è stata ormai dimostrata da oltre duemila architetti e ingegneri, eppure per l’11 Settembre la “verità” resta quella palesemente falsa. Grazie a chi? Ai media mainstream, che spacciano “fake news” governative. Il primo a denunciarlo, riguardo al caso delle Twin Towers, in Italia fu Giulietto Chiesa, con il libro “La guerra infinita”, uscito nel 2003 per Feltrinelli (e vendutissimo, nonostante il silenzio di giornali e televisioni). Ebbe più fortuna mediatica qualche anno dopo Massimo Mazzucco, con il suo esplosivo documentario “Inganno globale”, trasmesso da Mentana in prima serata a “Matrix”, su Canale 5. Un’eccezione, mai più ripetuta. «Arrivato a La7 – dice Mazzucco – Mentana poteva essere “il primo degli ultimi”, dando voce agli esclusi, e invece ha scelto di restare “l’ultimo dei primi”, accodandosi all’ufficialità». In compenso, ormai l’opinione pubblica più disincantata è letteralmente esplosa: milioni di persone, anche in Italia, la verità ufficiale non se la bevono più.Fino a ieri, ad esempio, sarebbe stato impensabile organizzare un evento come quello in programma il 13 gennaio a Treviso: con Mazzucco e Chiesa, insieme a personaggi come Claudio Messora di “ByoBlu”, Diego Fusaro, Enrica Perucchietti. A promuovere l’operazione-verità è l’associazione SalusBellatrix, coordinata da Francesca Salvador: una delle voci della nuova cultura italiana, indipendente dai circuiti mainstream. Verità “altre”, in tutti i campi: dalla sconcertante Bibbia tradotta (alla lettera) da Mauro Biglino, al potere occulto delle 36 superlogge che dominano il mondo, svelato da Gioele Magaldi in “Massoni”, altro bestseller-fantasma (gettonatissimo dai lettori e oscurato da giornali e televisioni). Quanto conta, questa Italia? Abbastanza, se è vero che il Movimento 5 Stelle nato dal web ora è al governo, e che Marcello Foa (autore de “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina i media e le loro menzogne) oggi è presidente della Rai. Conta parecchio, la nuova società in subbuglio, non solo nel nostro paese: se l’oligarca tedesco Günther Oettinger (Commissione Ue) ottiene una legge-bavaglio per frenare il web limitando i link e obbligando le piattaforme a filtrare i contenuti dei blog, un altro oligarca (Emmanuel Macron, prodotto massonico di casa Rothschild) è costretto a vedersela con i Gilet Gialli che paralizzano la Francia.Vuoi vedere che i pionieri come Francesca Salvador avevano visto giusto, anni fa, quando cominciarono ad aggregare platee attorno ai primi narratori eretici? Sono tante, in Italia, le entità culturali come la trevigiana SalusBellatrix: attraverso YouTube, sono riuscite a fare opinione diffondendo informazioni e idee. C’è un’Italia che il mainstream l’ha semplicemente aggirato, prendendolo alle spalle. Un dirigente del Cnr si lascia scappare, da Bruno Vespa, che è in un corso un esperimento di controllo climatico mondiale? A completare l’informazione provvede Mazzucco, nell’appendice YouTube della web-radio “Border Nights”: spiega che, già durante l’alluvione di Firenze, lo stesso Cnr emise un rapporto sui test, allora in corso, di “inseminazione” delle nubi per aumentare le precipitazioni. Forse così risulta meno oscura la possibile origine di fenomeni disastrosi, come i nubifragi che hanno raso al suolo le foreste delle Dolomiti. Il cielo è sempre meno blu, rigato fin dal mattino dalle scie stranamente persistenti rilasciate dagli aerei? Mentre il mainstream tenta di deridere chi “crede alle scie chimiche” (neanche fossero un dogma di fede, anziché un fenomeno visibile), sempre su “Border Nights” il generale Fabio Mini, già dirigente della Nato, avverte: i cittadini hanno il diritto di pretendere spiegazioni esaurienti, finora mai fornite, su questo fenomeno.«Remare contro la corrente della menzogna e dell’inganno – ammette Giulietto Chiesa – è faccenda che richiede pazienza quasi infinita, e anche rischio: può costare la vita». Costa sicuramente «la rinuncia a onori e prebende». E comporta «la disponibilità di non avere, in vita, alcun riconoscimento pubblico delle verità che sono state scoperte». Perché i “padroni universali” e i loro “gate keepers” hanno i mezzi per impedire che le vere notizie arrivino agli occhi e alle orecchie delle grandi masse popolari, spesso così condizionate – ormai da decenni – da non riuscire neppure ad accettarle, certe verità imbarazzanti. Lo sanno benissimo anche gli altri relatori della conferenza di Treviso: non poteva sperare, Mazzucco, che facesse il giro dei telegiornali la rivelazione dell’ultimo suo documentario “American Moon”, che dimostra – grazie al contributo dei più famosi fotografi del mondo – che le immagini del presunto “allunaggio” diffuse in mondovisione nel 1969 erano state realizzate in studio. Dalla trincea di “ByoBlu”, lo stesso Messora – cui Google ha rimosso di colpo la possibilità di finanziarsi con la pubblicità – sa benissimo quanto cosa lottare per informare i concittadini.Per dirla con Diego Fusaro, si tratta di dribblare «i padroni del discorso e la manipolazione di massa». Ne sa qualcosa Enrica Perucchietti, che ha spiegato – in brillanti saggi – come le “fake news” spacciate dai media servano anche a coprire il terrorismo “false flag”, quello che in Europa non colpisce mai nessun centro di potere, ma solo e sempre innocui passanti. “Fake news” sono anche quelle che proteggono, molto spesso, il business di Big Pharma, specie nel caso dei vaccini: ben poco spazio è stato concesso, mesi fa, alla notizia dei 7.000 militari italiani ammalatisi dopo frettolose somministrazioni. Quasi-silenzio anche sulla Puglia, dove la Regione – l’unica ad aver istituito un servizio di “farmacovigilanza atttiva” – ha scoperto che, tra i bambini appena vaccinati, 4 su 10 subiscono reazioni avverse. Là dove invece non si può tacere, perché la fonte è il presidente dell’ordine dei biologi, si cerca di far passare per pazzo il “disturbatore”, peraltro intervistato da un unico giornale, “Il Tempo”, diretto da Franco Bechis. Eppure, la notizia veicolata dal rappresentante dei biologi italiani, Vincenzo D’Anna, è clamorosa: sono stati scoperti vaccini contaminati (con antibiotici, feti abortiti e persino diserbanti agricoli) e vaccini inefficaci, perché privi nei necessari agenti immunizzanti.Di verità scientiche occultate è esperto Giorgio Iacuzzo, un altro degli esperti attesi a Treviso: ha lavorato nel cinema scientifico e tecnologico, scrive per periodici italiani e stranieri ed è pronto a rivelare alcuni dei “segreti di Stato in pillole” di cui è a conoscenza. Verità indicibili attorno al mondo scientifico, come quella sull’espianto degli organi: si intitola “Morte cerebrale, verità o finzione”, la relazione a cura del professor Rocco Maruotti, primario di chirurgia. Ulteriori informazioni, al pubblico di Treviso, saranno fornite da Sonia Saterini Burighel, della Lega Antipredazione Veneto. Tema: “La confusione in atto, in ordine alla donazione di organi, imposta nelle anagrafi quando il cittadino va a rinnovare la carta d’identità”. Primo passo: evitare gli equivoci. Che sono quotidiani (e spesso voluti, nel mondo dell’informazione) specie se c’è di mezzo una traduzione: lo conferma Paola Iacobini, laureata a Londra in mediazione linguistica. E’ un oceano, ormai, l’ambito di quella che un tempo si sarebbe chiamata controinformazione, all’epoca in cui il giornalismo aveva ancora una sua dignità: magari era reticente in qualche caso per compiacere l’editore, ma non aveva ancora abdicato alla sua funzione. Per il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, oggi non piangeremmo milioni di morti, se solo la stampa avesse smesso di fare il suo dovere: avremmo avuto meno stragi, meno guerre, meno terrorismo “sotto falsa bandiera”.Secondo Giulietto Chiesa, sempre assai pessimista sul destino che ci attende, c’è però uno spiraglio di luce, che si è aperto soltanto in quest’ultimo decennio: «La perdita del controllo da parte di coloro che erano certi di esserselo già definitivamente assicurato, per i secoli dei secoli». Sempre per Chiesa, la fibrillazione dei “gate keepers” sta assumendo vertici così acuti «da lasciarci supporre che temano di essere travolti dagli stessi strumenti di controllo e dominio che ritenevano le loro creazioni più perfette». Aggiunge: «Sono ora impegnati allo spasimo per costruire dighe atte a frenare il fiume e i canali per deviarne le correnti». Certo, siamo ancora molto lontani dall’ora della verità. «Ma a noi resta la sottile soddisfazione di osservare il terrore che pervade i dominatori e la loro affannosa ricerca di una via d’uscita». Fausto Carotenuto, già analista geopolitico dell’intelligence Nato (ora passato a una visione spiritualistica dell’esistenza), insiste su una tesi: almeno un terzo dell’umanità starebbe letteralmente uscendo dal letargo. «Se il mondo sta diventando così feroce – dice – è proprio perché i decisori lo sanno, e temono questo risveglio che ormai è in corso, e che sarà inarrestabile». Il sistema di dominio affina strumenti di manipolazione sempre più sofisticati? Vero, ma c’è anche il rovescio della medaglia: «Ci controllano perché ci temono. Facciamo paura, perché siamo tanti. Il nostro problema? Non ce ne rendiamo conto. Crediamo che i dominatori siano invincibili. Ma non lo sono, e lo sanno».(Sul sito dell’associazione SalusBellatrix sono rintracciabili tutte indicazioni per partecipare alla conferenza “E’ la stampa, bellezza”, domenica 13 gennaio 2019 a Treviso).«È la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente». Lo dice uno straordinario Humphrey Bogart alla fine del film “Deadline” di Richard Brooks (in italiano, “L’ultima minaccia”). Era il 1952: una profezia. Ancora oggi, ufficialmente, le Torri Gemelle sono crollate per colpa dell’impatto con aerei dirottati. La “demolizione programmata” è stata ormai dimostrata da oltre duemila architetti e ingegneri, eppure per l’11 Settembre la “verità” resta quella palesemente falsa. Grazie a chi? Ai media mainstream, che spacciano “fake news” governative. Il primo a denunciarlo, riguardo al caso delle Twin Towers, in Italia fu Giulietto Chiesa, con il libro “La guerra infinita”, uscito nel 2003 per Feltrinelli (e vendutissimo, nonostante il silenzio di giornali e televisioni). Ebbe più fortuna mediatica qualche anno dopo Massimo Mazzucco, con il suo esplosivo documentario “Inganno globale”, trasmesso da Mentana in prima serata a “Matrix”, su Canale 5. Un’eccezione, mai più ripetuta. «Arrivato a La7 – dice Mazzucco – Mentana poteva essere “il primo degli ultimi”, dando voce agli esclusi, e invece ha scelto di restare “l’ultimo dei primi”, accodandosi all’ufficialità». In compenso, ormai l’opinione pubblica più disincantata è letteralmente esplosa: milioni di persone, anche in Italia, la verità ufficiale non se la bevono più.
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Rolling Stone: ma che rabbia, quel Rinaldi sempre in tivù
Ma come si permette, Antonio Maria Rinaldi, di dire quello che pensa? Come osa trascinare il suo ciuffo argenteo nei migliori salotti televisivi, da cui dispensare il suo sub-pensiero economico declinandolo sfrontatamente in romanesco? Non sa, Rinaldi, che negli studi di Giletti, di Floris e della Gruber, come in quelli di Mediaset e della Rai, devono avere accesso solo personaggi collaudati come Beppe Severgnini, Paolo Mieli, Massimo Cacciari e altri analoghi, rassicuranti esponenti del clero regolare? Se qualcuno si domandasse come mai l’Italia è classificata al 46esimo posto nella graduatoria di “Reporters sans frontières” sulla libertà d’informazione, forse una risposta potrebbe trovarla dando uno sguardo alla demolizione programmata di Antonio Maria Rinaldi, eseguita dal giovane Steven Forti sul magazine musicale “Rolling Stone”. Non vive di sola musica, “Rolling Stone”. Lo si capisce da titoli come questo: “Il troll di Salvini è meglio di Salvini”. Oppure: “Sapreste riconoscere il fascismo, se tornasse?”. O ancora, sotto una foto di Beppe Grillo: “La politica non fa più ridere”. Quanto all’autore della sommaria rottamazione cartacea di Rinaldi, per lui parlano titolazioni altrettanto eloquenti: “La bestia, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini”. Va da sé: “Un fantasma si aggira per l’Europa: il rossobrunismo”, dal momento che “Piccoli Salvini crescono”.
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Contro Salvini i Tg, Papa Mattarella e il presidente Bergoglio
Apro le finestre, lo smartphone, l’i-pad, la tv, i talk show, la radio e i giornali e mi chiedo: ma è cambiato qualcosa da quando sono al governo i populisti e i sovranisti? Il racconto quotidiano è rimasto lo stesso. Gli stessi temi, la stessa versione, le stesse storie. Cambiano le notizie, non la rappresentazione. Va ancora in onda il vecchio film. Prendi un Tg, di Stato e non solo, a partire dal Tg1 e vedi che gli ingredienti sono gli stessi, l’enfasi e la copertina sono sempre dedicate al tema migranti, all’europeismo a tappetino, ai buoni sentimenti di Papa Mattarella e del Presidente Bergoglio, all’aiutismo a nostro carico dei sindaci umanitari, di Riace o di Palermo non cambia. Ciò che è legge di questo governo, approvata dal Parlamento e promulgata dal capo dello Stato, è incostituzionale nel racconto pubblico dominante. E poi le Ong, i migranti, la retorica gay, l’antirazzismo, l’antisessismo, le sparate contro Trump, Putin e Bolsonaro, poi i soliti nazisti, i frullati di storia a senso unico, il volontariato buono, cioè di sinistra, le vittime che valgono assai se sono progressiste, valgono poco se a colpirle sono state le categorie protette.Sulla rivolta dei sindaci populisti – Leoluca Orlando e Giggino de Magistris sono due tribuni della plebe, e nasce populista pure l’ex grillino e neo-furbino Pizzarotti – l’informazione nazionale, la rappresentazione pubblica, è dalla parte loro, vede il mondo coi loro occhi, col loro linguaggio. Il ministro dell’interno è trattato come un esterno, un cocciuto nemico dell’umanità che oppone ai sindaci non una legge votata dal Parlamento ma – dicono molti Tg e rassegne stampa – “un muro”, che è la parola infame nel gergo mediatico-ideologico per bollare tutti i Trump e i trumpettieri del pianeta. Penso ai tempi bui in cui c’era la lottizzazione, il manuale Cencelli, la spartizione. In quel tempo c’era un criterio non detto ma praticato che grosso modo era questo: un terzo degli spazi va al governo, un terzo alla maggioranza che lo sostiene e un terzo all’opposizione. Regola becera ma a suo modo equilibrata, dosaggio chimico in uso soprattutto nell’ammiraglia della Rai che di fatto dava due terzi di rilievo e di ragione a chi governa e un terzo a chi si oppone. Poi arrivò Renzi e riuscì a fare perfino peggio della lottizzazione, tutto venne renzizzato. Ora, sarò un maldestro spettatore ma a me pare che, salvo fatti e sfumature, l’intonazione generale è la stessa di prima, la linea è rimasta quella (si salva un po’ il Tg2).La presenza delle opposizioni in video è ampia e articolata, quella della maggioranza è didascalica e minore. E’ fuori dal racconto. Il dosaggio delle notizie e delle facce a malapena è cambiato perché la realtà di fatto è cambiata: ma la rappresentazione è sempre la stessa. Gli oppositori sono dentro il racconto, i governativi lo interrompono. Figurano come Paolini, il disturbatore dei Tg. Certo, non si cambia dall’oggi al domani. Certo, se cambi i vertici, il personale poi resta sempre lo stesso, la stessa provenienza, lo stesso sindacato, la stessa trafila di carriera e la stessa ideologia. Certo, anche le figure nominate sono più o meno dell’area di prima, non vengono dalla luna, hanno lo stesso pedigrèe catto-vago-sinistrese; ma questo succede se vai al governo sprovvisto di una classe dirigente, tu e il popolo o la rete e in mezzo niente… «Ho preso il Tg e la rete ma non so cosa mettermi addosso». Sulla Tv in generale, è normale poi che devi sciropparti le stesse robe di sempre, le fiction, i programmi preconfezionati e decisi in epoca antecedente. Siamo ancora sotto effetto dei farmaci e delle indigestioni precedenti. D’altra parte per essere realmente alternativo devi avere una tua interpretazione storica, una visione culturale… Se non ce l’hai soccombi, ti limiti a sparare tweet e video.Al governo ci sono i marziani, o meglio i marziani e i saturniani insieme, e invece la rappresentazione del paese è la stessa di prima. Cambia solo l’annuncio dei provvedimenti di governo: ogni giorno una versione diversa delle pensioni, del reddito di cittadinanza, di quota 100 e roba varia. L’effetto comico è che agli occhi dei Tg, perfino il Pd sembra una cosa viva, seria, unita. Quanto a lungo potremo vivere con questo schema bipolare, ma nel senso del disturbo psichiatrico e non dell’alternanza democratica? Quanto potrà durare questa schizofrenia tra la realtà e la rappresentazione? Il governo da una parte, l’egemonia dall’altra. Non è una preoccupazione di ordine elettorale, perché più le fabbriche del pregiudizio stampano moneta falsa più la gente va in direzione opposta. Semmai ci preoccupa proprio l’effetto che producono, la diffidenza della gente verso i media, il disgusto e il fastidio, l’alibi per non leggere, non ascoltare, non documentarsi, tanto è sempre la stessa minestra. Preoccupa un paese dove l’ideologia oscura i fatti e deforma la verità; che non sono mai solo da una parte.(Marcello Veneziani, “Tutto come prima”, da “La Verità” del 4 gennaio 2019: articolo ripreso sul blog di Veneziani).Apro le finestre, lo smartphone, l’i-pad, la tv, i talk show, la radio e i giornali e mi chiedo: ma è cambiato qualcosa da quando sono al governo i populisti e i sovranisti? Il racconto quotidiano è rimasto lo stesso. Gli stessi temi, la stessa versione, le stesse storie. Cambiano le notizie, non la rappresentazione. Va ancora in onda il vecchio film. Prendi un Tg, di Stato e non solo, a partire dal Tg1 e vedi che gli ingredienti sono gli stessi, l’enfasi e la copertina sono sempre dedicate al tema migranti, all’europeismo a tappetino, ai buoni sentimenti di Papa Mattarella e del Presidente Bergoglio, all’aiutismo a nostro carico dei sindaci umanitari, di Riace o di Palermo non cambia. Ciò che è legge di questo governo, approvata dal Parlamento e promulgata dal capo dello Stato, è incostituzionale nel racconto pubblico dominante. E poi le Ong, i migranti, la retorica gay, l’antirazzismo, l’antisessismo, le sparate contro Trump, Putin e Bolsonaro, poi i soliti nazisti, i frullati di storia a senso unico, il volontariato buono, cioè di sinistra, le vittime che valgono assai se sono progressiste, valgono poco se a colpirle sono state le categorie protette.
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Appello al governo: vi regalo la prevenzione dei terremoti
Appello al governo italiano: Salvini e Di Maio se la sentono di prendere finalmente in considerazione il sistema di prevenzione sismica collaudato da Giampaolo Giuliani, l’ex tecnico dell’istituito di astrofisica del Gran Sasso che nel 2009 previde il catastrofico terremoto dell’Aquila? La notizia: pur di salvare vite umane, Giuliani regalerebbe volentieri allo Stato il suo rivoluzionario brevetto, per il quale ha ricevuto offerte milionarie. Si tratta di un dispositivo di rilevazione e allertamento, installato con successo in mezzo mondo, dall’America all’Asia. Ha dell’incredibile il fatto che una scoperta italiana venga completamente ignorata in patria, dove la terra ha ripreso a tremare – dall’Abruzzo alla Sicilia. «Trovo vergognoso che ancora oggi i telegiornali sostengano impunemente che i terremoti non si possano prevedere», protesta Gianfranco Pecoraro (Carpeoro), dirigente del Movimento Roosevelt. Carpeoro ha rilanciato l’offerta salva-vita di Giuliani in una diretta web-streaming su YouTube il 6 gennaio, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in collegamento con lo stesso Giuliani.
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Dai padroni oscuri nel 2019 avremo altre finte rivoluzioni
Nel 2015 dicevamo per il 2016: «Alcune crisi mondiali come quella Islam-Occidente o quella Occidente-Russia, create per condizionarci, assumeranno forme e sviluppi ancora più inquietanti: l’aumento dell’emergenza migratoria e del terrorismo islamista in Europa, l’estendersi della crisi ad altri paesi, l’estensione di un ruolo inquietante e destabilizzante della Turchia di Erdogan». Queste stesse tendenze si sono manifestate anche nel 2017 e nel 2018. E certamente continuerà in questo modo nel 2019, aggiungendo l’aggravarsi prevedibile del contrasto interislamico sciiti-sunniti, e quello inter-sunnita tra il fronte guidato dal Qatar ed il fronte guidato dall’Arabia Saudita. E sempre nel 2015-2016-2017 scrivevamo: «La guida occulta mondiale rimarrà saldamente nelle mani della piramide gesuita-massonica, anche se il superiore gioco del divide et impera comincerà a creare fratture competitive anche in questo fronte». Questo è con grande precisione quello che è poi avvenuto e che avrà ulteriori sviluppi nel 2019. La Brexit, la presidenza Trump, il ruolo dei sovranisti solo apparentemente anti-sistema, le manifeste debolezze del quadro intereuropeo, i fallimenti e le spaccature del Pd, il risorgere delle destre parafasciste, le forti voci di dissenso a Papa Francesco nelle gerarchie cattoliche…Questi e numerosi altri segnali mostrano con evidenza che il blocco granitico di potere gesuita-massonico ha ormai delle forti incrinature. Foriere di forti tempeste, di feroci scontri, ma anche di maggiori spazi per la libertà delle coscienze. Come già per lo scorso anno, la presidenza Trump appare come un elemento di forte rottura degli equilibri precedenti, e continuerà ad avere certamente un ruolo destabilizzante – come dimostrano le prese di posizione filo-sioniste su Gerusalemme, l’attiva campagna industrialista e antiecologista, le guerre commerciali al resto del mondo e l’aperto sostegno ai peggiori ambienti economici americani. Da una parte sarà il più forte ostacolo ai disegni di dominazione del gruppo gesuita-massonico, ma dall’altra anche un elemento amplificatore di forme-pensiero degradanti, aggressive, violente, antiumane. Una modalità molto diversa da quella “gesuitica” fredda e apparentemente “buona”, ma sempre per fini manipolatori. Che tuttavia già da qualche anno non stava dando i risultati sperati di “seduzione” ampia ed efficace dell’opinione pubblica.Di fronte alle varie risposte positive delle coscienze in risveglio, che non si sono fatte sedurre più di tanto dai disegni di centralizzazione e verticalizzazione, i gruppi di manipolazione mondialisti hanno ormai chiaramente deciso di puntare su un periodo di emergenze e di spaccature, che prepari il terreno in modo forzoso ad una nuova, successiva spinta alla centralizzazione, e ad una ulteriore perdita di libertà e sovranità locali. Visto che non ci convinciamo con le “buone”, loro stanno liberando nuovamente i “cattivi” evidenti, e hanno riaperto il ring degli scontri e della devastazione. Ma speriamo bene, soprattutto nelle risposte delle coscienze. Il ruolo di Putin va interpretato nella stessa direzione. Non si tratta di un “salvatore”, come molti in modo ingenuo interpretano il ruolo di questo sanguinario feudatario del potere, ma di una delle pedine fondamentali del “divide et impera” che si affaccia come nuova stagione della manipolazione, e che vedremo svilupparsi ancora nel 2019. Anche in Italia il patto d’acciaio gesuita-massonico, che ha prodotto papato e renzismo, e che ha falcidiato le fila dei vecchi avversari politici ed economici, sia ai livelli locali che nazionali, comincia a mostrare alcune crepe.Il gioco politico – con la evidente crisi dello sfrontato e ridicolo renzismo, e del decotto Pd – si è riaperto, come prevedevamo già dal 2017. L’influenza della presidenza Trump e degli ambienti conservatori internazionali si è già fatta sentire negli equilibri politici italiani, con l’improvviso risorgere della destra leghista. Una destra che, dietro la sentita esigenza di ordine e sicurezza, nasconde ed esercita una sollecitazione anti-coscienza all’odio e all’egoismo. Avevamo scritto che avremmo probabilmente visto un Cinquestelle chiaramente indirizzato a cercare di agguantare le poltrone di comando di Palazzo Chigi. E avevamo anticipato che, qualora questo fosse avvenuto, la dirigenza M5S avrebbe svelato il proprio vero volto di strumento del potere, di nuovi camuffamenti manipolatori delle solite vecchie congreghe. Una presidenza del Consiglio e altri incarichi di governo nelle mani di uomini chiaramente vicini ai gesuiti, e le stupefacenti virate in senso filo-americano, filo-Nato, filo-euro, filo-Unione Europea, filo-finanza internazionale, filo-vaccini, filo-spese militari, filo-Tap e altro, la dicono lunga su chi veramente si cela dietro gli impulsi sani di tanti bravi ragazzi. Bravi idealisti, illusi per anni dalle seduttive parole di una maschera Grillo ormai ridotta al silenzio. E che sono e saranno i primi a soffrire per i brutali “tradimenti”, che vedremo crescere e farsi evidenti – a beneficio delle coscienze – anche nel 2019.Ora queste due appendici italiane del divide et impera mondiale, la destra parafascista della Lega e il gesuitico Cinquestelle, convivono con difficoltà nel governo, pur di sostituire la classe dirigente precedente, ormai decotta e non più utile al potere vero, preparando la stagione di un nuovo teatro di finta alternanza democratica, nel quale la Lega si porrà come nuova destra egoica e conservatrice, e il M5S come nuova sinistra fintamente progressista. Un nuovo teatrino fatto per illuderci che un cambiamento della politica sia avvenuto, concedendo qualcosa alle masse e sacrificando con nostra soddisfazione vecchi gruppi politico-affaristici, pur di consentire ai soliti poteri occulti di continuare a gestire e manipolare la struttura istituzionale politica, economica, scientifica e culturale. Il progetto di Unione Europea è ormai entrato in una fase di crisi: il vento del divide et impera, sulla spinta della Brexit, delle proteste di piazza francesi, delle spinte leghiste, pentastellate, ungheresi, austriache, polacche, soffia forte sulle strutture europee, accompagnato dalle spaccature create dalla artificiosa e forzata emergenza immigratoria. Tutto ciò avrà un peso nelle elezioni per il Parlamento Europeo del 2019, e da queste potrebbe emergere un nuovo equilibrio delle strutture europee.Un cambiamento possibile perché nulla cambi, in fondo, nella tenuta dei grandi poteri dietro le quinte, sul modello di quanto sta gattopardescamente avvenendo in Italia. Come già detto lo scorso anno, le forze mondialiste cercheranno in ogni modo di sfruttare anche questa crisi per creare ulteriori emergenze e ricompattarci sotto ulteriori perdite di sovranità. Ma non è detto riescano. Dipenderà molto dal grado di risveglio dell’opinione pubblica. I governi delle grandi potenze occidentali continueranno a perseguire i disegni dei loro padroni oscuri, ammantandosi di perbenismo e dell’immagine ipocrita di finte democrazie. Mentre il volto anti-umano della emergente potenza cinese sarà ancora più evidente, e la grande civiltà indiana continuerà a sprofondare in un gretto e volgare materialismo. E l’Africa, apparentemente abbandonata e lasciata al proprio destino, sarà sempre più da una parte terreno del conflitto di religioni e culture, e dall’altro territorio di conquista delle armate economiche neocolonialiste straniere. E i paesi islamici continueranno a svolgere il ruolo di vittime e di volano della creazione di vortici di violenza, odio e paura con effetti anti-coscienza in tutto il mondo. Mentre un Israele sempre più fanatico, duro e nazionalista continuerà a svolgere un ruolo squilibrante in tutto il Medio Oriente.Le grandi forze industriali continueranno a inquinare e devastare l’ambiente, e i loro padroni oscuri useranno in modo crescente il disastro creato dai loro stessi strumenti per evidenziare l’emergenza climatica e spingere il mondo a creare nuove forme di governance mondiale e le nazioni a cedere sovranità. Anche in questo caso la presidenza Trump sembra ostacolare temporaneamente questi progetti (ma forse favorirli a più lunga scadenza, inducendo un ulteriore peggioramento dell’emergenza ambientale). L’attacco portato alla salute dei corpi attraverso la perversa strategia mondiale di obbligo vaccinale – partita proprio dall’Italia – continuerà certamente con forza, attraverso il malefico strumento di vaccini appositamente alterati per indurre problemi alle coscienze in risveglio. Prepariamoci a una lotta dura e intensa, nella quale avremo l’appoggio del Cielo. Fino ad ora questa operazione ha prodotto come risultato un forte risveglio di coscienze, in numero crescente. Questo effetto continuerà anche nel 2019, soprattutto a causa dell’aumento delle reazioni “avverse” ai vaccini, alle quali l’opinione pubblica sarà sempre più attenta.Anche nel 2019 ogni crisi verrà fomentata o usata per controllarci meglio, per spingerci infine verso formazioni centralizzate mondialiste o premondialiste, come l’Europa, per toglierci sovranità, democrazia e libertà esteriori. Faranno tutto questo, come nel 2018 e negli anni precedenti, solamente per bloccare il più grande fenomeno dei nostri tempi: il risveglio delle coscienze. Quel risveglio che per la prima volta nella storia umana sta producendo masse importanti – anche se non ancora maggioritarie – capaci di una epocale rivoluzione interiore: quella di mettere gli esseri della natura, gli animali e gli altri esseri umani, quanto meno sullo stesso piano di se stessi. Quella rivoluzione interiore che per la prima volta fa in modo che tanta gente – almeno un terzo dell’umanità – cominci a pensare che non siamo venuti qui per predare tutto quello che incontriamo, ma per vivere in armonia con la natura e volendo l’uno il bene dell’altro. Cominciando finalmente ad amare il nostro prossimo come noi stessi. Ecco, anche nel 2019 grandi e oscuri poteri di manipolazione cercheranno di bloccare o rallentare questa rivoluzione delle coscienze, il cui effetto sarà un giorno la liberazione dell’umanità proprio da quei poteri.(Fausto Carotenuto, estratto da “Come sarà il 2019?”, post pubblicato su “Coscienze in Rete” il 29 dicembre 2018. Già analista geopolitico dell’intelligence Nato, Carotenuto è approdato a una visione spiritualistica del mondo, condensata nel saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato da UnoEditori. Carotenuto considera i gesuiti come il vertice della piramide vaticana, e giudica altrettanto negativamente la massoneria nel suo complesso, in quanto organismo di ispirazione mondialista, a suo parere interamente funzionale a un disegno di dominio).Nel 2015 dicevamo per il 2016: «Alcune crisi mondiali come quella Islam-Occidente o quella Occidente-Russia, create per condizionarci, assumeranno forme e sviluppi ancora più inquietanti: l’aumento dell’emergenza migratoria e del terrorismo islamista in Europa, l’estendersi della crisi ad altri paesi, l’estensione di un ruolo inquietante e destabilizzante della Turchia di Erdogan». Queste stesse tendenze si sono manifestate anche nel 2017 e nel 2018. E certamente continuerà in questo modo nel 2019, aggiungendo l’aggravarsi prevedibile del contrasto interislamico sciiti-sunniti, e quello inter-sunnita tra il fronte guidato dal Qatar ed il fronte guidato dall’Arabia Saudita. E sempre nel 2015-2016-2017 scrivevamo: «La guida occulta mondiale rimarrà saldamente nelle mani della piramide gesuita-massonica, anche se il superiore gioco del divide et impera comincerà a creare fratture competitive anche in questo fronte». Questo è con grande precisione quello che è poi avvenuto e che avrà ulteriori sviluppi nel 2019. La Brexit, la presidenza Trump, il ruolo dei sovranisti solo apparentemente anti-sistema, le manifeste debolezze del quadro intereuropeo, i fallimenti e le spaccature del Pd, il risorgere delle destre parafasciste, le forti voci di dissenso a Papa Francesco nelle gerarchie cattoliche…
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Comanda il denaro: la politica obbedisce e il popolo subisce
«Il liberalismo si è imposto in modo autoritario, portando con sé impoverimento generalizzato, precarietà, disoccupazione di massa e concorrenza forzata per il lavoro». Per lo scrittore francese Michel Onfray, il neoliberismo ha ormai gettato la maschera: «E’ un sistema economico che ha promesso tutto ma non ha mantenuto niente», scrive Onfray su “L’Espresso”, guardando al caos che ci assedia, con «una plebe che vuole fare piazza pulita, ma senza progetti». Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo ha potuto espandersi senza più freni: è allora, ricorda Onfray, che siamo precipitati nell’accelerazione atomica della globalizzazione, «voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro», che poi «ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e, in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale». Per Onfray, il mercato «odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge», per usare «la definizione chimicamente pura del liberalismo».Il capitale, aggiunge il filosofo transalpino, vuole l’abolizione delle frontiere per porre fine una volta per tutte a ciò che nell’ambito delle nazioni e dei paesi è stato ottenuto con secoli di lotte sociali. Lo se Stato teoricamente prevede una sicurezza sociale e offre scuole gratuite, il pensionamento a un’età decorosa, diritti del lavoro e un autentico progresso sociale, il neoliberismo si fa beffe delle tutele sociali e pratica la medicina con due pesi e due misure, o quella dei poveri o quella dei ricchi. «Dispone di un sistema di istruzione, certo, ma a misura di genitori facoltosi in grado di pagare le rette per la loro progenie e privo di utilità per i genitori indigenti». E poi «ignora i limiti dell’orario di lavoro e fa sgobbare i lavoratori tutta la giornata, tutta la settimana, tutta la vita, come ai tempi della schiavitù». E’ un sistema che «non conosce il codice del lavoro e trasforma gli operai, gli impiegati, i salariati, i proletari, i precari, gli stagisti in soggetti sottomessi, che devono sobbarcarsi ogni tipo di corvè». Quel che vuole il nuovo capitale, neoliberismo «nella sua versione di destra come nella sua versione di sinistra», è l’affermazione dei sempre più ricchi, a scapito dei sempre più poveri. «Da qui la sua ideologia che prevede l’abolizione delle frontiere, degli Stati e delle tutele di qualsiasi tipo – simboliche, reali, giuridiche, legali, culturali, intellettuali».Non appena viene meno tutto ciò che protegge i deboli dai forti, scrive Onfray, questi ultimi «possono disporre dei deboli a loro piacere, e i deboli possono essere terrorizzati dal fatto di trovarsi in costante concorrenza, possono essere sfruttati con posti di lavoro precari, maltrattati con contratti a tempo determinato, imbrogliati con gli stage di formazione, minacciati dalla disoccupazione, angosciati dalle riconversioni, messi kappaò da capetti che giocano anche con i loro stessi posti di lavoro». Evaporato lo Stato, è il mercato a dettare legge. «Giocando la carta del liberalismo – aggiunge Onfray – la sinistra al governo spinge nella medesima direzione del capitalismo con i suoi banchieri». E giocando invece la carta dell’antiliberalismo, «la sinistra definita radicale spinge nella medesima direzione», premiando la finanza. Queste due modalità d’azione della sinistra, aggiunge il filosofo, hanno gettato il popolo alle ortiche: «Non ci sarebbero più operai, impiegati, proletari, poveri contadini, ma soltanto un popolo-surrogato, un popolo di migranti in arrivo da un mondo non giudeo-cristiano, con i valori di un Islam che assai spesso volta le spalle alla filosofia dei Lumi. Questo popolo-surrogato non è tutto il popolo, ne è soltanto una parte che, però, non deve eclissare tutto ciò che non è».Il proletariato? «Esiste ancora, e così pure gli operai». Esistono ancora anche gli impiegati (per non parlare dei precari, più importanti che mai). «La pauperizzazione analizzata così bene da Marx è diventata la vera realtà del nostro mondo: i ricchi sono sempre più ricchi e sempre meno numerosi, mentre i poveri sono sempre più poveri e sempre più numerosi». Se nell’ambito dell’Europa si pratica l’islamofilia empatica, aggiunge Onfray, fuori dalle sue frontiere il liberalismo che ci governa pratica un’islamofobia militare. «Al potere, in Francia, la sinistra socialista ha rinunciato al socialismo di Jaurès nel 1983 e in seguito, nel 1991, ha rinunciato al pacifismo del medesimo Jaurès prendendo parte alle crociate decise dalla famiglia Bush, che così ha dato all’apparato industriale-militare che lo sostiene l’occasione di accumulare benefici immensi, conseguiti grazie alle guerre combattute nei paesi musulmani». Queste guerre «si fanno nel nome dei diritti dell’uomo: di fatto, si combattono agli ordini del capitale che ha bisogno di esse per dopare il suo business e migliorarne artificialmente le prestazioni». Usare armi, insiste Onfray, significa poterne costruirne altre, collaudandole sul campo. A chiudere il conto, poi, provvede il business della ricostruzione, che – sempre ai soliti monopolisti – garantisce «introiti smisurati».Se all’Occidente importasse qualcosa, dei diritti umani, eviterebbe di allearsi con paesi come l’Arabia Saudita e il Qatar, la Corea del Nord e la stessa Cina, che secondo Amnesty International non rispettano i diritti dell’uomo. «Queste false guerre per la democrazia, che di fatto sono vere e proprie guerre coloniali – sottolinea Onfray – prendono di mira le comunità musulmane». Dal 1991 hanno provocato 4 milioni di morti tra le popolazioni civili dei paesi coinvolti. «Come si può anche solo immaginare che l’Umma, la comunità planetaria dei musulmani, non sia solidale con le sofferenze di quattro milioni di correligionari?». Di conseguenza, aggiunge Onfray, non ci si deve stupire se in virtù di quella che Clausewitz definì la “piccola guerra”, quella che i deboli combattono contro i forti, l’Occidente gregario della politica statunitense si trova adesso esposto alla reazione che assume la forma di terrorismo islamico. «La religione continua a essere “l’oppio dei popoli”, e l’oppio è tanto più efficace quanto più il popolo è oppresso, sfruttato e, soprattutto, umiliato. Non si umiliano impunemente i popoli: un giorno quei popoli si ribelleranno, è inevitabile. E la cultura musulmana ha mantenuto potentemente quel senso dell’onore che l’Occidente ha perduto».Il ritorno del popolo alle urne, per Onfray, è una risposta «alla bassezza di questo mondo capitalista e liberale che è impazzito». Dalla caduta del Muro di Berlino, le ideologie dominanti «hanno assimilato la gestione liberale del capitalismo all’unica politica possibile». L’Europa di Maastricht «è una delle macchine con le quali si impone il liberalismo in maniera autoritaria, ed è un vero colmo per il liberalismo: negli anni Novanta, la propaganda di questo Stato totalitario maastrichtiano ha presentato il suo progetto asserendo che esso avrebbe consentito la piena occupazione, la fine della disoccupazione, l’aumento del tenore di vita, la scomparsa delle guerre, l’inizio dell’amicizia tra i popoli». Dopo un quarto di secolo di questo regime trionfante e senza opposizione, «i popoli hanno constatato che ciò che era stato promesso loro non è stato mantenuto e, peggio ancora, che è accaduto esattamente il contrario: impoverimento generalizzato, disoccupazione di massa, abbassamento del tenore di vita, proletarizzazione del ceto medio, moltiplicarsi di guerre e incapacità di impedire quella dei Balcani, concorrenza forzata in Europa per il lavoro».A fronte di questa evidenza, il popolo sembra prepararsi a reagire. «Per il momento si affida a uomini e donne che si definiscono provvidenziali». Certo, il doppio smacco di Tsipras con “Syriza” in Grecia e di Pablo Iglesias con “Podemos” in Spagna «mostra i limiti di questa fiducia nella capacità di questo o quello di cambiare le cose restando in un assetto di politica liberale». Per Onfray, anche Beppe Grillo e i suoi 5 Stelle «vivono un flop di egual misura». La Francia, che nel 2005 ha detto “no” a questa Europa di Maastricht, «ha subito una sorta di colpo di Stato compiuto dalla destra e dalla sinistra liberale» che, nel 2008, hanno imposto tramite il Parlamento «l’esatto contrario di ciò che il popolo aveva scelto». Onfray si riferisce al Trattato di Lisbona, ratificato da Hollande e dal partito socialista, come pure da Sarkozy e dal suo partito. «Gli eletti del popolo hanno votato contro il popolo, determinando così una rottura che ora si paga con un astensionismo massiccio o con decine di voti estremisti di protesta». Altri paesi ancora che hanno manifestato il loro rifiuto nei confronti di questa configurazione europea liberale – Danimarca, Norvegia, Irlanda, Svezia, Paesi Bassi – sono dovuti tornare a votare per rivedere le loro prime scelte. «La Brexit è in corso, e assistiamo in diretta a una sfilza di pressioni volte a scavalcare la volontà popolare».Oggi, riassume Onfray, il popolo «sembra deciso a voler fare tabula rasa di tutti coloro che, vicini o lontani, hanno avuto una responsabilità precisa nel creare la terribile situazione nei loro paesi». Lo scenario contro cui si ribella è quello innescato dalla globalizzazione neoliberista, «alle prese con le guerre neocoloniali statunitensi, davanti ai massacri planetari di popolazioni civili musulmane e a guerre che distruggono paesi come Iraq, Afghanistan, Mali, Libia e Siria, provocando migrazioni di massa di profughi in direzione del territorio europeo». Un panorama sul quale si staglia ingloriosamente «l’inettitudine dell’Europa di Maastricht, forte con i deboli e debole con i forti». Rabbia e frustrazione: è il carburante che, in Francia, spinge in strada i Gilet Gialli. «Una volta ottenuta questa tabula rasa – conclude Onfray – non è previsto che ci sia alcun castello nel quale riparare, perché è impossibile che vi resti un castello». A quel punto, aggiunge, «sembra che non ci resterà che un’unica scelta: la peste liberale o il colera liberale». Trump e Putin? «Non potranno farci nulla: è il capitale a dettar legge. I politici obbediscono e i popoli subiscono».«Il liberalismo si è imposto in modo autoritario, portando con sé impoverimento generalizzato, precarietà, disoccupazione di massa e concorrenza forzata per il lavoro». Per lo scrittore francese Michel Onfray, il neoliberismo ha ormai gettato la maschera: «E’ un sistema economico che ha promesso tutto ma non ha mantenuto niente», scrive Onfray su “L’Espresso”, guardando al caos che ci assedia, con «una plebe che vuole fare piazza pulita, ma senza progetti». Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, seguita nel 1991 dal crollo dell’Unione Sovietica, il capitalismo ha potuto espandersi senza più freni: è allora, ricorda Onfray, che siamo precipitati nell’accelerazione atomica della globalizzazione, «voluta con tanto ardore dal capitalismo liberale più duro», che poi «ha trovato un alleato inaspettato nella sinistra liberale e, in seguito, ancor più paradossalmente, nella sinistra anti-liberale». Per Onfray, il mercato «odia le frontiere, disprezza il locale e ciò che ha messo radici, combatte una guerra spietata contro i paesi, riempie di merda le nazioni, orina contro i popoli e ama soltanto i flussi multiculturali che abbattono le frontiere, sradicano il mondo, devastano ciò che è locale, spaesano i paesi, fustigano le nazioni, diluiscono i popoli a esclusivo beneficio del mercato, l’unico a contare e a dettare legge», per usare «la definizione chimicamente pura del liberalismo».