Archivio del Tag ‘vincoli’
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Prove tecniche di rivoluzione, contro il racket del potere Ue
Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.Finisce nella bufera, in Italia, il presidente della Repubblica, accusato di non aver saputo resistere – in nome della dignità nazionale – alle midiciali pressioni del grande potere apolide che ha in mano l’Europa. E’ un potere senza patria, industriale e finanziario, neo-aristocratico e segretamente supermassonico. Un potere globalista e ricchissimo, infinitamente più forte – per il momento – delle piccole, residue sovranità nazionali ridotte a elemosinare decimali di deficit e briciole di flessibilità. Un sistema che, per primo, Paolo Barnard ha definito neo-feudale: svuotata la democrazia, piegata o “comprata” l’ex sinistra sindacale dei diritti, i signori del neoliberismo (peggiorato ulteriormente, in Europa, dalla versione ordoliberista teutonica, stolidamente ottocentesca e ottusamente mercantile, sleale e imbrogliona) hanno compiuto una restaurazione storica e drammaticamente spettacolare. Il potere, semplicemente, è tornato nelle mani di un’élite pre-democratica e pre-moderna, di tipo medievale. Gli ordini non si discutono: se il vero potere decreta che uno Stato non può più ricorrere al deficit, la discussione è finita. Pena, lo scatenarsi dei “mercati”. Una logica intimidatoria e brutalmente esplicita, di stampo mafioso. Una sorta di racket, al quale gli Stati ex-sovrani devono sottoporsi, senza che i cittadini-elettori siano mai stati interpellati. Fin qui, il copione di ieri. Quello che oggi sta letteralmente franando.Nelle parole che Sergio Mattarella ha rivolto alla nazione immediatamente dopo il “gran rifiuto” opposto alla nomina di Savona, risuona la visione macro-economica del sistema che il neoliberismo – vera e propria teologia dogmatica – ci ha fatto credere l’unica possibile. Per questo, Mattarella la presenta come ovvia: nel suo pensiero c’è posto per un solo modo di risolvere le crisi, e cioè tagliando il deficit pubblico. Una sola fede, una sola religione: quella che il neoliberismo ha imposto a mano armata, con formidabile efficacia, colonizzando l’immaginario universale – scuole, media, governi, editoria, università. Lo Stato deve dimagrire: non ci sono alternative, diceva Margaret Thatcher nel 1980. Peccato che la cura dimagrante imposta dal vero potere e inaugurata da Mario Monti abbia depresso l’economia al punto da far esplodere quel debito che si pretendeva di abbattere. Sono state colpite famiglie e aziende: meno lavoro, risparmi erosi, meno entrate fiscali. Risultato scontato: si è allargata la forbice tra debito e Pil. Come uscirne? Nell’unico modo possibile: facendo esattamente l’opposto. Investimenti a deficit, quindi più lavoro e più Pil, più entrate fiscali e, alla fine, riduzione proporzionale del debito. E’ semplice, in teoria. Ma sembra impossibile.I peggiori politici che un paese come l’Italia abbia mai avuto – gli eroi della Seconda Repubblica – hanno potuto sgranare impunemente il rosario dei falsi dogmi del neoliberismo. L’hanno fatto sempre, a reti unificate, mai contraddetti né interrogati dalla stampa. Un quarto di secolo si è giocato interamente solo all’interno di una soltanto delle narrazioni possibili, quella del neoliberismo, ulteriormente limitato dai vincoli dell’ordoliberismo europeo. Nessuno s’è mai chiesto come abbia fatto, il Giappone, a vivere benissimo con un debito pubblico al 200% del Pil, senza l’ombra di attacchi speculativi – impossibili, con moneta sovrana e una banca centrale che fa il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. Nessuno in fondo si è mai chiesto niente di fondamentale, nell’Italia ipnotizzata per vent’anni dal finto duello tra Prodi e Berlusconi, entrambi al servizio (Prodi più di Berlusconi) del sommo potere neoliberista e privatizzatore. Ora, improvvisamente, il Re si scopre nudo: arriva a bloccare la nomina di un ministro, solo perché sgradita ai boss della finanza che occupano militarmente i palazzi europei. Gli italiani, a loro volta, scoprono che il loro voto è stato perfettamente inutile, e ormai diffidano delle istituzioni: temono che siano state colonizzate da poteri stranieri. C’è gente che queste cose le ha dette e scritte per vent’anni. La novità è che ora sono entrate clamorosamente a far parte dell’agenda politica, grazie a due movimenti eterodossi: uno ex-secessionista, l’altro creato dal nulla sul web.Rivoluzione o cospirazione? Come crolla, un regime autoritario? In genere a farlo implodere non è direttamente la piazza, ma il dissenso interno, pur tra mille contraddizioni e opache trame manipolatorie. Sembra un copione ricorrente, come nel caso della Libia di Gheddafi rovesciata su iniziativa degli ex alleati di Bengasi – incoraggiati dalla Francia, e comunque reduci da una lunghissima cogestione del potere insieme al Colonnello. A smontare il maggiore “impero rigido” del Novecento, l’Unione Sovietica, è stato Mikhail Gorbaciov: non un outsider, ma un alto dirigente del Kgb. Esattamente come Vladimir Putin, l’uomo che poi la Russia l’ha rimessa insieme pezzo su pezzo. Vuoi provare a “smontare” l’Unione Europea per trasformarla in qualcosa di meglio dell’attuale aborto? Non puoi fare a meno di un “insider” di altissimo livello, di un veterano come Paolo Savona (non a caso temutissimo dagli attuali gestori dell’infernale crisi che tiene in ostaggio l’intera Europa, sotto il ricatto finanziario permanente). Altro dettaglio: quando la storia cambia passo, il vecchio potere sembra improvvisamente antico, paleozoico, surreale. Lo sono le sue parole arcaiche e logore, i suoi slogan polverosi. Balbettano, i potenti, increduli di fronte al baratro che si va aprendo. E balbettano, altrettanto disorientati, i grandi media – quelli che hanno smesso di raccontare il mondo, e quindi hanno subito le sorprese della Brexit, di Trump, del referendum contro Renzi, delle ultime elezioni italiane.
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Il Guardian: ha ragione l’Italia, il rigore farà esplodere l’Ue
William Hague una volta ha descritto l’euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l’esperienza dell’Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione. L’adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni ’90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del Trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell’Unione monetaria. Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l’Italia – con le sue tendenze inflazionistiche – potesse effettivamente far fronte ai rigori dell’adesione alla moneta unica. Non c’è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l’allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all’Eurozona. Al contrario, quando è diventato chiaro che l’Italia non avrebbe rispettato i criteri di Maastricht, le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell’euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l’Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream.Un governo di coalizione di due partiti populisti ed euro-scettici – il Movimento 5 Stelle e la Lega – sembra imminente. Sebbene nessuno dei due partiti della coalizione abbia mai apprezzato l’euro, ora entrambi si sono resi pienamente conto di quanta verità sia contenuta nelle parole di Hague. Il loro progetto di accordo politico comprendeva la proposta che l’Ue stabilisse una procedura per l’uscita dall’euro per quei paesi che dimostrassero una “volontà popolare” in tal senso, ma ora questa proposta è stata abbandonata. Non è difficile capire perché. Se i mercati finanziari si convincessero che il nuovo governo populista è seriamente intenzionato ad abbandonare la moneta unica, i titoli di Stato italiani diventerebbero più rischiosi. Gli investitori richiederebbero un rendimento più elevato per detenerli e ciò comporterebbe un aumento dei tassi di interesse di mercato. La Banca Centrale Europea potrebbe correre in aiuto con l’acquisto di titoli italiani, ma sarebbe poco incentivata a venire incontro a un governo a Roma che mostrasse l’intenzione di minare – se non distruggere – l’Unione monetaria.Il nuovo governo si troverebbe coinvolto in una crisi finanziaria. Il sistema bancario traballante dell’Italia crollerebbe e il paese sprofonderebbe in una grave recessione. La disoccupazione aumenterebbe e il Movimento 5 Stelle e la Lega verrebbero incolpati per questo. I populisti diventerebbero rapidamente impopolari. Quindi il nuovo governo italiano si trova nella stessa posizione di tutti gli altri governi che il paese ha avuto negli ultimi due decenni: l’appartenenza alla moneta unica è una maledizione, ma il tentativo di abbandonare l’euro sarebbe ancora peggio. Come la Grecia, l’Italia sta scoprendo che è un po’ tardi per dire che sarebbe stato meglio dotare la costruzione dell’euro di una qualche via di fuga. In realtà è più facile per la Gran Bretagna – con la propria banca centrale e la propria valuta – lasciare l’Ue piuttosto che per l’Italia lasciare l’euro. Ma anche se l’Italia prende le distanze dall’indipendenza monetaria, il nuovo governo ha comunque dei piani fiscali e di spesa che rappresentano una sfida per il modo in cui l’Eurozona è stata gestita fino ad ora. Questi includono un nuovo reddito di cittadinanza, pensioni più generose e tasse più basse. Le stime suggeriscono che queste misure costeranno intorno ai 60 miliardi di euro all’anno – circa il 3,5% del Pil dell’Italia.Ciò farebbe saltare le regole fiscali dell’Eurozona, che impongono limiti severi alla misura in cui può essere concesso un deficit di bilancio. Inoltre, farebbe salire il rapporto debito-Pil dell’Italia – il volume del debito pubblico del paese in relazione alle dimensioni della sua economia – che passerebbe da poco più del 130% del Pil a circa il 150% del Pil. La prospettiva di un deciso allentamento della politica economica spaventa i mercati finanziari e non andrà bene alle altre capitali europee. Ma, in realtà, le politiche fiscali della coalizione hanno senso. Il vero problema risiede nelle assurde regole fiscali deflazionistiche dell’Eurozona. Come ha rilevato Dhaval Joshi della Bca Research, l’Italia è per certi versi simile al Giappone. Entrambi i paesi hanno incontrato difficoltà perché le loro banche in crisi si sono rivelate incapaci di prestare al settore privato. Il Giappone ha risolto questo problema facendo in modo che il settore pubblico concedesse prestiti, anche se ciò significava un forte aumento del suo rapporto debito-Pil. L’Italia è in una posizione peggiore, perché le regole fiscali della zona euro non permettono di gestire maggiori deficit di bilancio. L’Italia ha un indebitamento complessivo – privato e pubblico messi insieme – inferiore a Gran Bretagna, Francia e Spagna, ma per i vincoli fiscali dell’Ue solo il debito pubblico è rilevante. Osserva Joshi: «Di conseguenza, al governo italiano è stato impedito di ricapitalizzare il proprio sistema bancario e l’economia italiana ha ristagnato per un decennio».I responsabili della moneta unica sanno che, così com’è, l’euro è un progetto incompiuto. Potrebbe essere completato dal pacchetto di riforme proposto dal presidente francese Emmanuel Macron, che comporterebbe oltre all’unione monetaria anche l’unione fiscale, presieduta da un ministro delle finanze della zona euro. Non c’è la minima possibilità che Macron possa ottenere l’adesione al suo piano del nuovo governo di Roma, anche se potrebbe assicurarsi il sostegno a tutto campo della Germania. Un’alternativa allo schema di Macron è consentire ai membri della zona euro più libertà per gestire politiche fiscali che soddisfino le loro esigenze, che è ciò che sta chiedendo la coalizione populista italiana. Allo stato attuale, le regole significano che qualsiasi paese in difficoltà può rendersi più competitivo solo attraverso la deflazione interna – tagli di spesa e austerità. L’altra alternativa è lasciar andare alla deriva la situazione così com’è e sperare per il meglio. L’euro è sopravvissuto – a mala pena – a una crisi, ma non ne passerebbe un’altra. Il rischio non è che un paese salti fuori dall’edificio in fiamme, ma che l’edificio finisca per collassare con tutti dentro.(Larry Elliott, “Le politiche dell’Italia hanno senso, sono le regole dell’Eurozona ad essere assurde”, dal “Guardian” del 20 maggio 2018, articolo tradotto da “Voci dall’Estero”).William Hague una volta ha descritto l’euro come un edificio in fiamme senza uscite, e l’esperienza dell’Italia negli ultimi 20 anni ha dimostrato che il leader del partito conservatore aveva assolutamente ragione. L’adesione alla moneta unica è stata decisa alla fine degli anni ’90 come fosse una cosa facile. Uno dei paesi primi firmatari del Trattato di Roma, l’Italia voleva disperatamente entrare nella prima ondata dell’Unione monetaria. Ma non è stato condotto un vero esame sul fatto se un paese come l’Italia – con le sue tendenze inflazionistiche – potesse effettivamente far fronte ai rigori dell’adesione alla moneta unica. Non c’è stato nessun equivalente dei cinque criteri economici di Gordon Brown, criteri che l’allora cancelliere dello scacchiere (figura equivalente al Ministro delle Finanze in altri ordinamenti, ndt) aveva indicato (in aggiunta ai criteri di convergenza di Maastricht, ndt) al fine di valutare la possibilità della Gran Bretagna di unirsi all’Eurozona. Al contrario, quando è diventato chiaro che l’Italia non avrebbe rispettato i criteri di Maastricht, le regole sono state piegate per assicurarsi che il paese entrasse nell’euro. Il risultato: due decenni economici perduti in cui il tenore di vita è rimasto stagnante, motivo per cui l’Italia si è ora allontanata dalla politica mainstream.
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Sì, la Bce può assorbire il debito: chi lo nega è un cialtrone
Perché la Bce può benissimo cancellare 250 miliardi. E chi lo nega è ignorante o in malafede, sostiene Maurizio Blondet, ricordando che il motivo lo ha spiegato – in un articolo del giugno 2013 – Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy, nella London School of Economics, già membro del Parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le massime autorità. De Grauwe rispose al governatore Jens Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca, che s’era appellato alla Corte Costituzionale di Berlino, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico dei paesi dell’Eurozona che sta operando la Bce, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la Bce in caso di insolvenza di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. «De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi». Il motivo: «Applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata», sottolinea Blondet nel suo blog, ricordando che una banca centrale – prestatore di ultima istanza – non può mai “fallire”, potendo emettere denaro in modo illimitato.«Il livello di confusione è così alto – scrisse De Grauwe – che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale tedesca sostenendo che il programma Omt della Bce esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla Bce». Una paura «mal posta», perché mentre le società private «si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito», questi stessi “vincoli di solvibilità” «non dovrebbero essere applicati alle banche centrali», visto che queste ultime «non possono fallire», dal momento che una banca centrale «può emettere tutta la moneta che vuole e chi le serve per ripagare i suoi “creditori”». E chi sono i creditori della banca centrale? Sono «i detentori della sua moneta». Per la banca centrale, il loro “ripagamento” «consisterebbe semplicemente nel sostituire la moneta vecchia con moneta nuova». Non siamo più nel sistema del tallone aureo, quando una banca centrale prometteva di convertire la moneta che emetteva in oro. E quindi, «al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali». Quindi, «la sola promessa che una banca centrale fa al mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui».La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi. Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”, sottolinea Blondet. Ma visto che qualcuno ancora non capisce, De Grauwe spiega di nuovo: la banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire). L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che essa possa mantenere il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui ha giurisdizione. Una volta che abbia quel potere, la banca centrale è libera da ogni limite di solvibilità. Chiarito ciò, De Grauwe illustra il caso più semplice: quello di una banca centrale che emetta moneta per un solo Stato, anche comprando buoni del Tesoro. «Acquistando i titoli di debito statali, la banca centrale trasforma la natura del debito pubblico. Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito viene trasformato: il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio di default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria); che è priva di rischio default, ma soggetta a rischio di inflazione».Per capire cosa sia questa trasformazione, e come agisca nel bilancio, supponiamo che banca centrale e governo siano tutt’uno (come dopotutto sono: due rami separati del settore pubblico, ed erano prima del “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia). Attenzione, aggiunge Blondet, perché qui troviamo spiegato perché 250 miliardi di debiti possono essere “cancellati”. «Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello Stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare». E non è finita: «La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio [come fa la Bce coi nostri 250 miliardi], ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questa finzione ed eliminarla dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall’ammontare del suo debito. Esso non ha più valore – scrive De Grauwe – in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo, ma non un rischio di default». Dunque non ha senso – come voleva far credere la Bundesbank – che le banche centrali, quando il prezzo di mercato dei titoli di Stato scende, ci perdano.«Se ci fosse una perdita per la banca centrale, sarebbe compensata alla pari da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore di mercato del suo debito è sceso in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico». Chiaro, no? Sottolinea De Grauwe: «Quando una banca centrale ha acquisito titoli di Stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale», perché la perdita in un ramo (la banca centrale) è compensata dal profitto nell’altro (lo Stato). «Un altro modo di vedere questo effetto è guardare ai flussi degli interessi sottostanti ai titoli pubblici». Esempio: la banca centrale ha comprato un miliardo di euro in titoli di Stato. «Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Nella pratica della contabilità, questo viene contato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale girerà i propri profitti al governo stesso». Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. «E’, per così dire, la mano sinistra che paga la mano destra». La classica partita di giro.«La tecnicalità della tenuta dei libri contabili ha potuto far credere a qualcuno che tali interessi siano signoraggio (ossia profitto per la banca centrale), ma non lo sono», assicura De Grauwe, che spiega: «Non c’è alcun profitto, nel settore pubblico: il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo». Capito? L’economista vuol essere ancora più chiaro. «L’uno e l’altra potrebbero eliminare questa convenzione contabile perché in queste perdite e profitti non c’è alcuna sostanza economica». Detto in modo ancora più esplicito: «La Bce può distruggere i titoli di Stato, senza nessuna perdita». Ma, probabilmente temendo che questo sia al di sopra delle possibilità intellettuali del governatore Weidmann della Bundesbank (e degli eurocrati in genere) il belga insiste: «E’ letteralmente vero che la banca centrale potrebbe distruggere i titoli di Stato nel trituratore della carta: niente sarebbe perduto». Nel famoso esempio, «la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno, e non dovrebbe più girarli al governo ogni anno». E cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza? Il default causa certamente delle perdite ai detentori privati dei titoli. Ma, attenzione, «è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale: infatti essi adesso non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che paga la sinistra». In altre parole: «Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale».Nel caso dell’Eurozona le cose sono più complesse. Ma all’osso, la sostanza non cambia: le funzioni restano le stesse. Altro esempio: la Bce acquista 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono le seguenti: la Bce riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal Tesoro spagnolo e restituisce questi 40 milioni di euro non alla sola Spagna, ma a tutte le banche centrali nazionali dell’Eurozona; la distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella Bce. La banca centrale nazionale trasferisce quanto ricevuto al proprio Tesoro nazionale. Per esempio, la Bce trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro. Ecco perché, all’inizio del discorso, De Grauwe spiega che, anziché essere danneggiati, «i tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisti di debiti pubblici avviato da Draghi». L’effetto paradossale è questo: in un’unione monetaria che non è anche un’unione fiscale, un programma di acquisto di titoli di Stato «porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri», cioè dai paesi più indebitati e poveri a quelli non indebitati e ricchi. Che altro serve per dimostrare perversione del sistema euro?Perché la Bce può benissimo cancellare 250 miliardi. E chi lo nega è ignorante o in malafede, sostiene Maurizio Blondet, ricordando che il motivo lo ha spiegato – in un articolo del giugno 2013 – Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy, nella London School of Economics, già membro del Parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le massime autorità. De Grauwe rispose al governatore Jens Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca, che s’era appellato alla Corte Costituzionale di Berlino, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico dei paesi dell’Eurozona che sta operando la Bce, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la Bce in caso di insolvenza di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. «De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi». Il motivo: «Applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata», sottolinea Blondet nel suo blog, ricordando che una banca centrale – prestatore di ultima istanza – non può mai “fallire”, potendo emettere denaro in modo illimitato.
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Della Luna: il ruolo del Colle nella colonia-Italia, non da oggi
L’operato degli ultimi inquilini del Quirinale «manifesta che il presidente della Repubblica non è un’istituzione italiana, è un organo dell’ordinamento sovranazionale preposto ad assicurare l’obbedienza dei governi italiani agli interessi stranieri egemoni, cioè al vero sovrano». Parola dell’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi”, “Cimiteuro” e “Oligarchia per popoli superflui”. Mattarella avverte Di Maio, ma soprattutto Salvini, che starà a lui – e non ai parlamentari eletti dal popolo – scegliere il nome del futuro premier, nonché di un ministro dell’economia “amico” di Bruxelles e di un ministro degli esteri “non amico” della Russia? Persino ovvio, per Della Luna, secondo cui ormai da molti anni il Quirinale – vedasi Ciampi e Napolitano – tutela soprattutto i grandi architetti del sistema eurocratico. Mattarella? Mette i bastoni tra le ruote ai 5 Stelle e alla Lega, che le elezioni le hanno vinte, ma è stato eletto dal Pd ora sconfitto, attraverso un Parlamento dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui proprio Mattarella era autorevole esponente. Così adesso per Della Luna «abbiamo questa curiosa situazione, grottescamente anti-democratica, in cui i rappresentanti della maggioranza del popolo “sovrano” devono subire volere contrario del presidente scelto dalla controparte politica, nominato da una maggioranza illegittima e non più esistente».Un presidente, scrive Della Luna nel suo blog, il quale «si riserva di approvare, se non anche di designare (con operazioni a porte chiuse e su cui intervengono cancellerie straniere contrarie a una politica indipendente dell’Italia) il capo del governo, i ministri, le stesse linee politiche di fondo, imponendo in particolare l’adesione del progetto europeista e alle regole già prescritte dall’eurocrazia – ossia, compiendo una scelta politica autoritaria al fine di vincolare la maggioranza e il governo, contro la maggioranza parlamentare e del paese, che ha una posizione critica nei confronti di quel progetto e di quelle regole eurocratiche, che vuole rinegoziarle a fondo, alla luce dei loro accertati effetti sfavorevoli soprattutto sull’Italia». Rinegoziare le regole Ue? «Una volontà che il “sovrano” straniero non accetta e che contrasta attraverso il Colle – che non è Italia». Per questo, Mattarella ha ammonito «i rappresentati della maggioranza sovranista degli italiani: sbagliate ad essere euroscettici, dovete smetterla». E se l’Unione Europea si è consegnata alla finanza, divenendo «una centrale di controllo bancario sulle nazioni, di concentrazione del reddito e del potere nelle mani di un’élite finanziaria parassitaria e antisociale, che toglie diritti, lavoro, reddito e sicurezza alla gente», per Della Luna tutto questo avviene «per il tornaconto di una classe finanziaria globale detentrice del vero potere», ben decisa a «riformare la società e il diritto a proprio vantaggio».Un piano che, insiste Della Luna, «i presidenti italiani devono assecondare». Al di là della retorica europeista – alla quale gli elettori non credono più, come si è visto il 4 marzo – la verità è che «l’establishment del paese più forte, cioè della Germania, spalleggiato da qualche complice come la Francia, che riceve benefici, scarica i suoi costi del superamento delle difficoltà sui paesi più deboli». Questa è la realtà dell’Ue: «Certo, sarebbe bello essere uniti e solidali per affrontare le difficoltà, ma le cose non vanno a questo modo». Attenzione: «Ogni presidente lo sa perfettamente, ma deve fingere», sostiene Della Luna. «L’inesistente mondo della solidarietà nei rapporti internazionali e dell’unione che fa la forza è solo una dissimulazione del fatto che gli alti interventi dei presidenti sono atti di obbedienza a interessi di potenze straniere dominanti, come quando uno di essi, violando la Costituzione, ci mandò in guerra contro la Libia e a nostro danno, al servizio di interessi soprattutto francesi; o come quando ci impose Monti e le sue politiche a beneficio dei banchieri speculatori franco-tedeschi». Della Luna lo ripete da anni: «La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale – è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive».Affinché possa svolgere quel ruolo, il Quirinale «è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve», aggiunge Della Luna. «Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato-Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero». Inoltre nelle monarchie contemporanee il sovrano non governa direttamente, e così salva sempre la faccia alla corona in caso di malgoverno. «Esistono persino norme che puniscono penalmente chi attribuisca al monarca la responsabilità politica di atti del governo», puntualizza Della Luna, sebbene il monarca «sovente scelga il primo ministro e indirizzi l’azione del governo mediante vari strumenti, a cominciare dai discorsi pubblici, dalla “moral suasion”, e passando attraverso i servizi segreti e la sua partecipazione al sistema bancario centrale». Nell’ordinamento repubblicano italiano, secondo l’analista, vi sono residui più o meno forti di questa dualità: da un lato istituzioni e poteri protetti, e dall’altro istituzioni e poteri logorabili. «Le istituzioni protette sono principalmente il Capo dello Stato, i magistrati, il sistema bancario; non più il Parlamento (che è composto perlopiù da nominati delle segreterie partitiche, privi di reale e autonomo potere, aventi funzione sostanzialmente di ratificatori e di figuranti)».Capo dello Stato e potere giudiziario sono detti “poteri neutri”, scrive Della Luna, «anche se palesemente non sono neutri né neutrali», mentre le istituzioni «esposte al logorio, al biasimo, alle responsabilità, all’insuccesso, alla verifica dell’efficacia-inefficacia del loro operato, sono invece quelle politiche: il Parlamento e, soprattutto, il governo». Proprio ora il tribunale di sorveglianza ha riabilitato Berlusconi con un mese di anticipo, «così che adesso Silvio può rientrare in Parlamento e scompigliare i giochi». C’è chi vede in questa mossa «un ulteriore intervento politico di un potere protetto e falsamente neutro – quello giudiziario – per boicottare un governo Lega-M5S pericoloso per gli interessi “europei” sull’Italia». Da noi, aggiunge Della Luna, il presidente della Repubblica esercita poteri anche di indirizzo governativo e legislativo, «ma non è esposto a logorio, a delegittimazione, a biasimo, al perdere la faccia, anche quando interviene su chi è esposto». Di fatto, «il presidente non ha mai torto, è sempre saggio: tutti elogiano le sue affermazioni, manifestando ammirazione e consenso per esse, anche quando sono banali o faziose o false». Per converso, «chi si oppone e le critica, appare come un estremista». Il presidente? «Non ha un passato rimproverabile, o lo ha ma non se ne deve parlare. I mass media lo rispettano».E’ un potere palesemente temuto, quello del Quirinale, «dotato di efficaci e poco regolamentati strumenti per delegittimare e mettere in crisi l’azione sia dei poteri politici che degli organi giudiziari», scrive Della Luna. «Strumenti che agiscono sottobanco, senza trasparenza. Strumenti per sostenere o attaccare e per bloccare attacchi e indagini». Il Quirinale «dispone di un numeroso personale (oltre 800 persone) e di molto denaro, che può usare senza specificare per che cosa». Tutti, quindi, si guardano dal criticare il presidente della Repubblica. «Al più si può fingere che le sue parole abbiano significati e implicazioni che non hanno, per tirare la sua autorevolezza dalla propria parte, o per fare apparire le sue esternazioni come meno critiche di quello che in realtà intendono essere». Per Della Luna, in ogni caso, si tratta di caratteristiche storiche: l’operato dei presidenti, sostiene, «non è libero, ma è conseguenza della posizione subordinata e servile che l’Italia ha e ha sempre avuto, sin dalla sua creazione come Stato unitario». Una posizione dalla quale l’Italia «ha ripetutamente e invano tentato di uscire, per elevarsi alla parità con le altre potenze, dapprima mediante le conquiste coloniali, poi mediante la partecipazione alla I Guerra Mondiale, indi alla II Guerra Mondiale».La capitolazione del 1943 «l’ha ridotta a un livello ancora più subordinato», e i successivi tentativi di praticare politiche di interesse nazionale, anche in settori limitati, «sono stati stroncati in vario modo: si pensi a Mattei, a Moro, a Craxi, per finire col “colpo di Stato” del 2011», attraverso il quale l’élite europea ha insediato Monti a Palazzi Chigi tramite Napolitano. Posto che un giorno l’Italia si liberi dall’egemonia straniera e che provi davvero a fare qualche riforma in senso democratico «per porre fine alle interferenze sottobanco di poteri non delimitati», secondo Della Luna «quel giorno l’istituto del presidente della Repubblica andrà sostanzialmente modificato: o ne si fa un capo politico, politicamente responsabile e criticabile, eletto dal popolo – cioè si fa una repubblica presidenziale o semi-presidenziale – oppure ne si fa un notaio senza poteri politici». Ma allora, conclude Della Luna, occorre un sistema elettorale che formi direttamente la maggioranza di governo attraverso un ballottaggio per assegnare il premio di maggioranza, e che elegga pure direttamente il primo ministro attraverso il suo abbinamento alla lista: un cancelliere con facoltà di nominare e revocare i ministri, dettare l’indirizzo di governo e persino sciogliere le Camere. Orizzonti oggi impensabili, in quest’Italia ancora al guinzaglio della concorrenza europea e anti-italiana, che si nasconde dietro l’alibi comunitario di Bruxelles.L’operato degli ultimi inquilini del Quirinale «manifesta che il presidente della Repubblica non è un’istituzione italiana, è un organo dell’ordinamento sovranazionale preposto ad assicurare l’obbedienza dei governi italiani agli interessi stranieri egemoni, cioè al vero sovrano». Parola dell’avvocato Marco Della Luna, autore di saggi come “Euroschiavi”, “Cimiteuro” e “Oligarchia per popoli superflui”. Mattarella avverte Di Maio, ma soprattutto Salvini, che starà a lui – e non ai parlamentari eletti dal popolo – scegliere il nome del futuro premier, nonché di un ministro dell’economia “amico” di Bruxelles e di un ministro degli esteri “non amico” della Russia? Persino ovvio, per Della Luna, secondo cui ormai da molti anni il Quirinale – vedasi Ciampi e Napolitano – tutela soprattutto i grandi architetti del sistema eurocratico. Mattarella? Mette i bastoni tra le ruote ai 5 Stelle e alla Lega, che le elezioni le hanno vinte, ma è stato eletto dal Pd ora sconfitto, attraverso un Parlamento dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale di cui proprio Mattarella era autorevole esponente. Così adesso per Della Luna «abbiamo questa curiosa situazione, grottescamente anti-democratica, in cui i rappresentanti della maggioranza del popolo “sovrano” devono subire volere contrario del presidente scelto dalla controparte politica, nominato da una maggioranza illegittima e non più esistente».
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Finta rivoluzione, voluta dal potere che ha sdoganato Silvio
«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.Carpeoro non crede alle promesse “sovraniste” del futuro governo “gialloverde”, rispetto al quale Mattarella ha già calato pesantissime ipoteche: guai a uscire dai binari (deprimenti) di Bruxelles, ha avvertito il capo dello Stato, autorevole rappresentante italiano del club eurocratico. Il “contratto” tra Salvini e Di Maio prevede, almeno sulla carta, i punti principali del programma elettorale della Lega e quello dei 5 Stelle: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero (cioè dei tagli alle pensioni). «Onestamente: per attuare queste scelte servono davvero tanti soldi, troppi, e non di capisce dove li possano trovare, Salvini e Di Maio». Risultato: «Probabilmente non riusciranno a combinare niente di sostanziale, magari annunceranno misure importanti ma poi scopriranno di non poterle applicare davvero». Nel frattempo, però, l’Italia avrà un governo pienamente operativo, in grado per esempio di varare il Def, il documento di programmazione economica e finanziaria. «Sarà un governo per prendere tempo», insiste Carpeoro: un esecutivo che nasce per consentire al paese di andare comunque avanti, e soprattutto per permettere al Pd di riprendersi dalla déblacle elettorale, tornando ad essere il garante affidabile dell’austerity europea da infliggere all’Italia.Carpeoro interpreta come un evento non casuale (e addirittura sinistro) la sconcertante sincronicità che lega il “perdono” del Cavaliere all’ok dato a Salvini per l’alleanza tattica con Di Maio, ennesimo indizio della “giustizia a orologeria” che, per Carpeoro, resta una delle grandi piaghe politiche del nostro paese. Un passaggio che dimostra, una volta di più, il potere reale della “sovragestione”, ben al di sopra della “volontà degli elettori”: costretto a mettere in pista Di Maio e Salvini, turandosi il naso, l’establishment comunque sistemerà nei posti giusti i suoi “frenatori” (cominciando dal Quirinale, che demonizza la sovranità chiamandola “sovranismo”), preparandosi a veder fallire le riforme più rivoluzionarie in arrivo, dal taglio delle tasse al reddito garantito. Finale già scritto: seguirà la classica restaurazione di potere «affidata come sempre ad ex comunisti ed ex democristiani», cioè le correnti consociative e iper-eurocratiche incarnate dal Pd, l’erede dell’Ulivo fondato da Romano Prodi, l’uomo dei poteri forti che ha azzoppato l’Italia amputando l’Iri, vero motore del sistema industriale del made in Italy. Riusciranno Di Maio e Salvini a sfuggire a un deludente destino che sembra già scritto? Difficile, sostiene Carpeoro, visto che è proprio il super-potere (grazie a Berlusconi) a dare il via a questa rivoluzione solo apparente.«Chiedetevi come mai, dopo anni di interdizione assoluta, Berlusconi viene improvvisamente riabilitato, un minuto dopo aver concesso a Salvini il via libera per fare il governo con Di Maio». Traduzione: è proprio l’establishment a volere quel governo, nonostante le apparenze. Se le cose stanno così, è praticamente impossibile aspettarsi qualcosa di veramente buono, per gli italiani. Analisi firmata da Gianfranco Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Io alle coincidenze non credo affatto», premette Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” ha sviluppato il tema della “sovragestione” dei grandi poteri finanziari, spesso massonici, che pilotano le vicende politiche nazionali. Ma se il presunto “crimine” politico sarebbe la manovra dietro le quinte – il premio al Cavaliere, nuovamente candidabile – per aver consentito il varo dell’esecutivo retto da Salvini e Di Maio, quale sarebbe l’altrettanto ipotetico “movente”? Semplice, per Carpeoro: «Prendere tempo, dando modo al Pd di riprendersi e tornare a essere il vero “braccio armato” di questa inguardabile Unione Europea», cioè del regime fondato sul rigore e diretto dall’élite finanziaria.
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Democrazia sovrana, il fantasma che spaventa questi partiti
Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.La piramide tecnocratica chiamata Unione Europea è solo l’interfaccia del sommo potere economico, che non ha altra bandiera che quella del denaro. Operazione ormai messa in chiaro: “Lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, la chiamava il sociologo Luciano Gallino. Immenso trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, mai visto dall’avvento della modernità industriale. Neo-feudalesimo, al posto della democrazia ormai svuotata: lo Stato non ha più sovranità, è costretto a eseguire ordini. Per cosa votare, allora? Punti di vista. Nel famoso referendum del 4 dicembre si votò contro Renzi in modo ipocrita, dichiarando ufficialmente di voler difendere la Costituzione così com’era, cioè già irrimediabilmente lesionata dall’inserimento di un obbligo aberrante, quello del pareggio di bilancio. Una norma-killer, che equivale alla morte clinica dello Stato come comunità politica sovrana: se non posso più decidere come investire sulla società e sull’economia, dove finisce la mia teorica democrazia? Si riduce, come avviene oggi, allo spettacolo di estenuanti trattative attorno al nulla: alleanze “impossibili”, oppure l’ennesimo governo sottomesso “all’Europa”. All’orizzonte resta il mesto ritorno alle urne, con partiti che (tranne la Lega e Fratelli d’Italia) hanno tutti accuratamente evitato – prima, durante e dopo – di affrontare il vero, grande problema da cui discende la crisi italiana: cioè il vincolo capitale di Bruxelles, che impedisce agli elettori di decidere davvero del loro futuro.Destra e sinistra? Parole che avevano un senso nel ‘900, cioè in regime di relativa sovranità. Storicamente, di fronte a un’emergenza democratica, le estreme si alleano: in Italia accadde sotto l’occupazione nazifascista e, subito dopo, al momento di scrivere (insieme) la Costituzione. Poi, per mezzo secolo e oltre, destra e sinistra si sono confrontate apertamente. Oggi sono praticamente scomparse. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, un’élite residuale della ex sinistra ha assunto il comando – non in proprio, ma per conto dei signori di Bruxelles – applicando alla lettera ogni diktat della destra economica privatizzatrice. Prodromi: il funesto divorzio fra Tesoro e Bankitalia, già negli anni ‘80 (all’origine dell’esplosione artificiosa del debito pubblico) e la drammatica rottamazione dell’Iri, che ha lesionato il sistema industriale italiano su input franco-tedesco. Andreatta, Ciampi, Prodi. E poi Amato e Visco, Bassanini e D’Alema, Padoa Schioppa. Una parabola infelice e rovinosa, conclusa con il crollo del grottesco Pd renziano, consegnatosi alla post-politica terzista, apparente protagonismo personalistico al servizio delle lobby.Dalla destra elettorale, messa all’angolo dalla “filiera del rigore” inagurata da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni, viene la nuova Lega di Salvini, alleata con Fratelli d’Italia nel mettere a fuoco l’identità del vero avversario, il potere che manovra la tecnocrazia di Bruxelles. Ma Salvini e Meloni, costretti per ragioni tattiche nella coalizione di centrodestra, si sono votati alla rinuncia: sapevano fin dall’inizio che il loro partner ingombrante, Berlusconi, non li avrebbe seguiti nella battaglia per difendere l’Italia dall’Ue. Peggio ancora l’ambiguo Movimento 5 Stelle, che ha saltato l’ostacolo Bruxelles evitando di parlarne: ha fatto il pieno di voti promettendo il reddito di cittadinanza (senza spiegare come finanziarlo) dopo aver mandato Di Maio nei santuari della finanza, per rassicurare i nemici dell’Italia: con lui al governo, le regole-capestro non sarebbero cambiate. L’aspirante premier venuto dal nulla oggi parla di “contratti”, come se le alleanze fossero merce in saldo. E affida a un oscuro docente universitario lo studio dei programmi dei vari partiti, per verificare possibili aree di convergenza.Sul piano estetico, la sensazione è devastante: là dove servirebbe la politica, si affollano maggiordomi e funzionari. Gli elettori di Di Maio saranno felici si scoprire che le sorti del prossimo governo italiano potrebbero dipendere dal professor Giacinto Della Cananea, ordinario di diritto amministrativo a Tor Vergata e allievo di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. Come se Di Maio, per il suo “contratto”, dovesse ricorrere all’inarrivabile sapienza di un super-consulente, un tecnocrate di rango. L’agenda politica, nel frattempo, resta in bianco: con Salvini o il Pd è uguale, l’importante è arrivare a Palazzo Chigi (o almeno, fingere di volerci arrivare). Se qualcuno voleva che gli elettori italiani si spazientissero, concludendo che le elezioni del 4 marzo sono state perfettamente inutili, ci sta riuscendo. La situazione non è solo bloccata dai veti incrociati: non esiste proprio orizzonte diverso da quello degli ultimi anni, in cui il paese è precipitato in una crisi che non ha eguali, dal dopoguerra. Le lingue sono tagliate, non dicono la verità: alle varie incarnazioni del demonio di comodo – Berlusconi, Renzi – si sono opposti esorcisti altrettanto improbabili, pronti a maneggiare qualsiasi slogan tranne quelli che servirebbero. Va bene tutto, persino la guerricciola contro i famigerati vitalizi, pur di non evocare lo spettro di cui tutti hanno paura: quello della sovranità democratica.Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.
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Streeck: sovranismo progressista, contro l’élite globalista
Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».Tutti ci accorgiamo, sottolinea Streeck, che oggi nessuna formula politico-economica, di destra o di sinistra, fornisce un coerente sistema di regolazione al capitalismo. Ma questo succede non tanto per l’assenza di idee progettuali o di leader carismatici, come spesso sentiamo lamentare, bensì «perché nessun intervento riformatore dell’economia può essere efficace se le istituzioni non-economiche sono quasi estinte: non si può curare una malattia in mancanza degli anticorpi». Per Streeck, il capitalismo è ormai ingovernabile per l’attenuarsi dei vincoli che furono in grado di contrastarlo e contenerlo. «Nei momenti cruciali della sua storia, sono state le forze di opposizione a stabilizzare il capitalismo in quanto società: movimenti di classe, etnici o di genere hanno animato i contropoteri della società; movimenti regionali, nazionali o religiosi hanno preservato la coesione sociale; gli Stati socialdemocratici del benessere e i sindacati di massa hanno assicurato una domanda sufficiente nella sfera economica, così come la legittimazione della riproduzione sociale. Il capitalismo vive finché non diventa “puro”, ossia finché non espelle dalla società le forze non-economiche in grado, trattenendone la spinta espansiva, di proteggerlo da sé stesso».Questa tesi non appartiene soltanto a Streeck, rileva Bellanca. In ambito marxista, Rosa Luxemburg sostiene che senza una ulteriore frontiera da valicare, l’accumulazione capitalista s’inceppa. Karl Polanyi aggiunge che nel capitalismo circolano delle “merci fittizie” – il tempo, la natura, il denaro e il lavoro umano – le quali vengono distrutte, o rese inutilizzabili, se affidate alle compravendite mercantili: poiché il capitalismo abbisogna di queste “merci”, deve accettare che siano regolate in maniera non-mercantile, e deve quindi ammettere un proprio limite. Secondo Streeck, la versione neoliberista del capitalismo ha avuto “troppo successo”, colonizzando l’intero mondo della vita e quasi azzerando le controspinte socio-politiche. Smentito il pregiudizio marxista, secondo cui il capitalismo si chiuderà soltanto quando sarà pronta una società migliore, promossa da un soggetto rivoluzionario. «Data la frammentazione dei movimenti antagonisti, manca un gruppo sociale che possa orientare progettualmente la società. Lo scenario futuro più probabile sarà quello in cui il collasso capitalista non sarà seguito dal socialismo, bensì da un periodo di entropia».Per Bellanca, la prognosi di Streeck non è sempre persuasiva, dato che «discute il futuro del capitalismo senza alcun riferimento al luogo in cui il futuro del capitalismo sarà sicuramente deciso: l’Asia». Se non altro, «il suo atteggiamento non scivola nel fatalismo e nell’impotenza politica». Piuttosto, lo studioso tedesco puntualizza: non tutte le maniere con cui attraversare il prossimo “interregno” saranno equivalenti. A suo parere, almeno uno dei fattori non-capitalisti potrà ancora costituire un valido baluardo di resistenza, per i lavoratori e per i cittadini: lo Stato-nazione. «Nel mondo reale, non c’è democrazia al di sopra dello Stato-nazione, ma solo grande tecnocrazia, grandi capitali e grande violenza. I regimi politici capaci di rappresentare gli interessi delle classi subalterne, dei gruppi discriminati e delle popolazioni locali nel mondo si sono formati – quando ciò è avvenuto – soltanto all’interno del perimetro della sovranità statuale». Pertanto, aggiunge Streeck, il rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico potrà costituire uno strumento per temperare e, in parte, regolare la furia del capitale. E mentre il sovranismo di destra si scaglia contro i migranti in nome dell’etnia e rivendica la chiusura delle frontiere, Streeck indica alla sinistra un percorso strategico nel quale la leva del sovranismo progressista contrasti la tirannia “illuminata” di Bruxelles e affronti il tema di come uscire dal totalitarismo globalista.«I neoliberisti – scrive – hanno convinto tanti a sinistra che oggi il solidarismo internazionalista comporta che i lavoratori dei vecchi paesi industrializzati lascino competere sui loro posti i lavoratori delle aree più povere del pianeta. Invece il solidarismo ha significato e significa che i lavoratori si organizzano assieme per impedire al capitale di contrapporre gli uni agli altri in mercati “liberi”, ossia non regolamentati». Su questo terreno, che Bellanca definisce «del sovranismo democratico-costituzionale», la previsione di Streeck s’incontra con quella dell’economista di origine serba Branko Milanovic, secondo cui «i conflitti tra le classi all’interno dei paesi accresceranno, in termini relativi, la loro importanza nel prossimo futuro». Lo stesso Streeck aggiunge che le battaglie dentro e mediante gli Stati-nazione saranno, nel tempo che ci aspetta, l’orizzonte politico meno inefficace e più vicino ai bisogni dei lavoratori e dei cittadini. «Questa coppia di previsioni – conclude Bellanca – presenta implicazioni politiche molto precise per la sinistra da ricostruire».Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck, i paesi a economia matura hanno di fronte tre precise tendenze, a lungo termine: un declino persistente del tasso di crescita, un aumento costante del debito (pubblico, privato e totale) e un’esplosiva disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Queste tendenze sono tra loro legate, spiega Nicolò Bellanca su “Micromega”: la bassa crescita, intensificando il conflitto distributivo, accentua la disuguaglianza tra i gruppi, mentre a sua volta la disuguaglianza, abbassando la domanda effettiva, riduce la crescita. Di conseguenza il settore finanziario si espande ulteriormente per allargare il credito dei gruppi che più subiscono la disuguaglianza, ma – restringendo l’economia reale e le sue possibilità occupazionali – la stessa finanza approfondisce gli squilibri sociali. Allarme rosso: gli alti livelli di debito innalzano il rischio di crisi finanziarie, che a loro volta – moltiplicando le posizioni debitorie più vulnerabili – accentuano le disparità e rallentano la crescita, e così via. Storia: a circa 250 anni dalla rivoluzione industriale, osserva Bellanca, si sono estremamente affievolite le forze sociali e politiche di contrasto al capitalismo, tra le quali la religione, il socialismo, il nazionalismo e la democrazia. «Il punto è di cruciale importanza, poiché un capitalismo senza oppositori viene lasciato ai suoi meccanismi interni ed è incapace di autolimitarsi».
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Cabras: Siria, solo bugie. Per annullare le elezioni italiane?
Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.Molti missili, spiega Cabras, sono stati lanciati contro il centro di ricerca e sviluppo di Barzah, ritenuto colpevole, secondo le dichiarazioni ufficiali, di “produrre clorina e Sarin”. Solo che il 22 novembre scorso, aggiunge, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw) aveva ispezionato proprio il centro di Barzah e aveva escluso che producesse armi chimiche. I risultati sono stati riconfermati il 23 e il 28 febbraio di quest’anno, come documentato da un report del 13 marzo. «In pochi minuti – scruve Cabras su “Megachip” – le forze armate statunitensi hanno mandato in fumo proprie dotazioni per un valore di duecento milioni di dollari e i fornitori di missili si sono sfregati le mani perché saranno loro a ricostituire le scorte. Mi pare chiaro – aggiunge – che a Washington non abbiano nemmeno lontanamente voluto sfidare la vera capacità di risposta dell’alleato di Damasco, la Russia, che disponeva sia di sistemi antimissile di trent’anni più avanzati rispetto a quelli delle forze armate siriane, sia di capacità di rappresaglia in grado di annichilire tutti i punti di lancio dei missili (navi o altro)». Questo, secondo Cabras, significa che all’interno dell’amministrazione Trump «quelli che volevano una guerra di grandi proporzioni sono stati gentilmente accompagnati a un vicolo cieco, almeno per ora».Altra deduzione: «C’erano canali di comunicazione fra le capitali occidentali e Mosca per assicurarsi che la costosissima e rischiosissima rappresentazione teatrale non generasse equivoci ed escalation». Risultato: «Alla fine tutti salvavano la faccia». Nondimeno, «fa impressione che dentro questa consapevolezza in qualche misura “collaborativa” sul limite da non oltrepassare (dove comunque i russi erano in massima allerta), la pièce dovesse comunque svolgersi con tutti i suoi sviluppi obbligati, dalle esplosioni alle indignazioni ai titoloni alle riunioni Onu. Tutto dannatamente teatrale, eppure autentico». Le armi di distruzione di massa? Fantasma evocato poche settimane prima a Londra, con il presunto “gas” impiegato contro l’ex spia in pensione Sergeij Skripal. «Vengono richiamate come un feticcio, un’allusione a un tabù storico che fa oltrepassare una “linea rossa”: laddove si allude a un gas si allude a un qualche nuovo Hitler da strapazzare. Per chi spinge alla guerra, le prove non contano più nulla: conta solo un’opinione sul gas, non importa se sia cloro, Sarin, o il misteriosissimo gas “di consistenza gelatinosa” di cui parla l’imprenditore mediatico Roberto Saviano», unitosi al coro russofobo (non si sa in basi a quali informazioni e competenze).«Si prendono per oro colato notizie inverificabili provenienti da ambienti compromessi con l’oscurantismo jihadista e le si usa per una rapida hitlerizzazione di un qualche governante da abbattere con i mezzi della guerra totale in un contesto alle soglie della guerra atomica, come se i disastri e le menzogne delle aggressioni all’Iraq e alla Libia non avessero insegnato nulla», sottolinea Cabras. «Di fronte a rischi così forti risulta essere un gravissimo errore intellettuale e politico (purché non si tratti di malafede) il sollecitare nel pubblico reazioni emotive incontrollate ed esasperate, basate su dicerie rilanciate da un circuito politico-mediatico gravato da pessimi precedenti che lo rendono inattendibile». Se non alro, aggiunge il neo-parlamentare, è confortante notare che in questo contesto difficoltoso, in cui le pressioni sono molto intransigenti, emergano prese di coscienza ragionate come quella dell’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, che punta il dito sull’ultimo “caso gas” in Siria, da lui visto come «l’ennesima creazione della premiata ditta jihadista per giustificare il pretesto per una guerra totale». E comunque, per quanto il bombardamento del 15 aprile fosse sostanzialmente “contraffatto”, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno violato in modo “vero” la legalità internazionale, eccome.«Si è trattato di un’aggressione – l’ennesima – a carico di un paese sovrano che fa parte dell’Onu, con effetti indiretti in grado di generare comunque pericolose ripercussioni». Ad esempio, aggiunge Cabras, non è la prima volta che in occasione di aggressioni dirette delle potenze occidentali a danno delle forze armate siriane, i tagliagole dell’Isis lancino delle offensive con qualche successo: anche in questa circostanza, infatti, l’esercito siriano – in vista dell’attacco annunciato – ha dovuto lasciare sguarnite certe aree contese con l’Isis, che ne ha approfittato all’istante. «Non va mai dimenticato che chi ha retto l’urto dell’Isis fino a infliggergli sconfitte decisive è stata la Siria, con l’aiuto decisivo della Russia. È imperdonabile oggi voler offrire altre chances all’Isis». Usa, Gran Bretagna e Francia sono, al tempo stesso, membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto e membri del “club nucleare”: «In questa veste si sono ripreso ancora una volta il ruolo abusivo di potenze sciolte dal vincolo di dover sottostare a importantissime norme internazionali». Con queste azioni, «fanno valere un peso speciale che comprime le alleanze sovranazionali di cui fanno parte, soggette costantemente a subire la loro preponderanza».Nella Nato e nella Ue, questi paesi sono “animali più uguali degli altri”, per usare la metafora orwelliana. «Dispongono di mezzi diplomatici fortemente orientati a far valere questa preponderanza», e quindi «presidiano abilmente l’ordine del giorno dei principali media per stabilire l’agenda delle notizie e condizionare le mosse degli attori internazionali nonché il sentimento medio dell’opinione pubblica». E così facendo «zavorrano gli spazi di manovra delle personalità politiche nazionali con lacci e lacciuoli». In Italia, nella scorsa legislatura, la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro «ha messo agli atti alcune importanti scoperte sulle dinamiche che hanno condizionato nel corso dei decenni la sovranità italiana per via del peso di alleati che da un lato ci sono amici, dall’altro ci investono con mille pressioni e azioni ostili e perfino golpiste», ricorda Cabras. «Non è solo materia sanguinosa di una storia passata, è ancora carne viva e dolente della politica italiana attuale: vi saremo ancora dentro finché non rinunceremo ad esercitare un ruolo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente». Per uscirne, dovremmo smettere di «appaltare tutta la nostra politica estera a potenze straniere», e cessare di concepire le alleanze «come meri vassallaggi, anziché come partecipazioni più equilibrate».Ognuno degli attori politici attuali, aggiungeil neo-deputato Cabras, sa perfettamente di affrontare «una perenne corrente di influenze esterne profondamente radicate nel sistema», influenze «a cui non par vero di sfruttare ogni spiraglio generato da una crisi di governo difficilissima come quella di oggi». Per cuio, se “nulla è come appare”, ogni parola spesa per risolvere la crisi di governo «nasce in un contesto che non ammette semplificazioni». Il quadro degli accordi di governo possibili in Italia, ammette Cabras, «è gravemente condizionato dal fatto che pezzi significativi del sistema politico (e molti apparati) hanno un’abitudine ormai rodata a sottomettersi a coloro che dicono “fate presto”». Lo spiega bene Debora Billi su “ByoBlu”: «I media come sempre fanno la loro parte, che è poi quella del leone. Remano con forza nella direzione del governo “responsabile”, con la speranza che le leve del comando siano riconsegnate a chi le ha tenute saldamente finora, tradendo così la volontà popolare del 4 marzo. Ma anche molti media alternativi sul web – forse non volontariamente – contribuiscono allo stesso “frame”, pretendendo a gran voce dai politici più in vista dichiarazioni adamantine contro la guerra, contro la Nato, contro gli alleati, e stigmatizzando come servo e zerbino chi non ottempera all’istante».I social fanno il resto – aggiunge la Billi – alimentando tra gli stessi cittadini quella battaglia ideologica, «e chiudendo così il cerchio destinato a legare inestricabilmente il futuro governo agli eventi di questi giorni in Siria». Molti stanno inconsapevolmente lavorando, come si usa dire, per il Re di Prussia. E rischiano di far sì che si abbiano «i missili sulla Siria come movente perfetto per cancellare con un colpo di spugna la scomoda volontà popolare: sta quindi a noi non cadere nella trappola, e continuare a reclamare un governo che rispecchi ciò che è accaduto il 4 marzo e non ciò che è accaduto il 14 aprile». Per Cabras, è importante risolvere la partita del governo senza farsi vincere dalla fretta, anche in materia di politica estera. Il programma esteri con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato alle elezioni – sostiene Cabras – offre spunti «decisivi» per costruire assieme ad altre forze parlamentari «un accordo di governo grazie al quale la Repubblica Italiana possa recuperare il proprio importante ruolo di grande mediatore del Mediterraneo, con un governo in grado di vantare un approccio profondamente iscritto nella vocazione storica dell’Italia democratica». Un approccio «molto più equilibrato rispetto a quello imposto da chi in questi anni ha usato la guerra per nuove avventure neocoloniali, tutte dannose anche per la nostra repubblica».Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.
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Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico
Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.«Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.«Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
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Trappola Ue: per cambiare i trattati serve l’ok dei 28 Stati
Rispondo con questo articolo alla domanda di molti lettori che cercano una spiegazione concreta, o quantomeno verificabile, da contrapporre al comune sentito dire, che oscilla tra mito e realtà. Per ottenere maggiore flessibilità nelle regole di bilancio nazionale è necessario proporre modifiche ai trattati europei, che consentano di superare i vincoli comunitari imposti agli Stati membri. Le possibili modifiche sono regolate dall’articolo 48 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, nel quale sono disciplinate due procedure di revisione: quella ordinaria e quella semplificata. La revisione ordinaria parte dalle proposte (progetti) esercitabili da governi nazionali, Parlamento Europeo o Commissione Europea, da sottoporre al Consiglio dell’Unione che potrà decidere di esaminare o meno quanto ricevuto attraverso una convenzione (da convocare), composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, da capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal Parlamento e dalla Commissione europei (anche Bce, in caso di modifiche istituzionali nel settore monetario).I progetti presentati vengono trasmessi dal Consiglio dell’Unione al Consiglio Europeo e notificati ai parlamenti nazionali. Il tutto allo scopo di convocare una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, per stabilire le modifiche di comune accordo da apportare ai trattati. «Le modifiche entrano in vigore dopo essere state ratificate da tutti gli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali» e, se, nei due anni successivi dalla firma di un trattato che modifica i trattati, uno o più Stati membri non hanno ratificato, tutto è deferito al Consiglio Europeo. Nella procedura di revisione semplificata, invece, è il Consiglio Europeo che delibera all’unanimità, ma la decisione entra in vigore solo previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali. Inoltre, la procedura semplificata non può essere estesa a modificare le competenze assegnate all’Unione. Ipotizziamo che il nostro governo chieda di riformare i trattati con una procedura di revisione ordinaria, per realizzare politiche economiche espansive. Sottopone il progetto al Consiglio dell’Unione, anche se non ha alcun alleato tra gli altri Stati membri. Il Consiglio dell’Unione lo trasmette al Consiglio Europeo e lo notifica ai parlamenti nazionali.A seguito di parere favorevole, il presidente del Consiglio Europeo convoca la convenzione. Viene esaminato il progetto e adottata per consenso la raccomandazione alla conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri (Cig). Se tutti gli Stati membri ratificano (conformemente alle loro rispettive norme costituzionali), le modifiche entreranno in vigore. Per trasformare quindi le parole in concretezza, quando con facilità si parla di ricevere flessibilità sull’applicazione dei trattati in tema di vincoli di bilancio e politiche economiche e sociali, che consentano di rivedere limiti contabili e di non applicare l’austerity, occorre: 1) essere preparati e competenti, per essere presi in considerazione; 2) proporre modifiche concrete e circostanziate, che possano ricevere parere favorevole; 3) avere l’unanimità da parte degli altri Stati membri. Diversamente è soltanto un’illusione.(Maria Luisa Visione, “Ma i trattati europei sono modificabili?”, da “Siena Oggi” del 13 marzo 2018).Rispondo con questo articolo alla domanda di molti lettori che cercano una spiegazione concreta, o quantomeno verificabile, da contrapporre al comune sentito dire, che oscilla tra mito e realtà. Per ottenere maggiore flessibilità nelle regole di bilancio nazionale è necessario proporre modifiche ai trattati europei, che consentano di superare i vincoli comunitari imposti agli Stati membri. Le possibili modifiche sono regolate dall’articolo 48 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, nel quale sono disciplinate due procedure di revisione: quella ordinaria e quella semplificata. La revisione ordinaria parte dalle proposte (progetti) esercitabili da governi nazionali, Parlamento Europeo o Commissione Europea, da sottoporre al Consiglio dell’Unione che potrà decidere di esaminare o meno quanto ricevuto attraverso una convenzione (da convocare), composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, da capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal Parlamento e dalla Commissione europei (anche Bce, in caso di modifiche istituzionali nel settore monetario).
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Il Grande Fratello sa tutto di noi, soprattutto grazie a noi
Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.Gli utenti di Facebook, poi, sanno benissimo (o dovrebbero sapere) che non sono proprietari dei contenuti delle loro “pagine”: dal punto di vista legale, in base al diritto editoriale, tutto ciò che viene pubblicato – parole e pensieri, immagini e video – non appartiene in nessun caso a loro, ma solo a Facebook. In quanto editore unico e senza vincoli, il social network è liberissimo di rimovere i contenuti quando vuole, senza neppure l’obbligo di lasciarne una copia, privata, a disposizione dell’utente. Quasi un terzo dell’umanità ormai utilizza Facebook, affidando alla piattaforma social la rappresentazione pubblica – più o meno realistica – della propria identità personale. Facebook offre una vasta gamma di servizi – a costo zero per l’utente, ma remunerati in altro modo: è ovvio che faccia gola, al marketing, la più grande banca dati del pianeta. Perché stupirsene? Se si fa una qualsiasi richiesta a Google, il motore di ricerca la registra, classificando subito l’utente e proponendogli – sotto forma di proposta pubblicitaria – merce analoga a quella già cercata. Anche Google “sa” chi siamo e cosa ci piace. Anche Google svolge un servizio gratuito per l’utente. Un servizio prezioso, ormai imprescindibile, e remunerato altrimenti, cioè mettendo il profilo psicologico del potenziale cliente a disposizione del mercato.Con l’avvento degli smartphone, oggi il sistema sa anche – sempre – dove siamo. Attraverso i social, le chat, le email, il sistema sa cosa pensiamo, dove andiamo, chi incontriamo. Anni fa, fece scalpore la rivelazione – esternata dal solo Marcello Foa – del capo dei servizi segreti svizzeri: spiegò che ogni parola in uscita dai nostri computer finisce in due immensi archivi, dislocati a Londra e a Washington. Il Grande Fratello è in ascolto, certo: ma qualcuno può davvero stupirsene? Smentendo il vittimismo complottistico, un osservatore atipico come Paolo Franceschetti (avvocato, autore si studi scomodi sui misteri italiani) offre la seguente riflessione: perché ci illudiamo che in passato la situazione del “popolo” fosse migliore? Fino a ieri non ci voleva molto per rischiare il carcere, bastava mancare di rispetto al sovrano (e l’altro ieri peggio ancora, si finiva sul rogo per il solo fatto di aver manifestato idee difformi dal dogma vigente). Oggi, al contrario, si assiste a una diffusione di opinioni quale mai s’era vista, in migliaia di anni. Circolazione istantanea di idee, libera e planetaria. Osservata e spiata? Vietato meravigliarsene.Quanto a Facebook, parla da sola la sua data di nascita. Serviva un sistema per raccogliere dati e schedare milioni di persone, in modo da trarre d’impaccio l’intelligence Usa, in enorme imbarazzo dopo la storica débacle dell’11 Settembre. Zuckerberg ha offerto la soluzione più brillante, a costo zero per lo Stato: sarebbero stati direttamente i cittadini a raccontare tutto di sé – chi sono, dove vivono, in cosa credono, che amici hanno. Facebook ha raccolto milioni di confidenze, che oggi sono diventate miliardi. Ma non le ha carpite: gli sono state offerte spontaneamente. Il sistema ha solo creato uno spazio (pubblico) per esprimerle e condividerle. Uno spazio che prima non esisteva, e di cui gli Zuckerberg del pianeta avevano intuito il bisogno, la necessità percepita. Parlare, raccontarsi: prima dell’avvento dell’email (non secoli fa: si parla della vigilia del Duemila) le persone avevano smesso di scriversi lettere. Hanno ricominciato a scrivere proprio grazie alla posta elettronica. Milioni di persone hanno ristabilito contatti epistolari frequenti, recuperando anche il gusto della scrittura. Facebook e gli altri social media completano l’offerta, realizzando un diario digitale personale ma condivisibile, arricchito da segnalazioni e link, veicolando in questo modo l’altra grande fonte recente di idee e informazioni: i blog.Nella sua ricostruzione della storia del Cristianesimo, formulata da un punto di vista ruvidamente anticlericale, un’autrice come Laura Fezia sostiene che il “format” cristiano sia stato inoculato come un virus nell’imperialismo romano, per corroderlo dall’interno fino a farlo crollare. Tradotto: se non riesci a battere il nemico in campo aperto, ti conviene infiltrarlo. E’ nemico, oggi, il web? E’ sicuramente padrone: compra, vende, orienta, controlla, manipola. Non è un amico disinteressato: se l’ha fatto credere, bluffava. Ma spesso (quasi sempre) è un alleato di cui non si può fare a meno. E’ un orizzonte sistemico, nel quale vivere, e in cui – come in ogni altra cosa – convivono due modi di intendere e volere. Il bene e il male? Dipende sempre dal punto di vista: il male della gazzella coincide con il bene dei cuccioli della leonessa. Sarà anche una savana, il web, ma non è senza padroni: è anzi un giardino zoologico severamente protetto e custodito dai grandi proprietari dell’infrastruttura strategica, da cui ormai dipende il pianeta, che è diventato infinitamente e istantaneamente manipolabile. Sono infatti tramontate le fiabe ingenue sull’innocenza della Rete, utilizzate anche in Italia a fini politici. Ma la Rete resta, e – con i suoi limiti – è ancora disposizione: per ospitare idee, magari, oltre che immagini delle vacanze e piatti “stellati”, fotografati al ristorante.Facebook avrebbe “passato” a Cambridge Analytica 51 milioni di profili. Destinazione, la campagna pro-Brexit e quella pro-Trump, consentendo ai persuasori di mirare con precisione, fino a centrare in modo selettivo il target desiderato: appelli politici per convincere utenti già “schedati” dal social network, presentati (a loro insaputa) come “clienti” teoricamente disponibili, in base alle loro preferenze: idee espresse nei commenti, tipologia dei consumi dichiarati. Da qui la mappatura virtuale del “cliente”: se so cosa ti piace oggi, il mio sistema deduce al volo ciò che ti piacerà domani. Si grida allo scandalo: Steve Bannon, l’ex guru di Trump, è uno stregone della manipolazione. «Non lo faremo più», promette Zuckerberg. Scandalo? Bannon fa il suo mestiere: portare voti ai politici per cui lavora. Anche Zuckerberg fa il suo mestiere: vendere al marketing i profili degli utenti, che sono ormai 2 miliardi di persone, in tutto il mondo. Rivelazioni: il potente algoritmo messo in campo da Cambridge Analytica permette di “scannerizzare” all’istante, incrociando dati, anche le intenzioni degli ignari utenti, scoprendo in anticipo chi voterà per chi. Ma né Bannon né Zuckerberg hanno mai estorto alcunché: la fornitura dei dati-chiave è volontaria, da parte degli utenti.
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Reddito e Flat Tax: Di Maio e Salvini devono imporsi all’Ue
«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per modificare i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.Sul blog del Movimento Roosevelt, Bellisario avverte i grillini: «Avete proposto per circa 12 anni un reddito di cittadinanza, un reddito per tutti: non potete tirarvi indietro, o farlo a metà, perché la “gente normale” vi ha votato solo per quello». Dovrebbe essere il primo pensiero, per un movimento che si è dipinto “alternativo” e oggi rischia di farsi ingabbiare nei “giochetti” per la presidenza delle Camere. Il rischio? Deludere gli elettori, e quindi fare la fine della Bonino, sostenuta da George Soros, o del Pd sorretto da Carlo De Benedetti. E’ lo stesso Salvini a proporre uno spiraglio: basterebbe una settimana per votare un emendamento al Rosatellum, che introduca un premio di maggioranza per chi arriva primo. Obiettivo: tornare al voto di corsa, per offrire al paese un risultato più chiaro (e un governo coerente con il voto). Oppure, Piano-B: un accordo fondato su appena 4 punti, due indicati da Di Maio e due dalla Lega, per rendere attuabili le proposte lanciate durante la campagna elettorale. Come? Nel solo modo possibile: mettendo mano alla complessa procedura che consente la revisione dei trattati europei a partire da quello di Maastricht, che obbliga lo Stato a contenere la spesa pubblica entro il 3% del Pil. L’Ue boccerebbe il ricorso? «E allora bisogna essere pronti a togliere il disturbo: ciao, Bruxelles».Negli ultimi 26 anni, dopo Tangentopoli, l’Unione Europea ha avuto il coltello dalla parte del manico: ha imposto e ottenuto tutto quello che voleva. Come affermare le proprie ragioni in sede comunitaria? «Semplicemente – scrive Bellisario – trattiamo quelli dell’Ue come loro hanno trattato noi negli ultimi 26 anni. Ma se “se la tirano troppo”, nel giro di poche ore possiamo salutarli a colpi di decreti, avendo una maggioranza assoluta decisa a impugnare il famoso coltello dalla parte del manico». Altre soluzioni, semplicemente, non esistono: a lungo andare, la Lega appassirebbe all’ombra del Muro di Bruxelles, non potendo attuare le proprie proposte di salvataggio dell’economia basate sul taglio verticale delle tasse. Peggio ancora il Movimento 5 Stelle, che ha quasi il 33% dei voti ed è esposto da più tempo alle aspettative degli elettori, accese dal reddito di cittadinanza: guai, se non lo si potesse applicare integralmente, e in tempi rapidissimi. L’esasperazione sociale è al limite. Lo stesso Grillo, nel suo blog, scrive: «Si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita. Soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato». Non ci provi, il Movimento 5 Stelle, a tirarsi indietro proprio adesso. Finirebbe in barzelletta: “Mamma, ho perso il reddito!”.«La mancanza di copertura che la Lega ha presentato sulla Flat Tax – avvertono ambienti di Bankitalia – non è dissimile dalla mancanza di coperture del reddito di cittadinanza dei 5 Stelle». Vista l’aria che tira, i vincitori delle elezioni riusciranno a dribblare i sommi sacerdoti dell’austerity, già all’opera da Bruxelles a Roma? Ce la faranno, Lega e 5 Stelle, a mettersi d’accordo «agendo, una volta tanto, nell’interesse dell’Italia e non dell’Unione Europea?». L’appello è rivolto a tutti – grillini e leghisti in primis – ma anche ai perdenti: cioè «la “famiglia” Soros-De Benedetti-Bonino», alias «Pd and friends», cioè «la “cosa grassa” di D’Alema», nonché «la “famiglia” Berlusconi-Lupi-Fitto», anch’essa ormai giunta all’irrilevanza. Da Vincenzo Bellisario una proposta secca, anzi due: accordo tra Salvini e Di Maio su un unico punto (cambiare la legge elettorale, mettendo il vincitore in condizioni di governare) o accordarsi per aggirare dichiaratamente i trattati europei. Obiettivo: rendere finanziabili misure come il reddito di cittadinanza e la Flat Tax. «Basta una settimana, per trovare una soluzione». Unico scenario da evitare: la palude, nella quale si sta lentamente inabissando il risultato delle urne, con gravi rischi innanzitutto per le due formazioni uscite vincitrici dal test elettorale. Il 55% degli elettori ha votato Di Maio, Salvini e Meloni per dire “no” al rigore. Esiste un modo per tradurre in pratica il mandato ricevuto, ma bisogna agire subito.