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La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
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Cari epuratori 5 Stelle, i prossimi epurati sarete voi
A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di “La Democrazia in America” di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare. Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: «La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto».Oggi invece dobbiamo constatare che la libertà di parola nel Movimento 5 Stelle è minacciata e offesa da una brutta voglia di unanimismo. Dalla decisione di far votare gli aderenti 5 Stelle non sulla violazione di una norma del non-statuto o del codice di comportamento parlamentare, ma su una critica al Capo, o se preferite al Megafono. Discutere se i senatori avessero ragione o torto nel prendere posizione contro le modalità con cui Grillo ha deciso di strapazzare Matteo Renzi in diretta streaming – sbattendogli peraltro in faccia molte verità difficili da contestare – non ha infatti senso. Il dato importante è uno solo: non esisteva alcuna regola che impedisse ai senatori di farlo.Certo, per qualsiasi movimento è fondamentale e giusto apparire unito, evitare, come scrive Alessandro Di Battista, che escano «sistematicamente» e per mesi dichiarazioni pronte «a coprire i messaggi del gruppo» o in contrasto con la linea stabilita. Ma anche se le cose sono andate così – tanto che i quattro senatori avrebbero dimostrato maggior dignità andandosene da soli da un movimento del quale non condividevano più gli obbiettivi – la questione non cambia di una virgola. Punire qualcuno per dei comportamenti per i quali non sono state previste esplicitamente sanzioni non è solo liberticida. Rappresenta un rischio per tutti: anche per coloro i quali oggi votano a favore dell’espulsione dei dissidenti. Domani, e per un motivo qualsiasi, una nuova maggioranza potrebbe infatti votare la loro.Consolarsi col fatto che le espulsioni (vedi il caso degli amministratori locali del Pd in val Susa fatti fuori perché anti-Tav) sono spesso la regola in altri partiti, non serve. Il M5S dice infatti (e quasi sempre lo è) di essere diverso dagli altri movimenti politici. Per questo molti elettori, almeno a giudicare dai commenti e dalle mail che arrivano a questo giornale online, avrebbero trovato più intelligente e democratico che il Movimento, già in occasione del brutto e analogo caso di Adele Gambaro, avesse riformato il regolamento e il non-statuto stabilendo con chiarezza cristallina diritti e doveri degli eletti. Non averlo fatto lascia spazio all’arbitrio, alla legge più forte e alle espulsioni di massa. Oltretutto votate online in blocco senza che agli iscritti fosse permesso esprimere valutazioni diverse su ogni singola posizione. Pensare, come fa il Movimento 5 stelle, di rivoluzionare (con il voto) il paese è perfettamente legittimo. Credere che sia possibile farlo rinunciando a dimostrare che, sempre e in ogni caso, si è meglio di ciò che si vuole combattere e abbattere non è solo sbagliato. È stupido.(Peter Gomez, “Espulsioni M5s, stupidità e dittatura della maggioranza”, da “Il Fatto Quotidiano” del 27 febbraio 2013).A Beppe Grillo e a tutti i parlamentari e iscritti del Movimento 5 Stelle che hanno votato l’espulsione dei quattro senatori considerati dissidenti va consigliata la lettura di “La Democrazia in America” di Alexis de Toqueville. Le pagine che il filoso francese dedica al problema della dittatura della maggioranza sono esemplari. E anche se si riferiscono al governo degli Stati, indicano bene la strada che una parte del movimento rischia di imboccare. Fino a qualche tempo fa la libertà di parola e il diritto di critica erano temi centrali per l’intero M5s. Molti cittadini avevano anzi deciso di sostenere l’ex comico alle elezioni dopo aver visto il suo blog e i Meetup battersi anche per questo. Nel novembre del 2010, per esempio, in uno dei tanti post di Grillo si poteva leggere: «La nostra lingua, la libertà di parola, è minacciata, castrata da un neo puritanesimo, da un ‘politically correct’ asfissiante che annulla la verità e uccide qualunque confronto».
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Muos, il silenzio è d’oro: ecco perché i giornali tacciono
Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.L’ultimo libro di Mazzeo, “Il MUOStro di Niscemi. Per le guerre globali del XXI secolo”, offre un’analisi meticolosa e dettagliata su questo sistema di controllo e comunicazioni satellitare della Marina degli Stati Uniti. Il Muos, dice Mazzeo a Stefano Nanni e Anna Toro di “Osservatorio Iraq” in un’intervista ripresa da “Micromega”, sarà «uno strumento di guerra che a livello mondiale contribuirà a modificare radicalmente la gestione dei conflitti». Le tre antenne montate a Niscemi fanno parte dell’insieme di parabole di uno dei quattro terminali terrestri previsti a livello planetario. Il Mobile User Objective System installato in Sicilia sarà collegato con quelli dislocati alle Hawaii, in Virginia e in Australia, attraverso 5 satelliti orbitanti a 15.000 chilometri dalla Terra. L’architettura del sistema sarà pronta nel 2016, quando saranno mandati in orbita gli ultimi 3 satelliti. Compito del Muos: accelerare, anche di 10 volte, la velocità di invio di informazioni e comandi a tutti i dispositivi militari Usa nel mondo. Compresi i droni, che il ormai Pentagono impiega “a sciami” nella sua strategia di attacco: e Niscemi, a due passi da Sigonella, consentirà di “corpire” Africa, Mediterraneo e Medio Oriente.Non secondario, dice Mazzeo, il ruolo del Muos per il controllo militare dei flussi di migranti, in linea con la missione dell’agenzia europea Frontex. La stessa operazione Mare Nostrum, lanciata dal governo Letta e presentata come un’operazione umanitaria per evitare che si ripetano stragi come quella di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in realtà «sta diventando un laboratorio sperimentale per l’uso dei droni: non solo in una funzione di vigilanza e monitoraggio ma anche di vera e propria guerra ai migranti». Risale a fine novembre un accordo tra Italia e Libia per consentire ai droni Predator (di stanza ad Amendola in Puglia ma presto trasferiti a Sigonella e Trapani) di sorvegliare lo spazio aereo libico fino ai confini col Ciad e col Sudan. «Non solo per vigilare e informare le unità navali, ma di fatto anche per individuare eventuali flussi di migranti che provengono dall’Africa Sub-Sahariana, così da avvertire direttamente le autorità libiche: in questo modo, grazie all’operazione Mare Nostrum, si rende possibile dispiegare le operazioni di contenimento e di respingimento ben prima del Mediterraneo».La Sicilia ha protestato con tutte le sue forze per l’impatto ambientale dell’installazione militare: le antenne del Muos sorgono all’interno della “Sughereta”, una delle riserve di sughero più antiche d’Europa, e lo sbancamento è avvenuto in violazione di tutte le leggi. Senza contare l’impatto sulla salute delle onde elettromagnetiche sprigionate dalle 3 maxi-antenne e dalle 46 antenne secondarie. Il governo ha demandato all’Istituto Superiore di Sanità l’ultima parola sul pericolo dell’elettromagnetismo, mentre per la decisione strategica su un impianto-mostro come il Muos il Parlamento è stato completamente scavalcato. Quasi zero anche le ricadute occupazionali: se su Vicenza piovvero 260 milioni di investimento per l’allargamento della base Dal Molin, a Niscemi ci si è limitati a meno di 15 milioni di dollari, cioè «neanche le briciole di questo enorme progetto», che è (chiavi in mano) di Lockheed Martin, «il primo complesso militare industriale a livello mondiale». Un progetto blindato dal silenzio, se non fosse per la tenace opposizione popolare del movimento No-Muos. Secondo Mazzeo, c’è stata «una enorme sottovalutazione della problematicità», come se si trattasse solo di inquinamento elettromagnetico, come ha finto di credere il presidente siciliano Rosario Crocetta.Disinformazione interessata, accusa Mazzeo: «Bisogna guardare proprio agli intrecci del complesso militare industriale e finanziario italiano con quello statunitense, da cui ovviamente dipendono buona parte dei grandi organi della stampa cartacea o radiotelevisiva: qui c’è stata una scelta – in malafede – di cercare di non parlarne, perché questo avrebbe potuto mettere profondamente in discussione i grandi interessi, quelli che portano l’Italia a dover accettare strumenti di morte, Muos, droni, il raddoppio della base a Vicenza, gli F-35 e così via». Tutte operazioni «in cui l’Italia non ci guadagna niente ma di cui al contrario si assume gli oneri, il carico sociale, economico, finanziario e, nel caso del Muos, anche ambientale». L’Italia accetta quello che altri alleati Usa rifiutano: «C’è una logica di scambio tra il capitale finanziario italiano e quello statunitense: io ti consento di trasformare la Sicilia in una roccaforte delle operazioni più sporche a livello internazionale (come le armi chimiche siriane approdate a Gioia Tauro) e tu in cambio mi consenti di diventare un partner credibile per il Pentagono».L’apparato militare Usa, infatti, è «la grande mucca da mungere a livello mondiale, in una guerra globale permanente dove proprio il Pentagono sarà certamente il principale finanziatore dei conflitti e quindi dell’acquisto di armi a livello planetario». Non è un caso che nell’ultima decade Finmeccanica si sia affermata come l’ottavo complesso a livello mondiale per giro di fatturato sulle armi. Ed ecco perché la grande stampa – collegata al capitale finanziario – evita di dire la verità sul Muos e sugli stessi droni, che invece negli Stati Uniti sono ormai un problema politico: il Congresso è spaccato e le stesse Nazioni Unite hanno dato vita a un comitato d’inchiesta sul loro uso a livello internazionale. La Sicilia è diventata «la capitale mondiale dei droni», con un’enorme concentrazione alla base di Sigonella, ma per in Italia non se ne parla. Un copione già visto, per esempio in Sardegna. «Il Muos è la punta dell’iceberg», conclude Mazzeo. Che confida però nella capacità di mobilitazione civile della protesta: le cose potrebbero cambiare, dice, se riuscissimo a spiegare agli insegnanti che si taglia l’università per finanziare la ricerca missilistica. «La crisi è strutturale perché c’è una guerra che va avanti eternamente e che noi paghiamo giorno per giorno».Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.
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Freccero: perché i giornalisti non tollerano chi protesta
La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico?Preso atto che naturalmente l’agenda dei media influenza l’opinione pubblica, la domanda da porsi è: in base a quali principi si costruisce questa agenda, quali sono gli elementi che hanno indotto la stampa a cambiare radicalmente la sua funzione da giornalismo d’inchiesta e critica sociale a difesa del consenso? Queste sono le domande da porsi. Bene. La cosa più interessante è che pensiamo alla parola “dissenso”. E qui iniziamo un ragionamento. Negli anni delle lotte per i diritti civili, la parola dissenso era sinonimo di democrazia. Oggi invece è piuttosto sinonimo di: devianza, delinquenza, terrorismo. Il movimento No Tav esprime il dissenso delle popolazioni coinvolte rispetto al progetto approvato a livello centrale: pertanto è un caso di “insubordinazione”, è fuori dalla maggioranza. Ritengo che il caso No Tav non sia un caso singolo, ma un format, che si replica in tutti i casi di minoranze che si oppongono all’ordine del discorso quantitativo della nostra epoca.Noi viviamo attualmente le contraddizioni di vivere con una Costituzione formalmente basata sul principio illuministico di difesa delle minoranze ma cerchiamo di applicarla in modo contrario (è questo il tema della discussione politica di oggi) affinché la maggioranza possa esercitare quella che è di fatto una dittatura. Per vedere come questo format si può estendere prendiamo il caso del Parlamento. La dialettica parlamentare nasce per permettere anche alle minoranze di esporre le proprie idee e partecipare alla costruzione della legge. Piglio l’esempio della Boldrini: intervistata da Fabio Fazio sul decreto Imu-Bankitalia (scandaloso) la Boldrini ha giustificato la “ghigliottina” dicendo che era suo dovere, in veste di presidente della Camera, troncare il dibattito parlamentare per permettere alla maggioranza (sottolineo “permettere alla maggioranza”) di governo di legiferare. Interessante.Dunque il Parlamento va esautorato, le leggi sono un prodotto dell’esecutivo in quanto appoggiato dalla maggioranza, e le minoranze sono di per sé qualcosa di illegale, che dev’essere in qualche modo ricondotto al volere dei più. Ecco questo format che si ripete anche nella situazione della Boldrini. Io, guardate, è dagli anni ’80 che mi occupo di maggioranza e sono stato forse il primo a segnalare in qualche modo, partendo dall’analisi dell’audience televisiva, come l’uso continuo del sondaggio avesse a poco a poco sostituito a livello sociale la ricerca del sapere foucoltiano o della verità in generale. E se tutte le scelte – anche politiche e morali – avvengono su base quantitativa, non è più possibile esprimere dissenso, è chiaro. Abolito il concetto di verità da parte del pensiero debole (altra cosa molto importante) non esiste più alcun elemento valido per opporsi ai valori della maggioranza.Ecco che a tutto ciò si è poi aggiunto in qualche modo, dopo l’11 Settembre, un clima – come posso dire – di guerra permanente, che giustifica in qualche modo un permanente stato di eccezione. Ecco, questa qua è l’altra cosa fondamentale, e sottolineo “stato di eccezione” che a sua volta giustifica il superamento di qualsiasi garanzia democratica. Ricordo un programma di Santoro, “Servizio Pubblico”, che mesi fa ha intervistato due No-Tav come “terroriste” in quanto così presentate dalla stampa e dalla forza pubblica. Erano due ragazze giovanissime, simpatiche, belle, tranquille. Ma questo cosa vuol dire: che oggi che il semplice dissenso è sinonimo di terrorismo. Questa è una cosa che sta passando tranquillamente: chi si difende perché aggredito, anche se vede in parte riconosciute le sue ragioni, viene comunque presentato come dalla parte del torto perché (orrore!) ha operato in modo violento opponendosi all’ordine della maggioranza. La violenza è tollerata solo nel senso della forza pubblica.Altro elemento fondamentale: dopo l’11 Settembre, in America, sono state sdoganate la tortura, Guantanamo e tutte le forme di guerra. Apro questo inciso perché un altro elemento che ha lavorato nel nostro inconscio, quella violenza che genera orrore e in qualche modo raccapriccio se messa in opera da parte dissenziente, viene vissuta come buona e giusta qualora sia un’emanazione del potere costituito. In “24”, la serie americana, Jack Bauer combatte il terrorismo con la violenza e la tortura, e scene di punizione corporale. Bene, in Italia la polizia (già col G8 si era entrati in uno stato di eccezione che ricordo molto bene, e prima ancora che a Genova anche a Napoli) può picchiare, usare lacrimogeni pur di contenere comunque ogni e qualsiasi forma di dissenso, anche il più pacifico ed innocuo. E’ il dissenso in sé ad essere considerato criminale perché rallenta il raggiungimento degli obiettivi della maggioranza. E il pensiero critico, che è stato il mito della mia giovinezza, della nostra generazione, appare ormai come elemento di disturbo. In vent’anni di berlusconismo, la scuola è diventata una fabbrica per replicare il pensiero unico. Solo un valore ottiene riconoscimento: l’obbedienza al conformismo vigente. E questo vale in particolare per il giornalismo.(Carlo Freccero, “No Tav e media”, estratti dell’intervento pronunciato il 18 febbraio 2014 al Circolo dei Lettori di Torino, ripreso dal sito No-Tav “Controsservatorio Valsusa”).La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico? -
Primo Levi: increduli e indifferenti verso lo sterminio
La promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì “Il manifesto della razza”, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla “razza italiana”. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa – delusione sì, con grande paura sin dall’inizio, mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè, negare il pericolo. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.Di quello che stava accadendo in Germania sapevamo abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone, quando sono in pericolo, invece di provvedere ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche. Lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.Fino alla caduta del fascismo avevo vissuto abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo. La situazione peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento. Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato. Mi hanno catturato perché ero partigiano; che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto; nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: «Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli; se sei partigiano ti mettiamo al muro». Decisi di dire che ero ebreo. Sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio, accampamento, luogo in cui si riposa, magazzino. Ma nella terminologia attuale, lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione. Il viaggio verso Auschwitz lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.La vita ad Auschwitz l’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto, in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo; serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito. Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro “La tregua”. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quello dei lager tedeschi. Ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo; quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.Che cosa mi ha aiutato a resistere nel campo di concentramento? Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute. E proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte. Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodicimila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica; per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517; questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere.Sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede. E’ una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa – cattolica, ebraica o protestante – o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: «Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana». Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo. Cadevano più facilmente i più robusti. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie; e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.Che cosa mancava di più? In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa. La nostalgia pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo. E quando, nei rari momenti in cui capitava che le sofferenze primarie (accadeva molto di rado) erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in second’ordine.Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera a gas. Sapeva che, per usanza, a chi stava per morire davano una seconda razione di zuppa; siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: «Ma signor capo baracca, io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra». Pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione. E’ stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi; le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano. E noi eravamo animali, intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.Quando ho saputo dell’esistenza dei forni? Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo. Ma non le ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità: le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo; abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo. Quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti. Il lager mi ha maturato – non durante ma dopo – pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.(Primo Levi, dichiarazioni rilasciate ad Enzo Biagi per l’intervista trasmessa l’8 giugno 1982 da RaiUno nel programma “Questo secolo”, riproposta da “Il Fatto Quotidiano” il 26 gennaio 2014).La promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì “Il manifesto della razza”, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla “razza italiana”. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa – delusione sì, con grande paura sin dall’inizio, mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè, negare il pericolo. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.
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Murgia: Sardegna libera, togliamo le basi alla guerra
Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.Si tratta di decine di migliaia di chilometri di costa, che si traducono in decine di migliaia di ettari di terreno. «Sono le superfici sottratte alla Sardegna per le attività militari, in una misura di gran lunga superiore al resto dei territori della Repubblica Italiana e senza paragoni in Europa», accusa Cabras, esponente di “Alternativa” e ora candidato nella lista “Comunidades”, per la coalizione “Sardegna Possibile” guidata dalla Murgia. «I poligoni militari dell’isola, oltre ai 14.000 ettari di servitù, occupano 24.000 ettari di demanio». Un record poco inviabile: «In tutte le altre regioni messe insieme si raggranellano appena 16.000 ettari». La Sardegna ospita il 60% dei poligoni gestiti dalle forze armate italiane. «La percentuale degli ordigni esplosi nelle esercitazioni sale all’80%, senza contare le esercitazioni di forze armate straniere».Per Cabras, «sono numeri da paese occupato». E gli effetti negativi non riguarano solo i poligoni: «Le polveri inquinanti viaggiano. Lo sa il vento. E in un paese occupato la regola è semplice: qui possono sperimentare in segreto ogni tipo di arma letale, affittando a caro prezzo le strutture». La verità: «Qui rimangono i veleni, ma i profitti volano via, altrove». I cosiddetti indennizzi? «Sono spiccioli, che d’ora in poi dovremo considerare un insulto». “Invasione” militare e vita civile: convivenza impossibile. Fino al 2010, Cabras ha fatto parte del comitato paritetico sulle servitù militari, un tavolo istituzionale Stato-Regione per tentare di armonizzare l’invadenza delle basi col riassetto del territorio. «Mi son reso conto che in Sardegna erano esigenze inconciliabili: troppe le pretese dei militari, e troppo il loro potere, mentre erano senza schiena i partiti sardi». Enorme l’impatto economico e ambientale: aree a perdita d’occhio e tutte “off limits”, sparuti controlli sui rischi ecologici, superfici sottratte ad attività economiche, popolazioni non coinvolte, patti segreti e accordi pubblici mai rispettati.Massimo punto dolente, il disastro ambientale attorno al famigerato poligono di Quirra, sospettato di diffondere polveri radioattive e tumori. Emerge dalle inchieste in corso: «Non c’è solo un problema di giustizia, ma una vera e propria emergenza». Quando la Germania fu riunificata, ricorda Cabras, ottenne un programma comunitario per la riconversione economica e sociale delle aree dipendenti dalle produzioni e dalle presenze militari. «Si trattava di vasti sistemi costruiti decennio dopo decennio, e furono riconvertiti in un tempo ragionevolmente breve, con consistenti risorse non solo nazionali. Perché internazionali erano state le cause di quel prolungato impatto militare». In un altro emisfero, a Portorico, la dismissione di un grande poligono ha comportato la creazione di un Fondo da centinaia di milioni di dollari. «Qualcosa di simile, e certamente molto più in grande, serve anche per la Sardegna, da subito».La chiusura della base per sommergibili nucleari Usa alla Maddalena «rappresenta il modo in cui non dovrebbe realizzarsi una vera riconversione». Caduta l’Urss, «sembrava più facile chiudere qualche base e allontanarci dall’Apocalisse nucleare». Viceversa, «la pressione militare non si allenta». Perché accade tutto questo? «È una catena lunga di fatti e luoghi che va dal Mediterraneo all’Asia centrale, fra guerre, disordini, nuovi posizionamenti geopolitici. Le basi Usa nel Vicino e Medio oriente sono cresciute anno per anno, la pressione sulla Russia è aumentata sempre di più, sin dentro il cuore dell’Asia, fino a un passo dal gigante risvegliato, la Cina, a sua volta avvisata che la pressione crescerà anche per essa». Per contro, Russia e Cina «danno segno di rispondere con un impressionante aumento delle spese militari e il rafforzamento della loro integrazione militare nella Shanghai Cooperation Organization». Il fatto però è che «il dio della guerra si vede scavare molta terra sotto i piedi dal dio del debito: gestire un impero costa, e le enormi spese militari stridono con i tagli in altri settori». La guerra costa troppo, e quindi «è il momento storico giusto per cambiare il posto della Sardegna nel mondo, a partire dalla funzione militare».I candidati di Michela Murgia si sono confrontati con gli attivisti che da anni si battono contro le basi e le servitù militari in Sardegna, nonché con i familiari delle vittime della “Sindrome di Quirra”. Risultato, un documento dal titolo esplicito: “La Sardegna toglie le basi alla guerra”. Il piano è pronto. Se Michela Murgia diventa presidente della Regione, la Sardegna – leggi alla mano – chiede la sospensione immediata delle attività militari nelle quali si sono registrate patologie. Poi convoca finalmente una commissione indipendente internazionale per quantificare i danni economici, sociali, ambientali, sanitari e culturali. Modalità da paese civile: la Regione si impegna a tutelare la cittadinanza anche con campagne informative sui rischi, e intanto apre una vertenza con le istituzioni italiane e internazionali per bonifiche, dismissioni e riconversioni. Infine, la Regione dovrà gestire i fondi per la bonifica dovuti dall’inquinatore attraverso la creazione di una filiera integrata per nuove opportunità economiche.In particolare, sottolinea Cabras, è fondamentale la realizzazione di un “audit” sui danni «accumulati in sessant’anni», così da individuare anche un quadro di reati da perseguire. «Pochi sanno che perfino gli stessi regolamenti Nato prescrivono che si bonifichino le aree interessate dopo ogni esercitazione. In Sardegna non sono mai stati applicati, generando un cumulo abnorme di bonifiche mai fatte». Si tratta di un fatto colossale, di portata internazionale. «Già da solo basterebbe a svelare l’insensibilità e la complicità criminale di intere classi dirigenti italiane, molto attente a piazzare nelle classi dirigenti sarde un solido sistema collaborazionista, a sua volta attento a spegnere, annacquare, diluire le proteste». Anche l’ultimo punto del programma merita molta attenzione: i progetti di recupero, riconversione e valorizzazione di siti militari dismessi. Sarebbero assegnati a vantaggio di imprese con piani coerenti e per finalità turistico-ricreative. Poi infrastrutture utili, riassetto del paesaggio, riqualificazione del tessuto urbano e ambientale.L’obiettivo è strategico: diversificare le attività economiche nelle zone dipendenti dal settore difesa, riconvertire l’economia e agevolare le imprese sane. «Sono impegni che può perseguire soltanto una Sardegna governata senza gli ingombri dei politici appiattiti sulle esigenze degli occupanti militari», insiste Cabras. Vero, qualche attivista “anti-basi” è finito nelle liste di Ugo Cappellacci e Francesco Pigliaru, ma resterà deluso: «Avrà una sorta di diritto di tribuna che consentirà grandi declamazioni in materia, ma in mezzo a un deserto», perché in realtà «non sposterà di un centimetro le coalizioni di Berlusconi e Renzi, che rimangono irremovibili macchine atlantiste, obbedienti agli ordini della Nato, e del tutto indifferenti ai nostri diritti». L’unica novità potrà venire dalla forza che acquisirà lo schieramento che si raccoglie intorno alla candidatura alternativa, quella di Michela Murgia, apprezzata autrice di besteller italiani come “Accabadora” e “Il mondo deve sapere”, da cui Virzì ha tratto il film “Tutta la vita davanti”. «La Murgia – scrive Angelo Guglielmi – è riuscita a sciogliere in poesia i materiali della tradizione senza imbolsirli». Ora siamo all’ennesima prova della verità: e a parlare saranno i sardi. «Sono nata in Sardegna – dice lei – e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine». Indipendente, libera dalla “servitù militare” che la opprime.Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.
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Zanotelli: giornalisti, ascoltate il dolore dei poveri
Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari.Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.Come missionario sono profondamente indignato per il pochissimo spazio dato alle gravi crisi che attanagliano il sud del mondo, in particolare dell’Africa, il continente più vicino a noi (è solo grazie alle testate missionarie, che gira qualche notizia in più e non nel grande circuito dei media.) Non riesco a capire come, per esempio, si parli così poco delle tragedie in atto in quel continente. Penso all’attuale guerra civile in Sud Sudan, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Penso alla drammatica situazione della Repubblica Centrafricana, dove si è innescata un’altra spaventosa guerra fratricida. Penso ai bombardamenti in atto nel Sudan contro il popolo Nuba, da parte dell’esercito di Khartoum. Penso a tutta la zona saheliana che vive una stagione di grave instabilità.Siamo di fronte a immensi drammi umani, a massacri di popolazioni inermi, a milioni di rifugiati che ora premono alle porte dell’Europa. E tutto questo in un incredibile silenzio stampa. Ricevo ogni giorno appelli di missionari che chiedono di far conoscere i drammi dei loro popoli. Ma è quasi impossibile far passare tutto questo nei media nazionali. Siamo di fronte alla ‘globalizzazione dell’indifferenza’, come ha detto Papa Francesco a Lampedusa. Caro giornalista, mi appello a te, alla tua umanità, perché tu possa darci una mano a far conoscere il grido di dolore di tanti uomini, donne e bambini. Te lo chiedo perché porto, da una vita, nel mia carne, la loro sofferenza. Ma anche perché, come giornalista, ho pagato caro l’aver detto la verità al potere. Caro giornalista, vorrei che anche tu potessi aiutarci, invitando i tuoi colleghi a fare altrettanto. Se tanti giornalisti della carta stampata, del web, della radio e della televisione dessero solo un piccolo contributo, avremmo un miracolo informatico. Caro collega, non ti chiedo l’eroismo, ma solo un po’ più di coraggio e di passione.Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari. Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.
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Obama finanzia i terroristi, a insaputa degli americani
Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.Lo ricorda il francese Thierry Meyssan, giornalista indipendente, in un’analisi pubblicata da diverse testate e ripresa da “Megachip”. Il paradosso della guerra in Siria? «Le immagini sono esattamente il contrario della realtà». Secondo i media mainstream, il conflitto oppone da un lato gli Stati raccoltisi intorno a Washington e Riyadh, intenti a difendere la democrazia e condurre la lotta mondiale contro il terrorismo, e dall’altra la Siria e i suoi alleati russi, «diffamati come dittature che manipolano il terrorismo». Se tutti sono ben consapevoli del fatto che l’Arabia Saudita non è una democrazia, bensì una monarchia assoluta, «laddove la tirannia di una famiglia e di una setta controlla un intero popolo», gli Stati Uniti godono invece dell’immagine di un democrazia, paladina della “libertà”. Eppure, una notizia-bomba come quella del finanziamento ufficiale della guerriglia jihadista è stata censurata, dal momento che il Congresso «si è riunito segretamente per votare il finanziamento e l’armamento dei “ribelli” in Siria». Può sembrare incredibile, ma «il Congresso tiene incontri segreti che la stampa non può menzionare».Ecco perché la notizia,originariamente pubblicata dall’agenzia di stampa britannica Reuters, è stata «scrupolosamente ignorata dalla stampa e dai media negli Stati Uniti e dalla maggior parte dei media in Europa occidentale e nel Golfo: solo gli abitanti del “resto del mondo” avevano il diritto di conoscere la verità». Poiché nessuno ha letto la legge appena approvata, aggiunge Meyssan, non si sa che cosa stabilisca esattamente. «Tuttavia, è chiaro che i “ribelli” in questione non mirano a rovesciare il governo siriano – ci hanno rinunciato – ma piuttosto a “insanguinarlo”. Ecco perché non si comportano come soldati, ma come terroristi». Sicché l’America, presunta vittima di Al-Qaeda l’11 Settembre e poi leader mondiale della “guerra al terrorismo”, di fatto finanzia «il principale focolaio terroristico internazionale», in cui agiscono due organizzazioni ufficialmente subordinate ad Al-Qaeda. «Non si tratta più di una manovra oscura dei servizi segreti, ma piuttosto di una legge, pienamente assunta, ancorché approvata a porte chiuse per non contraddire la propaganda».D’altra parte, continua Meyssan, ci si chiede in che modo la stampa occidentale – che da 13 anni imputa ad Al-Qaeda di essere l’autrice degli attentati dell’11 Settembre – potrebbe mai spiegare all’opinione pubblica la sua decisione. Infatti, la speciale procedura seguita in questo caso (Cog, “continuità di governo”) è protetta anch’essa dalla censura. «È anche per questo che gli occidentali non hanno mai saputo che, nel corso di quell’11 settembre, il potere era stato trasferito dai civili ai militari, dalle 10 del mattino fino a sera, e durante tutto quel giorno gli Stati Uniti erano governati da un’autorità segreta, in violazione delle loro leggi e della loro Costituzione». Lo stesso discorso annuale di Barack Obama sullo stato dell’Unione «si è trasformato in un eccezionale esercizio di menzogne». Davanti ai 538 membri del Congresso che sin dall’inizio lo applaudivano, il presidente ha dichiarato: «Una cosa non cambierà: la nostra determinazione a non permettere ai terroristi di lanciare altri attacchi contro il nostro paese». E ancora: «In Siria, sosterremo l’opposizione che respinge il programma delle reti terroristiche».Eppure, quando la delegazione siriana ai negoziati di “Ginevra 2” ha sottoposto – a quella che s’intendeva rappresentare come la sua “opposizione” – una mozione, esclusivamente basata sulle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, a condanna del terrorismo, questa è stata respinta senza causare alcuna protesta da parte di Washington. E per una buona ragione: il terrorismo sono gli Stati Uniti, e la delegazione “dell’opposizione” riceve i suoi ordini direttamente dall’ambasciatore Robert S. Ford, presente in loco». Ford è stato assistente di John Negroponte in Iraq. Nei primi anni ‘80, ricorda Meyssan, Negroponte aveva contrastato la rivoluzione nicaraguense arruolando migliaia di mercenari e alcuni collaboratori locali, costituendo i cosiddetti “Contras”. La Corte internazionale di giustizia, cioè il tribunale interno delle Nazioni Unite, ha condannato Washington per questa ingerenza che non osava pronunciare il proprio nome. Poi, negli anni Duemila, Negroponte e Ford riproposero lo stesso scenario in Iraq. Questa volta però l’intento era di annientare la resistenza nazionalista facendola combattere da Al-Qaeda.Oggi, mentre i siriani e la delegazione dell’“opposizione” discutevano a Ginevra, a Washington il presidente Obama, applaudito meccanicamente dal Congresso, ha continuato il suo esercizio di ipocrisia: «Noi lottiamo contro il terrorismo non grazie all’intelligence e alle operazioni militari, ma anche rimanendo fedeli agli ideali della nostra Costituzione e restando un esempio per il mondo intero. E continueremo a lavorare con la comunità internazionale per dare al popolo siriano il futuro che merita: un futuro senza dittatura, senza terrore e senza paura». La guerra orchestrata dalla Nato in Siria ha già causato più di 130.000 morti, secondo i dati del Mi6, l’intelligence inglese. La beffa: «I carnefici attribuiscono la responsabilità al popolo che osa contrastarli e al suo presidente, Bashar el-Assad». Durante la guerra fredda, conclude Meyssan, la Cia «finanziava lo scrittore George Orwell affinché immaginasse la dittatura del futuro: Washington ha creduto così di svegliare le coscienze di fronte alla minaccia sovietica». In realtà, l’Urss «non ha mai assomigliato all’incubo di “1984”, intanto che gli Stati Uniti ne sono diventati l’incarnazione».Dopo la guerra in Afghanistan contro i sovietici, molti autori hanno messo in evidenza il ruolo degli Stati Uniti come finanziatori del terrorismo internazionale. Tuttavia, fino ad ora si trattava solo di azioni segrete, di cui finora Washington non si era assunta la paternità. Un passo decisivo è stato compiuto con la Siria: il Congresso ha approvato il finanziamento e l’armamento di due organizzazioni rappresentative di Al-Qaeda. Ciò che era in precedenza il segreto di Pulcinella ora è diventato la politica ufficiale del “Paese della libertà”: il terrorismo. In violazione delle risoluzioni 1267 e 1373 del Consiglio di sicurezza, Il Congresso degli Stati Uniti ha votato il finanziamento e l’armamento del “Fronte al-Nusra” e dell’“Emirato islamico dell’Iraq e del Levante”, due importanti organizzazioni di Al-Qa’ida e classificate come “terroriste” dalle Nazioni Unite. Questa decisione sarà valida fino al 30 settembre 2014.
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Grazzini: la Germania sta per mangiarsi le nostre banche
«Quando, alla fine del 2014, le regole dell’unione bancaria cominceranno ad essere applicate, una banca in grande e seria difficoltà come in Italia Mps incontrerebbe dei problemi ancora maggiori e potrebbe rischiare veramente di chiudere se non fosse nazionalizzata o ceduta all’estero». Lo stesso Draghi avverte: molte banche dovranno chiudere, con le nuove regole decise a dicembre dai governi europei. Con l’unione bancaria in arrivo, secondo Enrico Grazzini la Bce annuncia di fatto «un’altra crisi potenzialmente dirompente dopo quella drammatica dei debiti sovrani». Soluzione che «favorisce l’inasprimento della crisi europea, non risolve la deflazione in corso e indebolisce le banche del sud a favore delle banche dei paesi più ricchi, Germania in testa». Lo riconosce anche Wolfgang Munchau, grande esperto di euro-economia. Che sul “Financial Times” scrive: «Perché i paesi europei si accontentano di stringere questi patti disgustosi? Per usare una metafora: perché i tacchini continuano a votare a favore del Natale?».L’unione bancaria europea, spiega Munchau, «è esattamente quella voluta dal ministro delle finanze Wolfgang Schäuble», il super-falco di Angela Merkel. «I contribuenti tedeschi non pagheranno nulla per la ristrutturazione delle banche estere e nessuna banca tedesca verrà mai chiusa». Sicché, «la Germania ha ottenuto tutto quello che voleva senza concedere nulla», proprio come per il Fiscal Compact: «Ha imposto la disciplina fiscale a tutta l’Europa in cambio di niente». Munchau è sconcertato: tutti i ministri – tra cui ovviamente il nostro Fabrizio Saccomanni – hanno gridato alla “svolta storica” «solo per non perdere la faccia di fronte al loro completo fallimento», perché «nulla di quello che avevano proposto è stato accettato». Volevano un fondo pubblico europeo in grado di provvedere alle ristrutturazioni bancarie in caso di “crisi sistemiche” e di garantire i correntisti? Niente da fare. La verità, dice Munchau, è che non hanno ottenuto nulla «semplicemente perché non sono in grado di coalizzarsi contro i diktat della Germania – la quale non vuole nessun fondo comune che metta a rischio le sue finanze per coprire i problemi altrui».I governi del sud Europa non hanno fiducia l’uno dell’altro, dice Munchau: non vogliono coalizzarsi, e quindi il governo Cdu-Spd riesce facilmente a imporre la sua ferrea volontà. «Il dramma è che non esiste alcuno statista europeo in grado di opporre una cooperazione solidale ed efficace di fronte alla visione unilaterale tedesca». L’unione bancaria «è la dimostrazione di come il governo tedesco delle larghe intese vuole l’Unione Europea: una unione centralizzata, diretta dalle élite finanziarie tedesche, a vantaggio esclusivo della Germania e a svantaggio degli altri paesi deboli e debitori del sud Europa. Una unione foriera di crisi senza fine». Perché il governo italiano dovrebbe rifiutare questa unione bancaria? «Perché non solo non risolve nulla – annota Grazzini su “Micromega” – ma potrebbe avere un micidiale effetto boomerang, ovvero amplificare le difficoltà delle banche». Non a caso, Draghi ha già avvertito che «con l’esame della Bce le banche deboli dovranno chiudere».A monte, la trappola è sempre la stessa e si chiama euro: l’impossibilità di emettere moneta sovrana costringe i governi a ricorrere ai titoli di Stato per finanziare il proprio debito pubblico (il debito funzionale e fisiologico, quello che serve per garantire i servizi e quindi sostenere l’economia vitale), e questo alla lunga – il caso di insolvenza – mette in pericolo le banche che quei titoli pubblici detengono. In teoria, ricorda Grazzini, il progetto di unione bancaria doveva servire a questo: spezzare il legame tra il rischio rappresentato dalle grandi banche sistemiche e quello degli stati dell’Eurozona – ovvero non indebolire le banche del Sud Europa, piene di titoli di Stato dei loro paesi. L’unione, inoltre, sarebbe dovuta servire a proteggere i risparmiatori europei con un fondo comune europeo di garanzia (per evitare la fuga all’estero dei correntisti in caso di una crisi nazionale), garantendo anche l’uniformità delle condizioni del credito: oggi le aziende italiane pagano tassi d’interesse bancari più alti rispetto a quanto pagano le aziende tedesche alle banche del loro paese. Bene, nessuno di questi regionevoli obiettivi sarà raggiunto, sostiene Grazzini: l’unico risultato sarà un ulteriore vantaggio dell’economia tedesca a spese di quella del resto d’Europa.Schäuble ha rifiutato in partenza ogni meccanismo di mutualizzazione con copertura di fondi pubblici, togliendo ossigeno a qualsiasi possibilità anti-crisi. E i ministri europei delle finanze «hanno deciso quello che perfino Draghi aveva implorato segretamente la Commissione Europea di non fare – cioè far pagare gli obbligazionisti e i creditori – per non rischiare di far precipitare le crisi bancarie», secondo il modello Cipro. Così, grazie a Schäuble, i privati (azionisti, obbligazionisti e correntisti con oltre 100.000 euro di deposito) si faranno carico in prima persona delle difficoltà delle banche in crisi, e solo in seconda battuta interverranno i fondi nazionali: non sostenuti con moneta sovrana – missione impossibile nell’Eurozona – ma creati grazie a nuove tasse. In ultimissima istanza, tra dieci anni, interverrebbe «un esiguo fondo europeo di 55 miliardi, sempre di origine bancaria – cioè solo lo 0,2% circa del patrimonio complessivo delle banche europee – anche se si prevede che le banche dovranno ricapitalizzarsi per circa 100 miliardi».L’accordo fa acqua da tutte le parti, insiste Grazzini: appena una banca sarà percepita in difficoltà, «i correntisti, gli azionisti e i creditori fuggiranno, creando un circolo vizioso di diminuzione del valore e di ulteriore fuga». Il caso Cipro insegna: «Si incentiva il meccanismo di panico che condanna le banche dei paesi deboli a vantaggio delle banche dei paesi forti». In Italia, continua l’analista, ci sono 2,7 miliardi di bond bancari subordinati in scadenza nel 2014 e 4,6 nel 2015. Gli investitori a rischio reagirebbero al timore di essere colpiti vendendo i bond. Interverrebbero allora gli speculatori e i fondi-avvoltoio per “salvare le banche”. Probabilmente nascerebbe una serie infinita di ricorsi in tribunale. Al che, «per evitare il fallimento delle banche e la corsa al ritiro dei depositi, gli Stati nazionali dovranno intervenire» nell’unico modo ormai possibile, ovvero «con i soldi dei contribuenti», ottenuti a suon di tasse. Risultato: «I paesi deboli si indeboliranno ancora di più e si avvicineranno all’orlo del baratro».Ma c’è di più, continua Grazzini: Draghi sta avviando gli stress test (ovvero degli esami preventivi di solvibilità in caso di crisi) su circa 130 banche europee, tra cui 13 italiane – ma sono escluse le casse di risparmio tedesche, che Schäuble non ha voluto comprendere negli stress test – per verificare se sarebbero in grado di sopportare un grave peggioramento della situazione economica. E quali saranno i criteri applicati dalla Bce per gli stress test? I fattori di rischio che potrebbero portare le nostre banche al fallimento sono sostanzialmente tre. Pirmo: la leva finanziaria troppo elevata rispetto al capitale proprio – leva che di solito viene usata dalle banche per speculare sui mercati finanziari “ombra”, come quello dei derivati e dei titoli tossici. Secondo: l’acquisto di titoli di debito sovrano di paesi con elevato debito pubblico, come l’Italia. Terzo: i crediti in sofferenza e inesigibili.«Le banche del nord Europa, in particolare quelle tedesche e francesi, hanno una leva spropositata. Hanno un attivo pari a 30-40-50 volte il loro capitale». Per intenderci: «Deutsche Bank e Credit Suisse hanno una leva di circa 50, la francese Crédit Agricole del 62, contro una leva di circa 18 di Intesa e Unicredit. La leva – legata a capitali presi a prestito – amplifica enormemente i rischi sistemici e delle singole banche, anche perché serve soprattutto a investire nel trading, cioè su titoli obbligazionari, azionari e derivati ad alto rendimento ma, appunto, molto volatili e ad alto rischio. I ricavi di Deutsche Bank derivano per esempio al 75% circa dal trading, e non da prestiti alle imprese e alle famiglie. In pratica gran parte dei maggiori istituti europei fanno le banche d’affari invece di prestare denaro alle imprese e alle famiglie». Al contrario, «le banche del sud Europa (Italia compresa) fanno meno attività speculativa, hanno in pancia meno titoli tossici, ma hanno invece il problema di avere investito molto sui titoli pubblici del loro paese e di avere molti crediti in sofferenza, a causa della crisi economica pesante attraversata dai loro paesi: in Italia le banche hanno in pancia circa 450 miliardi di titoli pubblici e hanno sofferenze per circa 150 miliardi».Domanda: quanto peseranno i diversi fattori di rischio negli stress test? La Bce considererà più rischioso – come dovrebbe essere – avere una leva abnorme e molti titoli tossici, o avere invece investito sui titoli pubblici del proprio paese? «Se, come sembra possibile, verrà sottovalutato il rischio derivato dalla leva finanziaria, dal trading e dalla speculazione, le banche del nord Europa si salveranno e supereranno l’esame senza troppe difficoltà. Se invece sarà considerato molto rischioso detenere titoli di debito pubblico del proprio paese, allora parecchie banche dei paesi del sud Europa verranno praticamente condannate (insieme ai bilanci pubblici dei loro paesi)». A quel punto, «le banche del sud che non supereranno l’esame della Bce dovranno ricapitalizzarsi, cioè aumentare ulteriormente il loro capitale», ma è facile immaginare che «troverebbero pochi capitalisti nazionali pronti a mettere il loro denaro in banche in difficoltà».Ecco allora che «le banche meno solide del sud Europa potrebbero semplicemente fallire, come ha avvertito Draghi. O potrebbero essere facilmente acquisite a poco prezzo da quelle del nord Europa». Così, «parte del risparmio nazionale potrebbe finire in mano alle banche estere dei paesi “meno stressati”». Ecco perché questa unione bancaria non s’ha da fare: certo «non risolve il problema del credito alle imprese e alle famiglie», e inoltre «rischia di premiare le banche maggiori che speculano e di bocciare le banche che investono nell’economia reale». Verità sanguinosa: il problema delle banche italiane – il debito pubblico – sarebbe risolvibile di colpo, all’istante, uscendo dall’euro o trasformando l’euro in moneta sovrana. «Ma la sinistra raramente si accorge delle minacce che vengono dalla Ue», avverte Grazzini. «Sull’unione bancaria perfino il “Manifesto” riportava: “Certo a volte è meglio qualcosa invece di niente ed è forse meglio tardi che mai”». Ora basta, però: è tempo di «abbandonare una visione idilliaca della Ue e di avere un approccio più realistico sull’egemonia tedesca». C’è solo da augurarsi che l’offerta politica alle elezioni europee di maggio riesca almeno a mettere a fuoco il problema, da cui dipende il futuro di tutti.«Quando, alla fine del 2014, le regole dell’unione bancaria cominceranno ad essere applicate, una banca in grande e seria difficoltà come in Italia Mps incontrerebbe dei problemi ancora maggiori e potrebbe rischiare veramente di chiudere se non fosse nazionalizzata o ceduta all’estero». Lo stesso Draghi avverte: molte banche dovranno chiudere, con le nuove regole decise a dicembre dai governi europei. Con l’unione bancaria in arrivo, secondo Enrico Grazzini la Bce annuncia di fatto «un’altra crisi potenzialmente dirompente dopo quella drammatica dei debiti sovrani». Soluzione che «favorisce l’inasprimento della crisi europea, non risolve la deflazione in corso e indebolisce le banche del sud a favore delle banche dei paesi più ricchi, Germania in testa». Lo riconosce anche Wolfgang Munchau, grande esperto di euro-economia. Che sul “Financial Times” scrive: «Perché i paesi europei si accontentano di stringere questi patti disgustosi? Per usare una metafora: perché i tacchini continuano a votare a favore del Natale?».
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Bertani: attaccando Napolitano, Grillo vincerà le elezioni
«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.«Lo share di Napolitano è uno fra i più bassi del mondo occidentale», scrive Bertani nel suo blog, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Soltanto la metà dei cittadini lo approva (parecchi sondaggi recano queste cifre)». E questo, per un capo di Stato che ha basato il suo agire sul motto “state tranquilli, qui ci sto io a controllare”, secondo Bertani «è una débacle», tant’è vero che ormai «metà dei cittadini ha capito il trucco». “Sparando” contro Napolitano, Grillo prepara dunque una campagna elettorale nella quale una sola forza politica, il “Movimento 5 Stelle”, si candida a vincere a mani basse, grazie ai voti di chi è «schifato, annichilito, provato dal disgusto» di fronte allo spettacolo che avanza. «Difatti, Napolitano – che è un gran furbacchione – ha dichiarato di non essere preoccupato per la messa in stato d’accusa in merito alla Costituzione, bensì d’esserlo molto per cosa sta succedendo in Parlamento. Là sì che si stanno giocando i futuri equilibri europei! Devono riuscire a tagliar la pelle all’asino senza farlo ragliare! E bene fanno quelli del M5S ad urlare più forte: non si facciano intimorire dalle tigri di camomilla come Letta!».La verità è che il Parlamento «ha raggiunto forse il limite inferiore della sua storia», anche se «in futuro potrà scendere ancora». E tutte le istituzioni, compresa la presidenza della Repubblica, «sono oramai gli zombie di ciò che erano non più di un anno fa». Gli unici ad essere felici «sono gli uomini di Bankitalia, che ringraziano per il generoso regalo di 4 miliardi di euro fatto ai loro azionisti: credevamo che l’Imu servisse per rimettere in sesto il bilancio italiano. No, adesso abbiamo la conferma ufficiale che serviva a rimpinguare i conti degli azionisti privati di Bankitalia». Tutto questo, però, non basta a motivare la messa in stato d’accusa di Napolitano. Primo rilievo: espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e abuso della decretazione d’urgenza. «Su questo punto – osserva Bertani – andrebbero processati tutti i presidenti, almeno da Pertini in avanti: le leggi contro il terrorismo sono state la “prova generale” della decretazione d’urgenza. Poi, il diluvio: oggi, si decreta “d’urgenza” anche un finanziamento di 1.000 euro a qualche parente, oppure un ministro entra a gamba tesa nella decisione su quale parente abbia diritto di gestire il bar di un ospedale».Seconda accusa: riforma della Costituzione e del sistema elettorale. Qui invece i grillini hanno ragione, sostiene Bertani: «L’eventuale riforma della Costituzione è argomento staccato dalla legge elettorale, e bene ha fatto il M5S a lottare perché (finora) non avvenisse. C’è il rischio che riescano a raggiungere i 2/3 dei voti, e quindi che riescano ad evitare il referendum confermativo». Napolitano? «E’ chiaro che non considera il M5S un soggetto politico “attivo”: al più, dei divertenti clown». Detto questo, purtroppo, «le leggi elettorali – salvo il proporzionale puro e senza sbarramenti (una testa, un voto) – sono tutte delle truffe: dipende da chi vuoi farti truffare». Più difficile, invece, sostenere la terza accusa, quella del mancato esercizio del potere di rinvio presidenziale: «Se ad esempio Ciampi non rinviò il “Porcellum” alle Camere a fine legislatura (che, quindi, sarebbe caduto immediatamente, ben prima d’essere dichiarato incostituzionale sette anni dopo) in molti casi sarebbe stato opportuno farlo. Già, ma è un potere presidenziale: che succede se non lo si applica?».Idem per il quarto “capo d’accusa”, cioè l’anomala rielezione al Quirinale: sarà una prassi poco opportuna, ma la Costituzione non la vieta. Quanto alla quinta “imputazione”, quella di improprio esercizio del potere di grazia, c’è poco da aggiungere: «Detto fuori dai denti, Sallusti era l’ultima persona da graziare, con tanta gente malata e condannata a pene lievi che ingombrano le nostre carceri», ma tant’è: il potere di grazia resta prerogativa esclusiva del capo dello Stato, e può esercitarlo senza condizioni. Infine, sulla sesta e ultima contestazione – il rapporto con la magistratura nel processo Stato-mafia – è «molto difficile estrapolare la verità». Ipotesi: «Nulla di più probabile che gli apparati dello Stato si siano “attivati” molto “generosamente” in favore del presidente». Ma, anche qui, come motivare l’accusa di “attentato alla Costituzione”? In altre parole, «Grillo sa benissimo che le possibilità di successo dell’iniziativa sono pari a zero»: troppi giuristi e costituzionalisti «al servizio di Re Giorgio», e troppo pochi parlamentari a favore della decadenza. Eppure, secondo Bertani, la mossa (tutta politica) dell’impeachment alla fine avrà successo: «Ovviamente Napolitano non decadrà dall’incarico, ma sarà travolto dalle susseguenti elezioni».Bertani mette a fuoco la nuova legge elettorale confezionata da Renzi e Berlusconi: nessuno dei due schieramenti – centrodestra e centrosinistra – sembra in grado, davvero, di raggiungere il famoso premio di maggioranza, che assomiglia sempre di più «al prosciutto in cima all’Albero della Cuccagna». Il 37% è una soglia alta – Berlusconi si sarebbe accontentato del 35 – perché entrambi i partiti ritengono che saranno loro gli attori al ballottaggio. «Nulla di più falso», sostiene Bertani. In campo ci sono «tre partiti grossomodo equivalenti (ricordiamo le “sorprese” delle scorse elezioni)», ma con una differenza sostanziale: «Grillo agiterà la clava contro il vecchio Re usurpatore», mentre i suoi parlamentari, esasperati «dall’insipienza della Boldrini e della sua “ghigliottina”», ormai «praticano una sorta di guerriglia parlamentare ai limiti del lecito». Sicché, «agli altri, non rimarrà che difendere l’asfittico esistente», cioè le loro tasse, le loro non-riforme e la devastazione socio-economica che dilaga.«C’è però un altro punto a favore del M5S: tutti i sondaggi danno un astensionismo pari a circa il 40%, la metà dei quali deciderà nell’ultima settimana cosa fare». Sono circa 8 milioni d’italiani, dice Bertani. Otto milioni di cittadini decisivi, perché «avranno in tasca la chiavi del nostro futuro». Proprio su questa enorme quota di elettorato – quella che Giulietto Chiesa chiama “la voragine dei non-rappresentati” – oggi «si sperticano gli istituti di ricerca». Ma la notizia è che «non trovano nulla», perché ogni istituto ha un “padrone” politico, e quindi «“taroccherà” le risposte in modo di “adattarle” alle richieste: nulla di utile». Dunque, attenti a quegli 8 (milioni): niente di più facile che, al momento decisivo, scelgano il più convincente “voto contro”, il più chiaro, alla larga da Renzi e dall’amico Silvio. Se l’Italia è in sofferenza da anni, torturata dall’establishment europeo incarnato da personaggi come Monti e Draghi, aprire il fuoco da oggi contro il supremo garante italiano dell’euro-regime, l’anziano Napolitano, potrebbe consentire a Grillo di conquistare addirittura la pole position.«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.
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Tenetevi pure Matteo Renzi e la sua legge-porcata
Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.Anche a questo serve la riforma della legge elettorale: a indorare la pillola e simulare l’esercizio democratico, che in realtà è completamente svuotato perché non esistono reali alternative al Programma Unico del sistema. Sicché, i commentatori si rassegnano ad analizzare il grigio dibattito in corso, anche in materia di ingegneria istituzionale. Se non altro, osservano alcuni, il vecchio Mattarellum costringeva almeno i partiti a sfidarsi sul terreno ristretto dei piccoli collegi uninominali, proponendo cioè candidati non impresentabili, non alieni, non ostili ai territori.Con Renzi invece si torna al listino bloccato, che il fiorentino – con inarrivabile faccia tosta – tenta di spacciare per qualcosa di diverso dalla “legge porcata” che si vorrebbe far dimenticare. Eppure, nonostante ciò, se solo si potesse scegliere (ma scegliere davvero) forse già oggi gli italiani lo farebbero. Se in un ipotetico referendum si potesse decidere tra le due opzioni – lasciare la legge elettorale in pasto ai partitocrati ma avere in cambio un’inversione radicale di rotta sulla sovranità finanziaria nazionale – non è difficile immaginare un plebiscito.Nel frattempo, l’attualità è generosissima di episodi sempre più incresciosi. Al pantheon degli orrori mancavano solo figure eleganti e colte come Laura Boldrini, smascherata dai deputati “5 Stelle”. Togliere la parola al Parlamento, ecco il problema. E’ per questa ragione che un altro impavido leader della sinistra italiana, Nichi Vendola, anziché scandalizzarsi per l’autoritarismo prussiano della presidente della Camera preferisce censurare il fuoco polemico dei grillini. Ora si banchetta sulle spoglie di Bankitalia, per amputare in via definitiva la residua sovranità virtuale della finanza pubblica italiana.Solo ieri è stata decisa la vivisezione di Poste Italiane, dopo quelle di Eni e Finmeccanica. Prossimo obiettivo, la Cassa Depositi e Prestiti. Possibile che gli italiani non capiscano? Ma sì, che capiscono. E quelli che ancora non l’hanno fatto, lo faranno. E’ semplice: se ti hanno rubato il portafoglio – divorzio tra Tesoro e Bankitalia, privatizzazione del sistema bancario, cessione del debito pubblico alla finanza privata, adesione all’euro e quindi impossibilità matematica di finanziare la spesa pubblica con moneta propria – è ovvio che, dovendo pur pagare, i soldi verranno richiesti ai contribuenti, in dosi sempre più micidiali, fino a strozzare l’economia, mettendo in ginocchio imprese e famiglie.Nell’Eurozona – caso unico al mondo – per finanziare l’azione del governo (funzione pubblica, servizi vitali) non si può più contare su libera emissione di valuta sovrana, ma solo sulla moneta già circolante, proveniente dalle banche private disposte ad acquistare titoli di Stato. In queste condizioni, per il tracollo – previsto anni fa solo da alcuni isolati economisti “eretici” – è solo questione di tempo, ma intanto la condanna è certa e l’esito è inesorabile, in un crescendo di sofferenze che ormai colpiscono decine di milioni di persone. E se il governo Letta-Napolitano-Draghi continua la sua recita europea raccontando la stessa fiaba di Mario Monti (la medicina amara produrrà la guarigione) il prode Renzi propone di rottamare la Costituzione e l’ordinamento istituzionale, a cominciare dal Senato, senza mai dire una sola parola sui dolori della grande crisi e su come si potrebbe tentare di uscirne.Tace, Renzi, perché sa che il suo mandato-farsa non prevede in nessun modo la salvezza dell’Italia. E così, giusto per parlar d’altro, il segretario del Pd trova pure il coraggio di presentare impunemente, truccata da “riforma”, l’ultima barzelletta elettorale, per di più condivisa con l’amato Cavaliere. Il tutto tra gli inchini del mainstream e i balbettii dei sindacati, che si agitano per l’Electrolux evitando però di chiedersi come mai in Italia un posto di lavoro costi all’azienda 2,5 volte lo stipendio in busta paga – il resto va a finanziare le casse esangui dello Stato immiserito dal neoliberismo predatore. Mancano soldi, guardacaso. E serve un Piano-B per procurarli. Subito, ora o mai più.E’ questo il primo obiettivo dell’agenda-Italia per l’alternativa: senza denaro, senza possibilità di spesa, non ci sarà nessuna ripresa, nessuna occupazione, nessuna riconversione ecologica verso nessuna economia sostenibile. Una forza politica organizzata su questa base, con proposte chiare e inequivocabili, travolgerebbe qualsiasi infame soglia di sbarramento e supererebbe gli ostacoli di qualunque truffa elettorale. C’è da augurarsi che la spietata durezza della crisi, quantomeno, consenta alla verità di farsi strada, in questo mare di frottole indecenti. E convinca gli italiani a rottamare in fretta maggiordomi e pagliacci, perché il paese si merita ben altro: qualcuno che sappia evitare la catastrofe.(Giorgio Cattaneo, “Tenetevi Renzi e la sua legge-porcata”, da “Megachip” del 31 gennaio 2014).Proposta secca: tenetevi la vostra schifezza di legge elettorale, quella che volete, la peggiore che vi possiate inventare, ma in cambio ridateci quello che ci avete subdolamente rubato in questi decenni: la libertà di provare a essere un paese sovrano. Evidentemente gli italiani ispirano e dilettano i loro tormentatori politici, sono perfetti per essere ferocemente presi in giro: accorrono in tre milioni alle primarie del Pd e votano in massa il Rottamatore della nomenklatura, il quale il giorno dopo si accorda nientemeno che con Berlusconi per scodellare una legge elettorale scandalosa, che ripropone le stesse liste bloccate del Porcellum. Il credo non cambia: l’essenziale è che l’italiano medio (cittadino, lavoratore, studente, pensionato, contribuente, elettore) continui a contare meno di zero. E’ un ordine, emanato dai poteri forti che hanno ormai in pugno il nostro destino. Poteri che non vogliono più avere a che fare con cittadini, ma con sudditi remissivi, disinformati e terremotati dalla precarietà.
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Bankitalia? Ci vendono alla Germania, e la Cgil zitta
Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.Così, mentre le prime pagine dei giornali italiani sono rigonfie di cose inutili, la banca centrale del principale paese dell’Eurozona ha chiesto per noi una bella stangata (non esiste legge elettorale che risolva il problema della rappresentanza e dei processi decisionali. Ma da prima dello scioglimento del Pci i “riformisti” hanno provato questa droga del politico detta “legge elettorale”, e non hanno più smesso…). D’altronde, con un’economia paralizzata cosa credete che voglia il grande fondo estero, come garanzia, per comprare i nostri titoli? Ma i nostri patrimoni! Grandi e piccoli che siano, basta non averli alle Cayman (come lo sponsor di Renzi). Così vuole la Bundesbank. E che rapporto c’è tra queste necessità della Bundesbank e il decreto Imu-Bankitalia presentato furbescamente alla televisione e alle Camere?Se qualcuno crede che le comparsate della Boldrini servano per garantire il rispetto alle istituzioni, viva il suo Nirvana e non proceda oltre nella lettura. Sennò ascolti un dettaglio. Prima di tutto mettere l’Imu nel decreto è costruire un cavallo di Troia (absit injuria verbis) per far passare tre perle: 1) L’aumento dell’acconto Ires; 2) La “sanatoria” sul gioco d’azzardo, che è un regalone a tutte le agenzie che dovevano somme astronomiche allo Stato; 3) La sterilizzazione del potere di veto del ministero dei beni culturali e (sic) del ministero dell’ambiente sulle dismissioni (e vai con nuovi ecomostri). E qui arriva la perlona contenuta nel decreto Imu che prende anche il nome del gioiello, diventando decreto Imu-Bankitalia. Cosa prevede il gioiello?1) La legittimazione della proprietà privata dell’ente che solo nominalmente resterà pubblico (nomina del governatore, vero Re Pipino della situazione); 2) L’impossibilità del potere pubblico di poter dire alcunché sulla compravendita delle quote di Bankitalia (quindi se qualcuno o qualcosa che ha interessi che non coincidono con quello nazionale prende piede in Bankitalia, il pubblico non può porre veti. Solo per questo Napolitano meriterebbe l’impeachment, altro che…); 3) Si apre legalmente la strada ad un patto di sindacato, esplicito o occulto, dove una serie di soggetti finanziari che entrano nelle banche italiane fanno cosa gli pare di Bankitalia (guarda caso tre giorni fa qualcuno ha fatto la spesa con i titoli bancari italiani che sono andati anche a -16 in una seduta).4) Le privatizzazioni possono essere pilotate da questo patto di sindacato ormai legittimabile da questo decreto (vedi vicenda Cassa depositi e prestiti); 5) Il patto di sindacato (cioè l’insieme delle regole volte a determinare l’assetto della proprietà di una società), possibile e sostenibile da hedge fund che hanno un portafogli largo quanto il nostro Pil, può a questo punto controllare l’oro di Bankitalia a sostegno dell’euro. Proprio come desidera la Bundesbank. E ce la vedete questa nuova Bankitalia, in mano a tutti fuorché all’Italia, opporsi nel caso alla patrimoniale come desiderata dalla Bundesbank? «Ragàssi» – avrebbe detto il povero Bersani – «Sciamo in Europa…».A questo punto anche un elettore di centrosinistra, cioè uno che in politica fa uso di droghe nemmeno tanto leggere, capisce la verità. Che la “crescita” non esiste, non ci sarà. Ma solo un periodo di estrazione di risorse da questo paese. Fino a quando non ci sarà nulla da estrarre e i nostri giovani accetteranno salari da 250 euro il mese, competitivi con l’Ucraina che spinge per entrare in Europa a costo della guerra civile, facendosi prendere per fame. In un paese dai prezzi tedeschi causa tasse e balzelli. Tutto questo ha un nome nei manuali di concorrenza economica. Si chiama strategia del “Beggar thy neighbour”. Ovvero: porta il tuo vicino a mendicare. Ci guadagnerai un sacco. Specie se nel paese del tuo vicino ci sarà qualche servo che dà del populista e dell’irresponsabile a chi si opppone al saccheggio (link: “Bankitalia, una privatizzazione che incatena l’Italia all’euro”). La proposta della patrimoniale della Bundesbank è all’opposto della patrimoniale “de sinistra”. Si tratta semplicemente di tassare e spedire in Germania. “Prima” deportavano uomini e ricchezze e mettevano tutto nei vagoni piombati. Ora sono solo interessati alle ricchezze, ma senza disturbare il traffico ferroviario.(“La gravissima vicenda della privatizzazione di Bankitalia”, da “Senza Soste” del 30 gennaio 2014).Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.