Archivio del Tag ‘verità’
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Senza lavoro un americano su tre, 100 milioni di persone
Un americano su tre è senza lavoro: oltre 102 milioni di persone, su una popolazione che nel 2015 ammonta a circa 320 milioni di individui. A lanciare l’allarme è un analista come Michael Snyder, mai tenero con l’establishment: «ll governo federale utilizza molto attentamente numeri manipolati per coprire la depressione economica schiacciante che sta interessando questa nazione». A settembre, Washington ha annunciato 142.000 nuovi posti di lavoro. «Se questo fosse effettivamente vero, sarebbe a malapena sufficiente per tenere il passo con la crescita della popolazione. Purtroppo, la verità è che i numeri reali sono in realtà molto peggiori». I numeri “non aggiustati”, afferma Snyder, mostrano che l’economia americana, in realtà, ha perso 248.000 posti di lavoro nel solo mese di settembre, e che lo stesso governo ha conteggiato più di un milione di americani nella categoria “Non nella forza lavoro”. Eccola, l’illusione ottica: «Secondo l’amministrazione Obama, attualmente ci sono 7,9 milioni di americani che sono “ufficialmente disoccupati” e altri 94,7 milioni americani in età lavorativa che sono fuori dalla forza lavoro. Questo ci dà un totale di 102,6 milioni di americani in età lavorativa che non hanno un lavoro in questo momento».
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Segreto di Stato su Charlie Hebdo, killer armati dagli 007
I giudici non potranno indagare: il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha bloccato ogni ulteriore inchiesta sull’eccidio compiuto da Amedy Coulibaly, il 32enne nero che s’era asserragliato nel piccolo supermercato Hyper Casher di Porte de Vincennes, uccidendo cinque clienti e finendo crivellato dai colpi dei corpi speciali. Facendo valere – si noti – il segreto militare. Certamente ricordate. Era il 9 gennaio 2015; il 7, due terroristi, urlando “Allahu Akbar!”, avevano trucidato praticamente l’intera redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Avevano agito da freddi professionisti: poi però nella Citroen che avevano abbandonato nel XIX Arrondissement scappando su un’altra vettura, uno dei due aveva dimenticato la carta d’identità; era il documento di Said Kouachi, il che aveva permesso di identificare senza alcun dubbio gli autori della strage con i fratelli Kouachi, Said e Chérif, già noti alla polizia come estremisti islamici. Mentre i due erano in fuga, Coulibaly si asserragliò deliberatamente nel supermercato kosher; perbacco, un attentato antisemita in piena Parigi!Tutte le tv del mondo si concentrarono davanti alle vetrine, e ripresero la tragica e spettacolare scena dell’uccisione di Coulibaly, cosa che per qualche ora fece dimenticare la fuga dei due fratelli Kouachi. Nessuno ha visto la loro morte, che ufficialmente è avvenuta dopo una sparatoria con gli agenti a Dammartin en Goele, a una settantina di chilometri dalla capitale, il 9, alla stessa ora del tardo pomeriggio in cui è stato ucciso, davanti alle tv, Coulibaly a Parigi. E’ stato lo stesso Hollande a ordinare che le due irruzioni avvenissero in contemporanea; dell’uccisione dei fratelli Koauchi è stato diffuso un video che mostra un bagliore nel buio: a gennaio, le cinque di sera è già notte. Ma torniamo a Coulibaly, il cui cadavere rimase per ore sul marciapiede. Era entrato in quell’Hyper Cocher armato di un mitra Skorpion, un fucile d’assalto Vz 58 (simile al Kalashnikov), due pistole Tokarev. Tutte armi di provenienza cecoslovacca. Armi da guerra, che in Francia non sono ovviamente in libera vendita. Dove se l’era procurate, Amedy?Era questa la domanda a cui stavano cercando risposte i giudici istruttori del tribunale di grande istanza di Lille: ed è sulla loro inchiesta che è calata la mannaia del segreto. Per ingiunzione del ministro dell’interno. Si cessi ogni ricerca: sécret défense. Perché è segreto “militare”? Perché i giudici erano troppo vicini alle verità nascoste dietro la tragedia di “Charlie Hebdo”, e al suo fondo che resta inspiegato. In breve – come già aveva rivelato a suo tempo il giornale di Calais “La Voix du Nord” sulla base di indiscrezioni degli inquirenti, quelle armi erano state fornite da «una rete costituita da forze dello Stato» che le comprava, attraverso intermediari pregiudicati ma collaborativi, per spedirle ai ribelli jihadisti in Siria. Forze dello Stato? Per la precisione, secondo il sito alternativo “Mediapart”, «poliziotti di Lille e uno dei loro informatori sono al centro del traffico d’armi con cui è stato armato Coulibaly… la loro posizione è abbastanza delicata da indurli a trincerarsi dietro il “sècret défense”»; il ministro Cazeneuve ha tolto quei suoi agenti dai guai, avallando la loro difesa: sì, ciò che hanno fatto è segreto. Militare.Praticamente,è ammissione che lo Stato è coinvolto nella selezione e nell’armamento di giovani francesi d’origine islamica da impiegare in Siria come terroristi. Si può indovinare che i fratelli Kouachi, e quasi certamente anche Coulibaly, erano stati arruolati di Parigi per andare in Siria. Come e perché siano stati invece dirottati, con quelle armi, a compiere la doppia strage di Parigi, è un mistero forse troppo profondo. Quel che hanno scoperto i giudici istruttori di Lille è però abbastanza. Pochi giorni dopo la strage, il 20 gennaio, «i dirigenti della Brigata penale della sotto-direzione anti-terrorismo” (Sdat; una specie di Digos), portano ai giudici la relazione tecnica sulle armi del delitto. Ma tacciono un fatto preciso: la loro provenienza. Eppure già dal 16 Europol aveva fornito allo Sdat le informazioni in suo possesso: le armi «sono state acquistate dall’azienda slovacca Agf Security da una ditta di Lille che fa capo a Claude Hermant».La ditta slovacca vende sul web armi da guerra decommissionate; Hermant è un confidente della polizia, mezzo agente e mezzo spia, di idee neofasciste. E non ha comprato solo le armi da fuoco usate da Coulibaly: dalla Agf ha acquistato 200 pezzi «poi rivenduti», e anche (ritengono i giudici) altre novanta fra pistole e mitragliatori d’assalto attraverso un intermediario belga di Charleroi. E’ evidente che queste armi da guerra non hanno potuto essere importate in Francia senza l’assenso delle cosiddette autorità di pubblica sicurezza. In specie, con la complicità dello Sdat. Quanto al contatto belga di Hermant, è risultato essere (anche lui) un detective di Charleroi; interrogato, ha detto che «Hermant era il mio cliente principale», che «mi comprava il 95% delle armi demilitarizzate provenienti dalla ditta slovacca Afg – decine e decine. Che cosa ne facesse in seguito, non lo so».La difesa di Hermant ha rigettato questa versione: le transazioni saranno state «al massimo quattro-sei». Qualcuna delle armi comprate da Hermant è stata usata per altri misteriosi delitti commessi lo stesso giorno della strage di “Charlie Hebdo”: una poliziotta uccisa a Montreux e il tentativo di omicidio di un “jogger” a Fontenay-aux-Roses. Entrambi i delitti sono stati dalla polizia attribuiti a Coulibaly, che ormai defunto non poteva smentirli. Ma il “jogger”, sopravvissuto, non ha mai riconosciuto nella foto di Coulibaly il suo aggressore («Non era un nero»), e ha invece additato un nordafricano, che ha visto per caso durante un reportage televisivo sull’Hyper Cacher: tale Amar Ramdani. Personaggio cruciale: Ramdani, rapinatore, ricercato internazionale per spaccio, aveva stretto amicizia con Coulibaly in carcere; s’era atteggiato ad islamista voglioso di violenza, gli aveva dato appoggio logistico (le armi?) e sarebbe stato lui a scortarlo fino al negozio kosher alla Porte de Vincennes; certamente il cellulare di Coulibaly e quello di Ramdani hanno occupato la stessa “cellula” il 6, 7 ed 8 gennaio.Il punto è che questo pregiudicato Ramdani, come hanno scoperto gli agenti che lo hanno pedinato, entrava e usciva quando voleva dal centro operativo dei “servizi” francesi, a Rosny-sous-Bois. Poi è risultato – o è stato asserito – che lì andava a trovare la sua amante: Emanuelle C. (il cognome è ignoto) che è una agente dei servizi, che aveva preso una sbandata per lui tanto da “convertirsi all’Islam” in segreto, tanto da “indossare il velo” quando usciva dall’ufficio: un tipico travestimento per un’agente che vuole infiltrarsi in ambienti islamici. E poi: come può un ricercato entrare nel “Forte” (così chiamano la centrale d’intelligence) senza mostrare un documento, senza avere un badge che ne legittimi l’accesso? Il peggio è che quando Ramdani (su indicazione del blogger) è stato arrestato, Emmanuelle ha cercato di accedere ai fascicoli dell’inchiesta Coulibaly.Un’altra donna fatale è quella che ha fatto innamorare Coulibaly e l’ha reso – oltreché pazzo d’amore – un islamista pronto a tutto: si chiama Hayat Boumedienne, indicata dai media come “la moglie” del terrorista ucciso. Molte le foto, diffuse dopo, dove i due sono insieme e si addestrano ad usare pistole – lei è in chador nero. Altre foto però la mostrano in bikini, incollata voluttuosamente a Coulibaly. Il giorno 9, quando il nero si asserraglia nel negozio ebraico, qualcuno spiega subito ai giornalisti che la fanatica islamista Hayat Boumedienne è lì con lui, nel negozio. Così passano le ore e nessuno la cerca. Hayat non è affatto nel negozio; ha preso comodamente il largo. Poi si farà viva coi familiari e darà la sua versione, ovviamente ripresa dai media: “Sono in Siria a combattere con lo Stato Islamico contro Assad”. Lo Stato Islamico addirittura la intervista – il Califfo ha infatti anche una rivista patinata in francese, “Dar Islam” – e diffonde la sua versione. Lei si dichiara felice di vivere «in una terra dove vige la legge di Allah» e fa un elogio funebre del ‘marito’ Coulibaly (lo chiama Abu Baly al-Ifriki) che ha dato il buon esempio.Naturalmente, l’articolo è privo di foto della ragazza nella sua nuova incarnazione: sarebbe antislamico, perbacco. Il fatto è che addirittura l’Isis conferma la versione ufficiale. Poi, sono comparsi video in cui Coulibaly, ancor vivo, si dichiarava spontaneamente un seguace del Califfato. Una tv ebraica francese riuscirà ad intervistarlo mentre è asserragliato nel negozio: uno scoop. Come quelle immagini prese dal tetto che mostrano i due teroristi all’uscita dalla strage di “Charlie Hebdo”: immagini riprese, si disse, da un giornalista israeliano che si trovava per caso lì… versione poi cambiata. Facciamola breve. Insomma: qualcosa ci suggerisce una nostra versione, orribilmente complottista: il povero Coulibaly, reso scemo dal sesso la sua Hayat Boumedienne, che è una agente dei servizi, viene gestito da Ramdani, che lo arma con le armi fornite da Hermant per i servizi in gran quantità, perché solitamente destinate alla guerriglia in Siria (dove i francesi hanno una filiale di Al-Qaeda, fatta di militanti maghrebini nati in Francia); la fidanzata o moglie, e il Ramndani, lo convincono a compiere la grande impresa di alto valore mediatico.Il povero Coulibaly viene usato e sacrificato per qualche motivo, forse per distogliere l’attenzione dai fratelli Kouachi che in quelle ore sono in fuga? Per qualche altro motivo? In ogni caso, è abbastanza spiegabile come mai occorra seppellire questa sporca faccenda come “segreto di Stato”, segreto militare da sottrarre ai giudici. Chi vuole sviscerare tutti i particolari strani di questa vicenda, può – se sa il francese – consultare il sito “Panamza”. E’ una miniera di informazioni, risultato di indagini personali di un vero giornalista (che immagino non sia apprezzato dai media). Fra le altre, segnalo questa: fin dalle prime ore un importante giornale online americano, l’“International Business Time” (il terzo nel mondo fra i giornali economici sul web, per numero di contatti) dice: l’attentato di “Charlie” sembra una vendetta del Mossad contro la Francia. Un’ora dopo, il giornale online ritira il pezzo, e si scusa coi lettori.(Maurizio Blondet, “Su Charlie Hebdo piomba il segreto militare”, dal blog di Blondet del 12 ottobre 2015).I giudici non potranno indagare: il ministro degli interni francese, Cazeneuve, ha bloccato ogni ulteriore inchiesta sull’eccidio compiuto da Amedy Coulibaly, il 32enne nero che s’era asserragliato nel piccolo supermercato Hyper Casher di Porte de Vincennes, uccidendo cinque clienti e finendo crivellato dai colpi dei corpi speciali. Facendo valere – si noti – il segreto militare. Certamente ricordate. Era il 9 gennaio 2015; il 7, due terroristi, urlando “Allahu Akbar!”, avevano trucidato praticamente l’intera redazione del settimanale satirico “Charlie Hebdo”. Avevano agito da freddi professionisti: poi però nella Citroen che avevano abbandonato nel XIX Arrondissement scappando su un’altra vettura, uno dei due aveva dimenticato la carta d’identità; era il documento di Said Kouachi, il che aveva permesso di identificare senza alcun dubbio gli autori della strage con i fratelli Kouachi, Said e Chérif, già noti alla polizia come estremisti islamici. Mentre i due erano in fuga, Coulibaly si asserragliò deliberatamente nel supermercato kosher; perbacco, un attentato antisemita in piena Parigi!
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Moresco: perché non firmo la petizione per Erri De Luca
Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave. Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione.Così una persona che si è fatta portavoce di questo motivato rifiuto è finita sotto processo, mentre altre persone, amministratori, tecnici e anche politici di primo piano, che pure hanno ricevuto un mandato elettorale dai cittadini e che quindi dovrebbero ascoltarne le ragioni, sarebbero invece gli eroi positivi del progresso contro i negativi e retrivi abitanti della valle che rifiutano il progresso. Tutto ciò pone dei gravi interrogativi sul nostro futuro di specie e sulle scelte che bisognerà avere il coraggio e l’immaginazione di fare di fronte al deteriorarsi del nostro rapporto con l’ambiente planetario in cui viviamo, lacera il rapporto tra elettori ed eletti e straccia il velo di una simile democrazia a senso unico. Perciò – per quanto può valere la mia solidarietà – non posso che essere dalla parte di Erri De Luca, senza riserve, senza se e senza ma. Però, nello stesso tempo, non posso firmare la mozione di solidarietà con lui in nome della libertà di espressione. E questo non per viltà o per ragioni di opportunità, ma perché dissento profondamente da come la questione è stata posta in questa mozione. Cercherò di spiegare il perché.Io non credo che le parole siano un insieme dove sono tutte interscambiabili e ineffettuali, non credo che ci sia una zona franca e neutra dove ogni parola possa venire astrattamente permessa e nello stesso tempo depotenziata e disinnescata in nome della libertà di opinione. Firmare una mozione posta in questi termini sarebbe per me come dire: “Che bello! Avete proprio ragione. Le parole non contano niente. Possiamo dire tutto quello che vogliamo, tanto non conta niente”. Vorrebbe dire che io sono d’accordo sul fatto che le parole non hanno peso, che non vanno prese sul serio, vorrebbe dire che accetto la dimensione vuota in cui si vorrebbero collocare le persone che si esprimono anche attraverso parole, e questo non posso farlo, come uomo e come scrittore. Inoltre, a firmare questa mozione – cui vedo stanno aderendo noti scrittori, capi di Stato e altri paladini di questa idea di libertà – mi sentirei un ipocrita, perché io non sono affatto sicuro di poter essere sempre e comunque solidale con chi esprime determinate opinioni, e questo in nome della sola e astratta libertà di espressione.Se, per esempio, domani qualcuno sostenesse – in un suo libro, in un’intervista o in qualsiasi altro modo – che bisogna schedare e bruciare le case e i negozi degli ebrei, oppure incendiare i campi rom o radere al suolo la Cappella Sistina, io certo non firmerei una mozione in sua difesa. Perciò mi sentirei un ipocrita a firmare oggi una mozione posta in questi stessi termini e che poggia sulle stesse astratte motivazioni. Né credo che questa contraddizione si possa aggirare con una capriola dialettica, come altri fanno, mettendomi cioè al riparo da questo rischio stabilendo a priori ciò che non rientra in questo campo di possibilità, come ad esempio le ideologie totalitarie di destra, negatrici di libertà. E poi, oltre a tutto questo, mi domando anche perché questa libertà dovrebbe essere privilegio di uno scrittore più che di qualsiasi altra persona. Questo spazio sostanzialmente infantile e deresponsabilizzato concesso agli scrittori è qualcosa che infantilizza e deresponsabilizza anche le loro stesse parole. Si mostra di concedere loro qualche lusso in più, ma al prezzo di rendere depotenziate, ineffettuali e inerti le loro parole.Strana cosa questo destino che, in nome della “tolleranza” (grande mito delle nostre società avanzate, che bisognerebbe prendere a scatola chiusa e senza vederne i risvolti), si vorrebbe riservare alle parole degli scrittori o di chiunque ne faccia un uso mediatico pubblico. Infatti, mentre in ogni altro campo si attribuisce un potere effettuale e vincolante alle parole (in un documento di matrimonio o divorzio, in un rogito, in un testamento, ecc…), in quello che riguarda invece il cosiddetto discorso pubblico e in particolare nelle cose dette da uno scrittore o da chiunque sia visto come accreditato a esprimere opinioni le si riduce appunto a “opinioni”, le si fa rientrare nella dimensione ineffettuale, insiemistica e deresponsabilizzante della “libertà di opinione e di espressione”. E allora è concesso tutto, è concesso tutto perché è stato tolto tutto.Certo, questo può sembrare un passo in avanti rispetto a ciò che succede nei regimi totalitari, siano essi di natura politica o religiosa. Basti pensare a quanto hanno sofferto scrittori e poeti nell’Unione Sovietica di Stalin (chiusi nei lager e condotti a morte da un regime che prendeva maledettamente sul serio le loro parole), o altri più vicini a noi, costretti a vivere nascosti perché minacciati di morte e/o sottoposti a mostruosi editti religiosi e fatwe, quando non massacrati da feroci giudici-boia, come è successo poco fa in Francia ai vignettisti di “Charlie Hebdo”. Però, se guardiamo a fondo, non è anche questo un altro modo (umanamente preferibile, certo) di togliere peso e forza alle parole, di rendere interscambiabile e gratuito ciò che dicono non prendendolo sul serio, di impedire la loro effettualità e il contagio che ne può derivare? E anche, allargando il campo, non è un altro modo di rendere neutra, ineffettuale e depotenziata l’intera letteratura?Io sono particolarmente sensibile a questo, e lo sono non solo per ragioni di principio ma anche perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Mi è capitato infatti, dopo i vent’anni, di venire incarcerato per un reato cosiddetto d’opinione, perché avrei cioè vilipeso l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone durante un comizio tenuto in un paese dell’Oltrepo Pavese. Per questo reato sono stato arrestato, portato via in manette e poi, con i ferri ai polsi tra due carabinieri armati di mitra, ho visitato un paio di prigioni dove sono stato sottoposto a ispezione rettale e dove ho passato diversi giorni in isolamento in una cella sotto terra con paglione e bugliolo, sono stato poi scarcerato per gravi errori contenuti nel documento di carcerazione, processato a piede libero e condannato a un anno e due mesi.Perciò lo so bene: il reato di opinione è una cosa grottesca e orribile. Ma non è altrettanto grottesco e orribile depotenziare le parole e le convinzioni dei viventi, ridurle a scatole vuote, non entrare mai nel merito delle parole stesse, che possono essere molto diverse le une dalle altre e meritare diversa riflessione e ascolto, invece che essere collocate nella categoria insiemistica della libertà di opinione in cui è concesso tutto perché è stato sottratto tutto alla radice? Se io domani dovessi venire processato o condannato per un reato di questa natura, mi piacerebbe certo sentire la vicinanza e l’amore delle persone libere ma, a torto o a ragione, non me la sentirei di chiedere a nessuno la solidarietà in nome di un principio che nega l’urgenza, la necessità e la verità delle stesse parole che ho pronunciato o scritto. Per tutto questo e per altro ancora sto con Erri De Luca, ma non sto con una generica libertà di espressione e di opinione che toglie ogni verità, responsabilità e forza a espressioni e opinioni.(Antonio Moresco, “A proposito di Erri De Luca e della libertà di espressione”, da “Il Primo Amore” del 23 settembre 2015).Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave. Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione.
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Franceschetti: perché il potere ha paura della spiritualità
Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.Avvocato e docente universitario, Franceschetti ha di recente abbandonato l’avvocatura per sfiducia nella giustizia: clamorosa la sua denuncia dei misfatti del potere occulto, contenuta nel suo seguitissimo blog e in libri come “Sistema massonico e Ordine della Rosa Rossa” (Uno Editori). La tesi: al vertice del potere si nasconde un clan oscuro, di formazione esoterica, dedito anche ad omicidi rituali come quelli del “Mostro di Firenze”, fino ai casi di cronaca più recenti, da Cogne a Yara Gambirasio, di cui i media omettono regolarmente i dettagli fondamentali che illuminerebbero il vero movente, quello dei sacrifici umani. Tutto cominciò quando Franceschetti venne chiamato, in carcere, da due giovani condannati all’ergastolo per il caso delle “Bestie di Satana”: «Avvocato, non pretendiamo di uscire di qui», gli dissero. «Vorremmo solo sapere perché siamo detenuti a vita, dal momento che non abbiamo mai ucciso nessuno». Dice Franceschetti: «Ho scoperto che le indagini erano state molto superficiali, e le condanne scaturite solo dall’ambigua confessione di uno dei presunti complici, in un contesto di fatti che non potevano reggere a una ricostruzione accurata».Frugando nelle cronache italiane, il legale ha intravisto un abisso: depistaggi, falsificazioni sistematiche, omissioni, capri espiatori, manovre coperte dal silenzio o dal chiasso mediatico. Domanda inevitabile: «Chi e perché agisce così? Cosa c’è nella mente di chi compie omicidi rituali, puntualmente spacciati per delitti ordinari, ancorché inspiegabili perché privi di un movente credibile?». I suoi molti lettori conoscono il coraggio e la generosità di Franceschetti, onnipresente sul web e in decine di conferenze lungo la penisola. Dopo la tragica perdita della compagna, si è impegnato persino sul difficile fronte della medicina democratica, con un blog – il primo in Italia – che presenta l’offerta esistente di cure alternative, tutte rivelatesi valide, per guarire dai tumori (il suo “testimonial” è stato un medico di Brescia, malato terminale, salvato in extremis dallo stesso Franceschetti che l’ha convinto a sottoporsi al Protocollo D’Abramo, basato sull’assunzione di vitamine e semplici biofarmaci naturali).Franceschetti pratica il buddhismo da molti anni, frequenta corsi di meditazione Yoga, è in intimità con religiosi cattolici. «La mia esperienza di avvocato poteva stroncarmi, sono stato minacciato, ho vissuto grandi pericoli. Ho rischiato la morte, e ho capito che – una volta rimossa quella paura – si diventa molto più forti». Proprio interrogandosi sul mistero dell’orrore quotidiano delle cronache, indagato con straordinaria tenacia per molti anni, Franceschetti è pervenuto a una conclusione spiazzante: «Chi uccide innocenti, in apparenza senza motivo, in realtà un suo movente ce l’ha: però è occulto e inconfessabile, di matrice esoterica. E il passo successivo è scoprire che quasi tutti i potenti della terra praticano la magia, la stessa magia che – in pubblico – sono sempre pronti a deridere. La loro è una spiritualità deviata, ma sono ben consci del potere della spiritualità vera: quella che ci nascondono con ogni mezzo, facendola sparire dai giornali, dalla televisione, persino dai telefilm: gli eroi della fiction lottano tra loro, scherzano, fanno sesso, ma nessuno mai che preghi, che esprima convinzioni religiose o almeno politiche. Non è un caso: gli egemoni vogliono che non ce ne occupiamo, dobbiamo restare completamente soli di fronte a Equitalia, al lavoro perduto, alle bollette che non sappiano come pagare. Il loro piano è semplice: ci vogliono sottomessi e prigionieri delle nostre paure, privi di soluzioni per raggiungere indipendenza, libertà, serenità e felicità».Una risposta illuminante, Franceschetti l’ha trovata nell’ispirazione originaria delle principali religioni del pianeta: ad esse è dedicato il suo ultimo libro, “Le Religioni”, che passa in rassegna le maggiori espressioni del pensiero religioso mondiale. Dal politeismo solo apparente dell’Induismo, dove la folla allegorica di divinità è in realtà sottoposta all’immanenza suprema del Brahman, fino alla più rarefatta manifestazione del perfetto monoteismo, l’Islam di Maometto, che – come anche l’Ebraismo – non ammette venerazioni intermedie come quelle dei santi cattolici, e dimostra un’insospettabile apertura universalistica: se Allah avesse voluto una sola religione, recita il Corano, solo quella ci sarebbe sulla Terra. Attraverso un approccio metodico, ricco di fonti e citazioni anche intensamente poetiche, come quelle dei grandi mistici di ogni provenienza, l’autore presenta in modo sistematico ciascun impianto religioso, le sue origini, il credo e le ritualità, ma si concentra sempre sul nocciolo essenziale di ogni espressione religiosa: cerca e trova il suo cuore mistico, spirituale. «E la sorpresa è questa: tutte le religioni, allo stato puro, esprimono la stessa verità».Inoltre, continua l’ex avvocato, ogni religione fornisce istruzioni precise per coltivare in modo concreto la pratica spirituale quotidiana, «capace di rafforzarci fino a risolvere ogni problema, grazie a un nuovo approccio non più succube della paura: proprio quel genere di strumento che la Chiesa cattolica, erede diretta dell’Impero Romano, ha accuratamente rimosso». Molto netta, nel libro, la denuncia della “manipolazione storica” operata dalla Chiesa di Roma, quella di Pietro e Paolo («non a caso: il primo rinnegò Cristo, il secondo non lo conobbe mai»), contro cui si batté per secoli il network segreto, “giovannita”, che in nome del “vero messaggio di Cristo” schierò i migliori intellettuali della cristianità – da Gioacchino da Fiore a Giordano Bruno, passando per Dante Alighieri e Leonardo da Vinci – in una sotterranea battaglia bimillenaria: San Bernardo e i Templari, San Francesco d’Assisi, San Benedetto da Norcia e gli amanuensi (accesso diretto alle fonti), i “Fidelis in Amore” e i Giordaniti, i Rosacroce, fino ai massoni. «L’amore che cita Dante, quello che “move il Sole e l’altre stelle”, è lo stesso a cui fa cenno Battiato, quando canta: “Tutto l’universo obbedisce all’amore”». Per Franceschetti, non è altro che «la legge universale dell’attrazione: siamo tutti parte di un unico organismo, il divino è in noi. Era il vero messaggio di Cristo, svelato nel Vangelo di Giovanni: siamo dèi dormienti, dobbiamo solo svegliarci». Già, ma come?Se ne occupa l’ultimo capitolo della vasta ricerca di Franceschetti, resa con agile taglio divulgativo: proprio la “spiritualità contemporanea” offre infiniti spunti e testimonianze su come migliorare il proprio stato vitale mettendo a frutto gli insegnamenti delle maggiori tradizioni religiose, rilette e reinterpretate da grandi maestri come il “messia riuttante” Jiddu Krishnamurti, e poi Mikhael Aivanhov, Georges Gurdjieff, Massimo Scaligero, Sri Aurobindo, oppure leader carismatici e scomodi, temutissimi e per questo assassinati mediante avvelenamento, come Osho e Rudolf Steiner, nonché il rosacrociano Paramahansa Yogananda (“Autobiografia di uno Yogi”). Franceschetti non disdegna neppure la vituperata “new age”, rivalutando bestseller come “The Secret”, di Rhonda Byrne, i libri di Joe Vitale e quelli di Esther e Jerry Hicks: «E’ vero, sono anche fenomeni commerciali, ma contribuiscono anch’essi a infondere coraggio e fiducia nel “risveglio”». Tutto è dunque nelle nostre mani? Non lo sostiene solo il “pensiero positivo” di Louise Hay, ma anche la “Profezia di Celestino” di James Redfield, senza contare le opere di ispirazione cristiana come le “Conversazioni con Dio” di Neal Donald Walsh e i volumi di Daniel Meurois-Givaudan, anch’essi ampiamente citati.Il libro di Franceschetti offre una panoramica trasversale e inedita dell’esperienza religiosa mondiale, da un punto di osservazione privilegiato: quello della spiritualità pura, al netto delle narrazioni culturali storiche e territoriali. Una lettura utile, per individuare sorprendenti punti di contatto tra mondi in apparenza lontanissimi o addirittura inconciliabili, come vorrebbe la vulgata attuale. In realtà, tutti raccontano la stessa storia: «Lo dimostra una volta di più l’assoluta coincidenza delle convinzioni su cui si incontrano, al vertice, l’ala mistica dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, cioè i cabalisti Chassidim, i Rosacroce e i Sufi». Chi conosce Franceschetti e la sua onestà intellettuale non potrà che apprezzare il valore di questo libro: testimonia la passione dell’autore e l’evoluzione di una ricerca sincera, nata dal confronto con la più dura delle realtà – gli orrori della cronaca nera, il mestiere dell’avvocato – per trasformarsi in indagine non più solo sulle cause, ma sui principi che le innescano.Un lavoro editoriale dietro al quale si intravede il costante, proficuo scambio con personalità eclettiche e sorprendenti: da Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia e già “sovrano gran maestro” della massoneria di rito scozzese, a Fausto Carotenuto, già funzionario dei servizi segreti italiani, approdato alla via spirituale del network “Coscienze in Rete”. Il libro è un valido manuale per documentarsi su come i grandi maestri di ogni tempo hanno insegnato a pensare in modo libero, molto spesso a costo della propria vita. «Quello che ancora il potere ci nasconde – conclude Franceschetti – è l’immenso potenziale della nostra mente, se allenata e nutrita di spiritualità. E’ questo, in fondo, il grande segreto: dobbiamo smettere di avere paura. Ma non è certo un mistero: è una grande verità, declinata in infiniti modi, in ogni epoca. Oggi, grazie anche al web e alla propagazione universale della conoscenza, questa consapevolezza sta crescendo: siamo tutti dotati di un potere che, se esercitato, ci permette di liberarci dalla sofferenza, di guardare alla vita con più fiducia. E di sottrarci alla soggezione del potere, che si basa proprio sulla diffusione sistematica della paura». Dov’è l’inganno? «Ci fanno credere che con questa vita finisca tutto, mentre gli egemoni sono i primi a sapere che non è così».(Il libro: Paolo Franceschetti, “Le Religioni – Un percorso spirituale attraverso Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Ebraismo, Islamismo e i maestri spirituali moderni”, 584 pagine, 33 euro. Il volume è acquistabile online su “Lulu”).Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.
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Panico Germania: Volkswagen? No, peggio: Deutsche Bank
Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».Se n’è accorto anche un analista internazionale come Michael Snyder: «In Germania sta forse per accadere qualcosa che scuoterà il mondo intero?». Le avvisaglie dell’estrema fragilità tedesca, a livello politico, si sono appena manifestate con lo spietato trattamento riservato alla Grecia per volere dell’oligarchia finanziaria: attraverso maschere come quella di Wolfgang Schaeuble, ad Atene è stato inflitto il massimo rigore, dopo aver depistato l’opinione pubblica tedesca raccontando la fiaba dei greci “cicale”, da punire per il presunto “eccesso di debito”. Una versione lontana anni luce dalla verità: il “problema” greco ammonta a 30 miliardi di euro, cifra irrisoria per i bilanci Ue. Eppure, sulla condanna del popolo ellenico si è completamente appiattito il corpo sociale tedesco, rivelatosi insensibile alle inaudite sofferenze inferte a vecchi e bambini a causa dei sanguinosi tagli al welfare: salari, pensioni, sanità, protezioni sociali. Uno scandalo mondiale, denunciato anche in sede Onu: in Grecia non ci sono più cure né farmaci, i minori sono denutriti, ad Atene dilaga l’Hiv per mancanza di siringhe. E sono ricomparse malattie che si credevano archiviate dalla storia dell’Occidente. Eppure, la Merkel ha dovuto fronteggiare l’ala destra del Parlamento, che pretendeva per i greci una fine ancora peggiore.Sottoposta alla pressione migratoria dei profughi alle frontiere e strattonata dagli Usa per le sanzioni alla Russia in seguito alla drammatica crisi in Ucraina, scatenata dall’intelligence statunitense con manovalanza locale neonazista, la Germania ora scricchiola. Si sveglierà bruscamente dal sogno della “locomotiva europea” tutta lavoro e rigore? «Secondo alcune informazioni riservate di cui sono venuto a conoscenza – scrive Michael Snyder in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – sarebbe davvero imminente un grande evento finanziario che riguarda la Germania». In altre parole, «uno di quei momenti del tempo che presenta tutte le condizioni perché si ripeta un’altra Lehman Brothers». Certo, «la gran parte degli osservatori tende a considerare la Germania come quel baluardo che tiene economicamente insieme tutta l’Europa, ma la verità è che sotto la sua superficie fermentano grosse difficoltà». L’indice azionario tedesco Dax è crollato quasi del 20% dal massimo storico raggiunto lo scorso aprile, e sono numerosi i segni di agitazione all’interno della maggiore banca tedesca. E, proprio come la Lehman, anche la Deutsche Bank fa parte di quelle banche “troppo grandi per fallire”, che non crollano mai da un giorno all’altro. «Ma la verità è che ci sono sempre dei segni premonitori».Nei primi mesi del 2014, le azioni di Deutsche Bank sono state scambiate a più di 50 dollari. Da quel momento, scrive Snyder, il valore è caduto di oltre il 40% e oggi si scambiano a meno di 29 dollari. Attenzione: «E’ ben nota la natura profondamente corrotta della cultura aziendale della Deutsche Bank, e negli ultimi anni la banca è stata estremamente imprudente». Prima del “crollo improvviso” di Lehman Brothers il 15 settembre 2008, sulla stampa c’erano state notizie di licenziamenti di massa nell’azienda: «Quando le grandi banche iniziano a trovarsi in guai seri, questo è quello che fanno: cominciano a sbarazzarsi del personale. Ecco perché sono così preoccupanti i massicci tagli di posti di lavoro che la Deutsche Bank ha appena annunciato». Nel mirino ci sono 23.000 dipendenti, cioè circa un quarto di tutto il personale, secondo il piano dell’amministratore delegato John Cryan. Inoltre, negli ultimi tre anni la banca ha dovuto sborsare qualcosa come 9 miliardi di dollari per contenziosi legali, ed è così diventata «una sorta di manifesto di cultura aziendale corrotta».Nel mirino, anche «scambi irregolari di titoli ipotecari scadenti – sapientemente confezionati – intervenuti tra varie banche prima della crisi finanziaria». Jp Morgan, Bank of America e Citigroup, scrive Snyder, riuscirono ad effettuare queste operazioni quando la vigilanza era allentata. Oggi però il ministro della giustizia del governo Obama, Loretta Lynch, sarebbe «ben determinata a occuparsi seriamente» delle malefatte dei massimi colossi bancari, come Barclays, Credit Suisse, Hsbc, Royal Bank of Scotland, Ubs e Wells Fargo, inclusa ovviamente anche Deutsche Bank. «Naturalmente – continua Snyder – i problemi legali sono solo la punta dell’iceberg di tutto quello che è successo alla Deutsche Bank nel corso degli ultimi due anni». Già nella primavera 2014, la banca è stata costretta ad incrementare di 1,5 miliardi il Tier (capitale azionario e riserve di bilancio). Perché? Un mese più tardi, maggio 2014, è continuata la corsa alla liquidità, con la banca che annunciava la vendita di 8 miliardi di euro di titoli con uno sconto del 30%. «E ancora una volta: perché? Questa mossa ha messo la pulce nell’orecchio ai mezzi di stampa finanziaria. L’immagine esteriore, calma, della Deutsche Bank non rispecchiava i suoi sforzi concitati nell’aumentare la sua liquidità. Dietro doveva esserci per forza qualcosa di marcio».A marzo di quest’anno, la banca ha fallito gli stress-test della Bce, ricevendo «una severa intimazione a controllare la struttura del suo capitale». Ad aprile, Deutsche Bank ha confermato il suo accordo congiunto con Usa e Regno Unito sulla manipolazione del Libor, il tasso interbancario di riferimento per i mercati finanziari (tasso variabile, calcolato giornalmente, per cedere a prestito depositi in sterline, dollari, franchi svizzeri ed euro da parte delle principali banche operanti sul mercato interbancario londinese). Sul colosso tedesco incombe poi un enorme pagamento, oltre 2 miliardi di dollari, da versare al Dipartimento di Giustizia degli Usa, «comunque una bazzecola rispetto ai suoi guadagni illeciti». Negli ultimi mesi la situazione è precipitata: a maggio, il Cda ha conferito poteri speciali ad uno degli amministratori, Anshu Jain. Il 5 giugno, quando la Grecia non è riuscita a pagare il Fmi, le ripercussioni sono arrivare anche alla Deutsche Bank. E il 6/7 giugno i due Ceo della banca tedesca hanno annunciato entrambi le loro dimissioni, appena un mese dopo dal conferimento dei nuovi poteri (Anshu Jain lascerà per primo, alla fine di giugno; Jürgen Fitschen nel maggio 2016).Non è finita: il 9 giugno “Standard & Poor’s” ha ridotto il rating della Deutsche a BBB+, cioè «solo tre posizioni al di sopra del livello “spazzatura”», addirittura sotto il livello di rating che aveva Lehman Brothers poco prima del suo crollo. «Quello che ha reso le cose ancora peggiori è stato l’incauto comportamento della Deutsche Bank», scrive Snyder. «A un certo punto, si è potuta stimare un’esposizione in derivati da parte della Banca di ben 75 trilioni di dollari. Da tener presente che il Pil tedesco di un anno intero è di solo 4 trilioni di dollari. Così, quando alla fine anche la Deutsche Bank crollerà, né in Europa e né in qualsiasi altro luogo del mondo ci saranno abbastanza soldi per poter ripulire il pasticcio». Snyder le chiama “armi di distruzione finanziaria di massa”. «Se la Deutsche Bank dovesse fallire completamente, sarebbe un disastro finanziario peggiore di quello di Lehman Brothers: sarebbe come abbattere letteralmente l’intero sistema finanziario europeo e provocare a livello globale un panico finanziario mai visto prima d’ora». A quel punto, chiosa l’analista, «sarà meglio avere quel denaro con sé piuttosto che tenerlo in banca». Snyder teme che la calma apparente sia destinata a finire presto: «Credo che il resto del 2015 sarà estremamente caotico e accadranno cose piuttosto gravi, cose che nessuno avrebbe potuto oggi immaginare. Nei giorni che vengono, invito tutti a seguire attentamente sia la Germania che il Giappone. Stanno per accadere cose grosse, e milioni di increduli ne resteranno spiazzati».Perché proprio adesso esplode lo scandalo della Volkswagen? La truffa sulle emissioni “pulite” delle auto è destinata a ferire l’orgoglio teutonico, affondando il mito dell’onestà del suo capitalismo. Perché la verità emerge solo ora? Se lo domandano in molti, specie quelli che ricordano anche i record meno presentabili della Germania: come la precarizzazione del lavoro varata già nel 2002 dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e ispirata da Peter Hartz, il super-manager Volkswagen poi condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli ad accettare condizioni sfavorevoli per gli operai. Riforma-simbolo, da cui nasce la flessibilizzazione dell’impiego in Europa, simboleggiata in Italia dal Jobs Act di Renzi. Allarme Berlino: un gigante dai piedi d’argilla, avverte il sociologo Luciano Gallino, che segnala l’esistenza in Germania dei salari più bassi d’Europa, i mini-job da 450 euro al mese con cui vive un tedesco su quattro. Colpa di un’economia interamente votata all’insana frenesia dell’export, spiega Paolo Barnard. L’export deprime i consumi interni e prima o poi la situazione precipita: «Si vede dalla Luna il buco della Deutsche Bank, la banca più fallita del mondo: 70.000 miliardi di debiti».
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Karzai ammette: Al-Qaeda? Mai esistita, era un’invenzione
L’ex presidente afghano Hamid Karzai, intervistato l’11 settembre 2015 da un giornalista di “Al Jazeera”, spazza via 14 anni di narrativa ufficiale occidentale dichiarando che Al-Qa’ida è una mera invenzione. Lo dice senza alcun tentennamento: «Per me è un’invenzione. Non ho mai ricevuto un solo rapporto da una qualunque fonte afghana su Al-Qa’ida o su quello che stessero facendo. Noi non li vediamo, non riusciamo a visualizzarli, per noi non esistono. Non ho mai ricevuto rapporti dalla nostra intelligence, o dalla nostra gente. Non ho mai avuto a che fare con loro». Il video con l’intervista (sottotitolato in italiano da “luogocomune” e ripreso da “Pandora Tv”) non è stato ancora citato con rilievo dai nostri grandi media. Eppure la notizia è importante. La traduciamo anche in un semplice concetto: gli enormi costi economici e umani dell’invasione dell’Afghanistan da 14 anni in qua sono imposti ai popoli sulla base di un pretesto inventato. Esattamente come fu per la guerra in Iraq. Ulteriore traduzione: si corre a cercare negli occhi degli altri popoli pagliuzze da chiamare “criminali di guerra”, mentre abbiamo travi conficcate nei nostri democratici occhi occidentali. Come definire altrimenti un Tony Blair?
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Loro affogano nel Mediterraneo, l’Europa nell’ipocrisia
Le foto dei due bambini siriani morti annegati, Aylan, due anni, Ghalib, 5 anni, non solo hanno fatto il giro del mondo: sono state come un pugno nello stomaco per milioni di europei, e di occidentali. Una vignetta campeggia sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Riporta l’esclamazione di un altro bambino siriano, in questo caso vivo: “Se fate finire la guerra, ce ne torniamo a casa nostra”. Beata innocenza, risponde l’adulto. In questa frase cè una tale enorme quantità di verità che solo i selvaggi bianchi e ben nutriti possono ignorare. Se sono qui, a invadere l’ex tranquilla Europa, questi poveri disgraziati non hanno colpa. In moltissimi casi, sicuramente la maggioranza, non ne avevano l’intenzione. Fuggono – e fuggiranno – dalle tremende conseguenze della violenza che subiscono. E di questa violenza l’Occidente e l’Europa sono stati i principali promotori. Ma questa immane tragedia che è in corso sta cambiando il volto stesso dell’Europa, frantuma le sue illusioni e la sua prosopopea.L’Europa si sta dividendo sotto i nostri occhi. E la linea di demarcazione, guarda caso, ci dice molte cose che molti leader europei avrebbero preferito non vedere squadernate così brutalmente. È la linea che fu della “cortina di ferro”. Due pezzi di Europa che sono stati rattoppati in fretta e furia, per mostrare un volto unificato di fronte alla “minaccia russa”. Il rattoppo si è rotto. L’Europa centrale e orientale non ne vuole sapere di condividere fardelli che dovrebbero essere comuni e invece non lo sono. L’Europa del sud è sotto una pressione che non può reggere da sola. Gli uni e gli altri non hanno strategie, non hanno capito cos’è successo e, dunque, non hanno le ricette per affrontarlo. Adesso, con grave ritardo, la Germania, cerca di far valere almeno la ragione, più dell’umanità, ormai perduta. L’accordo tra Merkel e Hollande (quest’ultimo dai riflessi pachidermici) dice che l’accoglienza non può essere rifiutata e che l’onere dev’essere proporzionalmente sopportato da tutti. E si delineano punizioni e multe per quei paesi che non rispetteranno le decisioni comuni.Finalmente è arrivato l’idraulico europeo che turerà i buchi? Non penso che ci riuscirà. Perché questa Europa è piena di spazzatura ideologica, che ottunde le menti dei suoi leader e dei suoi sudditi. Non c’è spazio per i diritti e i valori umani (che avrebbero dovuto essere gli elementi distintivi della costruzione europea) là dove impera l’egoismo e l’interesse dei più ricchi e dei più forti. Lo si è visto e lo si vede con la Grecia, verso la quale ogni idea di solidarietà è stata sacrificata sull’altare dei profitti bancari. Ma, se non c’è solidarietà tra europei, come potrebbe esserci con e verso questi “invasori” sconosciuti che arrivano a migliaia senza nemmeno bussare alla porta? Certo c’è l’insipienza, la mancanza di lungimiranza, la vera e propria stupidità dei leaders europei. Ma c’è anche la totale impreparazione dei popoli europei a fronteggiare un collasso che nessuno aveva previsto.Nessuno aveva detto loro che, per esempio, il libero flusso dei capitali, deciso trent’anni fa dai governi già al servizio della finanza, avrebbe comportato, alla lunga, questo disastro. Alla lunga, perché il denaro viaggia alla velocità della luce, ma gli uomini sono poi costretti a inseguirlo, con la loro carne, il loro sangue, la loro vita. Ci mettono solo un po’ più di tempo. Ecco, quel tempo è arrivato. Nessuno aveva detto loro che distruggendo uno Stato, la Libia, si sarebbe creata un’onda di fuga. Nessuno aveva informato la gente che finanziando i fanatici attorno alla Siria, si sarebbe aperta una voragine, da cui sarebbero usciti milioni di profughi. Adesso che fare? Se non si vuole affogare nell’ipocrisia, mentre loro affogano in mare, bisogna invertire tutte le rotte. Le prime dovrebbero essere quelle delle navi della Nato che, a fine settembre, cominceranno la più grande esercitazione militare del dopoguerra. Diretta contro la Russia. Si spenderanno, per niente, sei o sette miliardi di euro, forse molto di più. Ma quanti sanno che è stata la Nato a sostenere gran parte delle due guerre che hanno insanguinato la riva sud del Mediterraneo? Chi dirà la verità ai popoli europei, che camminano verso il nulla guardando dalla parte sbagliata?(Giulietto Chiesa, “Un’Europa che affoga nell’iprocrisia”, da “Sputnik News” del 4 settembre 2015).Le foto dei due bambini siriani morti annegati, Aylan, due anni, Ghalib, 5 anni, non solo hanno fatto il giro del mondo: sono state come un pugno nello stomaco per milioni di europei, e di occidentali. Una vignetta campeggia sulla prima pagina di un importante quotidiano italiano. Riporta l’esclamazione di un altro bambino siriano, in questo caso vivo: “Se fate finire la guerra, ce ne torniamo a casa nostra”. Beata innocenza, risponde l’adulto. In questa frase cè una tale enorme quantità di verità che solo i selvaggi bianchi e ben nutriti possono ignorare. Se sono qui, a invadere l’ex tranquilla Europa, questi poveri disgraziati non hanno colpa. In moltissimi casi, sicuramente la maggioranza, non ne avevano l’intenzione. Fuggono – e fuggiranno – dalle tremende conseguenze della violenza che subiscono. E di questa violenza l’Occidente e l’Europa sono stati i principali promotori. Ma questa immane tragedia che è in corso sta cambiando il volto stesso dell’Europa, frantuma le sue illusioni e la sua prosopopea.
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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.
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Povero Aylan, quelli che ti piangono sono i tuoi assassini
La foto del povero bimbo siriano morto annegato ha fatto il giro del mondo, sconvolgendo ed emozionando tutti gli uomini degni di questa terra. Chi di voi non ha sentito lacerarsi il cuore nell’osservare quelle immagini che ripugnano la coscienza e gridano vendetta? Nel tempo della comunicazione di massa – era bastarda che traveste la verità di menzogna e viceversa – nulla avviene per caso. Perché la grande stampa ha deciso di concentrare solo ora la pubblica attenzione intorno ad un dramma che dilania e annega povere vite da molto tempo? Perché migliaia di morti innocenti hanno fino ad oggi soltanto ingrossato le fila di una macabra e ragionieristica contabilità? Solo adesso i proprietari dei grandi media hanno scoperto di avere un cuore? E’ vera o recitata l’indignazione globale intorno alla morte dello sventurato bimbo risucchiato dalle onde? E’ falsa, falsa in maniera vomitevole, turpe e vigliacca strumentalizzazione razionalmente organizzata da un manipolo di miserabili, genia assassina che muove – non vista – le sorti del globo intero.Non solo le élite globali – quelle stesse che per puro cinismo cavalcano lutti e tragedie – sono assolutamente indifferenti rispetto al dolore altrui, ma per giunta lo fomentano e nascostamente lo incaraggiano. Le migrazioni di massa non avvengono per caso: sono il risultato voluto di alcune specifiche politiche che mirano alla realizzazione di altrettanto specifici risultati. Gli uomini che si imbarcano su una carretta nella speranza di raggiungere l’Europa salpano spinti quasi sempre dagli stessi mostri: la fame e la guerra. La fame e la guerra sono due “eggregore” dolosamente evocate all’interno di alcuni occulti cenacoli, popolati da uomini che puzzano di zolfo posti ai vertici di una maleodorante catena di comando. La fame è il risultato delle politiche imposte dal Fondo Monetario Internazionale, strumento di pressione e di morte che diffonde scientificamente miseria in tutte le zone povere e meno povere del pianeta. Ora guidato dall’ineffabile Christine Lagarde, il Fondo Monetario Internazionale – nato con ben altri propositi – ha gradualmente assunto le sembianze di un essere deforme, rapace testa di ariete pronta a succhiare l’anima e la vita di tutti i popoli finiti disgraziatamente sotto le sue melliflue cure.L’istituto della Lagarde è di fatto il braccio armato delle élite neoliberali, statunitensi ma non solo, pronte a saccheggiare ovunque ricchezza con la scusa di diffondere il verbo che predica e decanta le virtù del “liberoscambismo”. La guerra, parimenti, è figlia diretta del lavorio degli stessi identici “alchimisti”, sepolcri imbiancati che sganciano bombe nel nome della democrazia così come quegli altri levano il pane agli affamati nel nome dell’opulenza. Orwell è in mezzo a noi. Le élite globali, scatenando fame e miseria con l’inganno per il tramite del ferreo controllo dei mezzi di informazione, ottengono perciò risultati previsti e voluti. L’arrivo di immigrati disperati serve anche a ricattare i proletari che vivono in Occidente, messi in condizione di dover competere sul piano salariale con nuova manodopera che va ad ingrossare “l’esercito di riserva” di marxiana memoria. L’influsso delle teorie di Kalergi, propugnatore della creazione in vitro di una razza “meticcia” – in quanto tale presuntivamente manipolabile dai nuovi signori dello spirito – offre poi una aggiuntiva chiave di interpretazione ad uso e consumo dei palati più intransigenti.Le guerre in Libia e in Siria, così come quelle più antiche riguardanti Iraq e Afghanistan, gonfiano inoltre il portafoglio dei trafficanti d’armi, notoriamente molto influenti presso i più importanti governi d’Occidente. Tragedie così permettono infine ad un esponente del nazismo tecnocratico come Angela Merkel – direttamente responsabile dell’aumento della mortalità infantile in paesi colonizzati e schiavizzati come la Grecia – di indossare le vesti fintamente candide (in realtà intrise di sangue) del buonismo, aprendo le porte ai rifugiati in fuga a beneficio di telecamera: “Avete visto che Angela non può essere poi così nazista se accoglie perfino gli ultimi della Terra?”. Tanto nessuno vi racconterà mai le gesta di coloro i quali fanno finta di abbracciare i disperati subito dopo averli appositamente calati nella scomoda posizione di “disperati”. Quelli che piangono le povere vittime di cotanta barbarie sono gli stessi che li hanno appena uccisi. Ma tanto, annebbiati dal Grande Fratello, nessuno se ne accorgerà mai. Buon viaggio dolce fanciullo. Questo mondo non ti meritava.(Francesco Maria Toscano, “Quelli che hanno finta di piangere sono gli stessi che l’hanno ucciso”, dal blog “Il Moralista” del 6 settembre 2015).La foto del povero bimbo siriano morto annegato ha fatto il giro del mondo, sconvolgendo ed emozionando tutti gli uomini degni di questa terra. Chi di voi non ha sentito lacerarsi il cuore nell’osservare quelle immagini che ripugnano la coscienza e gridano vendetta? Nel tempo della comunicazione di massa – era bastarda che traveste la verità di menzogna e viceversa – nulla avviene per caso. Perché la grande stampa ha deciso di concentrare solo ora la pubblica attenzione intorno ad un dramma che dilania e annega povere vite da molto tempo? Perché migliaia di morti innocenti hanno fino ad oggi soltanto ingrossato le fila di una macabra e ragionieristica contabilità? Solo adesso i proprietari dei grandi media hanno scoperto di avere un cuore? E’ vera o recitata l’indignazione globale intorno alla morte dello sventurato bimbo risucchiato dalle onde? E’ falsa, falsa in maniera vomitevole, turpe e vigliacca strumentalizzazione razionalmente organizzata da un manipolo di miserabili, genia assassina che muove – non vista – le sorti del globo intero.
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Sfruttati da Amazon, sono i nuovi schiavi del XXI secolo
Un articolo dell’“Huffington Post” interviene sulla polemica fra il “New York Times” e il boss di Amazon, Jeff Bezos, innescata dal recente servizio che il prestigioso quotidiano ha pubblicato sulle spaventose condizioni di lavoro che il colosso globale del commercio online impone ai propri dipendenti. Il tema non è nuovo (anche in Europa ci sono state denunce del fenomeno e diverse vertenze sindacali) ma il pezzo dell’“Huffington Post” arricchisce il dossier di alcuni particolari raccapriccianti, come i “processi” nei confronti dei dipendenti “pigri” (spesso istruiti in base alla delazione di qualche collega, pratica che viene sistematicamente incoraggiata e premiata dalla direzione), laddove il concetto di pigrizia è ben definito da una ex dipendente: «Se non sei in grado di dare assolutamente tutto per 80 ore settimanali, vieni classificato come un peso da scaricare». E ancora: dipendenti malati di cancro rimproverati per il loro scarso rendimento, e via di questo passo. Ma in fondo non c’è motivo di stupirsi. Infatti, come recita giustamente il titolo dell’articolo, “Amazon si è limitata a perfezionare ciò che la cultura americana del lavoro ha creato”.Un concetto ribadito da Sydney Finkelstein, un docente di management che dichiara all’autrice del pezzo: «Amazon sta perfezionando il modello di business americano: lavorare giorno e notte: loro rappresentano la punta di diamante che traccia il futuro del lavoro nel nostro paese, ci fanno vedere cosa ci aspetta e non è un bel vedere». Ma non si era detto che le condizioni del lavoro nell’industria hi tech sono le migliori che un lavoratore possa sognare? Chi non ricorda le descrizioni entusiastiche di un ambiente di lavoro come il Googleplex, cuore dell’impero del motore di ricerca? La verità è che il panorama è assai variegato e le condizioni possono variare significativamente da un’impresa all’altra, come ricorda l’articolo di cui mi sto qui occupando.Articolo che però omette di chiarire come le condizioni, più che in relazioni alle politiche aziendali, cambino in relazione all’appartenenza ai diversi strati di lavoratori: da un lato, una minoranza di privilegiati (che spesso hanno, fra gli altri, il compito di studiare come aumentare la produttività dei colleghi “meno meritevoli”), dall’altro lato una maggioranza di addetti a mansioni esecutive (non a caso i lavoratori più schiavizzati da Amazon sono gli addetti ai magazzini di stoccaggio delle merci) che sono oggetto di tassi feroci di sfruttamento. Una stratificazione di classe che emerge anche dai conflitti sempre più frequenti fra élite tecnologiche e lavoratori dei servizi che operano nelle stesse aree geografiche.Resta solo da aggiungere che Amazon non è un modello solo per le imprese americane ma anche per quelle di tutto il mondo, Italia compresa. Un filo rosso congiunge il viaggio di Matteo Renzi negli Stati Uniti e la sua visita-omaggio ai boss di Silicon Valley con il Jobs Act che sta concludendo in questi giorni il suo iter parlamentare: con la legittimazione del controllo tecnologico a distanza dei lavoratori (ciliegina sulla torta degli altri attacchi ai loro diritti contenuti in quel provvedimento) si apprestano gli strumenti per trasformare anche i nostri operai e impiegati nei nuovi schiavi del XXI secolo.(Carlo Formenti, “Amazon e i nuovi schiavi del XXI secolo”, da “Micromega” del 24 agosto 2015).Un articolo dell’“Huffington Post” interviene sulla polemica fra il “New York Times” e il boss di Amazon, Jeff Bezos, innescata dal recente servizio che il prestigioso quotidiano ha pubblicato sulle spaventose condizioni di lavoro che il colosso globale del commercio online impone ai propri dipendenti. Il tema non è nuovo (anche in Europa ci sono state denunce del fenomeno e diverse vertenze sindacali) ma il pezzo dell’“Huffington Post” arricchisce il dossier di alcuni particolari raccapriccianti, come i “processi” nei confronti dei dipendenti “pigri” (spesso istruiti in base alla delazione di qualche collega, pratica che viene sistematicamente incoraggiata e premiata dalla direzione), laddove il concetto di pigrizia è ben definito da una ex dipendente: «Se non sei in grado di dare assolutamente tutto per 80 ore settimanali, vieni classificato come un peso da scaricare». E ancora: dipendenti malati di cancro rimproverati per il loro scarso rendimento, e via di questo passo. Ma in fondo non c’è motivo di stupirsi. Infatti, come recita giustamente il titolo dell’articolo, “Amazon si è limitata a perfezionare ciò che la cultura americana del lavoro ha creato”.
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Mini: è tutto falso, in questa guerra (mondiale) per bande
Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.Quindi, a cominciare dalla guerra fredda che i paesi baltici hanno iniziato contro la Russia, dalla guerra “coperta” degli americani contro la stessa Russia, dai pretesti russi contro l’Ucraina, alla Siria, allo Yemen e agli altri conflitti cosiddetti minori o “a bassa intensità”, tutto indica che non dobbiamo aspettare un altro conflitto totale: ci siamo già dentro fino al collo. Quello che succede in Asia con il pivot strategico sul Pacifico è forse il segno più evidente che la prospettiva di una esplosione simile alla Seconda Guerra Mondiale è più probabile in quel teatro. Non tanto perché si stiano spostando portaerei e missili (cosa che avviene), ma perché la preparazione di una guerra mondiale di quel tipo, anche con l’inevitabile scontro nucleare, è ciò che si sta preparando. Non è detto che avvenga in un tempo immediato, ma più la preparazione sarà lunga, più le risorse andranno alle armi e più le menti asiatiche e occidentali si orienteranno in quel senso. E’ una tragedia annunciata, ma, del resto, abbiamo chiamato tale guerra condotta per oltre cinquant’anni “guerra fredda” o “il periodo di pace più lungo della storia moderna”.Stiamo vivendo un periodo di transizione storica molto importante: il sistema globale voluto dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale sta scricchiolando, i blocchi sono scomparsi, molti regimi politici voluti dalle potenze coloniali sono in crisi, l’Africa si sta svegliando un giorno e regredendo il giorno successivo, le istanze economiche hanno il sopravvento su quelle politiche, sociali e militari, le periferie delle grandi potenze e i loro vassalli stanno cercando indifferentemente o maggiore autonomia o una servitù ancora più rigida. I conflitti attuali sono i segnali più evidenti di questo processo che porterà ad una nuova formulazione dei rapporti e degli equilibri internazionali. Tuttavia non è detto che questo passaggio porti al cosiddetto “nuovo ordine mondiale”. Le spinte al cambiamento e alla stabilità sono ancora flebili e rischiano di cronicizzare i conflitti e le situazioni, altrettanto pericolose, di post-conflitto instabile.Ci sono segnali di forte resistenza al cambiamento in senso multipolare da parte delle nazioni più ricche ed evolute come da parte di quelle più povere. Quelle più ricche si stanno di nuovo orientando verso una politica di potenza affidata soprattutto agli strumenti militari; quelle più povere si stanno orientando verso la rassegnazione alla schiavitù. Il cosiddetto “nuovo ordine” potrebbe essere quello vecchio del modello coloniale e le forze armate si stanno sempre di più orientando verso il sistema degli “eserciti di polizia” (constabulary forces). In molti paesi dell’Africa si parla da tempo di “nostalgia” del periodo coloniale o si accusano le potenze coloniali di averli abbandonati. La potenza e la schiavitù sono complementari. Un filosofo cinese diceva del suo popolo: «Ci sono stati secoli in cui il desiderio di essere schiavo è stato appagato e altri no».Le basi degli Usa in Italia non garantiscono la nostra sicurezza, ma la loro. Non servono i nostri interessi ma i loro e quindi non sono legalmente “occupanti”. Il fatto che si dichiarino basi Nato o facciano riferimento agli accordi di Parigi del 1963 è una foglia di fico che nasconde la realtà: alcune basi italiane sono aperte anche ai paesi Nato nell’ambito degli accordi dell’Alleanza, ma le basi americane più grandi sono precedenti agli accordi Nato e sono state concesse con accordi bilaterali in un periodo in cui l’Italia non aveva alcuna forza di reclamare autonomia; anzi andava cercando qualcuno da servire in America e in Europa. In queste basi decidono gli americani (e non la Nato) a chi consentirne l’uso temporaneo. Si ha così un doppio paradosso: molti italiani anche di alto lignaggio politico e militare tentano di giustificare le basi con la funzione di sicurezza che svolgono a nostro favore. E avallano la condizione di occupazione militare. Gli americani sono più espliciti, ma non meno paradossali: ogni anno il Pentagono invia una relazione al Congresso nella quale indica e traduce in termini monetari il contributo dei paesi ospitanti delle basi “agli interessi e alla sicurezza degli Stati Uniti”. Dovrebbe essere un accordo fra pari, ma si avalla la nostra condizione di tributari.La guerra si è evoluta nel corso dei secoli; adesso siamo giunti a teorizzare una guerra di quinta generazione o guerra senza limiti, una guerra cioè che non deve essere percepita come tale e che coinvolge anche mezzi finanziari. Possiamo dire di essere nel corso di una guerra di questo tipo? Senza dubbio. Ma anche questa quinta generazione sta trasformandosi nella sesta: la guerra per bande. Non essendoci più soltanto fini di sicurezza e non soltanto attori statuali, siamo nelle mani di “bande” con fini propri e senza alcuno scrupolo se non quello verso la propria prosperità a danno di quella altrui. Le bande si muovono senza limiti di confini e di mezzi, senza rispetto, solo all’insegna del profitto. Tendono ad eludere il diritto internazionale e la legalità, tendono a piegare gli stessi Stati ai loro interessi e a controllarne la politica e le armi. Oggi il problema degli eserciti e degli apparati di polizia non è quello di capire perché lavorano, ma per chi. Se lo Stato, per definizione, deve (o dovrebbe) pensare al bene pubblico, la banda pensa soltanto al bene privato, non statale e spesso contro lo Stato.Quando nel 2004 chiesero ad un colonnello americano che tipo di guerra stesse combattendo in Iraq, quello rispose candidamente: «E’ una guerra per bande e noi siamo la banda più grossa». Anche lui aveva capito che non stava lavorando per uno stato o un bene pubblico ma per qualcosa che esulava dal suo stesso “status” di difensore pubblico: era un mercenario, come tanti altri, al servizio di uno che pagava. E per questo si riteneva un “professionista” delle armi. La finanza è l’unico sistema veramente globale ed istantaneo e si avvale di mezzi leciti e illeciti: esattamente come fa ogni moderna banda di criminali. La struttura di comando delle bande ha due modelli di riferimento: il modello paternalistico e verticale e il modello comiziale e orizzontale. Quest’ultimo sta prevalendo sul primo anche se a certi livelli della gerarchia si ha comunque uno più forte degli altri. Il modello orizzontale è anche quello che meglio riesce a mascherare le guerre intestine e quelle esterne. Ci sono interessi contingenti che spesso portano gli avversari dalla stessa parte.La Grecia ha subito un’imposizione che piegando la volontà del governo e della stessa popolazione è senz’altro un atto di guerra. Ma il vero scandalo della Grecia non è nell’imposizione subita, ma nell’apparente lassismo in cui è stata lasciata proprio dagli organismi internazionali che ne avrebbero dovuto controllare lo stato finanziario. La guerra finanziaria alla Grecia è la guerra per bande quasi perfetta. Solo qualche sprovveduto può pensare veramente che la Grecia abbia alterato i propri bilanci senza che né Unione Europea, né Banca Centrale Europea, né Fondo Monetario, né Federal Reserve, né Banca Mondiale, né le prosperose e saccenti agenzie di rating se ne accorgessero. E’ molto più realistico pensare che al momento del passaggio all’Euro gli interessi politici della stessa Europa prevalessero su quelli finanziari e che gli interessi finanziari fossero quelli di far accumulare il massimo dei debiti a tutti i paesi membri più fragili.Abbiamo la memoria molto corta, ma ben prima del 2001 il dibattito sull’euro escludeva che molti paesi della periferia europea e quelli di futuro accesso (Europa settentrionale e orientale) potessero rispettare i parametri imposti. Non è un caso se proprio i paesi della periferia siano stati prima indotti a indebitarsi e poi a fallire, o ad essere “salvati” dalla padella per essere gettati nella brace. Irlanda, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna, Italia e Grecia sono stati gli esempi più evidenti di una manovra che non è stata né condotta né favorita dagli Stati, ma gestita da istituzioni che si dicono superstatali e comunque sono improntate al sistema privatistico degli interessi del cosiddetto “mercato”.In ambito militare ogni operazione è aperta, condotta e accompagnata dalla guerra dell’informazione e da quella psicologica. In Kosovo ho dovuto raddrizzare una campagna d’informazione, condotta tramite materiale edito da Kfor, dopo aver constatato che una rivista non veniva distribuita ai kosovari ma nelle caserme. In pratica si faceva guerra psicologica sui nostri stessi soldati. Più professionali, ma meno centrate sugli scopi militari, sono le trasmissioni radio della Voa (Voce dell’America) che parla in molte lingue e perfino dialetti centro asiatici. La Russia è entrata nel mondo della moderna guerra dell’informazione con nuove reti di stampa, Internet, radio e televisione. I cinesi hanno interi canali dedicati all’informazione in varie lingue. Il programma “Confucio”, col quale s’insegna la lingua cinese all’estero, è ormai presente in tutto il mondo. Gli spin doctor del Pentagono avevano già immaginato nel 2011 come gestire la caduta di Bashar Assad in Siria e uno studio cinematografico ne stava realizzando il film. Il progetto è stato accantonato, ma il Pentagono spera che il film possa uscire nel 2016 (a Bashar Assad piacendo).Lo scopo di queste iniziative è difficilissimo perché la narrativa (la versione dei fatti) che si vuole fornire dovrebbe contrastare quella dell’avversario e della gente del luogo. In realtà nella comunicazione il messaggio più accettato è quello che conferma i fatti o le percezioni e non quello che le contrasta. La narrativa dell’avversario, pur non avvalendosi di mezzi sofisticati e basandosi sulla trasmissione orale, è molto più efficace anche perché racconta quello che si vede o ciò che qualcuno appartenente alla stessa comunità dice di aver visto. In Iraq, Afghanistan e altrove non è stato infrequente il grido di allarme dei vertici delle coalizioni occidentali: «Stiamo perdendo la guerra della narrativa». Fuori dal contesto militare, la stessa crisi greca è un esempio attuale di guerra dell’informazione accomunata alla guerra delle percezioni e alle operazioni d’influenza. In Grecia, come altrove, l’eccesso di debito pubblico e internazionale di uno Stato non è di per sé un fattore fondamentale d’instabilità né d’insolvenza. E’ invece importante la credibilità che può ampliare a dismisura il credito. Per questo la guerra alla Grecia si è sviluppata sul piano della guerra psicologica con un’azione forte di discredito e di delegittimazione di tutto il paese.La delegittimazione che si è vista in maniera palese nel caso greco, non è avvenuta per altri paesi in via di fallimento, come il nostro; anzi, a dispetto dei dati oggettivi (debito, crescita, disoccupazione, investimenti), ci sono paesi che beneficiano di crediti oltre ogni ragionevole misura. Ogni volta che in Italia c’è un’asta di titoli pubblici, i media plaudono al “collocamento” di tutto il pacchetto sottacendo che in realtà si tratta di un aumento di debito. Anche il fatto che il debito di tale tipo sia “interno” viene manipolato e sottovalutato spacciandolo per una cosa senza valore. Come se il debito interno (quello nei confronti degli italiani che hanno acquistato titoli pubblici) non dovesse mai essere restituito ( e di fatto, così è), quasi che il rastrellamento costante del risparmio privato da parte dello stato non penalizzasse la disponibilità di denaro destinata agli investimenti produttivi. Oltre alle bande finanziarie internazionali, in Grecia, come in Italia e altrove, ci sono bande privatistiche interne che monopolizzano la finanza e la comunicazione. In Grecia, come altrove, queste bande hanno sperato e tuttora sperano in un ribaltone politico che le renda più potenti. E’ già successo, anche in maniera violenta.Pochi anni fa il fisico Emilio dei Giudice e il giornalista Maurizio Torrealta parlarono di armi nucleari estremamente miniaturizzate, di armi di nuova generazione che sarebbero state già impiegate sui campi di battaglia in Iraq e in medio Oriente, e il cui uso sarebbe stato nascosto dietro la radioattività dei proiettili all’uranio impoverito. Non mi risultano casi concreti, ma ho sentito le stesse storie in altri casi. Una caratteristica delle guerre moderne è anche la perdita di consapevolezza sulla verità. Di certo c’è che la moderna tecnologia, anche fuori dal campo sperimentale consente questo ed altro. Se tali armi sono state veramente impiegate, si tratta di una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani delle vittime. Purtroppo, ogni violazione (anche del buon senso, come nel caso della tortura) è così frequente che non rappresenta più un ostacolo. C’è da sperare che lo abbiano fatto gli americani: almeno, tra trent’anni i segreti di Stato saranno derubricati e ci diranno la verità. Se le avessero usate i russi o altri paesi, come il nostro, non lo sapremmo mai. Dovremmo aspettare che diventasse un segreto di Pulcinella.(Fabio Mini, dichiarazioni rilasciate a Enzo Pennetta per l’intervista pubblicata su “Critica Scientifica” del 6 agosto 2015. Generale di Corpo d’Armata, già capo di stato maggiore della Nato, capo del comando interforze delle operazioni nei Balcani e comandante della missione in Kosovo, Fabio Mini è uno dei più grandi conoscitori delle questioni geopolitiche e militari. Il libro: Fabio Mini, “La guerra spiegata a.”, Einaudi, 171 pagine, 12 euro).Abbiamo due armi formidabili: diffidenza e ironia. La prima serve a neutralizzare il monopolio dell’informazione. Significa cercare continuamente altre fonti e altri riscontri senza bere tutte le scemenze ufficiali. La seconda tende a ridimensionare anche quella che può sembrare la realtà. Perché la verità non è più la vittima del primo colpo di fucile: non esiste più. Oggi la guerra limitata non è più possibile neppure in linea teorica: gli interessi politici ed economici di ogni conflitto, anche il più remoto e insignificante, coinvolgono sia tutte le maggiori potenze sia le tasche e le coscienze di tutti. La guerra è diventata un illecito del diritto internazionale e non è più la prosecuzione della politica, ma la sua negazione, il suo fallimento. Nonostante questo (o forse proprio per questo) lo scopo di una guerra non basta più a giustificarla. E chi l’inizia, oltre a dimostrare insipienza politica, si assume la responsabilità di un conflitto del quale non conosce i fini e la fine. Con l’introduzione del controllo globale dei conflitti e della gestione della sicurezza (anche tramite le Nazioni Unite), tutti gli Stati e tutti i governanti sono responsabili dei conflitti. E tutti i conflitti sono globali, se non proprio nell’intervento militare, comunque nelle conseguenze economiche, sociali e morali.