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Freccero: perché i giornalisti non tollerano chi protesta
La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico?Preso atto che naturalmente l’agenda dei media influenza l’opinione pubblica, la domanda da porsi è: in base a quali principi si costruisce questa agenda, quali sono gli elementi che hanno indotto la stampa a cambiare radicalmente la sua funzione da giornalismo d’inchiesta e critica sociale a difesa del consenso? Queste sono le domande da porsi. Bene. La cosa più interessante è che pensiamo alla parola “dissenso”. E qui iniziamo un ragionamento. Negli anni delle lotte per i diritti civili, la parola dissenso era sinonimo di democrazia. Oggi invece è piuttosto sinonimo di: devianza, delinquenza, terrorismo. Il movimento No Tav esprime il dissenso delle popolazioni coinvolte rispetto al progetto approvato a livello centrale: pertanto è un caso di “insubordinazione”, è fuori dalla maggioranza. Ritengo che il caso No Tav non sia un caso singolo, ma un format, che si replica in tutti i casi di minoranze che si oppongono all’ordine del discorso quantitativo della nostra epoca.Noi viviamo attualmente le contraddizioni di vivere con una Costituzione formalmente basata sul principio illuministico di difesa delle minoranze ma cerchiamo di applicarla in modo contrario (è questo il tema della discussione politica di oggi) affinché la maggioranza possa esercitare quella che è di fatto una dittatura. Per vedere come questo format si può estendere prendiamo il caso del Parlamento. La dialettica parlamentare nasce per permettere anche alle minoranze di esporre le proprie idee e partecipare alla costruzione della legge. Piglio l’esempio della Boldrini: intervistata da Fabio Fazio sul decreto Imu-Bankitalia (scandaloso) la Boldrini ha giustificato la “ghigliottina” dicendo che era suo dovere, in veste di presidente della Camera, troncare il dibattito parlamentare per permettere alla maggioranza (sottolineo “permettere alla maggioranza”) di governo di legiferare. Interessante.Dunque il Parlamento va esautorato, le leggi sono un prodotto dell’esecutivo in quanto appoggiato dalla maggioranza, e le minoranze sono di per sé qualcosa di illegale, che dev’essere in qualche modo ricondotto al volere dei più. Ecco questo format che si ripete anche nella situazione della Boldrini. Io, guardate, è dagli anni ’80 che mi occupo di maggioranza e sono stato forse il primo a segnalare in qualche modo, partendo dall’analisi dell’audience televisiva, come l’uso continuo del sondaggio avesse a poco a poco sostituito a livello sociale la ricerca del sapere foucoltiano o della verità in generale. E se tutte le scelte – anche politiche e morali – avvengono su base quantitativa, non è più possibile esprimere dissenso, è chiaro. Abolito il concetto di verità da parte del pensiero debole (altra cosa molto importante) non esiste più alcun elemento valido per opporsi ai valori della maggioranza.Ecco che a tutto ciò si è poi aggiunto in qualche modo, dopo l’11 Settembre, un clima – come posso dire – di guerra permanente, che giustifica in qualche modo un permanente stato di eccezione. Ecco, questa qua è l’altra cosa fondamentale, e sottolineo “stato di eccezione” che a sua volta giustifica il superamento di qualsiasi garanzia democratica. Ricordo un programma di Santoro, “Servizio Pubblico”, che mesi fa ha intervistato due No-Tav come “terroriste” in quanto così presentate dalla stampa e dalla forza pubblica. Erano due ragazze giovanissime, simpatiche, belle, tranquille. Ma questo cosa vuol dire: che oggi che il semplice dissenso è sinonimo di terrorismo. Questa è una cosa che sta passando tranquillamente: chi si difende perché aggredito, anche se vede in parte riconosciute le sue ragioni, viene comunque presentato come dalla parte del torto perché (orrore!) ha operato in modo violento opponendosi all’ordine della maggioranza. La violenza è tollerata solo nel senso della forza pubblica.Altro elemento fondamentale: dopo l’11 Settembre, in America, sono state sdoganate la tortura, Guantanamo e tutte le forme di guerra. Apro questo inciso perché un altro elemento che ha lavorato nel nostro inconscio, quella violenza che genera orrore e in qualche modo raccapriccio se messa in opera da parte dissenziente, viene vissuta come buona e giusta qualora sia un’emanazione del potere costituito. In “24”, la serie americana, Jack Bauer combatte il terrorismo con la violenza e la tortura, e scene di punizione corporale. Bene, in Italia la polizia (già col G8 si era entrati in uno stato di eccezione che ricordo molto bene, e prima ancora che a Genova anche a Napoli) può picchiare, usare lacrimogeni pur di contenere comunque ogni e qualsiasi forma di dissenso, anche il più pacifico ed innocuo. E’ il dissenso in sé ad essere considerato criminale perché rallenta il raggiungimento degli obiettivi della maggioranza. E il pensiero critico, che è stato il mito della mia giovinezza, della nostra generazione, appare ormai come elemento di disturbo. In vent’anni di berlusconismo, la scuola è diventata una fabbrica per replicare il pensiero unico. Solo un valore ottiene riconoscimento: l’obbedienza al conformismo vigente. E questo vale in particolare per il giornalismo.(Carlo Freccero, “No Tav e media”, estratti dell’intervento pronunciato il 18 febbraio 2014 al Circolo dei Lettori di Torino, ripreso dal sito No-Tav “Controsservatorio Valsusa”).La Tav viene presentata dalla stampa come un problema di ordine pubblico, di devianza e addirittura di terrorismo. La domanda da porsi sarebbe: perché la Tav entra in agenda solo come un problema di ordine pubblico? E ancora: perché la stampa ha perso il suo ruolo storico di strumento critico – pensate a tutti quei film che hanno immortalato attraverso l’immaginario hollywoodiano la stampa come controsistema – per diventare oggi completamente asservita al potere dominante? La risposta che si da solitamente è che la stampa è alla dipendenza della casta politica e ne segue i diktat. Bene, non solo. Meglio: il giornalismo rappresenta a sua volta una casta: c’è una casta che muove in qualche modo le fila come un burattinaio, le fila che muovono l’opinione pubblica sono i giornalisti asserviti al potere. E se il problema fosse più complesso? Se anziché essere persuasori occulti i giornalisti fossero in buona fede persuasi (sottolineo persuasi) dal pensiero unico? -
De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Meno e meglio: oggi sprechiamo metà del nostro cibo
Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’uniformativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.In Spagna, sottolinea Guzmàn in un post su “Rebeliòn” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ogni anno finiscono nella spazzatura 2,9 milioni di tonnellate di alimenti, in un paese dove secondo la Caritas ci sono 9 milioni di persone ridotte in povertà, con meno di 6.000 euro all’anno. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri a impegnarsi a dimezzare gli sprechi entro il 2050. Sempre in Spagna, il ministero dell’agricoltura ha chiesto alla grande distribuzione di ridurre gli sperperi alimentari. In realtà, sostiene Guzmàn, si tratta di campagne che mirano a «nascondere deliberatamente le responsabilità dell’attuale industria agroalimentare», a cominciare dalla reale quantità – tenuta nascosta – dei rifiuti alimentari prodotti. Tesi: «Provano a farci credere che l’attuale spreco alimentare non è una conseguenza del modello agroalimentare imposto negli ultimi anni dalle grandi aziende». Sprechi osceni, a livello globale? Sì, ma secondo loro la colpa è nostra, dei consumatori “spreconi”: compriamo troppe merci, non sappiamo utilizzare al meglio i prodotti, trascuriamo le date di scadenza. Siamo stupidi, compulsivi e irresponsabili.«Scegli i tuoi prodotti secondo le necessità della tua casa», raccomanda la campagna del ministero spagnolo dell’agricoltura. «Prima di programmare un acquisto controlla lo stato degli alimenti che hai in casa, soprattutto i prodotti freschi o con data di scadenza. E pianifica il menù giornaliero o settimanale tenendo conto del numero di persone che mangiano». Ma le grandi aziende agroalimentari e i governi non hanno nessuna colpa? «Se mettiamo a fuoco le industrie e le loro strategie – osserva Guzmàn – cominceremo a vedere i contorni di una responsabilità immensamente superiore». Primo fronte, le quantità di merci immesse: l’Europarlamento insiste sul fatto che gli “agenti della catena alimentare” sono i primi responsabili. L’industria apporta il 39% dei rifiuti, mentre ristoranti, catering e supermercati contribuiscono ad appesantire il sistema ecologico per un altro 20%. Naturalmente, «imprese, governi e lobby alimentari danno per inevitabili queste percentuali». L’industria è responsabile anche nel consumo finale, visto che la maggior parte dei rifiuti domestici sono dovuti gli imballaggi. In Spagna, l’80% degli acquisti alimentari è effettuato all’ipermercato (infatti i piccoli negozi, che prima del 2000 erano ancora 95.000, in pochi anni si sono ridotti a 25.000).Inoltre, con la scusa di “migliorare l’efficienza del processo”, le industrie «integrano le “banche alimentari” nella catena agroalimentare», e così «prendono due piccioni con una fava», perché «migliorano l’immagine aziendale e riducono i costi del trattamento dei rifiuti». Una strategia che, alla fine, «rende cronico un intervento assistenziale che di norma sarebbe d’emergenza temporanea» come il “last minute market” dei prodotti vicini alla scadenza, «facendolo invece diventare parte integrante della “catena”», tra l’altro «dimenticando che questi interventi generano stigmatizzazioni sociali e molte volte l’offerta alimentare non è poi adeguata, con mancanza di alimenti freschi, con alimenti trasformati, poveri di nutrimento e sproporzionati a livello di energie, grassi saturi e carboidrati, favorendo così malattie cardiovascolari e diabete». Tuttavia, continua Guzmàn, queste campagne «vengono spacciate come punti di forza», sia dalla Ue che dalla Fao, come fossero davvero utili per ridurre i rifiuti alimentari e promuovere agricoltura territoriale piccoli negozi locali. Le filiere corte evitano dispersioni sia nella produzione, non soggetta ai canoni standard dell’agroindustria, sia nella distribuzione, perché il prodotto locale «non necessita di una grande catena del freddo e di trasporto per arrivare al consumatore finale».Inoltre, la vendita diretta «migliora l’incontro tra offerta e domanda, consumando esattamente ciò di cui necessitiamo». Così, si creano «prezzi equi per i produttori, posti di lavoro e indotto, dinamizzazione del territorio e rivalorizzazione del mondo rurale, incremento generale della qualità nutritiva degli alimenti». E’ la strada che sta battendo la Francia, fino a ieri “regina” europea della grande distribuzione. Il governo di Parigi, ricorda Guzmàn, si sta impegnando anche a livello legislativo per favorire l’economia a chilometri zero: incentivi per la produzione e la trasformazione locale, adeguamento delle norme igienico-sanitarie alle caratteristiche della piccola produzione e iniziative di sostegno diretto come l’acquisto di alimenti per scuole, ospedali e università, presso agricoltori e allevatori locali, «convertendo lo sviluppo dell’agricoltura locale in uno dei pilastri centrali della strategia contro gli sprechi». La Spagna resta lontana. Solo il 3% degli agricoltori iberici ha accesso alla vendita diretta, contro il 20% dei colleghi francesi. Volendo, conclude Guzmàn, basterebbe imitare la Francia per rilanciare l’economia virtuosa dei territori, abbattendo così anche il costo dei rifiuti agroalimentari.Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’informativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.
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Crescita finita per sempre, il denaro non è la soluzione
«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.Paul Krugman se lo spiega così: le trasformazioni strutturali del sistema producono stabilmente disoccupazione. Il che significa che, per “convincere” le imprese ad assumere, bisognerà fornirle di denaro a costo zero, senza neppure obbligarle a restituirlo tutto. Secondo Summers e Krugman, ormai le imprese si aspettano che il valore di ciò che producono sia inferiore al costo di produzione: dovrebbero lavorare in perdita, sostenute dalla finanza pubblica? «Potrebbe sembrare un problema innanzitutto delle imprese – obietta Bonaiuti in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – se non fosse che viviamo ormai in una “società di mercato” e dunque i redditi, nelle loro diverse forme, e con essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a funzionare».Per Bonaiuti, «qualcosa di potenzialmente molto pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro», dal momento che «la possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la molla fondamentale dell’attività capitalistica». Per cui, «dire che per convincere gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell’attività economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti (ma di fatto crescenti)».Krugman è esplicito: ora sappiamo che l’espansione del 2003-2007 «era sostenuta da una bolla speculativa», e «lo stesso si può dire della crescita della fine degli anni ‘90», legata alla bolla della new-economy. Persino la crescita degli ultimi anni dell’amministrazione Reagan «fu guidata da un’ampia bolla nel mercato immobiliare privato». Conclusione chiara: «Senza speculazione finanziaria non c’è più crescita». E lo stesso Summers avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari potrebbero essere controprocenti, rendendo ancora più alti i costi di finanziamento per le imprese. Uno scenario «estremante serio e foriero di conseguenze», osserva Bonaiuti, secondo cui la tradizionale ricetta keynesiana – sostenere la domanda con maggiore spesa pubblica – potrebbe non funzionare più, se (a monte) il sistema si è davvero inceppato.Per Krugman «si potrebbe ricostruire l’intero sistema monetario, eliminare la carta moneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi». E quindi: esporre i cittadini (costretti a transazioni solo digitali) al rischio del prelievo forzoso sui propri conti correnti. Se queste sono le idee del “liberale” Krugman, «per far fronte all’incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere», per Bonaiuti «non è difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà, potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo». Una volta imbracciata questa logica, è evidente che «tutto si giustifica», e quindi «anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare i propri risparmi, divengono sacrificabili sull’altare di qualche punto percentuale di Pil». La prospettiva è chiara: «Tutti, volenti o nolenti, credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via finanziaria – della macchina capitalista», nell’epoca dei “rendimenti decrescenti”. «Il tutto è tanto più serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale, per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e, sopratutto, progressivo».La spirale, secondo Bonaiuti, è irrimediabile: tornare al passato è ormai semplicemente impossibile. «Per quanto affidato alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente». E tutto «per tenere in movimento – da una bolla speculativa all’altra – la macchina economica globale». Il rilancio è un miraggio, perché ormai il contesto è completamente mutato rispetto all’età della crescita: «Dove possiamo oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e consumi? Dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon mercato? Come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita capaci di trasformare in pochi anni intere società?».Le economie capitalistiche avanzate «sono entrate già da quarant’anni in una fase di rendimenti decrescenti», dice Bonaiuti. E questo «non dipende solo dalla riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali». Siamo di fronte a un fenomeno di ben più vasta portata: si sta riducendo la produttività dell’energia, dell’estrazione mineraria, dell’innovazione, delle rese agricole, dell’efficienza dell’attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca, istruzione), e si riduce la produttività di un’economia non più industriale ma fondata sui servizi. «Si tratta di un fenomeno evolutivo, e dunque incrementale». I “rendimenti decrescenti”, inoltre, «non comportano solo una riduzione dei rendimenti dell’attività economica», quanto piuttosto «un generale aumento del malessere sociale», e questo «a causa dell’aumento di svariati costi, di natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente complessità della mega-macchina tecno-economica, che ricadono come “esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel calcolo degli indici economici».Ecco perché «occorrerà dunque ragionare in termini ben più ampi, non solo in termini di Pil, ma della capacità delle politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni di sostenibilità ecologica e non solo economica)». Se i sostenitori dello status quo – sia neoliberisti che keynesiani – ormai ammettono la “fine della crescita”, «non sono disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica)». Occupazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente. «Il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una società sostenibile – conclude Bonaiuti – richiede un ripensamento ben più profondo e radicale dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una “grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall’ineliminabile dipendenza del capitalismo dalla crescita».«Stagnazione secolare», la chiama – di fronte alla platea del Fmi – l’economista americano Larry Summers, già segretario al Tesoro: nessuna speranza che l’economia dell’Occidente possa davvero tornare a crescere. E’ finita – o sta per finire – la “convenienza economica” del capitalismo, basato sul consumo di merci industriali prodotte a basso costo. Secondo Mauro Bonaiuti, autore del saggio “La grande transizione”, «la notizia è ufficiale: l’età della crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia». Il declino delle economie occidentali avanzate è ormai in corso, ammette lo stesso Summers, osservando la crisi degli ultimi anni: dato che i flussi finanziari ormai sorreggono il sistema produttivo, il collasso della finanza del 2007 ha comportato una sostanziale paralisi. Ma – questa è la notizia – quando lo choc è stato superato, non c’è stata nessuna vera ripresa.
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Se collassa l’Ue: rischiamo la stessa fine della Jugoslavia
L’Unione Europea? Rischia di fare la fine dell’ex Jugoslavia, sostiene Gabriele Bonfiglio, autore di una recente ricerca (università di Palermo) sul futuro del vecchio continente proiettato verso Oriente. Chiunque abbia a che fare con la geopolitica sa che certe previsioni, in apparenza assurde, possono risultare credibili. Meglio dunque smantellare i vecchi tabù, che nascondono verità fragili: siamo sicuri che l’Ue si basi su valori condivisi e riconosciuti dai propri cittadini? Già nel Duemila, le nuove istituzioni europee «erano percepite dalla metà dei cittadini degli Stati membri come opache, distanti e inefficienti». Attenzione: «Il collasso della legittimità di questa costruzione disfunzionale è lo scenario più plausibile», dal momento che quella dell’Unione Europea – un insieme poco compatto di Stati accomunati dall’intento di avere un mercato e una valuta comune – è una visione oramai superata da tempo, così come «l’dea di uno Stato di più nazionalità organizzato in maniera federale».«I mutamenti geopolitici producono sempre stravolgimenti anche violenti, e a farne le spese sono quasi sempre le persone comuni», scrive Bonfiglio in un post su “Eurasia”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. La storia insegna: «L’Europa in quanto tale non è mai stata unita, e ogni qualvolta lo si è cercato di fare con la forza i risultati sono stati disastrosi». L’Europa è debole, non ha neppure una lingua comune e l’interesse comunitario è travolto dagli interessi nazionali. «Già nel 1991 risultava chiaro che fin dal 1957 convenisse proprio alla Germania l’apertura dei mercati europei». O meglio: «Per quanto riguarda l’export è quasi solo la merce tedesca, soprattutto in campo alimentare, ad essere presente nei mercati europei ai prezzi più concorrenziali», grazie alla politica di «vigorosa internalizzazione» condotta negli ultimi vent’anni dai principali gruppi industriali tedeschi, puntando a ridurre il costo del lavoro degli operai in Germania.La doppia crisi – economica e ideologica – che oggi investe l’Unione Europea e che ne ha messo in dubbio i meccanismi di governance, secondo Bonfiglio «per certi versi ricorda molto quella che travolse la Jugoslavia dopo la morte di Tito: compresa la polemica tra le aree ‘virtuose’ e quelle ‘dissipatrici’». Il fatto più preoccupante? «E’ che nel 1980 nessuno prevedeva che la Jugoslavia sarebbe esplosa, come oggi nessun autorità europea è disposta ad ammettere che un domani la situazione potrebbe sfuggire di mano pure in Europa». Nonostante ciò, «i vertici di Bruxelles – sempre più autoreferenziali – con compiacimento si autoconferiscono il Nobel della Pace senza accorgersi che stanno creando le premesse per potenziali conflitti tra gli Stati europei». I conflitti nei Balcani degli anni ’90, come le guerre balcaniche che precedettero lo scoppio del primo conflitto mondiale, sono sintomatici di fenomeni che vanno captati subito, proprio per il potenziale distruttivo di cui sono spia.Le somiglianze tra collasso jugoslavo e crisi dell’Eurozona sono molte, continua Bonfiglio: «La necessità di ricordare la lezione jugoslava serve anche ad imparare a non fidarsi da un lato dell’aiuto teoricamente disinteressato degli americani, dall’altro quello di capire quanto la retorica dei diritti umani spessissimo venga utilizzata proprio per poter giustificare politiche di potenza, e quindi in certi casi va neutralizzata». La tragedia jugoslava e lo strascico di violenze in Kosovo mostrano il lato più oscuro della geopolitica e rivelano che «quello che è successo nei Balcani un domani potrebbe essere sperimentato in Occidente se non si prendono le adeguate precauzioni: ieri il cinismo americano ha rovinato la vita a centinaia di migliaia di slavi, perché un domani questo non dovrebbe avvenire in Italia?».Identiche le dinamiche della caduta: la crisi economica che investì la Jugoslavia fece esplodere il debito estero (20 miliardi nel 1989), provocando super-inflazione e crollo del dinaro, quindi «un enorme ridimensionamento del tenore di vita e la frapposizione tra aree più ricche e più povere», cioè Slovenia, Croazia e Serbia settentrionale (Vojvodina) contro Kosovo, Macedonia e Bosnia Erzegovina. «Intanto cresceva il malcontento da parte delle repubbliche più ricche per gli ‘aiuti’ da fornire alle aree depresse, e al contempo quest’ultime si sentivano fortemente penalizzate dallo Stato centrale». Tutta benzina per l’estremismo nazionalista, che dal 1981 «ha messo in moto un infernale meccanismo a catena», dalla secessione della Slovenia alle altre spinte centrifughe, spesso appoggiate dall’estero. Le somiglianze con l’Europa di oggi sono vertiginose: defunto il collante ideologico (là il comunismo, da noi l’europeismo), ecco il boom della disoccupazione e la via di fuga dell’emigrazione di massa, mentre le misure attuate per “saldare il debito” (con l’Occidente) anche nel caso jugoslavo furono attuate a spese del welfare. Identica la ricetta del Fmi: riforme strutturali per tagliare lo stato sociale, liberalizzare i mercati e privatizzare l’economia.«Ovviamente il malcontento delle repubbliche federate aumentò a dismisura: con l’avvento degli anni ’90 in pratica da un lato era crollata la fiducia nel socialismo jugoslavo e al contempo le forze nazionaliste divennero le principali formazioni politiche». Rilevante il risvolto bellicista: «Già nel ’91 sia agli sloveni che ai croati erano pervenute armi ed uniformi dai paesi occidentali», mentre «le rispettive autorità locali votavano l’indipendenza e si rifiutavano di pagare i tributi allo Stato jugoslavo». Epicentro dello scontro: la Croazia, che ospitava migliaia di serbi. «L’Occidente come sappiamo decise chi appoggiare e chi combattere, ma soprattutto chi criminalizzare e chi invece ergere a paladino della libertà», fino al sanguinoso epilogo bosniaco. «Le analogie con la situazione europea sono troppe: volendo fare fantastoria mi chiederei fino a che punto un domani la Germania potrebbe accettare che pezzi dell’Unione Europea si proclamino indipendenti da essa, e fino a che punto queste rotture potrebbero essere pacifiche», scrive Bonfiglio.Già allora, Berlino non rimase a guardare: appoggiò il separatismo croato, mentre gli Usa demonizzavano Milosevic ignorando le analoghe responsabilità degli avversari della Serbia. Intanto, alcuni Stati europei non si limitarono solo a favorire apertamente il separatismo secessionista, «ma cercarono chiaramente di distruggere lo Stato jugoslavo con misure chiaramente discriminatorie da un punto di vista economico», aggravando così l’impatto dell’ingerenza Usa anche in Italia, dove il crollo del sistema albanese-kosovaro ha rappresentato «un evidente problema sociale, criminale e di stabilità», sul versante adriatico. Sullo sfondo, già allora, dietro all’alibi delle “guerre umanitarie” c’erano «interessi più pragmatici, ossia il controllo dei corridoi petroliferi che collegano Caucaso e Mar Caspio all’Europa meridionale».Morale: «Il caso balcanico rappresenta il fallimento dell’Occidente, della sua presunta capacità di poter arbitrare i conflitti», e inoltre esprime anche «la fine dell’idea che le società multiculturali possano sempre vivere in pace», specie se una superpotenza come gli Usa «non mira al bene degli europei, ma li usa soltanto ai suoi scopi». E’ ovvio, aggiunge Bonfiglio, che gli Usa hanno esteso negli anni ’90 ai Balcani la propria area di influenza geopolitica: «Nulla di quello che è avvenuto durante l’“intervento umanitario” in realtà ha a che fare con gli interessi dei paesi europei», a partire dall’Albania odierna, «nuovo zelante alleato dell’America dall’economia poco trasparente». Per Bonfiglio, la realtà è evidente: «Quello che non sono riusciti a fare durante tutta la guerra fredda, gli Usa sono riusciti a farlo con la caduta di Milosevic, cioè far diventare i Balcani l’ennesima zona sotto il proprio controllo». Come illudersi, dunque, che le guerre balcaniche non siano un pericoloso precedente per la possibile evoluzione del disfacimento dell’Unione Europea? Se prevarranno le spinte centrifughe, gli “attori esterni” non resteranno certo alla finestra.L’Unione Europea? Rischia di fare la fine dell’ex Jugoslavia, sostiene Gabriele Bonfiglio, autore di una recente ricerca (università di Palermo) sul futuro del vecchio continente proiettato verso Oriente. Chiunque abbia a che fare con la geopolitica sa che certe previsioni, in apparenza assurde, possono risultare credibili. Meglio dunque smantellare i vecchi tabù, che nascondono verità fragili: siamo sicuri che l’Ue si basi su valori condivisi e riconosciuti dai propri cittadini? Già nel Duemila, le nuove istituzioni europee «erano percepite dalla metà dei cittadini degli Stati membri come opache, distanti e inefficienti». Attenzione: «Il collasso della legittimità di questa costruzione disfunzionale è lo scenario più plausibile», dal momento che quella dell’Unione Europea – un insieme poco compatto di Stati accomunati dall’intento di avere un mercato e una valuta comune – è una visione oramai superata da tempo, così come «l’dea di uno Stato di più nazionalità organizzato in maniera federale».
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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Camilleri con Tsipras: l’Ue fermi la guerra contro di noi
Ritengo fondamentale proteggere il nostro essere europei, nonostante le evidenti mancanze della macchina europea che durante questa lunga e tragica crisi, ha continuato a lavorare facendo pagare un prezzo altissimo, un prezzo che non possiamo nemmeno immaginare, a decine di milioni di cittadini. C’è bisogno di una radicale revisione di tutti gli accordi europei. Una revisione che non può basarsi solamente e ancora una volta sui libri di contabilità. I ragionieri distruggono l’Europa. Dobbiamo fermarli. Perché i libri dei contabili parlano solo di un dare e avere. Non ci sono altre voci. Manca la voce: società. L’Europa non può continuare a vivere ricattata solo dal valore dell’euro. L’Europa deve condividere gli stessi ideali per essere unita. Ideali a cui deve partecipare la stragrande maggioranza dei suoi cittadini. In caso contrario non sarà in grado di continuare ad esistere. La prossima guerra, perché questa crisi è stata una guerra, lascerà sul campo molto più che paesi come la Grecia o altri colpiti mortalmente dalla crisi attuale.Per questo motivo dobbiamo dare una risposta europea unitaria a questa crisi sostenendo Alexis Tsipras per la presidenza della Commissione Europea. Per dire che vogliamo un’Europa diversa, un’Europa che appartenga ai suoi popoli e che prenda cura dei loro interessi. La sinistra italiana era forte quando c’ era il vecchio Partito Comunista. Poi è arrivato il centro-sinistra, che non ha potuto mantenere nulla dai grandi valori che aveva ereditato. E’ stato creato il partito di Rifondazione Comunista, ma si è sempre fermato ad un piccolo consenso. Mancano persone che traccino insieme un denominatore comune tra questi partiti frammentati, il popolo della sinistra e della disobbedienza, per unificare queste forze ed avere una sinistra sana. Per questo insisto su una lista per le elezioni europee, perché può portarci a qualcosa di buono. Abbiamo bisogno di far rivivere la speranza del popolo della sinistra e delle forze vive della società nella prospettiva di cambiare la nostra vita quotidiana. L’esempio della sinistra greca è molto importante.Ritengo che quello che è successo in Grecia sia il termometro degli errori europei. Inizialmente hanno cercato di creare un’unione attraverso le nostre comuni radici ebraiche e cristiane. Questo non può funzionare. Quello che abbiamo in comune è la nostra cultura. Una cultura che nasce in Grecia, su cui abbiamo speculato e che ancora sfruttiamo. Il modo in cui l’Europa ha trattato la Grecia è come se avesse maltrattato le sue stesse radici. È come se non avessimo tratto insegnamento da queste migliaia di anni. L’Europa ha dimostrato di non capire nulla di ciò che è nella realtà l’Europa. L’Europa è il Partenone. L’Europa sono i templi di Agrigento. L’Europa è la cultura e la civiltà. La culla della cultura e della civiltà in questo mondo. In questo senso l’Europa ancora oggi può essere un motore trainante per correre nelle gare e non una macchina stanca che trascina solo un fardello, come è stato fatto fino ad oggi. Con le elezioni europee dobbiamo coltivare la speranza del cambiamento. L’Europa della contabilità uccide ogni iniziativa e qualsiasi cosa che trova nel suo cammino.L’Europa è stata il regno della fantasia e della creatività. Il regno dell’arte. Se ci fosse anche un po’ di questo estro anche all’interno della politica europea le cose sarebbero diverse. Non possiamo fondarci solo sui principi economici. Dobbiamo costruire ideali e valori, dobbiamo riconoscere la nostra cultura. Oggi alcuni pensano che queste siano cose inutili. Al contrario sono un elemento chiave per qualsiasi idea di Europa. Dobbiamo aprire la strada ad un’Europa più vicina a noi. Un’Europa che è sempre più consapevole dei problemi che l’hanno circondata. Io mi auguro di essere ancora vivo il giorno in cui dovranno scusarsi con la Grecia per il modo in cui si sono comportati. Perché è come se avessero maltrattato la loro stessa madre e l’avessero buttata per strada. La Grecia è la culla della civiltà, alla quale io appartengo. Ci sono le basi dell’Europa. Tutto il resto è superfluo.L’Europa di oggi è uscita da una guerra che abbiamo vinto pagando un prezzo pesante per ottenere la libertà, per vivere in società democratiche e con sistemi di protezione sociale. Non dobbiamo permettere il ritorno ad un periodo di insicurezza e di annullamento dei nostri diritti. A maggio dobbiamo scegliere il futuro, la ricostruzione dell’Europa sulla base della giustizia, la solidarietà e i fondamenti democratici. Per questo motivo dobbiamo fare tutti noi uno sforzo congiunto con Alexis Tsipras. Sostiene la creazione di una lista transnazionale in Italia con capolista un greco? Mi sembra qualcosa di meraviglioso. E’ un modo per celebrare di nuovo l’Europa unita. Dobbiamo uscire dagli stretti confini nazionali e dai loro limiti. Se in Italia e in Grecia ci sono persone che hanno ideali comuni è completamente inutile continuare a parlare di Grecia e Italia. Parliamo di Europa e di questi ideali comuni, che rappresentano una vera e propria forza di cambiamento. Dopo tutti questi anni in questo mondo non abbiamo ancora capito che non siamo divisi da confini e lingue, ma che ci unisce una civiltà comune?(Andrea Camilleri, dichiarazioni rilasciate ad Argiris Panagopoulos del quotidiano greco “Avgì”, per l’intervista “Lista Tsipras, una speranza per cambiare l’Europa e unire le forze vive della sinistra” pubblicata l’11 gennaio 2013 e ripresa da “Micromega”).Ritengo fondamentale proteggere il nostro essere europei, nonostante le evidenti mancanze della macchina europea che durante questa lunga e tragica crisi, ha continuato a lavorare facendo pagare un prezzo altissimo, un prezzo che non possiamo nemmeno immaginare, a decine di milioni di cittadini. C’è bisogno di una radicale revisione di tutti gli accordi europei. Una revisione che non può basarsi solamente e ancora una volta sui libri di contabilità. I ragionieri distruggono l’Europa. Dobbiamo fermarli. Perché i libri dei contabili parlano solo di un dare e avere. Non ci sono altre voci. Manca la voce: società. L’Europa non può continuare a vivere ricattata solo dal valore dell’euro. L’Europa deve condividere gli stessi ideali per essere unita. Ideali a cui deve partecipare la stragrande maggioranza dei suoi cittadini. In caso contrario non sarà in grado di continuare ad esistere. La prossima guerra, perché questa crisi è stata una guerra, lascerà sul campo molto più che paesi come la Grecia o altri colpiti mortalmente dalla crisi attuale.
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La super-lobby ci vuole indifesi, ma teme le europee
Onorati colleghi, ci ritroviamo anche quest’anno per definire le principali linee di azione e di pressione nei confronti delle più influenti lobby dei paesi industriali e delle nuove economie emergenti. Prima di passare la parola al primo dei nostri guest speaker, il quale ci relazionerà sui main events di natura politica ed economica di maggior rilievo che si verificheranno durante quest’anno, analizzando i possibili scenari ed impatti che questi ultimi potrebbero avere sulle attività economiche e finanziarie dei nostri clienti, noi del Board vogliamo focalizzare la nostra attenzione sull’importanza delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo che si terranno alla fine del mese di maggio. A riguardo, sono costantemente visti in crescendo – sia in termini di consenso che di visibilità – numerosi partiti euroscettici.Questo fenomeno sembra essere trasversale in tutti gli Stati europei: si va dalla Francia alla Finlandia; persino la Germania ha una forza politica a noi avversa che si è attestata, per nostra fortuna, appena sotto la soglia del 5% alle passate elezioni. Vogliamo spronarvi ad utilizzare tutta la vostra influenza ed ingerenza nei confronti dei vari canali mediatici in Europa per sminuire e ridimensionare sul nascere questa preoccupante forma di protesta e contrasto politico. Di contiguo a noi anche alcune autorità sovranazionali ci hanno evidenziato i rischi sempre più oggettivi che si delineano all’orizzonte, nonostante i proclami istituzionali di tenore opposto. Vi ricordiamo, onorati colleghi, che i nostri clienti e sponsor non si possono permettere un esito elettorale controproducente, rischiando a quel punto di mandare in fumo il lavoro di quasi due decenni di pressing politico.Ritorneremo su questo comunque durante lo speech di Sir [… omississ ...] che ci aiuterà a definire le varie criticità sistemiche del momento con un maggior grado di approfondimento. Tornando a noi, ricordiamo come si stanno dimostrando molto efficaci le strategie che abbiamo intrapreso ormai da anni per disinnescare la bomba demografica che grava su questo pianeta, tema molto caro ai nostri principali finanziatori. L’opera di destabilizzazione e controllo della società moderna attraverso il ricorso a modelli di vita incentrati sulla conflittualità ed ambiguità sessuale deve per questo essere amplificata ulteriormente. Soprattutto, continuiamo a stimolare i mass media e le varie forze sociali affinchè focalizzino la loro attenzione sull’importanza dicotomica del sessualmente diverso, unitamente ad una maggior propulsione alla emancipazione economica della donna. Solo percorrendo questa strada possiamo diminuire i tassi di natalità nella popolazione umana.In tal senso i nostri finanziatori stanno assistendo con soddisfazione ad un calo della natalità proprio nei paesi asiatici, segno questo che il plagio della globalizzazione nelle giovani generazioni si sta rendendo più efficace del previsto. Di questo passo in Asia si invecchierà molto più in fretta che in Europa o negli States. Per questa ragione dovete incoraggiare anche i governi dei paesi di frontiera ad abbracciare la stessa dinamica favorendo i fenomeni di delocalizzazione industriale e di nuova penetrazione colonialista, in modo tale da poter ottenere entro un decennio lo stesso tipo di risultato. Sempre per lo stesso motivo dobbiamo incentivare il più possibile i flussi di immigrazione verso le principali vie di ingresso nei confronti dei paesi industrializzati, i quali possono essere più facilmente indeboliti dal contatto osmotico con culture non autoctone.Sul fronte sociale si dovranno utilizzare tutte le risorse disponibili soprattutto grazie alle vostre entrature mediatiche affinchè si acceleri la diffusione delle modalità e degli strumenti di fruizione delle nuove tecnologie digitali che consentono a livello virtuale la condivisione delle proprie esperienze tra gli individui stessi congiuntamente al tracking delle interazioni e transazioni economiche di ogni persona. Dobbiamo cercare di rendere operativi sul mercato a livello “retail” i principali players entro due anni, in modo da avere il picco di massima diffusione entro il 2020. Questo ci consentirebbe di indebolire ancor di più quella nomenclatura collegata agli ideali cristiani, permettendoci di contrastare le istituzioni religiose che recentemente hanno tentato un recupero della loro credibilità e visibilità modificando internamente la propria leadership.Ricordiamoci, onorati colleghi, l’obiettivo finale che si prefiggono i nostri sponsor: la creazione di una grande società globale con individui destabilizzati, privi di valori morali e di riferimenti culturali, ancorati esclusivamente a futili bisogni materiali grazie al plagio dei mass media che impongono di volta in volta mode, costumi e stili di vita pianificati e concepiti a tavolino per il controllo sistematico delle masse.(Estratto dai “meeting minutes” di Campbell Minsk & Associates, think-tank statunitense, pubblicato sul blog di Eugenio Benetazzo l’11 gennaio 2014).Onorati colleghi, ci ritroviamo anche quest’anno per definire le principali linee di azione e di pressione nei confronti delle più influenti lobby dei paesi industriali e delle nuove economie emergenti. Prima di passare la parola al primo dei nostri guest speaker, il quale ci relazionerà sui main events di natura politica ed economica di maggior rilievo che si verificheranno durante quest’anno, analizzando i possibili scenari ed impatti che questi ultimi potrebbero avere sulle attività economiche e finanziarie dei nostri clienti, noi del Board vogliamo focalizzare la nostra attenzione sull’importanza delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo che si terranno alla fine del mese di maggio. A riguardo, sono costantemente visti in crescendo – sia in termini di consenso che di visibilità – numerosi partiti euroscettici.
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Da Google a Twitter, l’élite digitale ha preso il potere
«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.«C’è un pianeta parallelo ormai che vive e vegeta in un’altra dimensione, fatta di sterminate, inconcepibili sequenze di numeri che si spostano a velocità impressionanti, si trasformano e appaiono sui nostri schermi quali testi, foto, immagini in movimento e influiscono su ogni attività contemporanea». La “rivoluzione digitale” incede solenne, scrive Benigni nel suo blog in un post ripreso da “Megachip”. Il web «non perde tempo a condividere i valori e le visioni del passato» e in pratica «non rispetta nessuno, neanche i governi e gli ultimi Stati rimasti sovrani». Tutto viene travolto dalle “digital power élites” «costituite da 20enni, 30enni, solo raramente 40enni e 50enni che, giunti in parte dai garage e dalle cantine degli angoli più remoti del mondo e in parte da prestigiose università, oggi siedono nei consigli di amministrazione di enormi “conglomerates” e da lì “shape the history” (danno forma alla Storia del Futuro)».Il 2013 si era aperto con l’annuncio da parte di Pay Pal, il maggior gestore di transazioni economiche in rete, del proprio sistema mobile: per l’e-trading, un’accelerazione radicale, ovvero «la possibilità di spostare denaro con pochi click sul cellulare o sul tablet». In sintonia con questa tendenza, a febbraio Twitter ha siglato l’accordo con l’American Express: da questa accoppiata – social network e gestori di carte di credito – possono scaturire «scenari da fantaeconomia», osserva Benigni, dal momento che ormai «tre italiani su quattro comprano direttamente online», e nel 2016 il mercato italiano varrà 20 miliardi di euro (in Europa ne vale già 311). Il 2013, continua Benigni, è l’anno in cui i vecchi protagonisti della scena, i Ginger e Fred dell’hardware-software, soffrono di più. «Lord Microsoft accusa pesanti colpi al suo fatturato dovuti all’avvento dei nuovi sistemi operativi, primo fra tutti Android. E anche la vecchia lady Apple, per la prima volta in 10 anni, nonostante la cavalcata selvaggia dei suoi I-Phone e I-Pad, vede un calo degli utili». Tablet e smartphone dilagano dovunque: «Anche il sofferente mercato italiano, a maggio, registra un’impennata di vendite, nonostante la crisi». Il ruolo strategico dei social network condiziona motore di ricerca come “Yahoo!”, costretto a limitarsi al 15% delle ricerche mondiali. Come Google, ha bisogno di possedere un suo social network, e quindi tenta di perfezionare una partnership con i francesi di Daily Motion. Offerta rigettata, ma “Yahoo!” si consolerà presto comprando Tumbir, un social network con 108 milioni di blog, per 1,1 miliardi di dollari. E anche Daily Motion si consolerà, volgendo la propria attenzione al Giappone.Sul piano politico, intanto, si segnala l’altolà imposto a Mark Zuckerberg, patron di Facebook, costretto a pagare 62 milioni di dollari per risarcire broker e investitori travolti dal crollo del titolo in Borsa. Stop anche alla lobby dell’enfant prodige, messa in piedi per “infiltrare” il Congresso. Messaggio: ok al business, ma non alle scorribande politiche – a meno che non siano orchestrate dall’intelligence, che utilizza i social network per pilotare «piccole e medie rivolte di piazza, colpi di Stato, rimozioni di primi ministri e presidenti ormai bolliti e non più graditi al Washington Consensus». La Cina, intanto, stanca delle critiche sulla tutela dei diritti umani (e del pressing di Google) annuncia che non chiederà più l’accesso agli Internet Protocol alle autorità Usa, che ne hanno fatto “cosa nostra”, ma si rivolgerà direttamente all’Agenzia delle Nazioni Unite di Ginevra, che è l’istituzione suprema preposta al rilascio. «La decisione genera un grande imbarazzo diplomatico, ma tant’è: è solo uno degli atti di cyber-guerra fredda degli ultimi anni tra le due superpotenze».Il colpo di grazia alla credibilità di Facebook è il caso Datagate, scoppiato a giugno: tutti i dati sensibili degli utenti sono a disposizione della Nsa. I gestori del web sono in imbarazzo, Zuckerberg licenzia 520 dipendenti della sua controllata Zynga e in Borsa perde il 20%, crollando ai minimi, salvo poi recuperare utenti grazie all’uso dei dispositivi mobili. Per Benigni,la transizione dal Pc al laptop è un’altra “rivelazione” del 2013. Amazon fa sapere che i primi 10 prodotti venduti a livello mondiale «sono tutti devices digitali». E pertanto il boss Jeff Bezos, uno che a 49 anni fornisce 225 milioni di clienti e che in un giorno solo, secondo “Fortune”, riesce a guadagnare o a perdere anche 2 miliardi di dollari, annuncia che vuole mettersi in concorrenza con i grandi costruttori di tablet. E’ forte del successo del suo Kindle, che sta rivoluzionando tutta la tradizione di lettura libri, ma non basta. A Seul quelli della Samsung non lo faranno passare. Comincia a perdere anche Amazon.Infine, nella seconda parte del 2013, si apre un vero scontro politico tra l’élite digitale e i governi. Prima questione: i grandi motori di ricerca, Google in testa, devono pagare editori e case discografiche, perché «è grazie a loro che esiste qualcosa da ricercare». Secondo problema, più rilevante per i governi: «Questi furboni devono pagare le tasse come gli altri», perché «non è giusto che facciano profitti con la pubblicità sui territori europei e poi si inguattino i soldi nei paradisi fiscali». Google viene colta con le mani nel sacco: nel solo 2012 ha trasferito in Bermuda 8,8 miliardi di dollari. E dalle sue sedi europee, soprattutto quella irlandese, si è sottratta al fisco con grande destrezza. I lobbisti di Google si scatenano per correre ai ripari: coi francesi chiudono un pagamento di 60 milioni di dollari a favore di editori e case musicali, ma resta per aria la questione delle tasse – che non è ancora risolta.E mentre “volano gli stracci” quando si scopre che la Nsa ha spiato capi di Stato e di governo alleati, Twitter fa il botto a Wall Street, raddoppiando di valore in un solo giorno. «Anche le società digitali start up israeliane fanno il pieno di investimenti. Per un verso sembra di essere tornati ai bei tempi di Nasdaq prima della bolla del 1999. In realtà è Bernanke che pompa 85 miliardi di dollari al mese nel comparto industriale Usa e quindi ne gode anche la Borsa. In ogni caso la rivoluzione digitale smuove oceani di denaro, provocando tsunami e bonacce, sia nella economia degli scambi reali che nella finanza virtuale». Google oscilla attorno ai 300 miliardi di capitalizzazione e genera un fatturato di circa 50 miliardi l’anno. «E’ diventato uno Stato tra gli Stati», dice Benigni. «Quando ti chiede di accettare le sue Condizioni d’Uso per Google+ o YouTube sembra che proponga le nuove norme base di una futura Costituzione Planetaria». E la stessa YouTube, di proprietà di Google, ha annunciato di aver raggiunto l’incredibile cifra di 1 miliardo di utenti attivi al mese. Tutto questo, aspettando i cibernetici “Google Glasses” e le stampanti 3d che permettono a chiunque di riprodurre oggetti solidi, mentre si fa largo la grande promessa del crowdfunding (azionariato popolare per finanziare l’editoria indipendente) e l’ultima “invenzione”, la più scottante, cioè la moneta virtuale rappresentata dai Bitcoin.«Informazione, salute, politica, denaro, cultura, relazioni personali, tempo libero: nulla è più come prima». Oggi, infatti, è tutto on-line. Sono passati vent’anni da quando “Time Magazine”, nel 1983, nominò “Machine of The Year” il personal computer. Da quel momento, con la “rivoluzione digitale”, costruttori di computer e geniali inventori di software hanno cominciano a cambiarci la vita. Che dire poi dell’avvento di Internet: nel 1987 erano connessi in rete 10.000 computer, ma nel 1993 comparve Mosaic, il primo browser, e nel 1996 i computer connessi erano già 10 milioni; oggi sono 3 miliardi e a loro si aggiungono 3 miliardi di dispositivi mobili. Qualcosa è cambiato, non c’è dubbio, e la “rivoluzione” si è arricchita di protagonisti e comprimari: alla coppia iniziale hardware-software, riassume Glauco Benigni, si sono aggiunti i servizi di e-commerce e di e-banking, i motori di ricerca, i social network, i blog, i siti di informazione, le Tv online e i loro antagonisti, hacker e pirati.
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Giulietto Chiesa: con Tsipras, contro questa infame Ue
Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.Per Giulietto Chiesa, fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, Barbara Spinelli coglie nel segno anche quando avverte che i «vecchi partiti della sinistra radicale» non dovranno essere l’architrave della proposta-Tsipras, perché «abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società», superando i margini molto esigui dei rottami della sinistra “arcobaleno”. Se il Partito della Sinistra Europea ha lanciato anch’esso, nel suo congresso costitutivo di Madrid, la candidatura Tsipras, al di là delle migliori intenzioni – secondo Chiesa – il perimetro storico della sinistra rischia di essere un limite invalicabile, un vicolo cieco. Ne è convinto anche il direttore di “Micromega”, Paolo Flores D’Arcais: «La parola sinistra rischia di essere equivoca, oggi: paradossalmente, non usarla è meno equivoco che usarla», dal momento che “sinistra”, per molti, è ormai in contrapposizione con gli ideali di giustizia e libertà.La parola “sinistra” ricorda l’esperienza fallitmentare del socialismo reale, nonché «la catastrofe politica e ideale che ha seguito la sparizione del Pci». E richiama alla mente «i partitini che si definiscono neocomunisti e che sono una parodia», non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa. Rimettere in piedi qualcosa a tutti i costi, ripartendo sempre da quel disastro storico, per Aldo Giannuli ha tutta l’aria di un «accanimento terapeutico». Insistere con l’idea della “ricostruzione della sinistra”, aggiunge Giulietto Chiesa, significa anche restare fuori dalla realtà, prigionieri della logica degli steccati. E oltretutto «taglia fuori, in linea di partenza, ogni rapporto con gli otto milioni di elettori del “Movimento 5 Stelle”», cioè «l’unico insediamento istituzionale di una opposizione in Italia». Vero, il movimento diretto da Grillo e Casaleggio resta refrattario a qualsuasi alleanza. Ma perché «tagliarlo fuori dal dialogo che potrebbe condurre ad una lista civica nazionale come quella che noi proponiamo»?A differenza della sinistra in Italia, in Grecia Syriza è una forza politica in forte ascesa. Valide alcune istanze del Partito della Sinistra Europa, così come del “Movimento 5 Stelle”, ma la forma-partito «è un evidente ostacolo a ogni convergenza, ed è dunque prodromo di sconfitta». Barbara Spinelli propone un’alleanza civica «di cittadini attivi, di persone della società civile», disposti a mobilitarsi per Tsipras. «La strada è quella dei contenuti», continua Chiesa. «Se si sceglie Tsipras come candidato comune, sarà necessario fare riferimento alla sua intelligenza politica e alle sue posizioni: che non sono quelle del rifiuto dell’Europa, ma che la vogliono radicalmente cambiata». Un’Europa che sia una “unione”, diversa dall’attuale “equilibrio di potenze”, basato sugli egoismi nazionali, che si è trasformato nel dominio dei più forti sui deboli, senza meccanismi di riequilibrio economico e sociale.Giulietto Chiesa scende nei dettagli: serve un’Europa democratica e solidale, pacifica e non imperiale. Un’Europa «che cancelli i trattati di Maastricht e di Lisbona, fino al Fiscal Compact e a quel mostro intollerabile che è la costituzione, in corso, di Eurogendfor», la temuta super-gendarmeria europea (sostanzialmente antisommossa) non sottoposta a nessuna magistratura. Serve un’Europa non più ostile, «con una banca centrale interamente pubblica, i cui soci sono le banche centrali interamente pubbliche dei paesi membri». Una nuova Bce, che sia «prestatore in ultima istanza» e «abbandoni la linea dell’austerità». E infine «un’Europa che svolga un ruolo autonomo e sovrano nel contesto internazionale, interlocutrice non più subalterna degli Stati Uniti, propugnatrice di una partnership strategica con la Russia». Questo è Tsipras, «e con questo noi siamo in perfetta sintonia». Ma, aggiunge Chiesa, «occorre verificare chi, in Italia, lo è. E trovare un punto di convergenza che sia comprensibile per le grandi masse popolari di questo paese».Attenzione: l’interlocutore potenziale è costituito da milioni di elettori, a una condizione: «Questo programma non lo si può fare con l’illusione di trasformare il Partito Democratico. La sua dirigenza (non necessariamente i suoi elettori) non è riconducibile ai valori della Costituzione. Infatti è da lì che viene l’attacco a quei valori, impersonato dal presidente della Repubblica». Meglio dunque «riflettere seriamente», anche «per evitare di rimanere intrappolati su posizioni anti-europee che si stanno rapidamente diffondendo a partire dalle destre più o meno estreme», come dimostra l’appello del 27 dicembre, indirizzato ai “maggiordomi” italiani ed europei da parte di un gruppo di intellettuali guidati da Etienne Balibar. Un cambio di rotta per l’Europa? «Si tratta ora di vedere se e quante personalità indipendenti sono pronte ad assumersi la responsabilità di questo passo, rappresentato dalla creazione di una lista civica nazionale». I movimenti che lottano per i “beni comuni” saranno pronti a rispondere all’appello? Per Giulietto Chiesa serve «un programma sintetico, da proporre a milioni di italiani, comprensibile a tutti ed espresso in pochi punti». “Alternativa” nel propone uno, lapidario: «L’Italia non parteciperà più a nessuna azione militare fuori dai suoi confini».Ok a una una lista civica italiana per candidare il capo di Syriza, Alexis Tsipras, alla guida della Commissione Europea: la proposta di Barbara Spinelli, intervistata dal giornale greco “Avgì”, ci permette di «andare alle elezioni del prossimo maggio meno disarmati», sostiene Giulietto Chiesa. Tsipras sarà alla guida di una coalizione “di sinistra”, e nello stesso tempo «alla testa di un partito che potrebbe aspirare al governo della Grecia martoriata dalla violenza neo-liberista». Attenzione, Tsipras è anche «un simbolo della resistenza europea contro le politiche di austerità imposte dalla Trojka». Ha ragione la Spinelli: «In questo momento non c’è candidato migliore e meglio rappresentativo delle istanze popolari e democratiche europee», mentre la politica italiana offre lo sconfortante spettacolo delle “larghe intese”, promosse da un presidente come Napolitano che «è uscito ripetutamente dalle sue prerogative costituzionali», perseguendo un disegno di sostanziale obbedienza ai diktat di Bruxelles, con risultati catastrofici: economia ko, Italia costretta a svendere tutto.
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Qualcuno era comunista e voleva un’umanità felice
Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo. Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari. Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio. Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio. Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio. Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe… Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre. Qualcuno era comunista perché guardava solo Rai Tre. Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione. Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto. Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin. Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia. Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri. Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’Europa. Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo in Uganda. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosi. Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera…Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista. Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia. Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro. Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno; era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.(Giorgio Gaber e Sandro Luporini, “Qualcuno era comunista”, dall’album “La mia generazione ha perso”, aprile 2001).Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.
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Qualcosa di sinistra: solo Civati rispetta gli elettori Pd
Il Pd un partito di destra? Certamente sì, se lo si giudica dalla linea politica: al confronto, il Pri di Ugo La Malfa (Prima Repubblica) «sarebbe stato un partito di estrema sinistra». E persino il Pli di Giovanni Malagodi, ultra-liberale, avrebbe tranquillamente “scavalcato a sinistra” l’attuale partito di Renzi e D’Alema. Ma attenzione: la base del Pd resta interamente di sinistra. E il fatto che continui a tollerare un gruppo dirigente «di destra» – o meglio ancora, di semplici «cretini» – non deve impedire all’elettorato di sinistra di riconoscere il problema: lo stesso vecchio Pci, accanto ai suoi meriti storici, ha coltivato grandi difetti, tra cui proprio l’abitudine a fidarsi dei dirigenti, anche se «allevati come polli in batteria» specie dopo l’estinzione dei padri nobili. Un difetto tipico della sinistra italiana, rimediabile forse soltanto con una forte rottura nel gruppo dirigente: cioè con un leader come Civati, l’unico in fondo a rispettare davvero l’ispirazione di sinistra dell’elettorato Pd.