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Carpeoro: quelli che santificano Moro e dimenticano Curcio
“Santificare” Moro, in quanto vittima della barbarie terrorista? Potrebbe suonare stonato, come le dichiarazioni dei tanti ex-brigatisti felicemente a piede libero, in passerella sulle televisioni nei servizi speciali andati in onda nel quarantennale della tragedia. Certo non era “uno come tutti gli altri”, il presidente della Dc ferocemente assassinato nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Aveva una visione: voleva promuovere l’Italia come attore geopolitico mediterraneo, a dispetto dell’egemonia anglo-francese, e coinvolgere la sinistra – elettoralmente fortissima – nella gestione del paese, con le “convergenze parallele” pensate per il Pci di Berlinguer, partito che allora preoccupava sia Mosca che Washington. Ma sarebbe fare un torto alla verità, avverte Gianfranco Carpeoro, dimenticare l’identità istituzionale di Moro: un politico democristiano, uno dei leader di un’Italia in cui, all’epoca, ogni partito (in mancanza di leggi adeguate) era “costretto” a finanziarsi in modo completamente illegale, dando luogo alla grande ipocrisia di cui poi fu vittima soprattutto Craxi, travolto da Tangentopoli. Ipocrisia sottile, alla quale non erano certo estranei gli stessi “cattolici”: «Non ci faremo processare nelle piazze», fu l’intimazione di Moro quando il suo factotum Sereno Freato finì nel mirino della magistratura per una storia di fondi neri (petroliferi), secondo l’ipotesi di accusa finiti in conti svizzeri.L’altolà di Moro di fronte all’arresto di Freato anticipa il successivo «non ci sto», pronunciato da Oscar Luigi Scalfaro, non ancora promosso al Quirinale e sospettato della gestione di fondi “fantasma” transitati al ministero dell’interno. Aldo Moro “di sinistra”? Meglio: non ostile, possibilista. Democristianamente parlando: coltivò con Berlinguer l’ipotesi di co-gestione del paese e si avvalse dell’alleanza coi socialisti, ma al tempo stesso – ricorda Carpeoro, in web-streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights” – coinvolse un fiero liberale come Giovanni Malagodi nonché il Pri di Ugo La Malfa, autorevole esponente della destra economica italiana, trafficando persino con il Msi di Almirante per l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della repubblica. Non era “uno come gli altri”, tutt’altro: ma anche Moro operava in quell’Italia, con quelle regole. «E i democristiani, così come i comunisti, furono assolutamente risoluti e coesi nel difendersi – non come i socialisti, rassegnati a sacrificare i loro leader così come i socialdemocratici, nel caso di Pietro Longo». Moro non era una scheggia impazzita, in quel sistema di potere: lo conosceva benissimo, ne faceva parte a pieno titolo. Aveva tutte le credendiali per tentare, semmai, di utilizzarlo in modo diverso, per mettere la politica italiana al passo con una società che, dopo il Sessantotto, stava cambiando alla velocità della luce. Né poteva ignorare che i suoi avversari l’avrebbero atteso al varco. Fino al punto di assassinarlo nel modo più infame?Nel libro-inchiesta “Il puzzle Moro” (Chiarelettere), che fa seguito alle clamorose rivelazioni della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni, un giornalista di razza come Giuseppe Fasanella – basandosi anche sull’archivio di Stato britannico – mette a fuoco con precisione gli attori del dramma: killer, mandanti e moventi. Londra decisa (con Parigi) a fermare la politica mediterranea e filo-araba dell’Italia, gli Stati Uniti allarmati dalla prospettiva – nel cuore del sistema Nato – di un governo con il Pci, alleato dell’Urss, e a sua volta l’Unione Sovietica spaventata dall’eurocomunismo di Berlinguer, sempre più critico con Mosca. Tanti servizi segreti, all’opera, per impedire che Moro venisse salvato. Tranne uno, forse: il Mossad. Secondo Carpeoro, l’intelligence di Israele si muove in due modi: agisce a pagamento, su commissione, o per tutelare interessi vitali del sionismo. Nulla, in teoria, con cui avesse direttamente a che fare Moro, sequestrato agevolmente dalle Br, grazie anche a evidenti coperture. Non è strano, dice Carpeoro, che oggi gli ex brigatisti siano liberi: «Se i servizi segreti li hanno coperti all’epoca, è logico che li devono tutelare». Fa eccezione Renato Curcio, il sociologo fondatore delle Br, finito in carcere (sepolto vivo da svariati ergastoli) prima che cominciasse la sanguinosa mattanza degli anni di piombo. «Non si è mai lamentato, non si è mai dipinto come vittima: aveva dichiarato guerra allo Stato e ne he pagato in modo durissimo le conseguenze, restando sempre in silenzio». Un giorno, sostiene Carpeoro, la storia dovrà rivalutare «il profilo etico e intellettuale di Curcio», uomo totalmente estraneo al caso Moro.A chi serve “santificare” Moro, in quanto vittima della barbarie terrorista? Potrebbe suonare stonato, come le dichiarazioni dei tanti ex-brigatisti felicemente a piede libero, in passerella sulle televisioni nei servizi speciali andati in onda nel quarantennale della tragedia. Certo non era “uno come tutti gli altri”, il presidente della Dc ferocemente assassinato nel 1978 per mano delle Brigate Rosse. Aveva una visione: voleva promuovere l’Italia come attore geopolitico mediterraneo, a dispetto dell’egemonia anglo-francese, e coinvolgere la sinistra – elettoralmente fortissima – nella gestione del paese, con le “convergenze parallele” pensate per il Pci di Berlinguer, partito che allora preoccupava sia Mosca che Washington. Ma sarebbe fare un torto alla verità, avverte Gianfranco Carpeoro, dimenticare l’identità istituzionale di Moro: un politico democristiano, uno dei leader di un’Italia in cui, all’epoca, ogni partito (in mancanza di leggi adeguate) era “costretto” a finanziarsi in modo completamente illegale, dando luogo alla grande ipocrisia di cui poi fu vittima soprattutto Craxi, travolto da Tangentopoli. Ipocrisia sottile, alla quale non erano certo estranei gli stessi “cattolici”: «Non ci faremo processare nelle piazze», fu l’intimazione di Moro quando il suo factotum Sereno Freato finì nel mirino della magistratura per una storia di fondi neri (petroliferi), secondo l’ipotesi di accusa finiti in conti svizzeri.
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Craig Roberts: russi svegliatevi, l’Occidente vi vuole morti
Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.All’Onu l’ambasciatore russo, in risposta alle accuse evidentemente gratuite del primo ministro britannico, secondo cui il governo russo ha usato un agente di gas-nervino dell’esercito per tentare di uccidere due persone sedute su una panchina inglese, è ricorso a tutti i possibili mezzi legali, inclusa l’offerta della Russia di collaborare nell’esame delle prove, per dimostrare che l’accusa del Regno Unito è stata mossa in violazione della legge e non è supportata da nessuna prova. Perché i russi pensano ancora che il governo inglese si preoccupi delle leggi o delle prove? L’Occidente ha fatto il lavaggio del cervello ai russi? Il governo inglese di Tony Blair collaborò con George W. Bush per far girare la menzogna secondo cui Saddam Hussein in Iraq aveva delle “armi di distruzione di massa”, e questa bugia è servita per invadere e distruggere l’Iraq e lasciare il paese, dopo 15 anni, in un caos assoluto. Il governo inglese ha confermato anche le menzogne su Gheddafi in Libia e ha contribuito al rovesciamento del governo libico. Il governo inglese ha confermato la menzogna secondo cui l’Iran aveva un programma di armi nucleari anche se non c’era nessuna prova, ma agli inglesi non interessavano le prove. Si stava seguendo un’agenda di lavori che doveva andare avanti indipendente dalle prove.Malgrado il Parlamento inglese abbia votato contro la partecipazione alla prevista invasione della Siria voluta da Obama, l’attuale governo sostiene ancora la menzogna secondo cui Assad sta usando armi chimiche “contro il suo stesso popolo”. Dopo tutto ciò si potrebbe anche pensare che i russi – governo, media e popolazione – dovrebbero aver compreso che l’Occidente è capace di raccontare le bugie e che lo scopo delle bugie ora è di demonizzare la Russia e prepararsi ad un attacco militare contro la Russia. Ma per qualche ragione i russi non riescono a comprendere il messaggio. I russi pensano che si tratti di una specie di errore che si potrà chiarire guardando ai fatti reali, con un regolare processo o con la diplomazia: «Per favore, ascoltateci, possiamo chiarire qualsiasi malinteso!». Come se questo appello servisse all’Occidente. Washington vuole “i malintesi”. E’ per questo che Washington li crea. L’incapacità dei russi di comprendere l’Occidente, quell’Occidente verso il quale la Russia cerca stupidamente di correre, è il motivo per cui la Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. E se invece di accettare il processo e le leggi su cui poggiano le pubbliche accuse fatte alla Russia dal primo ministro inglese senza presentare nessuna prova, l’ambasciatore russo all’Onu avesse semplicemente detto: «Se domani il Regno Unito esisterà ancora, dovrà solo ringraziare la tolleranza del governo russo»?Fidandosi della regola per cui a nessun paese occidentale gliene frega niente di niente, l’ambasciatore russo all’Onu ha permesso al pupazzo francese di Washington e agli altri Stati-fantoccio di Washington di appoggiare le accuse degli inglesi contro la Russia nonostante l’assenza di prove. Forse i russi non ci credevano, perché nessun governo europeo aveva ancora chiesto qualche prova sulla responsabilità della Russia; perché mancava, insomma, un’accusa formale. Nel mondo occidentale “eccezionale e indispensabile” governato da Washington, basta un’accusa, da sola, come prova che dimostra le bugie dette dai russi. Quando il leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn ha chiesto al Pm se avesse effettivamente delle prove che la Russia aveva tentato di uccidere l’ex agente doppiogiochista britannico, Corbyn è stato subito azzittito non solo dai corrotti conservatori ma anche da quelli del partito laburista di cui è il capo. Di quante altre prove avrà ancora bisogno la Russia per capire che i fatti, per l’Occidente, non hanno nessuna importanza?Si sveglierà questa Russia? O il suo stolto desiderio di entrare a far parte dell’Occidente farà sì che i russi resteranno impreparati allo scoppio nucleare di Washington, che per arrivare? E se il governo russo avesse detto a Washington: «Se voi o qualcuno dei vostri terroristi mercenari doveste attaccare le forze siriane, noi elimineremo la vostra presenza e anche quella di Israele dal Medio Oriente»? Cosa che la Russia può fare con un semplice schiocco di dita. Cosa farebbero gli inglesi e cosa farebbe Washington, oltre a farsela sotto? Sicuramente, coglierebbero il messaggio e deciderebbero che la pace è un’idea migliore. Il governo russo, semplicemente, non vuol capire che Washington vede tutti gli appelli dei russi a diplomazia, a rispetto della legge, a fatti e a prove, come segni di estrema debolezza e di mancanza di fiducia. Washington e tutti i suoi paesi-fantoccio non hanno bisogno di fatti. Seguono la loro agenda. I russi, se ancora vogliono guardare ai fatti, fanno solo vedere di essere deboli. E questa manifestazione della debolezza russa incoraggia l’aggressività di Washington. Ma forse il desiderio della Russia di entrare a far parte dell’Occidente è più forte del desiderio di sopravvivere come nazione.(Paul Craig Roberts, “Si sveglierà, la Russia?”, da “Information Clearing House” del 15 marzo 2018, post tradotto da Bosque Primario per “Come Don Chisciotte”).Non è facile per i russi comprendere quello che pensa il loro nemico occidentale e ancora più difficile comprendere che il suo nemico vuole la loro distruzione. Quello che è successo con la Russia è veramente molto strano: è accaduto che il Regno Unito, un paese che non ha un peso militare importante, e che potrebbe essere completamente distrutto dalla Russia (in pochi minuti, e per sempre) si sia inventato delle false accuse contro il governo russo, che abbia reso pubbliche queste accuse – senza fornire prove – che abbia portato queste accuse senza prove alle Nazioni Unite, che abbia lanciato un ultimatum alla Russia, che abbia cacciato i diplomatici russi e che abbia confiscato beni russi sulla base di semplici asserzioni, rifiutandosi nel contempo di collaborare con la Russia nel trovare prove concrete, come prevede la legge, per avviare una indagine. I russi (sia il governo che i media, ma anche quella gioventù a cui è stato lavato il cervello dalla propaganda americana e dalle Ong finanziate da Washington, che sono autorizzate a lavorare contro il governo russo in Russia) sembrano pensare che tutte le accuse e le minacce lanciate contro la Russia siano una svista, uno sbaglio che sarà subito chiarito appena salteranno fuori le prove o interverrà la legge. Apparentemente, dopo tutti questi anni i russi continuano a non capire che Washington e i suoi vassalli non hanno nessun interesse per i fatti o per la legge.
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Fasanella: sabotare l’Italia, tutti complici dei killer di Moro
Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.Tutta da riscrivere, la verità su Moro: ora lo sa anche la magistratura, che ha appena ricevuto la dirompente relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Nel suo nuovo lavoro, “Il puzzle Moro”, edito da Chiarelettere, Fasanella riassume le sconvolgenti conclusioni della commissione: tutti i grandi poteri concorsero al rapimento, affidato alla manovalanza Br. Ma l’autore aggiunge un elemento inedito, altrettanto pesante, tratto dalle carte desecretate dell’archivio di Stato britannico: rivela l’iniziativa di Londra per “sovragestire” l’Italia, con il concorso dei maggiori servizi segreti, a cui Moro (vivo) faceva paura. Fasanella ne ha parlato in due recenti interviste, con Claudio Messoria su “ByoBlu” e poi con Stefania Nicoletti a “Border Nights”, offrendo una sintesi decisamente vertiginosa. Punto primo: nel 1976, due anni prima del sequestro, la Gran Bretagna propone di organizzare un classico golpe militare, in Italia, per bloccare l’azione politica di Moro, considerato una minaccia mortale per gli interessi post-coloniali inglesi, in Medio Oriente e in Africa, dove l’Italia – come già all’epoca di Mattei – sta ridiventando un interlocutore privilegiato per i paesi poveri, in via di sviluppo, impegnati nella grande impresa della decolonizzazione. Seconda notizia: la Francia appoggia con entusiasmo l’idea di schierare carri armati nelle strade italiane. Ma a inglesi e francesi – terza notizia – si oppongono tedeschi e americani.La Germania, ancora divisa in due e impaurita dall’Urss, teme che possa vacillare lo scudo Nato di fronte alla prevedibile reazione della sinistra italiana, allora fortissima, di fronte a un colpo di Stato militare in stile greco. Quanto agli Usa, la loro intelligence ha ancora le ossa rotte dopo la scandalo Watergate che ha appena travolto Nixon: meglio non impelagarsi in qualcosa di orrendo (e imbarazzante) in Italia. Al che, racconta Fasanella, Londra fa scattare il Piano-B: un progetto “eversivo” per sabotare l’Italia, dall’interno. Il progetto è ancora protetto dal segreto, ammette il giornalista, ma il titolo del dossier compare negli archivi: è la prova che la Gran Bretagna ha programmato precise azioni per destabilizzare il nostro paese. «Non a caso, da allora, esplose in modo inaudito la violenza politica tra gli opposti estremismi». Fino alla crescita rapida ed esponenziale delle Brigate Rosse, che culmina con il caso Moro: un delitto perfetto. Soddisfatti gli inglesi, che insieme ai francesi hanno coronato il loro disegno neo-coloniale (amputare la politica estera italiana, filo-araba e filo-africana), e soddisfatti anche gli americani e i sovietici: i primi temevano che l’apertura di Moro al Pci trasformasse l’Italia in una nuova Jugoslavia, mentre i secondi vedevano in Berlinguer un pericoloso “eretico”, capace di allontanare dall’ortodossia di Mosca gli altri partiti comunisti europei.Questo spiegherebbe la sostanziale collaborazione di tutte le strutture di intelligence, amiche e nemiche: le une e le altre, interessate a incassare la fine di Moro come risultato politico. Obiettivo principale, in Europa: mortificare le aspirazioni dell’Italia, congelandone la politica. Non andò esattamente così: con Craxi, il paese divenne un protagonista del G7, e l’Italia rialzò la testa anche in politica estera (inaudita la crisi di Sigonella). Quindi, dopo l’inevitabile liquidazione del leader socialista ribelle, arrivò la normalizzazione definitiva: il rigore Ue, la camincia di forza dell’Eurozona, il vecchio Prodi rimesso in campo per raccontare agli italiani le meraviglie dell’euro. Caduto l’ultimo alibi (Berluconi, l’Uomo Nero da odiare) ora affiorano verità scomode, incresciose, che risalgono agli anni ‘70. La trama è sempre la stessa: l’ha raccontata anche Gioele Magaldi, nel bestseller “Massoni”. Tema: impedire, ad ogni costo, che l’Italia diventi importante. Tutte le volte che ci ha provato – con Mattei e Moro, persino con Craxi – ha mandato nel panico i “sovragestori”, i veri signori dell’élite finanziaria (ieri industriale) che detesta la democrazia. Gli unici italiani tollerati, nei salotti che contano, sono quelli prontissimi a obbedire: Prodi e Ciampi, Draghi e Napolitano. Ora – dopo 40 anni – si scoperchia la vera tomba di Moro. Compaiono i veri killer, e si scopre che i mandanti sono ancora in circolazione. Stanno lassù, come sempre, godendosi lo spettacolo del nostro “populismo” inconcludente: una protesta elettorale che non fa paura a nessuno.(Il libro: Giovanni Fasanella, “Il puzzle Moro”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 17,60).Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.
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Limonov: Putin obbedisce a 30 famiglie. Skripal? False flag
«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».Il quotidiano milanese presenta Limonov, protagonista della premiatissima biografia dedicatagli da Emmanuel Carrère, come «scrittore e politico, bolscevico e nazionalista, playboy e gay, combattente nei Balcani e punk newyorkese». Rifiuta categoricamente l’idea che i servizi segreti di Mosca abbiano avuto un ruolo nel caso Srkipal. Di Putin, che detesta, dice: «Nella sua famiglia vivono a lungo, i suoi genitori sono arrivati a 90 anni. Ma voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto». Della Russia, offre la seguente rappresentazione: «Il paese è governato da 30 famiglie, l’1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India». Il nuovo Zar «è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group», colosso finanziario. E gli oppositori? «Tutti finti. Navalny è uno che stava nel board dell’Aeroflot, raccomandato dal banchiere Lebedev. L’ambiziosa Ksenia Sobchak è parente di Putin: le hanno dato la parte della liberale, ha voluto perdere in partenza dicendo subito che la Crimea va restituita all’Ucraina. E poi c’ è quel furbastro Grudinin che si fa passare per comunista: un idiota, predica il socialismo e possiede una società per azioni, fa il padrone capitalista».In ogni caso, «il caso Skripal è una messa in scena», insiste Limonov, in un’intervista all’Ansa ripresa dall’“Huffington Post”. «La Russia non avrebbe avuto nessun tornaconto ad ammazzarlo, anzi: se fosse stato davvero pericoloso, non lo avrebbero liberato per poi tentare di ammazzarlo. Col nervino si muore in pochi minuti, mentre lui invece è ancora vivo». La Russia, argomenta Limonov, era stata “depennata” nel 1991 dalla lista degli avversarsi, causando frustrazione: la caccia al “nemico”, benché inventato, è la spiegazione dell’isteria anti-russa che si sta scatenando. «Basta vedere la caccia alle streghe in corso oggi negli Usa, e il modo in cui la Russia viene vista in Occidente, in modo ripugnante. È davvero senza precedenti. Anche perché un tempo esisteva la diplomazia, oggi non più». Secondo Limonov, l’Occidente ha un’idea semplificata del sistema politico russo e, soprattutto, sopravvaluta il potere di Vladimir Putin. «Le decisioni – dice – non le prende lui da solo, ma in modo collettivo. Il paese – ribadisce – è governato da circa 30 famiglie. E Putin, più che uno zar, è il portavoce di questo gruppo». Il sistema politico russo, insiste Limonov, «non si esaurisce con Putin».Secondo Igor Sibaldi, filologo e scrittore di madre russa, non si riflette mai con attenzione su un dettaglio: «Nel Kgb, Putin non era un generale, ma solo un colonnello». Come dire: un leader, certo, ma obbligato a rendere conto del suo operato ad altri soggetti. Uomini che restano nell’ombra, all’interno dell’impianto di potere creato da Yurij Andropov addirittura alla fine degli anni ‘60, pensato già allora per tenere in piedi la Russia dopo l’eventuale collasso dell’Urss, ritenuto inevitabile prima ancora dell’era Breznev. Se oggi i russi non c’entrano con il caso Skripal, sono comunque nella bufera – non a caso, a pochi giorni dall’annuncio del 1° marzo in cui Putin ha presentato le nuovissime super-armi di Mosca, destinate a ristabilire la parità strategica con gli Usa. Uno schiaffo ai “signori della gerra” – che poi, secondo Gianfranco Carpeoro (autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”) sono anche i veri registi occulti delle stragi europee firmate Isis. «Il neo-terrorismo – afferma Carpeoro – è nato da una spaccatura all’interno della supermassoneria più reazionaria: a un certo punto, qualcuno ha cessato di appoggiare quel tipo di strategia della tensione internazionale». Carpeoro, su “Border Nights”, ha spesso dichiarato di temere un super-attentato, in Europa, stile 11 Settembre – che però non c’è stato. «Vero, e questo significa che si sono rimessi d’accordo su come agire, a livello di “sovragestione”». Basta stragi “false flag” in Europa. Meglio la guerra a Putin?«Ma quali russi! Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell’intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest’inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri». Così lo scrittore russo Eduard Limonov, intervistato da Francesco Battistini per il “Corriere della Sera”. «Questi avvelenamenti sono una commedia», dice. «Una guerra di parole». L’ex spia Sergej Skripal, avvelenato in Inghilterra col gas nervino? La Russia non c’entra: «Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro», sostiene Limonov, facendo eco all’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che sospetta del Mossad israeliano, in rotta con Mosca per l’impegno russo in Siria. Secondo Murray, il Cremlino non avrebbe mai potuto firmare il simile autogol, immediatamente colto come pretesto dal Regno Unito, che ha coinvolto Francia e Usa nella nuova guerra contro Putin a colpi di sanzioni. «Il mondo delle spie l’ho conosciuto in prigione», racconta Limonov al “Corriere”. «In cortile c’era un ufficio dell’Fsb, l’ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?».
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Barnard: cucù, l’Occidente sta investendo miliardi su Putin
Sono le 05:59 del mattino del 12 marzo a Londra. Parte un ordine di acquistare in massa titoli di Stato di un paese straniero da parte di Xxxx Global Assets Associates, tizi con 807 miliardi nel portafoglio clienti. Sono le 23:59 a New York, parte un ordine da Xxxxx Investment Management, gente con 1.230 miliardi nel portafoglio clienti, di acquistare in massa gli stessi titoli di cui sopra. E alla stessa ora, su differenti time-zones, partono identici ordini da simili colossi della finanza speculativa, sempre per comprare quei titoli. Il tutto si assomma in un totale di 6.8 miliardi di dollari in ordini per titoli di Stato di un paese straniero particolarmente appetibile. Quando quelli che devono sapere la verità in geopolitica su un dato governo scuciono somme da Tesoro di Atlantide per comprare dei titoli di quel particolare governo, significa che loro sanno che il governo che vende quei titoli di Stato è al sicuro da veri pericoli letali. Questo, e solo questo, è il motivo per cui vi buttano miliardi. Magari quel governo potrà essere colpito da rogne cosmetiche, tipo gli allarmi delle agenzie di rating, o tipo i bollettini dell’Ocse (vedi Italia anni 2012-16), o dalle pietose ‘sanzioni’ di un continente morto che cammina (Ue). Ma loro, i veri padroni, sanno che nessuno farà davvero fuori quel governo che oggi hanno scelto per investire. Please welcome: Russia & Vladimir Putin.Mentre tutti gli ‘esperti’ e gli ‘autorevoli commentatori’ vi stanno dicendo che adesso Putin – il quale non solo avrebbe truccato le elezioni Usa, ma avrebbe anche tentato di uccidere l’ex spia russa Sergei Skripal a Londra – è nella merda fin sopra i capelli e gli asfalteranno la sua Russia indietro nella preistoria a forza di sanzioni e di minacce di guerre… be’, mentre questo accade e gli allarmismi vi riempiono i notiziari, chi comanda il mondo invece… investe in Putin. Ops? Credo che sia necessario riscriverlo: chi comanda il mondo invece… investe in Putin. Allora, ’sta pagliacciata Occidente-Nato vs Russia-Putin, ormai è ovvia. Partiamo dalla base: Theresa May sa benissimo che Putin non ha un accidenti a che fare con Sergei Skripal. Così come lo Special Us Counsel Robert Mueller sa benissimo che Putin non ha mai davvero truccato le elezioni in America. Il caso Skripal esiste solo a causa dei miserabili affari domestici di un partito conservatore inglese che è alla disperazione terminale per la sua ignobile incapacità di tenere testa a Bruxelles nel Brexit. Il caso Mueller-Putin esiste solo a causa dei miserabili contorcimenti del partito democratico americano che sa perfettamente che ha perso ancora più consensi da quando Trump è stato eletto, e che ha messo truppe in Siria da cui non sa più uscire, per cui gli serve una “distrazione di massa” chiamata Special Us Counsel Robert Mueller.Come detto, chi possiede il Tesoro di Atlantide, in questo momento è rilassato sulla performance dei titoli di Stato russi a 11 anni e a 29 anni di scadenza. Rileggete: 11 anni e 29 anni, sono date da super-tranquilli, almeno oggi. Significa che già oggi 17 marzo 2018, i super investitori come Xxxx GlobalAssets Associates, o Xxxxx Investment Management e altri giganti globali, sanno direttamente dalle stanze del potere politico che conta, che alla fine Putin è intoccabile. Vladimir Putin è un intoccabile. Cos’è il giornalismo? E’ forse una dispensa di verità finali per un pubblico? No, quello è quel cornetto Algida di Travaglio. Il giornalismo è l’incessabile inchiesta di menti libere di fronte a fenomeni apparentemente inspiegabili, ma che ci suggeriscono dati. Il giornalista non è il cretino che, come su “Comedonchisciotte.org” o il “Fq”, dopo un paio di annetti vi dice con cerrrrrtezza chi manovra la Siria, cosa esattttttamente succede in Ucraina o se davvvvvvvero Berlusconi incontrò in Venezuela le cosche.Il vero giornalismo osserva fenomeni immensi, e, se è vero giornalismo, serve alle persone come voi che leggete a essere intelligenti, che è sempre sinonimo di farsi la domanda successiva a quella iniziale che sta in bocca a tutti. Quindi… Perché Vladimir Putin fa con diligenza il gioco buffonesco di tutta la Nato, della stampa internazionale, e poi della May, di Macron, della Merkel, di Mueller e del panico democratico-siriano, opponendo solo proteste di facciata tipo camomilla, mentre gli investitori padroni del mondo corrono a comprargli i titoli? Io sono un intellettuale orribile, perché vero. Vi lascio con questo: no risposte da Barnard. Vi ho dato un quadro, ora voi dovete pensare… cioè think.(Paolo Barnard, “Putin, perché fa il gioco della Nato?”, dal blog di Barnard del 17 marzo 2018).Sono le 05:59 del mattino del 12 marzo a Londra. Parte un ordine di acquistare in massa titoli di Stato di un paese straniero da parte di Xxxx Global Assets Associates, tizi con 807 miliardi nel portafoglio clienti. Sono le 23:59 a New York, parte un ordine da Xxxxx Investment Management, gente con 1.230 miliardi nel portafoglio clienti, di acquistare in massa gli stessi titoli di cui sopra. E alla stessa ora, su differenti time-zones, partono identici ordini da simili colossi della finanza speculativa, sempre per comprare quei titoli. Il tutto si assomma in un totale di 6.8 miliardi di dollari in ordini per titoli di Stato di un paese straniero particolarmente appetibile. Quando quelli che devono sapere la verità in geopolitica su un dato governo scuciono somme da Tesoro di Atlantide per comprare dei titoli di quel particolare governo, significa che loro sanno che il governo che vende quei titoli di Stato è al sicuro da veri pericoli letali. Questo, e solo questo, è il motivo per cui vi buttano miliardi. Magari quel governo potrà essere colpito da rogne cosmetiche, tipo gli allarmi delle agenzie di rating, o tipo i bollettini dell’Ocse (vedi Italia anni 2012-16), o dalle pietose ‘sanzioni’ di un continente morto che cammina (Ue). Ma loro, i veri padroni, sanno che nessuno farà davvero fuori quel governo che oggi hanno scelto per investire. Please welcome: Russia & Vladimir Putin.
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Moro, storia da riscrivere: prigioniero in una casa dello Ior
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».L’ombra del Vaticano spunta «a cominciare dall’individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), da prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus», scrive Maria Antonietta Calabrò. Nello stabile aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell’Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate Rosse. «Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato – si legge nel documento – per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito, oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista». La relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che per alcuni mesi, nell’autunno del 1978, in quello stabile si sarebbe nascosto Prospero Gallinari (il britagatista carceriere di Moro) insieme alle armi usate dal commando che in via Fani sterminò la scorta di Moro. L’alloggio di via Massimi 91 è stato anche il covo-prigione in cui fu detenuto il presidente della Dc? E’ un’ipotesi che la commissione non scarta.Soprattutto, sottolinea l’“Huffington”, grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, «la commissione ha accertato che la “narrativa” ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una “versione ufficiale e di Stato” del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga». In altre parole, «l’unica verità “dicibile” per chiudere l’epoca del terrorismo». Una verità di comodo, «messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore: citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell’ordine e naturalmente dai brigatisti». Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, il servizio segreto interno di allora. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Adriana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia «del più importante agente del Kgb in Italia», come l’ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro “L’Archivio Mitrokhin”), per la commissione «è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l’arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato».Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, «il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell’eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale». Ancora: «Al di là dell’accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell’azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell’omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse». Al riguardo, Fioroni parla di «martirio laico» di Moro, sacrificato sull’altare della guerra fredda: gli americani preoccupati dall’apertura al Pci, che avrebbe avvicinato l’Italia alla Jugoslavia di Tito, e i sovietici allarmati dall’eurocomunismo di Berlinguer, polemico con Mosca e virtualmente contagioso per gli altri partiti comunisti europei, a partire da quello francese.Un capitolo particolare, aggiunge Maria Antonietta Calabrò, è dedicato alle “protezioni” che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. «La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l’ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l’estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani». Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano, riconobbe Casimirri, già latitante, per strada, «Corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo», racconta Vero Grassi, vicepresidente della commissione Fioroni. Il cantante toscano ha raccontato a “Vanity Fair” di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni ‘70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, dove Alessio (provetto sub) gli mostrava i suoi trofei di pesca. Il padre di Casimirri, Luciano, è a sua volta un personaggio leggendario: sopravvissuto allo sterminio nazista della Divisione Acqui a Cefalonia dopo l’8 settembre del ‘43 (come il protagonista del film “Il mandolino del capitano Corelli”, con Nichoals Cage e Penelope Cruz), era poi stato responsabile della sala stampa vaticana sotto tre Papi: Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, quello che rivolse lo storico appello agli “uomini delle Brigate Rosse” per la liberazione di Moro – sequestrato e trattenuto, si apprende ora, in un palazzo di proprietà del Vaticano.Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quarant’anni) del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima relazione, scrive Maria Antonietta Calabrò sull’“Huffington Post”, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei carabinieri, quell’auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista. Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma un mese prima del sequestro dalle fonti palestinesi del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, vicinissimo a Moro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta. La commissione Fioroni rivela inoltre che il prigioniero Moro, prima di essere ucciso, ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Il che «dimostra che in un modo o nell’altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda».
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Murray: a colpire Skripal è stato il Mossad, non la Russia
Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?La versione di Londra, scrive “L’Antidiplomatico”, non convince affatto l’ex ambasciatore britannico Craig Murray, che invita ad approfondire una strada diversa: quella che conduce direttamente a Israele e al Mossad. Lo riporta il giornalista investigativo Nafeez Ahmed su “Insurge”. Semmai è Israele a possedere l’agente nervino, spiega Murray, e il suo servizio segreto, il Mossad, «è estremamente abile negli omicidi in territorio straniero». Theresa May ha rivendicato la propensione russa all’assassinio all’estero far credere che ci sia Mosca dietro all’attentato? «Se è per questo, il Mossad ha una propensione ancora maggiore all’assassinio all’estero», afferma Murray. «E mentre mi sto sforzando per trovare un motivo valido per cui la Russia avrebbe dovuto rischiare di danneggiare la sua reputazione internazionale in modo così penoso – aggiunge – Israele ha una chiara motivazione per danneggiare la reputazione russa in modo così profondo». E spiega: «L’azione russa in Siria ha minato la posizione israeliana in Siria e Libano in modo fondamentale, e Israele ha tutti i motivi per voler danneggiare la posizione internazionale della Russia con un attacco che mira a gettare responsabilità su Mosca». Murray inoltre evidenzia come sia improbabile che i russi «abbiano atteso otto anni per colpire», dopo la “diserzione” del loro vecchio agente. Allo stesso modo, «non ha alcun senso assassinare improvvisamente una spia liberata attraverso uno scambio di prigionieri, e che per ben otto anni ha vissuto a Londra alla luce del sole».Nel caso Skripal, scrive “L’Antidiplomatico”, a colpire è la determinazione, la pervicacia, con cui le autorità britanniche si affannano a incolpare la Russia, «senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno delle tesi accusatorie», peraltro seccamente smentite persino dall’Opcw, l’organizzazione internazionale per la proibizione delle armi chimiche. «L’agenzia, con sede a L’Aia, ha infatti certificato che la Russia ha distrutto il proprio arsenale di armi chimiche, agenti nervini compresi». L’Opcw non ha quindi trovato alcuna evidenza indicante che la Russia mantenga una capacità di “avvelenamento” da gas nervino, «mentre non si può dire lo stesso per Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele». A far da detonatore, dopo il successo russo in Siria, potrebbe anche esser stato il clamoroso annuncio del 1° marzo, nel quale Putin – presentando i nuovi missili atomici iper-sonici, come nuova frontiera della deterrenza (armi che annullerebbero l’arsenale nucleare Usa) – ha di fatto mutato, in modo clamoroso, l’aspetto militare dell’equilibrio geopolitico. Al punto che Donald Trump è giunto alla rimozione di Rex Tillerson. Nuovo segretario di Stato, il “falco” antirusso Mike Pompeo, che lascia la guida della Cia a Gina Haspel, accusata di aver introdotto l’uso sistematico della tortura (come il “waterboardig”) per i sospetti terroristi, inclusi quelli detenuti a Guantanamo in flagrante violazione dei diritti umani.Porta la firma del Mossad israeliano il tentato omicidio in Inghilterra dell’ex agente russo Sergej Skripal, che ha innescato la guerra tra Londra e Mosca con espulsioni simmetriche di diplomatici. Lo sostiene Craig Murray, già ambasciatore britannico in paesi come l’Uzbekistan. Murray non è un fan di Putin. Al contrario: ritiene che siano stati i russi ad assassinare col polonio Alexandr Litvinenko nel 2006, in più imputa alla Russia l’occupazione “illegale” della Crimea e dell’Ossezia del Sud (Georgia), e arriva ad accusare il Cremlino di aver organizzato auto-attentati allo scopo di avere il pretesto del «brutale assalto alla Cecenia». E’ infatti emerso che fu proprio Boris Eltsin a promuovere il “separatismo ceceno”, per poi procedere con l’intervento militare (cui mise fine proprio Putin). Ma stavolta i russi non c’entrano, con l’attentato che ha ridotto in fin di vita l’ex 007 Skripal e sua figlia Yulia nella città inglese di Salisbury. E’ più che sospetta la determinazione con la quale il governo britannico ha subito puntato il dito contro Mosca: la premier Theresa May e il ministro degli esteri Boris Johnson additano la Russia come unico mandante. La loro tesi: l’ex agente del Gru (l’intelligence militare di Mosca, poi passato agli inglesi) è stato avvelenato con gas nervino. Ma è l’agenzia internazionale per il disarmo chimico a chiarire che la Russia non dispone più di gas letali. E poi, perché rischiare un simile autogoal d’immagine?
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Europa privatizzata: non teme la sinistra, ma la democrazia
Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.«La statistica degli ultimi anni ci suggerisce che i mercati oggi sono sempre meno spaventati se un paese dell’area euro affronta un momento più o meno lungo di “non-governo”», scrive il “Sole 24 Ore” in un passo citato da Cararo su “Contropiano”. «È la prova che oggi i governi nazionali dell’area euro contano sempre meno», aggiunge il quotidiano di Confindustria. «Le regole dei trattati sovranazionali, sottoscritte attraverso cessioni parziali di sovranità, depotenziano – che piaccia o no – le iniziative “fuori dagli schemi” a livello nazionale». Per Cararo sono «parole pesanti come piombo, ma veritiere», che infatti «delineano uno scenario con cui fare inevitabilmente i conti». Sulla realtà dell’Italia post-elettorale, aggiunge Cararo, «incombono ipoteche già in scadenza come la manovra finanziaria aggiuntiva che l’Italia dovrà fare a primavera sulla base dei diktat dell’Unione Europea, poi c’è il Fiscal Compact da approvare entro l’anno, e poi ci sono i “mercati finanziari” che fino ad ora non sembrano molto preoccupati della instabilità politica in Italia, come non lo sono stati di quella post-elettorale in Belgio, Spagna, Germania». E questo, «nonostante siano stati sconfitti due partiti “di sistema” come Pd e Forza Italia e abbiano vinto due partiti percepiti – fino ad ora – come “antisistema e populisti”», vale a dire Movimento 5 Stelle e Lega.Se hanno vinto grillini e leghisti, dice Cararo, è per via della «composizione sociale “spuria” delle classi subalterne nel nostro paese», strati sociali che «avevano bisogno di un nemico sulla base del quale darsi – in negativo – una identità». Il “nemico” della Lega sono i migranti, quello dei 5 Stelle la “casta” dei partiti corrotti. Alle urne c’era un’Italia esasperata, «ma la “sinistra” non le ha offerto nulla di alternativo». Il cosiddetto antifascismo di oggi, tornato in auge come bandiera da sventolate contro CasaPound, per Cararo «va declinato nella sua attualità». Ovvero: «Il nesso tra le politiche antipopolari connaturate all’Unione Europea e la società del rancore che vota per vendetta, era la contraddizione che andava colta e agita a tutto campo». E se l’Europa del rigore produce l’Italia del rancore, quella è la faglia lungo la quale – per Magaldi – occorre predisporre una risposta democratica ampia e popolare, che potrebbe chiamarsi Pdp, Partito Democratico Progressista. «Partito, innanzitutto, fatto di militanti e dirigenti democraticamente selezionati: perché di quello c’è bisogno, non di cartelli elettorali velleitari che si squagliano come neve al sole dopo aver raccolto lo zero-virgola, alle urne». Progressista, in quanto «liberale e socialista come Olof Palme, il premier svedese assassinato nel 1986 anche per intimidire la socialdemocrazia europea».Al leader svedese, costruttore del miglior welfare europeo (nonché di una formula economica basata sulla partecipazione azionaria degli operai nelle aziende aiutate dallo Stato) il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno, in primavera, a Milano. «Con Palme, probabilmente, questa Disunione Europea non sarebbe mai nata», sostiene Magaldi, che nel bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) ha messo a nudo la natura supermassonica del vero potere, che all’inizio degli anni ‘80 – con il patto “United Freemansons for Globalization” – ha imposto questa mondializzazione brutale e senza diritti. Primo step, all’epoca: liquidare la sinistra socialista. Con il piombo, come nel caso di Palme, o con la comparsa dei post-socialisti come Clinton e Blair, pronti a smantellare diritti (precariato, flessibilità) e procurare profitti stellari all’élite finanziaria, tra deregulation per i capitali e turbo-privatizzazioni a favore degli “amici”. Magaldi non è catastrofista: riconosce ai 5 Stelle e alla Lega di aver sostenuto istanze democratiche sacrosante. Il problema? La mancanza di una sintesi, puntualmente palesata dalla paralisi post-voto. «Lasciamo perdere la parola “sinistra”», propone Magaldi, «e rispolveriamo ideologie utili: quella liberale, democratica, e quella socialista». Unica possibilità: «Costruire insieme una via d’uscita largamente popolare, condivisa, per trovare la forza di smontare le regole truccate di quest’Europa “matrigna” e privatizzata».Non è possibile rimuovere il dato che il “popolo” «ritenga ormai la sinistra parte del problema e non della soluzione». Su “Contropiano”, che si definisce “giornale comunista online” e si è schierato con “Potere al Popolo”, Sergio Cararo ammette: il cosiddetto “popolo della sinistra”, «ormai residuo, residuale e limitato» (vedasi il pessimo risultato di “Liberi e Uguali”) «non è più sufficiente né credibile neanche per una dignitosa testimonianza istituzionale». Lo stesso “Potere al Popolo” «non è riuscito ad esprimersi fuori dal perimetro e dal linguaggio del popolo della sinistra». Per Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, la parola “sinistra” non è di per sé sinonimo di progressismo, come non lo è l’ideologia comunista, «che di fatto finisce sempre per affidare il potere a un’oligarchia (di burocrati, in questo caso)». Magaldi si definisce liberale e socialista: storicamente, il liberalismo ha rappresentato la rottura del monopolio politico dell’élite economica, e il socialismo ha offerto il know-how per mettere in pratica una giustizia sociale che non lasci indietro nessuno. Il dramma, in questa Italia – dice Magaldi a “Colors Radio” – è che abbiamo cestinato le ideologie utili, per tenerci solo quella, ipocrita e subdola, del neoliberismo disonesto, devastatore e privatizzatore, in nome del quale la super-casta finanziaria ha occupato militarmente le istituzioni, nazionali ed europee.
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Putin: Usa fermatevi, abbiamo missili iper-sonici ‘imparabili’
Scordatevi di passarla liscia, dopo aver colpito la Russia con un “first strike”, un attacco nucleare preventivo come quello lungamente accarezzato dai neocon annidati alla Casa Bianca sotto la presidenza Obama: Mosca dispone di armi nuovissime e micidiali, in grado di annullare l’intero arsenale balistico statunitense. Ha del clamoroso, il recente annucio di Putin: i russi hanno a disposizione armamenti fino a ieri inimmaginabili. Missili atomici intercontinentali fulminei, non intercettabili: viaggiano a una velocità pari a 20 volte quella del suono, e non in base a un’orbita prestabilita. I missili Avangard e Sarmat sono a guida remota, pilotati a distanza e diretti sul bersaglio, su cui piombano dopo un volo a bassissima quota. In più, la Russia annuncia di aver varato il primo drone sommergibile della storia, un natante senza pilota in grado di filare a 200 chilometri orari a grande profondità, anch’esso armato con missili atomici. «Non esiteremo a impiegare questi armamenti – avverte Putin – per difendere il suolo russo e anche i nostri più vicini alleati». Il che, tradotto, «significa una sola cosa: la protezione strategica russa si estende alla Cina», sostiene Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”. Di colpo, l’annuncio del Cremlino vanifica 15 anni di continue provocazioni da parte degli Usa, che hanno sostanzialmente accerchiato la Federazione Russa.Tutto comincia nel 2002, un anno dopo l’11 Settembre, quando George W. Bush decide di stracciare il trattato Abm stipulato nel 1975: impegnava Usa e Urss a non sviluppare difese strategiche contro i missili balistici, esponendo in tal mondo le due superpotenze, in modo simmetrico, alla rappresaglia incrociata – la famosa “pax nucleare”, fondata sulla reciproca deterrenza atomica. Dopo il crollo delle Torri Gemelle, in piena era Bush, gli Usa hanno avviato la loro “guerra infinita” col pretesto del terrorismo islamico, di fatto chiudendo l’ex Unione Sovietica in una sorta di assedio progressivo. Afghanistan e Georgia, estensione della Nato nell’Est Europa (violando la storica promessa fatta da Bush senior a Gorbaciov), quindi la clamorosa provocazione del golpe in Ucraina travestito da rivolta democratica, a ridosso della frontiera russa, e infine la guerra in Siria, per tentare di rovesciare l’alleato mediorientale di Putin, a capo dell’unico paese che ospiti una base militare di Mosca (quella di Tartus, nel Mediterraneo) situata fuori dai confini russi. Ultimo capitolo del piano pluriennale di accerchiamento: la tensione (pirotecnica) con la Corea del Nord. Obiettivo generale degli Usa, secondo Chiesa: posizionare truppe e missili a ridosso dei missili di Mosca, per poterli colpire al momento del lancio.Di recente, aggiunge Chiesa, gli Stati Uniti hanno annunciato che tra 5-6 anni sarà pronto il loro “scudo spaziale antimissile”, progettato probabilmente per neutralizzare i vecchi armamenti russi. Le nuove super-armi di Putin invece sono già pronte, e l’annuncio del Cremlino (difficile che si tratti di un bluff) potrebbe avere conseguenze politiche inaudite: ristabilisce l’antica parità strategica infranta dagli Usa e mette anzi la Russia in posizione di vantaggio. Come dire: finiamola una volta per tutte, con questa corsa folle, perché nessuno potrà colpire l’altro senza rimetterci la pelle. I super-missili russi possono radere al suolo il Giappone e colpire l’America, ma è ovvio che nel mirino c’è soprattutto l’Europa (Italia in primis) trasformata in “fortezza” con decine di basi Nato: le installazioni missilistiche europee, par di capire, sarebbero le prime a essere colpite. La mossa di Putin, che aveva sperato invano nell’elezione di Trump per poter voltare pagina, ha un valore geopolitico inaudito. Fino alla vigilia delle sanzioni euro-atlantiche contro l’economia russia, all’epoca dei giochi olimpici di Sochi, Putin aveva ripetuto un messaggio chiarissimo: la Russia chiede rispetto e vuole essere un partner dell’Occidente, non un antagonista. Obama e la Clinton hanno risposto con la demonizzazione del Cremlino, trasformando l’Est Europa in una caserma Nato.Ora, Putin rimette la palla al centro. Non provateci, è come se dicesse: non vi conviene. Bisogna cambiare politica: e se non basta la diplomazia, a pesare sarà la minaccia dei super-missili. E’ di enorme portata, osserva Chiesa, il passaggio in cui Putin avverte: reagiremo anche se a venir colpita fosse la Cina, che evidentemente non è ancora in grado di schierare armi analoghe: rivela la profondità dell’alleanza difensiva russo-cinese, maturata in risposta all’offensiva americana. Inoltre, aggiunge Chiesa, se queste armi sono già in funzione, la loro presenza cambia completamente il quadro strategico, sul piano militare: annulla, di colpo, la storica superiorità navale degli Usa, trasformando le portaerei in “barchette di carta”, «perché questi missili non sono “parabili”, attualmente: sono troppo veloci e imprevedibili». Di fatto, «va a farsi benedire l’idea stessa della guerra nucleare, così com’era stata concepita in tutti i decenni precedenti». Tramonta la storica superiorità strategica defli Stati Uniti? Implicazioni sconcertanti: archiviano «l’idea stessa della possibilità di uno scontro». E c’è di più: Russia e Cina si muoveranno insieme, nella conquista dello spazio. «Significa avere una proiezione prima impensabile, nel campo delle armi spaziali, grazie alla tecnologia russa e ai mezzi finanziari cinesi».«Con questa mossa – aggiunge Giulietto Chiesa – la Russia comunica che la parte militare della “guerra ibrida” è ancora disinnescabile: una bomba ancora fermabile». Ma quella che Papa Francesco chiama “Terza Guerra Mondiale a pezzi” è appunto “ibrida” e pienamente in corso: guerra mediatica, guerra tecnologica, guerra biologica, guerra climatica, guerra finanziaria. Poi c’è una guerra ancora più invisibile, affidata ad armi segrete in fase di sperimentazione. «E in tutte queste guerre – dice Chiesa – ho l’impressione che la Russia sia in grande svantaggio: sicuramente l’immensa rete web è interamente in mani americane». Altro problema, per Mosca: l’energia. «I russi sono molto vulnerabili sotto il profilo energetico, perché l’intero mercato del petrolio è ancora nelle mani dell’Opec, cioè degli Usa. A stabilire il prezzo del barile sono 9 grandi banche internazionali, di cui 6 statunitensi, che possono infliggere colpi durissimi a chi non sta al loro gioco, cioè paesi come Venezuela, Iran e Russia». La guerra biologica, sottolinea Chiesa, è basata sulle nano-tecnologie, con esiti inimmaginabili: «Parliamo di strumenti di controllo e di previsione che hanno la dimensione di una molecola, inseribili in qualsiasi corpo». Quanto alla guerra climatica, è la stesa marina Usa ad annunciare che, nel 2025 gli Stati Uniti avranno il controllo del clima mondiale: potranno condizionare la vita di milioni di persone, in ogni continente.«Tutto è aperto, ma questo quadro dipende comunque dalla realizzabilità di un attacco militare distruttivo e definitivo», conclude Giulietto Chiesa. «La Russia si conferma in questo momento una forza deterrente cruciale, anche se gli europei non l’hanno ancora capito. I cittadini sono fuori causa, dal momento che non sono informati: ma i dirigenti europei dei paesi Nato? Sono consapevoli del rischio che stiamo correndo, e della tendenza a uno scontro?». Il gruppo dirigente Usa puntava al “first strike” risolutivo entro 8-10 anni, che ora non è più pensabile: assisteremo quindi a un ragionevole cambiamento di strategia, o i gruppi che vogliono la guerra reagiranno invece con un’accelerazione? «Sfortunatamente, il sistema mediatico ha mascherato questa realtà: non l’ha fatta arrivare alle orecchie e agli occhi del grande pubblico occidentale. E’ tempo di rimettere al passo le lancette degli orologi, rendendoci conto di quello che sta davvero avvenendo». Dall’alto dei suoi nuovissimi missili supersonici, Vladimir Putin annuncia “cinque anni di tempo per rinsavire”.Scordatevi di passarla liscia, dopo aver colpito la Russia con un “first strike”, un attacco nucleare preventivo come quello lungamente accarezzato dai neocon annidati alla Casa Bianca sotto la presidenza Obama: Mosca dispone di armi nuovissime e micidiali, in grado di annullare l’intero arsenale balistico statunitense. Ha del clamoroso, il recente annucio di Putin: i russi hanno a disposizione armamenti fino a ieri inimmaginabili. Missili atomici intercontinentali fulminei, non intercettabili: viaggiano a una velocità pari a 20 volte quella del suono, e non in base a un’orbita prestabilita. I missili Avangard e Sarmat sono a guida remota, pilotati a distanza e diretti sul bersaglio, su cui piombano dopo un volo a bassissima quota. In più, la Russia annuncia di aver varato il primo drone sommergibile della storia, un natante senza pilota in grado di filare a 200 chilometri orari a grande profondità, anch’esso armato con missili atomici. «Non esiteremo a impiegare questi armamenti – avverte Putin – per difendere il suolo russo e anche i nostri più vicini alleati». Il che, tradotto, «significa una sola cosa: la protezione strategica russa si estende alla Cina», sostiene Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”. Di colpo, l’annuncio del Cremlino vanifica 15 anni di continue provocazioni da parte degli Usa, che hanno sostanzialmente accerchiato la Federazione Russa.
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Carpeoro: avremo la solita merda, perché votiamo con odio
Nessuno si faccia illusioni: alla fine delle procedure istituzionali di rito, lente e macchinose, al governo ci sarà il solito schifo, fatto di politici “dimezzati” e proni ai diktat dell’élite finanziaria. Detto in francese: «Avremo la solita merda». Motivo? «Abbiamo votato come sempre: contro qualcuno, anziché per qualcosa. Ha vinto l’odio, ancora una volta. Inevitabile, quindi, che il risultato finale sia il nulla, il vuoto assoluto». Gianfranco Carpeoro non ha dubbi: nascerà comunque un governo, perché la “sovragestione” dei poteri forti teme un unico scenario, quello di nuove elezioni. Quale governo? Dipende dalla formula che alla fine prevarrà, dopo aver in ogni caso rottamato Matteo Renzi: l’ex premier «verrà “garrotato” lentamente, in modo che si tolga di mezzo e cessi di ostacolare l’unica soluzione percorribile, cioè quella di un esecutivo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd», opportunamente de-renzizzato. La sortita di Emiliano, che tifa per la convergenza verso i grillini? «Una candidatura personale, nel caso nel Pd prevalga la tentazione di un’alleanza aperta coi pentastellati». La discesa in campo di Calenda? Solo una variazione sul tema: «Sarebbe lo scivolo perfetto per riproporre la candidatura di Gentiloni, come capo di un “governo del presidente”, in ogni caso sempre sostenuto dai 5 Stelle e dal Pd senza più Renzi», ridotto al ruolo di semplice senatore e di fatto isolato, anche se a capo di una nutrita pattuglia di parlamentari a lui fedeli.
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La piovra del rating: ecco chi ha vinto (davvero) le elezioni
La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.L’effetto immediato del voto negativo è un aumento dei tassi di interesse per “ricomprare” la fiducia dei sottoscrittori di obbligazioni e di altre forme di credito, per cui tutto il debito pubblico e privato di una nazione costa subito di più, con ricadute negative sul bilancio statale e con l’aggiunta di ulteriori tagli alla spesa sociale. Per le nazioni più deboli, queste decisioni provocano anche una caduta del valore di scambio della moneta, con effetti devastanti sulle importazioni (che costano di più), sulle esportazioni (che valgono di meno) del paese, sul suo bilancio statale e sui livelli di vita della popolazione; con la deregolamentazione dell’economia, soprattutto dall’inizio degli anni Novanta, queste agenzie sono diventate il “grande fratello” finanziario e hanno progressivamente accumulato un potere immenso, superiore a quello degli Stati e delle banche centrali, sia nella valutazione delle politiche dei governi che dell’andamento economico di qualsiasi entità privata, determinando le decisioni di tutti gli attori economici.All’inizio le agenzie offrivano, a pagamento, ai detentori di titoli di credito i loro giudizi sul comportamento dei debitori. Adesso persino i debitori pagano per avere un “voto” prima di emettere un’obbligazione o attingere a qualsiasi altra forma di credito. Senza il voto delle agenzie, economicamente non si esiste più. Per poter comprare o vendere, per prendere o dare a prestito, bisogna pagare il “pizzo” per ricevere la protezione o il semplice riconoscimento da parte di questi nuovi potentati. Ora le tre maggiori agenzie di rating sono delle entità private strutturate come società per azioni e quindi parte della logica di mercato e sottoposte al principio del massimo profitto possibile; inoltre le agenzie in questione hanno partecipazioni dirette, anche attraverso i membri dei loro consigli direttivi, board of directors, nelle più grandi corporation internazionali e delle più grandi banche internazionali, pesantemente coinvolte nelle operazioni di finanza derivata, cioè in quelle speculazioni finanziarie principalmente responsabili delle bolle speculative e dell’attuale crisi finanziaria sistemica globale.La Standard & Poor’s (S&P) è sussidiaria della multinazionale McGraw-Hill Companies, con sede centrale a New York, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e presente in quasi tutti i settori economici. La multinazionale, proprietaria anche di “Business Week”, nel 2005 vantava un fatturato di 6 miliardi e un profitto di 844 milioni di dollari. Il presidente di McGraw-Hill è Harold McGraw III, che è, tra le altre cose, contemporaneamente membro del Board of Directors della United Technology (multinazionale degli armamenti) e della ConocoPhillips (petrolio ed energia). È stato anche membro del “Transition Advisory Committe on Trade” del presidente George W. Bush, padre dell’ex capo della Casa Bianca. Tra i membri del Board of Directors della McGraw-Hill, che decidono quindi anche dell’attività della S&P, figurano: sir Winfried Bishoff, presidente della Citigroup Europa e uomo di punta della Henry Schroder Bank di Londra; Dougals N. Daft, presidente della Coca Cola Co.; Hilde Ochoa-Brillenmbourg, alto responsabile della Credit Union del Fmi-World Bank; James H. Ross, della British Petroleum; Edward B. Rust Jr., presidente dell’assicurazione State Farm Insurance Company (gigante del settore assicurativo, bancario e immobiliare, sotto scrutinio per le politiche troppo disinvolte dopo l’urgano Katrina), direttore della Helmyck & Payne, colosso del settore petrolifero e già membro del Transition Advisory Team Committee on Education della presidenza di George W. Bush (padre); Sidney Taurel, presidente della farmaceutica Eli Lilly (che in passato ha vantato tra i suoi dirigenti anche Kenneth Lay, condannato per la bancarotta della Enron) ex direttore dell’Ibm, già membro nel 2002 dell’Homeland Security Advisory Council.L’agenzia di rating Fitch di New York è sussidiaria della multinazionale dei servizi finanziari Fimalac, con sede centrale a Parigi. Nel 2005 la multinazionle americana delle comunicazioni Hearst Corporation ha rilevato il 20 per cento del pacchetto azionario. Il suo presidente è Marc Ladreit de Lacharriere, uomo della Renault e della Banque Suez. Tra i membri del Board of Directors figurano: David Dautresme della banca Lazard Freres; Philippe Lagayette della Jp Morgan & Cie; Bernard Mirat della Cholet-Dupont (finanza); Bernard Pierre della Fremapi (metalli preziosi). La Fimalac vanta anche un International Advisory Board per dare più lustro e potere alla multinazionale, che nel 2002 annoverava tra gli altri: Felix Rohatyn della Lazard Freres, l’uomo che ha recentemente smantellato l’industria americana dell’auto, Sholley della Ubs Warburg, Reimnits della Kommerz Bank, Peberan della Paribas, rappresentanti della Nestlè, della Bentelsmann e anche l’ex presidente della Federal Reserve americana Paul Volker e l’italiano Lamberto Dini.L’agenzia di rating Moody’s è sussidiaria della Moody’s Corporation, con sede centrale a New York. Il presidente è Raymond W. McDaniel Jr. Tra i membri del Board of Directors figurano: Basil L. Anderson della Stables Inc. e della Hasbro Inc (due giganti del settore vendite e servizi); Robert Glauber della Ing Group (settore bancario e assicurativo con base in Olanda), già sottosegretario del ministero delle finanze americano nel periodo 1989-92; Henry Mc Kinnell, della multinazionale farmaceutica Pfizer e della Exxon Mobil (petrolio); Nancy S. Newcomb della Citigroup e della Sysco Corporation (settore alimentare); John K. Wulff, della multinazionale chimica Herculer, della Kpmg (la multinazionale di consulenza finanziaria e di certificazione dei bilanci), della Sunoco (petrolio) e della Fannie Mae (che, insieme alla Freddie Mac, detiene quasi per intero il pacchetto ipotecario immobiliare americano).Le suddette tre agenzie americane di rating non sono solamente l’espressione dell’intreccio dominante delle multinazionali, ma in particolar modo sono una struttura organizzata delle principali banche del pianeta che controllano il sistema finanziario e debitorio delle nazioni e di tutti i settori dell’economia sia privata che pubblica. Le tre agenzie in questione non solo non sono qualificate nella pretesa di valutare la solidità economica e finanziaria degli Stati e delle imprese, ma sono parte integrante del problema sta portando il mondo economico verso il crack e la crisi sistemica con conseguenze devastanti per l’intera vita economica, sociale e politica del pianeta.(Gianni Lannes, “Grullini o grulloni?”, dal blog “Su la Testa” del 6 marzo 2018).La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.
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Caldarola: perché i poteri forti tifano Di Maio e non Salvini
Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.E’ questa l’angolazione da cui Caldarola guarda alla parita post-elettorale in corso, a cominciare dallo psicodramma in casa Pd: «Devo riconoscere che il no di Renzi al patto con i 5 Stelle è stato un passaggio molto limpido», premette Caldarola. Il Pd continuerà a esistere? «Difficile dirlo. Un partito che ha meno voti degli altri può essere determinante solo se ha un leader forte e conosciuto, come è stato per Bettino Craxi». Anche se si è costruito una truppa di parlamentari fedeli, «che diminuirà strada facendo», oggi Renzi «è tragicamente azzoppato». Al massimo, il Pd può favorire uno dei due vincitori parziali, Lega o M5S, oppure non farlo (e in questo caso ogni verifica parlamentare andrà a sbattere contro il diniego del Pd). «Nel frattempo però il Partito Democratico può sempre scoppiare, perché le sue contraddizioni sono troppo grandi». C’è un dato su cui, nel Pd, secondo Caldarola nessuno sta riflettendo: «Il marchio si è logorato. Si è identificato non solo con Renzi, ma con tutte le esperienze di governo recenti, da Letta a Monti, che sono state giudicate negative dall’elettorato». Un grande equivoco: un partito teoricamente erede della sinistra, che ha avallato le peggiori politiche neoliberali imposte da Bruxelles. Rimpiazzare Renzi? «Non basta un nuovo leader, occorre ripensare il soggetto e il progetto politico.Si fa avanti l’ex ministro Carlo Calenda: «Ha delle qualità, ma non l’appeal elettorale necessario». Il vicesegretario Maurizio Martina? «Non credo che sia così ambizioso da proporre se stesso». Per Caldarola è più probabile il ritorno al fondatore, Walter Veltroni. «Un’altra strada è che l’assemblea trovi un personaggio capace di garantire più o meno tutte le aree», aggiunge Carladola, ricordando che Renzi controlla un gruppo di parlamentari, ma sa che finirà all’opposizione e gli conviene evitare la mischia. «Potrebbe anche venirgli in mente di fondare un partito, magari in vista del voto anticipato, presentandosi come il campione del no a M5S e a Salvini. Così facendo potrebbe acchiappare voti di centro, ex Pd ed ex Forza Italia». Andrea Orlando ha detto che il 90% dei dirigenti del partito non vuole andare col Movimento 5 Stelle: «E’ vero, la ferita è troppo fresca. Un Pd che facesse l’accordo coi 5 Stelle non si salverebbe», sostiene Caldarola: «Farebbe la fine dei partiti di sinistra eredi del Pci che si sono alleati alla “Rete” di Leoluca Orlando: il Dna populista di quest’ultimo li ha sciolti e assimilati. In ogni caso il Pd sarebbe fuori dalla decisione politica». Oggi, non a caso, i grandi poteri puntano invece sui 5 Stelle: «Tutti i fautori della “governabilità” ad ogni costo, che oggi è riconoscibile nel leitmotiv di politici, industriali, banche e grande stampa, dicono: “Perché non devono tentare? Davvero siamo disposti a lasciare il paese senza governo?”». Se Di Maio resterà in pole position, certo non sarà solo.Il potere oggi punta sui 5 Stelle, perché il movimento fondato da Grillo «è terra di conquista di poteri forti, anche internazionali», a differenza della Lega di Salvini, finora respinto dai circoli di Bruxelles: «Il diniego che viene a Salvini dai poteri che contano nasce innanzitutto per evitare un suo asse con altre formazioni di destra europee, e dal fatto che si sa che il capo della Lega farebbe più o meno ciò che dice». Lo afferma Peppino Caldarola, già direttore de “L’Unità”, intervistato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario”. Gioco più facile, secondo Caldarola, con Di Maio e soci: «Una volta arrivato nella stanza dei bottoni, il M5S può schiacciarne diversi. Chi arriverà per primo a dare il suggerimento giusto – che loro cercheranno – potrà influenzarli». Napolitano, Scalfari, il “Corriere”? «Uomini come Napolitano e Scalfari ritengono che il M5S sia una pagina bianca su cui si possa scrivere in libertà, ma è solo un’illusione». Il vero grande dubbio sui 5 Stelle, riassume Ferraù, è che nessuno sa chi prende davvero le decisioni che contano. Puoi appoggiare i grillini in Parlamento e venirti poi a trovare di fronte a una scelta diversa, senza sapere chi l’ha imposta: Grillo, Casaleggio, Di Maio o qualcun altro. La verità, sospetta Caldarola, è che la chiave sia lontana da Roma: i veri “influencer”, capaci di pesare sul vertice pentastellato, siedono nel grande potere finanziario atlantico.