Archivio del Tag ‘Usa’
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L’oro di Berlino contro il dollaro? Finiremo nella bufera
Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.Nel clamore generale, scrive De Martini sul “Corriere della Collera”, l’unica cosa che i leader europei hanno certamente capito è «che persino le loro telefonate più private – anche quelle sentimentali delle signore – sono state registrate». Quindi, un “leak” potrebbe «tradire i loro più riposti rapporti con il governo americano». Faranno meglio a tenerlo a mente, aggiunge De Martini, il giorno – ormai non lontano – in cui collasserà l’insostenibile Eurozona. «L’attuale quotazione dell’euro non è così forte da provocare una grave crisi diplomatica con gli Usa, ma è abbastanza forte da provocare un restringimento della base occupazionale e delle esportazioni dei paesi europei». Attenzione: questa crisi farà traboccare il vaso, perché «si aggiunge alla crisi della bolla Internet, a quella dei subprime, a quella immobiliare, a quella bancaria, a quella produttiva e a quella occupazionale». Il detestato euro, la moneta che doveva unire il continente, rischia di spezzarlo, lasciando l’Europa totalmente indifesa di fronte al declinante dominio dell’impero americano.Ormai, un euro vale quasi un dollaro e mezzo. E’ considerato troppo forte dagli acquirenti mondiali di beni industriali, cosa che penalizza le esportazioni europee (non certo quelle statunitensi). «In pratica è come se le imprese americane vendessero col 40% di sconto rispetto a noi». L’inflazione, in Eurozona? «Praticamente inesistente: il tasso d’interesse della Bce è ormai dello 0%», quindi la banca centrale «non è in grado di stimolare l’economia». Contraccolpi: i bond italiani franano, la Francia continua a perdere 50.000 posti di lavoro al mese. Il solo ossigeno possibile, dice De Marini, è il “quantitative easing”, che il governo Letta rifiuta, preferendo la ricetta tedesca: più tasse e meno spesa pubblica. «La Germania, forte di un surplus commerciale quasi triplo in termini reali e assoluti rispetto alla stessa Cina, vuole tornare al Gold Standard», anche se questa scelta antinflazionistica penalizza i paesi come l’Italia, che dispone sì della quarta riserva aurea mondiale, ma ha i conti pubblici devastati.Secondo De Martini, la scelta tedesca di puntare sull’oro «comporta il crollo americano», profilando scenari da guerra mondiale. Gli Usa, ricorda l’analista, abbandonarono il vincolo aureo per la quotazione del dollaro nel 1971: stampare tanto denaro quanto necessario al rilancio dell’economia significa considerare che «la vera ricchezza su cui misurare un paese è il suo apparato produttivo e la sua capacità di penetrazione commerciale nel mondo». Oggi, gli Usa stampano 85 miliardi di dollari al mese. «Questo potrebbe creare un problema di credibilità nell’ipotesi di una richiesta di rientro dal debito, ma nessuno si sogna di chiedere il rientro a un debitore manesco che domina i mari del globo con diciannove portaerei». Durante la recente crisi per l’approvazione del bilancio americano, in cui aleggiava lo spettro del default, i tassi d’interesse del debito Usa non si sono mossi di un millimetro: «Chi spera nel default del dollaro si disilluda», avverte De Martini. «La legge per i forti non è la stessa nostra. Il ferro pesa più dell’oro».Insieme agli Usa, a non temere più il rischio-inflazione per decenni agitato dai neoliberisti sono oggi Gran Bretagna e Giappone. «Alla lunga, dicono gli economisti ortodossi, il default è inevitabile». Alla lunga, appunto: mentre il respiro corto dell’Europa “tedesca”, quell’euro tenuto al guinzaglio dalla Bce, segna già oggi la fine economica di tutto ciò che non è Germania. I riflessi geopolitici dello scontro che si profila sono di vastissima portata, scrive De Martini: al confronto planetario tra Usa, Cina e Russia si aggiunge ora la collisione economica e ideologica fra «la triade del quantitative easing», cioè Usa, Regno Unito e Giappone, e la Germania, «attorniata dai vari paesi della Ue, alcuni dei quali stanno dando segnali di esaurimento economico e politico». La Russia «non sfida apertamente il dominio del dollaro», mentre i cinesi cercano di affermare la loro valuta sugli scambi internazionali, per ora solo bilaterali, con India, Indonesia e Giappone. E mentre un paese come l’Italia è alla canna del gas, la Merkel continua a barare: dopo averci tenuto col fiato sospeso in attesa del traguardo elettorale tedesco «facendoci soffrire in attesa di un momento di sollievo», ora attende le elezioni europee «per distinguere gli alleati buoni dai cattivi e i fedeli dagli infedeli». Ma ormai «sono in molti a ritenere che stia tirando troppo la corda».Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.
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Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
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Madsen: italiani venduti al Bilderberg, il governo vi spia
Tutti sapevano – anzi, collaboravano – anche se ora fingono di cadere dalle nuvole, nello scandalo senza fine innescato dalle rivelazioni di Edward Snowden. “Der Spiegel” conferma che l’intelligence della Germania ha collaborato per anni alla raccolta clandestina di dati. E il verde tedesco Jan Philipp Albrecht, sul “Guardian”, conferma: «Regno Unito, Danimarca, Olanda, Francia, Germania, Spagna e Italia hanno firmato un accordo che prevede la fornitura di dati digitali agli Stati Uniti. In altre parole, hanno spiato i propri cittadini per conto di Washington». Sicché, appare comica l’intenzione di Enrico Letta di «chiedere spiegazioni» a John Kerry sul Datagate. Curioso, osserva Franco Fracassi, «visto che molte delle informazioni che l’Nsa ci ha spiato (invadendo la nostra privacy) le sono state fornite proprio dai nostri servizi segreti: siamo stati venduti non solo alla Casa Bianca, ma anche alle grandi banche, alle società di Borsa e alle multinazionali. In altre parole: al Club Bilderberg, di cui Letta fa parte, per sua stessa ammissione».La gola profonda è un ex funzionario della Nsa, Wayne Madsen, già autore di rivelazioni scioccanti sull’11 Settembre, sul caso Calipari, su Al-Qaeda e sulla famiglia Bush. «L’Italia, ma anche la Germania, la Francia e altri paesi europei hanno accordi segreti con gli Stati Uniti per il passaggio di dati personali alla National Security Agency». I nostri paesi hanno accesso al Tat-14, il sistema di telecomunicazioni transatlantico via cavo che consente loro di intercettare un’enorme quantità di dati: telefonate, email e anche la cronologia dei siti Internet visitati dagli utenti, spiega Madsen a Fracassi in un’intervista pubblicata da “Popoff”. Per “utenti”, precisa Madsen, si intende anche l’Unione Europea, che viene definita dall’Nsa un “target”, un obiettivo. «L’Nsa ha suddiviso i suoi partner, che l’aiutano a reperire informazioni, in tre gruppi diversi, in base al livello di fiducia. Gli Usa sono ovviamente nella prima categoria. La seconda è formata da Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda. La terza è composta da Danimarca, Paesi Bassi, Francia, Germania, Spagna e Italia. In realtà c sarebbe anche un quarto livello. Ma di questo si conoscono solo alcuni paesi, come Finlandia e Svezia».L’agenzia spionistica digitale, continua Madsen, è diventata sempre più potente con il passare degli anni, fino alla “guerra al terrorismo” inaugurata da Bush e proseguita da Obama. «Oggi l’Nsa è di gran lunga il più potente servizio di spionaggio al mondo». La cosa più assurda? «L’Nsa è il servizio segreto elettronico degli Stati Uniti d’America. Quindi, chiunque giungerebbe alla conclusione che i dati che raccoglie vengano consegnati alla Casa Bianca». E invece? Oltre a Obama, il direttore riferisce a ben altre autorità: «Keith Alexander partecipa alle riunioni del Club Bilderberg. Dunque, entrano in possesso dei nostri segreti banchieri, finanzieri, amministratori delegati di multinazionali». Secondo Madsen, «l’Italia è stato uno dei paesi più solerti a fornire informazioni a Washington: sto parlando di milioni e milioni di dati sensibili e di informazioni personali per ciascuno dei sessanta milioni di italiani». Un nome famoso? Nicola Calipari, ucciso in Iraq da soldati Usa durante la liberazione di Giuliana Sgrena, giornalista del “Manifesto”. «Il vostro agente segreto – accusa Madsen – è stato assassinato da una squadra americana d’élite anche grazie alle informazioni fornite dai vostri servizi segreti».Tutti sapevano – anzi, collaboravano – anche se ora fingono di cadere dalle nuvole, nello scandalo senza fine innescato dalle rivelazioni di Edward Snowden. “Der Spiegel” conferma che l’intelligence della Germania ha collaborato per anni alla raccolta clandestina di dati. E il verde tedesco Jan Philipp Albrecht, sul “Guardian”, conferma: «Regno Unito, Danimarca, Olanda, Francia, Germania, Spagna e Italia hanno firmato un accordo che prevede la fornitura di dati digitali agli Stati Uniti. In altre parole, hanno spiato i propri cittadini per conto di Washington». Sicché, appare comica l’intenzione di Enrico Letta di «chiedere spiegazioni» a John Kerry sul Datagate. Curioso, osserva Franco Fracassi, «visto che molte delle informazioni che l’Nsa ci ha spiato (invadendo la nostra privacy) le sono state fornite proprio dai nostri servizi segreti: siamo stati venduti non solo alla Casa Bianca, ma anche alle grandi banche, alle società di Borsa e alle multinazionali. In altre parole: al Club Bilderberg, di cui Letta fa parte, per sua stessa ammissione».
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Saccomanni ci riprova con l’Eni, mentre l’euro ci divora
Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.Bonanni che balbetta, scrive Dolcino su “Scenari Economici” in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, «fa ben capire la gravità della situazione: anche un sindacalista vede le stesse cose che stiamo stigmatizzando noi da qualche mese». Qualcuno, aggiunge il blogger, dovrebbe “spiegare” a Saccomanni che «le partecipazioni statali non sono sue», e che in teoria esiste ancora un Parlamento. Inoltre, dire che “la crisi è finita” serve «solo per giustificare successivamente azioni straordinarie, approfittando dei problemi che emergeranno e della crescita che non ci sarà». Soltanto alibi, per arrivare all’obiettivo desiderato: privatizzare l’Italia. Tutti gli indicatori smentiscono il ministro, persino i consumi di energia: -3% rispetto all’anno scorso. Il pericolo dello smantellamento del paese resta forte, perché «nessun politico, per cialtrone che sia, ha interesse a far cadere il governo attuale: meglio che la colpa di provvedimenti impopolari non abbia un nome, un responsabile, un colore». Questo potrebbe essere il “movente” dell’eventuale salvataggio di Berlusconi dalla decadenza, per non staccare la spina a Letta e Saccomanni.Le misure speciali evocate del ministro? Tutte inutili, anzi suicide. Unico risultato: agevolare la Germania, che punta a trasformare l’Italia – il suo più grande competitor manifatturiero continentale – in una sacca di manodopera a basso costo, dopo averne acquistato a prezzi di saldo i pezzi più pregiati. «Italiani sveglia, bisogna fare qualcosa», aggiunge Dolcino. Se oggi la maggioranza degli italiani ha finalmente capito che la moneta unica avvantaggia solo i tedeschi a nostro danno, «bisogna minacciare seriamente di uscire dall’euro se non verranno rivisti pesantemente i limiti di bilancio imposti dalle regole europee», preparandosi anche a «ripudiare la moneta unica». Fare qualcosa, subito: «Non bisogna continuare a permettere a politici come Saccomanni di prendere decisioni contro gli interessi del paese». E attenzione anche alla geopolitica, conclude Dolcino, convinto che siano stati gli Usa ad “autorizzare” la Germania a spremere il resto d’Europa. Ora, con lo scandalo Datagate e lo spionaggio ai danni della Merkel, la fiducia si è incrinata: e Washington potrebbe scoprire di aver “allevato”, a Berlino, un competitor globale insidioso per l’America, quasi quanto Cina e Russia.Saccomanni ci riprova: dopo aver più volte annunciato a partire dalla scorsa estate la fine della crisi italiana, ora supera se stesso affermando che è finita addirittura la crisi mondiale. Unitamente a questo splendido annuncio, ecco l’altra grande conferma: la svendita dei maggiori beni statali, cominciando da un gioiello come l’Eni. L’ex banchiere centrale, prende nota Mitt Dolcino, ora annuncia che vuol proprio vendere l’asset migliore che l’Italia ha in portafoglio, che secondo Paolo Scaroni rende al Tesoro il 6%, per poi pagare interessi sul debito pubblico inferiori al 4%. Follia? La “spiegazione”, secondo Dolcino, la fornisce involontariamente il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, che a “Radio 3” – definisce l’interesse straniero (a comprare Eni) come più forte di quello italiano. «Della serie: Saccomanni per chi lavora, per l’interesse degli italiani o per quello dei partner europei, potenziali compratori di Eni?». Dubbio più che lecito, ricordando le famose privatizzazioni del 1992 in cui il nume tutelare di Saccomanni, Mario Draghi, regalò mezza Italia agli stranieri, facendo così decollare la sua brillante carriera.
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Cremaschi: diktat contro di noi, e Napolitano esegue
Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.Napolitano il cambiamento non lo propaganda, lo pratica, fino al punto di fare le riunioni dei capigruppo di maggioranza come qualsiasi segretario di partito. Siamo diventati una repubblica presidenziale di fatto e credo abbiano fatto un grave errore i promotori della manifestazione del 12 ottobre a non dirlo con forza dal palco, raccogliendo un sentimento profondo di chi era in quella piazza. Le timidezze e le reticenze sul ruolo negativo del presidente della Repubblica indeboliscono la lotta in difesa dei principi di fondo della Costituzione. D’altra parte un pesantissimo colpo a quei principi è già stato assestato, ancora una volta principalmente da Pd, Pdl e Lega, con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. La riscrittura dell’articolo 81 è infatti la madre di tutte le controriforme, perché cancella di fatto tutti i principi sociali contenuti nella prima parte.Come può la Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli economici e sociali che si oppongono alla piena eguaglianza dei cittadini, se ogni anno deve tagliare di decine di miliardi le spese sociali, e solo per pagare gli interessi sul debito senza violare l’obbligo costituzionale di pareggio? Non può, e così con questa controriforma le politiche di austerità diventano obbligo perenne. Come aveva chiesto il banchiere Morgan, prima di pagare 13 miliardi di dollari allo Stato americano per le truffe sui derivati. L’Europa deve capire che le politiche di austerità non sono una parentesi, ma il modo di condurre da qui in avanti un continente che deve accettare pienamente la società di mercato. Questo ha detto il banchiere americano a giugno sul “Wall Street Journal” e ha poi aggiunto che, per raggiungere questo obiettivo, i popoli europei devono liberarsi delle Costituzioni antifasciste e sinistrorse che promettono una eguaglianza che non ci può più essere. Si comincia ad accontentarlo.La controriforma costituzionale non è solo frutto delle classi dirigenti del nostro paese, ma viene prepotentemente richiesta dalla finanza internazionale, come venne formalizzato il 4 agosto 2011 dalla lettera al governo di Draghi e Trichet. Il Fiscal Compact e i patti ad esso connessi hanno fatto il resto: al di sopra dei nuovi costituenti, oltre i saggi incaricati di rivedere la nostra Carta, stanno i mandanti e i controllori. Sopra di loro stanno quelle istituzioni tecno-finanziarie che impongono le politiche di austerità con quei vincoli che per Giorgio Napolitano sarebbe da incoscienti mettere in discussione. Mentre sarebbe la sola scelta saggia da compiere. La difesa della Costituzione repubblicana oggi non si fa solo contro la destra berlusconiana, ma anche contro le scelte politiche di Giorgio Napolitano e contro quei vincoli europei che ci hanno imposto la costituzionalizzazione dell’austerità.(Giorgio Cremaschi, “Austerità costituzionale e presidenzialismo”, da “Micromega” del 25 ottobre 2013).Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.
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Il Club di Sofia: falsa Europa, in guerra contro di noi
Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.Ora la competizione, che è stata la macchina dello sviluppo degli ultimi tre secoli, sta diventando la macchina che produce la guerra. Ciò è l’effetto dei limiti dello sviluppo, nel frattempo emersi, e della fine dell’“era dell’abbondanza”. Ciò si sta verificando in condizioni di profonda e generale disuguaglianza: nel campo della potenza militare; nel campo delle tecnologie; nel campo del consumo e dei redditi; nel campo del denaro; nel campo delle risorse, nel campo delle istituzioni. Se questi vincoli noi li mettiamo assieme alla vecchia idea della competizione è ovvio che il mondo sarà fatalmente spinto verso l’uso della forza. È ciò cui stiamo assistendo: coloro che sono più forti saranno spinti dalla circostanze a usare la loro forza. Lo faranno. Lo hanno già fatto. Lo stanno facendo ora in Siria. Chi sarà il prossimo della lista?Il contesto globale è orientato verso la falsa idea della società di consumatori. Noi riteniamo che muoversi in questa direzione significhi promuovere una successione di conflitti, sia globali, sia regionali – che condurranno il mondo intero in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la catastrofe di una nuova guerra mondiale. Una tale guerra sarà simile a quella che il mondo conobbe 100 anni orsono, ma ingigantita dall’esistenza di armi nucleari e di altro genere, dotate di un potere tremendamente distruttivo. I pericoli di guerra stanno aumentando. Molti segnali sono già visibili, ma molti preferiscono non vederli. Il collasso di una civilizzazione moderna basata sul consumo è inevitabile. Non è questione di buona o cattiva volontà. Il fatto è che la crisi mondiale si va estendendo sia in termini di complessità, e di dimensione, sia in termini di profondità, e non vi è chi abbia una soluzione in vista: non gli Stati, non la scienza del XX secolo, non le differenti culture e religioni.Siamo in presenza di una tremenda carenza di comprensione proprio della complessità della crisi. Essa non si riduce a una semplice somma di fattori, come la crisi finanziaria, quella dei cambiamenti climatici, quella dell’energia, dell’acqua, della disoccupazione, della crescita demografica, degli ecosistemi violati, della diversità biologica compromessa. Inoltre noi non siamo di fronte a una crisi lineare. Al contrario noi vediamo i rischi di una catastrofe senza precedenti che richiede, prima di tutto, di essere compresa e, insieme, controllata. Stiamo già assistendo a un accelerato percorso verso una catena di collassi interconnessi tra di loro e che possono demolire i pilastri portanti della civilizzazione umana. Noi riteniamo che soltanto una Nuova Europa Unita possa essere uno dei pilastri di una coesistenza pacifica multipolare nel XXI secolo.È un’Europa multiculturale che si adopera per gettare un ponte tra il Nord e il Sud, specialmente nell’area mediterranea. Un’Europa che venisse concepita come una fortezza dovrebbe affrontare non solo una ma molte Lampedusa tutto attorno ai suoi confini e perfino all’interno di essi. Noi siamo contro ogni tentativo di costruire un nuovo “Muro di Berlino” nella forma di “arco Mar Baltico-Mar Nero-Mar Caspio”, utilizzando i partner orientali dell’Unione Europea. La Russia – nonostante le differenze tra regimi politici – è già sotto molti profili interconnessa con l’Europa ed è il grande vicino che l’Unione Europea deve considerare partner affidabile. La Russia, la Turchia, l’Unione Europea e i suoi partner dell’est – Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina – devono considerare se stessi come componenti decisive di una indivisibile sicurezza europea. Questo sarà il contributo dell’Europa alla pace e alla sicurezza del mondo intero. Gli Stati Uniti d’America, che durante la Guerra Fredda hanno svolto il ruolo di un alleato “privilegiato e protettore” dell’Unione Europea, devono ora diventare partner con eguali diritti.Una Nuova e Unita Europa, capace di svolgere un attivo ruolo di pace, deve essere forte e autonoma nelle sue decisioni. Una Nuova e Unita Europa costruita su questi principi non ha nemici. Ciò significa che essa deve avere un proprio esercito, che dovrà essere utilizzato solo ed esclusivamente sotto l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È giunto il tempo di abbandonare lo schema amici-nemici che fu caratteristico della Guerra Fredda. Esso è ormai il passato. La sicurezza è di ciascuno e di tutti. Ogni tentativo di costruire la sicurezza solo per noi stessi senza tenere contro di quella degli altri produrrà soltanto tensioni e conflitti. Il compito primario è dunque quello di costruire amicizie di lunga durata, cooperazioni strategiche in tutte le direzioni. Una nuova guerra globale sarebbe la fine dell’umanità e ogni piano che la preveda come possibile è un’idea folle. Noi, membri del Club di Sofia, ci impegniamo a costruire un tale approccio e a proporlo a tutti i soggetti di tutti i continenti, a trovare una via comune per la comprensione della nuova epoca che irrompe ad alta velocità nelle nostre vite e che tratteggia il destino delle future generazioni. Noi vogliamo agire non solo per il loro benessere, ma per la loro stessa sopravvivenza.(Sintesi della Dichiarazione costitutiva del “Club di Sofia”, think-tank paneuropeo costituitosi nella capitale bulgara il 26 ottobre, su iniziativa di Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”, con Antonio Ingroia di “Azione Civile”, il greco Panos Trigazis di “Syriza” e la lettone Tatjana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del “Partito per i diritti umani nella Lettonia Unita”. Tra i promotori anche altri parlamentari come l’ucraino Vadim Kolesnichenko, del “Partito delle Regioni”, e il deputato comunista moldavo Zurab Todua. Completano la lista dei fondatori del “Club di Sofia” il russo Sergey Kurginyan, presidente del partito “Essenza del Tempo”, il polacco Mateusz Piskorski, direttore esecutivo dell’“European Centre of Geopolitical Analysis”, il lituano Algirdas Paleckis, del partito “Fronte Socialista del Popolo” e il bulgaro Zakhari Zakhariev, presidente della “Sklavyani Foundation” e dirigente del Partito Socialista di Bulgaria).Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.
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Al-Qaeda non serve più, e gli Usa “licenziano” i sauditi
Dopo aver minacciato e “insultato” la Russia e la Cina, l’Onu e persino gli Usa, l’Arabia Saudita – che ha deciso di continuare ad alimentare la guerra civile in Siria nonostante il disgelo tra Washington e Mosca persino sull’Iran – ora rischia grosso: il suo petrolio non è più così indispensabile, e in ogni caso l’America non lo comprerebbe sotto ricatto, cioè in cambio della cessione a Riyadh della sua politica in Medio Oriente. Qualcosa di fondamentale sta accadendo, avverte il giornalista indipendente Thierry Meyssan: per la prima volta, dopo tanti anni, gli Usa stanno abbandonando il loro più decisivo alleato occulto, il network del terrore chiamato “Al-Qaeda”, emanazione diretta dell’intelligence saudita. Agli occhi del nuovo capo della Cia, John Brennan, «lo jihadismo internazionale deve essere ridotto a proporzioni più deboli», tenuto in vita solo come carta di riserva da usare «in alcune occasioni». Lo dimostra la rinuncia della Casa Bianca – di fronte alla fermezza di Putin – a scatenare in Siria l’inizio di una possibile Terza Guerra Mondiale. I terroristi usa e getta? Probabilmente non serviranno più.Secondo Meyssan, se Riyadh non si adegua alla nuova linea di Obama, è a rischio la stessa sopravvivenza dell’Arabia Saudita come Stato: l’emirato petrolifero potrebbe facilmente essere smembrato in cinque unità. «È improbabile che Washington si lasci dettare la propria condotta da alcuni facoltosi beduini, mentre è prevedibile che li rimetterà a posto. Nel 1975, non esitarono a far assassinare il re Faysal. Questa volta, dovrebbero essere ancora più radicali». Lo conferma la presenza alla guida della Cia di un uomo come Brennan, «strenuo oppositore del sistema messo in atto dai suoi predecessori assieme a Riyadh: lo jihadismo internazionale». Secondo Meyssan, Brennan ritiene che, «ancorché questi combattenti abbiano svolto bene il loro compito, un tempo in Afghanistan, Jugoslavia e in Cecenia, siano nondimeno diventati troppo numerosi e troppo ingestibili». Quella che all’inizio era costituita da alcuni estremisti arabi partiti per sparare all’Armata Rossa, è poi diventata una costellazione di gruppi, presenti dal Marocco alla Cina, che si battono per far trionfare il modello saudita di società, più che per sconfiggere gli avversari degli Stati Uniti.Già nel 2001, continua Meyssan, gli Usa avevano pensato di eliminare Al-Qaeda «attribuendole la responsabilità degli attentati dell’11 Settembre». Tuttavia, «con l’assassinio ufficiale di Osama Bin Laden nel maggio 2011, hanno deciso di riabilitare questo sistema per farne ampio uso in Libia e in Siria: senza Al-Qaeda non si sarebbe mai potuto rovesciare Muhammar Gheddafi, come dimostra oggi la presenza di Abdelkader Belhaj, ex numero due dell’organizzazione, come governatore militare di Tripoli». Licenziare i terroristi e i loro gestori mediorientali? “Gettare i Saud fuori dall’Arabia” era il titolo di un powerpoint del 2002 presentato dal Pentagono allora diretto da Donald Rumsfeld. Sono i sauditi, oggi, a mettersi nei guai. Il principe Bandar Bin Sultan, capo dei servizi segreti, in pochi mesi si è messo contro il resto del mondo: ha minacciato la Russia (terrorismo sulle Olimpiadi di Soči), bocciato la politica dell’Onu sulla Siria (promossa anche dalla Cina, super-cliente saudita), rifiutato di parlare al Palazzo di Vetro e annunciato che non userà mai il seggio offerto all’Arabia Saudita al Consiglio di Sicurezza. Quindi ha accusato Israele e l’Iran di accumulare “armi di distruzione di massa”, e ha addirittura annunciato il ritiro dagli Usa degli investimenti sauditi. Gioco pericoloso. Riyadh non ha ancora capito che è terminata la fiction della dittatura medievale travestita da “alleato arabo moderato”, perché – oltre al petrolio – è finita in soffitta la sua arma migliore: il terrorismo “islamico” pilotato dall’intelligence occidentale.Dopo aver minacciato e “insultato” la Russia e la Cina, l’Onu e persino gli Usa, l’Arabia Saudita – che ha deciso di continuare ad alimentare la guerra civile in Siria nonostante il disgelo tra Washington e Mosca persino sull’Iran – ora rischia grosso: il suo petrolio non è più così indispensabile, e in ogni caso l’America non lo comprerebbe sotto ricatto, cioè in cambio della cessione a Riyadh della sua politica in Medio Oriente. Qualcosa di fondamentale sta accadendo, avverte su “Megachip” il giornalista indipendente Thierry Meyssan: per la prima volta, dopo tanti anni, gli Usa stanno abbandonando il loro più decisivo alleato occulto, il network del terrore chiamato “Al-Qaeda”, emanazione diretta dell’intelligence saudita. Agli occhi del nuovo capo della Cia, John Brennan, «lo jihadismo internazionale deve essere ridotto a proporzioni più deboli», tenuto in vita solo come carta di riserva da usare «in alcune occasioni». Lo dimostra la rinuncia della Casa Bianca – di fronte alla fermezza di Putin – a scatenare in Siria l’inizio di una possibile Terza Guerra Mondiale. I terroristi usa e getta? Probabilmente non serviranno più.
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Jp Morgan si prepara alla cura-Cipro anche negli Usa?
Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».La frode, spiega Katasonov in un post su “Strategic Cultuire” ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stata realizzata all’interno dell’unità incaricata di migliorare le attività di “gestione del rischio”, compresa la supervisione sui depositi. «Le spericolate trovate contabili sarebbero state architettate per coprirsi dai rischi su altri investimenti, ma si risolsero solo in ingentissime perdite». La filiale inglese aveva acquistato una tale quantità di derivati “illiquidi”, cioè virtuali e rimasti senza compratori, che il suo responsabile per il trading Bruno Iksil fu soprannominato la “balena di Londra” (London whale, appunto) per la sua condotta spregiudicata. Poi la banca ha ammesso che i dipendenti londinesi avevano compiuto la frode utilizzando i depositi coperti dall’assicurazione statale. Risultato: capitolazione della Jp Morgan Chase, che accetta di pagare più di un miliardo di dollari, in risarcimenti e multe, a cinque autorità di vigilanza. Spiccioli, dice Katasonov, rispetto alle dimensioni di quei colossi. Il danno, semmai, è d’immagine: chi ci assicura che altri trucchi contabili, non ancora scoperti, non possano far esplodere il sistema?Dal 17 ottobre si sa che la super-banca ha introdotto dei limiti sulle transazioni in contanti dei clienti e vietato bonifici internazionali. Altro freno: dal 17 novembre la Jp Morgan limiterà le operazioni in contanti (inclusi depositi e ritiri) a soli 50.000 dollari al mese, e non permetterà più di inviare bonifici internazionali: qualora si superassero le soglie per il contante, saranno comminate penali. «Prima considerazione: queste misure metteranno in difficoltà le piccole e medie imprese americane», scrive Katasonov. «A molte aziende sarà impedito di compiere tutte le più importanti transazioni con l’estero. Sarà un grattacapo anche pagare gli stipendi». E alcuni giornalisti credono che sia solo l’inizio: le misure adottate dall’istituto, così come quelle degli altri “squali” di Wall Street, colpiranno anche le grandi imprese. La lettera non contiene spiegazioni, limitandosi ad accennare ai “nuovi requisiti legali” introdotti nel paese, cui la banca si adeguerebbe. «La domanda è spontanea: a quali “nuovi requisiti legali” si fa riferimento, visto che non vi è stata nessuna nuova legge americana in questo ambito?».Alcuni, continua Katasonov, sostengono che la banca stia cercando di controllare il deflusso di capitali dal paese. «Difficile da credere. Sino ad oggi gli Stati Uniti non hanno adottato misure in tal senso. Sono state preferite misure indirette. Per esempio la norma introdotta nel 2010, “Foreign Account Tax Compliance”, può essere considerata come un modo per limitare l’esportazione di capitali riducendo la convenienza di investimenti all’estero da parte di aziende americane». Misure che «si sono rivelate poco più che inutili, semplici tasse addizionali per coloro che investono all’estero». L’economista russo suggerisce due possibili spiegazioni. Prima ipotesi: le autorità hanno voluto impartire una lezione esemplare. «Se ci si scotta una volta, è difficile che ci si riprovi». Di qui la lettera «piena di buoni propositi sull’antiriciclaggio, sulla prevenzione del terrorismo, sulla lotta alla corruzione limitando le transazioni in contanti». Evidente: «Sono tutte trovate per rifarsi l’immagine, sperando che l’attenzione si sposti su altri istituti finanziari». Ma Katasonov trova più convincente la seconda spiegazione: «La banca si tiene pronta per fronteggiare una crisi» di proporzioni inaudite, come quando i clienti – impauriti per la sorte del proprio conto corrente – corrono allo sportello per prelevare i loro soldi.«E’ vero che la banca è la più importante degli Stati Uniti, ma non sono sicuro che questo basterebbe a salvarla», dice Katasonov. Il precedente di Lehman Brothers testimonia che non è sempre vera la formula del “troppo grande per fallire”, con l’implicito salvataggio pubblico per evitare il disastro dell’economia (solito schema: ai banchieri i profitti pregressi, ai contribuenti il costo del risanamento). La Morgan «ha imparato la lezione impartita a Cipro», quando la Commissione Europea, il Fondo Monetario e la Bce hanno costretto le autorità di Nicosia a far pagare agli innocenti correntisti le ingenti perdite delle banche del paese. «Per salvare il sistema bancario dalla fuga di capitali, la banca centrale cipriota ha introdotto rigidi controlli sul prelievo in contanti e sul trasferimento all’estero di somme depositate sui conti correnti». In attesa che analoghe misure vengano adottate anche negli Usa, in caso di grave crisi bancaria, è possibile che Jp Morgan stia giocando d’anticipo. «Quindi le limitazioni al prelievo, comunicate dall’istituto, potrebbero servire a prepararsi per il futuro. In questo caso – conclude Katasonov – Jp Morgan Chase starebbe agendo proprio come se avesse il presagio di una crisi bancaria imminente negli Stati Uniti».Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».
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Bombe e stragi: così Israele spiega la prossima guerra
Succederà fra dieci anni, o magari domani. Il comandante di divisione aprirà gli occhi alle quattro del mattino, svegliato dal suo capo di stato maggiore. Un missile avrà colpito il centro nevralgico della Kira, la difesa israeliana, quartier generale dell’Idf. E magari un cyber-attacco paralizzerà i servizi di tutti i giorni, dai semafori alle transazioni bancarie. Esploderà una bomba in un asilo, introdotta attraverso un tunnel sotterraneo disseminato di trappole esplosive. O ci sarà un massiccio attacco di arabi in una località israeliana vicino al confine, magari sul Golan, dove – dopo quasi quarant’anni di quiete – la frontiera con Siria e Libano è ridiventata instabile e violenta. Scenari realistici: un ordigno esplosivo contro i soldati e un missile anticarro sparato contro una pattuglia israeliana lungo il confine, proprio come nel 2006 quando si scatenò la guerra contro Hezbollah. Tre soldati verranno catturati, uno dei quali comandante di battaglione. Una organizzazione jihadista rivendicherà l’attacco. Così si infiammerà un’altra volta la frontiera di Israele.Non è il tema di un war-game apocalittico. Sono parole autentiche, pronunciate l’11 ottobre 2013 dal capo supremo delle Israel Defence Forces, il luogotenente generale Benny Gantz. Il generale spiega così le modalità della “prossima guerra” che attende lo Stato ebraico, e lo fa di fronte agli studenti assiepati nel centro di studi strategici Begin-Sadat, ospitato nel campus dell’università Bar Ilan, vicino a Tel Aviv. Ha parlato a braccio, riferisce Roy Tov su “The Truth Seeker”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Avvertimento all’opinione pubblica: non rilassatevi, il nemico ci minaccia sempre e oggi dispone di nuove capacità operative, niente più scontri frontali tra eserciti ma insidiose azioni di guerriglia, con combattenti mescolati ai civili. Per Israele, conterà «la prova delle azioni», cioè – tanto per cambiare – la capacità di colpire duro e senza esitazioni. Il generale anticipa lo scenario studiato dai suoi strateghi: Hezbollah sparerà salve di razzi sulla Galilea, colpendo le città, mentre le milizie jihadiste «proveranno ad annientare i posti di blocco al confine con Gaza». Forti contraccolpi anche nelle retrovie: una vasta guerra cibernetica coinvolgerà i sistemi militari e anche quelli civili.Il capo di stato maggiore di Israele ammette di temere molto le insidie dell’informatica, che potrebbero paralizzare sistemi di difesa e persino i grossi carri armati Merkava, dotati di sofisticate tecnologie. Degno di nota, secondo “Truth Seeker”, il fatto che egli abbia completamente ignorato il ruolo dell’Iran: un “problema” in più, dopo la crescita della difesa missilistica di Teheran, o è solo diplomazia dopo i primi storici contatti tra Obama e Rohani? Resta, in ogni caso, la vergogna incancellabile della guerra sporca, cioè di ogni vera guerra: «In certi casi – ammette il generale – la potenza di fuoco che affronteremo non ci permetterà di distinguere appieno tra civili e terroristi, e questa confusione si esprimerà operativamente con risultati indesiderabili, che purtroppo costituiscono un elemento integrante della guerra». I famosi “danni collaterali”: la solita macelleria di civili, donne e bambini. Il generale Gantz ha annunciato tranquillamente che continuerà a permettere l’attacco militare contro civili disarmati. «A un generale serbo che avesse rilasciato una simile dichiarazione sarebbe stata mostrata la strada per la Corte internazionale di giustizia», rileva Roy Tov. Ma, evidentemente, «Israele è al di sopra della legge».Succederà fra dieci anni, o magari domani. Il comandante di divisione aprirà gli occhi alle quattro del mattino, svegliato dal suo capo di stato maggiore. Un missile avrà colpito il centro nevralgico della Kira, la difesa israeliana, quartier generale dell’Idf. E magari un cyber-attacco paralizzerà i servizi di tutti i giorni, dai semafori alle transazioni bancarie. Esploderà una bomba in un asilo, introdotta attraverso un tunnel sotterraneo disseminato di trappole esplosive. O ci sarà un massiccio attacco di arabi in una località israeliana vicino al confine, magari sul Golan, dove – dopo quasi quarant’anni di quiete – la frontiera con Siria e Libano è ridiventata instabile e violenta. Scenari realistici: un ordigno esplosivo contro i soldati e un missile anticarro sparato contro una pattuglia israeliana lungo il confine, proprio come nel 2006 quando si scatenò la guerra contro Hezbollah. Tre soldati verranno catturati, uno dei quali comandante di battaglione. Una organizzazione jihadista rivendicherà l’attacco. Così si infiammerà un’altra volta la frontiera di Israele.
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Benessere sostenibile, togliendo la moneta ai banchieri
Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008.E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.Tutti questi fattori, spiega Della Luna nel suo blog, sono dovuti alla scarsità di denaro: il governo Usa non ha i soldi per pagare le spese della pubblica amministrazione, l’Italia non ha il denaro né per gli investimenti, né per ridurre il cuneo fiscale e pressione tributaria. Inoltre, nessuno Stato ha i soldi per ridurre lo stock di debito pubblico e le banche non hanno denaro da prestare all’economia reale a tassi ragionevoli. «Riflettiamo: se lo Stato avesse i soldi per investimenti, riduzione di tasse e tributi, sostegno alle imprese, rimborso del proprio debito, allora le cose cambierebbero radicalmente: abbatteremo impoverimento, disoccupazione, sfiducia, sofferenza, insicurezza. Il default sarebbe scongiurato per sempre». Ma allora che cosa impedisce allo Stato di dotarsi del denaro necessario? In teoria, nulla: se fosse libero e sovrano, lo Stato potrebbe emettere moneta a costo zero. E se il denaro produce economia, non c’è neppure rischio di inflazione. Allora dove sta il problema? Nel monopolio improprio che grava sulla creazione monetaria, che «non è concessa agli Stati, ma è appannaggio, diritto esclusivo, del sistema bancario».Finita la sovranità monetaria democratica, sono quasi ovunque le banche a gestire il denaro fin dalla sua emissione, perché ormai «vige il principio dell’autonomia del sistema bancario dalla politica». Giustificazione: per compiacere gli elettori, attingendo moneta sovrana i politici potrebbero eccedere irresponsabilmente nella spesa pubblica, scatenando l’inflazione. Al contrario, i “virtuosi” banchieri devoti solo al mercato, «emetterebbero la giusta quantità di moneta, al giusto tasso di interesse, prestandolo ai soggetti meritevoli e più produttivi», migliorando il sistema. La realtà ovviamente è ben altra: in alcuni periodi, i banchieri «concedono prestiti a tutti e a bassi tassi, facendo crescere l’economia reale e quella speculativa», poi tirano i cordoni alzando i tassi e i requisiti di credito, e comprimendo i volumi: «Così creano fame di denaro e svalutazione degli asset», rastrellando sottocosto «il frutto del lavoro e del risparmio dell’economia produttiva». Stesso trattamento verso gli Stati: «Li indebitano analogamente, per poi mandarli in crisi finanziaria ed esigere», come contropartita per evitare il default, «ulteriori cessioni di sovranità e ulteriore indebitamento per colmare i loro buchi e rifinanziare le loro bolle speculative, sotto il ricatto non solo del default pubblico ma di un collasso finanziario generale».I grandi banchieri, continua Della Luna, impongono inoltre agli Stati «l’abolizione di ogni restrizione legale alla loro facoltà di giocare d’azzardo coi soldi dei risparmiatori», salvo poi farsi rifinanziare proprio dallo Stato, con denaro che non finisce all’economia reale ma, ancora una volta, al circuito speculativo. I politici? Complici, da Obama in giù: hanno rifinanziato le banche senza neppure pretendere che il credito commerciale, al servizio delle aziende e dei risparmiatori, venisse separato dalle banche d’azzardo. «Così, le banche centrali – da finanziatrici degli Stati e garanti della loro solvibilità – sono divenute compratrici in proprio, o finanziatrici di banche commerciali compratrici di titoli di debiti pubblici in difficoltà, quindi ad alto rendimento». Evidente: i debiti dei paesi in difficoltà, a rischio default, pagano interessi così elevati «proprio perché le banche centrali non svolgono più la loro naturale funzione di tutela degli interessi pubblici», ma si comportano come banche private, «a scopo di profitto».Senza contare che le bolle speculative – profitti facili e rapidi, nonché a rischio – distolgono liquidità dagli investimenti produttivi: sicché crolla l’industria, quindi il lavoro, e si va verso la catastrofe. Il sistema monetario odierno, conclude Della Luna, è perfetto solo per gli interessi dei monopolisti della moneta e del credito, che infatti lo dominano. E’ un sistema marcio, coperto da giustificazioni «false» e dalla «malafede» che accomuna «governi, capi di Stato, organi e autorità internazionali e sovranazionali, nonché il mainstream accademico», cioè tutti i soggetti che, a parole, «si propongono di risolvere la crisi e risanare l’economia». Coltivare il grande imbroglio sulla moneta – non più pubblica, ma divenuta strumento di «sfruttamento e dominazione» – ha portato il mondo «sull’orlo di una catastrofe tanto grande, che potrebbe non essere più governabile nemmeno dai detentori del monopolio monetario-bancario», mandando in pezzi il loro stesso gioco.Se il mondo vuole salvarsi, insiste Della Luna, riguardo al denaro deve riscrivere le regole partendo da zero. «In un utopico sistema monetario e creditizio efficiente e razionale rispetto agli interessi della popolazione generale, la moneta è emessa direttamente dallo Stato senza indebitarsi, esattamente come fa già ora col conio metallico; poiché la creazione-emissione di moneta non aurea e non convertibile non comporta un costo, non può comportare indebitamento, né contabilizzazione di debiti a carico dello Stato che la emette». L’emissione sovrana sarebbe quindi vincolata al pagamento graduale del debito capitale pregresso e ad investimenti produttivi e infrastrutturali, che però devono essere effettivamente utili. La libera emissione di denaro non deve venir usata per pagare spesa corrente improduttiva, né investimenti speculativi, evitando di “gonfiare” finanziariamente l’economia reale. Così, si farebbero razionalmente i conti «con i limiti posti allo sviluppo dai limiti delle risorse planetarie», usando la tecnologia per ridurre il peso dei limiti e creare nuovo benessere sostenibile, cioè compatibile col sistema-Terra.Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008. E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.
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Priebke, gli schiavi di Auschwitz e quelli di Bruxelles
«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, osserva “Comidad”, lo stesso Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio delle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero praticabili nelle società tribali, non certo nell’Europa dei lumi. «A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare e usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali era stato nel 1917 il ministro degli esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale», in riconoscimento di quanto gli ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la Prima Guerra Mondiale contro la Germania. «La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli ebrei».Ma nel “Mein Kampf”, aggiunge “Comidad”, l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia “perfida e ostile”, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque e in ogni situazione. «Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che sino ad allora si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa». Così, caduto il Muro di Berlino, anche l’Europa occidentale si è dovuta piegare alle stesse forche caudine – privatizzazioni e liquidazione del welfare – come se anch’essa fosse stata sconfitta al termine della Guerra Fredda. «Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di “redenzione”».La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il Fmi uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, e i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale. «Nel secondo dopoguerra», continua “Comidad”, «l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani – per quanto conosciuto e documentato è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca Ig Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La Ig Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank».La Ig Farben di Auschwitz «rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò – conclude “Comidad” – lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale». Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle rilocalizzazioni aziendali «costituisce una macabra ironia della storia». Una logica aziendale estremizzata ad Auschwitz, nella sua spaventosa chiarezza genocida: «Grazie alle deportazioni di massa, la “materia prima umana” veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere». Da qui, «per mere ragioni di budget», la sottoalimentazione dei lavoratori e l’eliminazione sistematica degli inabili al lavoro. Se nell’economia il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, «certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili: al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi».Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali. Il nazismo, «di solito fatto passare per un nazionalismo estremo», al contrario «anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato», rileva “Comidad”. «Tutto dev’essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale». Se il parallelismo può suscitare perplessità, data la distanza storica, «resta il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa».«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.
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Aiuto, ci spiano. Rodotà: e lo scoprono solo adesso?
Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione Europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale – quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti. L’Europa reagisce, ma non è innocente: fin dai giorni successivi all’11 Settembre, sapeva benissimo che la strada imboccata dagli Usa andava verso lo spionaggio di massa, la cancellazione delle garanzie per i cittadini, l’accesso alle banche dati. Stefano Rodotà parla di «colpevole sottovalutazione di queste dinamiche», e accusa: è rimasto inascoltato chi premeva per un cambio di passo nelle relazioni euro-atlantiche, «per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden».Oggi la Merkel ha reagito alla notizia del controllo sulle sue telefonate, ma negli anni ’90 nessuno protestò per la scoperta del primo sistema mondiale di intercettazioni, “Echelon”, gestito da Usa, Gran Bretagna e Canada con Australia e Nuova Zelanda. Tra i bersagli anche l’allora premier italiano, Prodi. L’Europa? Sempre subalterna alle lobby americane, scrive Rodotà in un editoriale su “Repubblica” ripreso da “Megachip”. Oggi protesta anche Barroso, fingendo di non sapere che – da “Echelon” ai Big Data della Nsa – quelle intercettazioni non sono servite solo a contrastare il terrorismo, ma a spiare i leader dei paesi “alleati” e le loro aziende, «per dare alle imprese americane un di più di informazioni per renderle più competitive rispetto a quelle europee». La presidente brasiliana Dilma Rousseff, secondo cui «senza tutela del diritto alla privacy non v’è libertà di opinione e di espressione, e quindi non v’è una vera democrazia», per Rodotà apre «una vera questione di democrazia planetaria».Di fronte al Datagate «non bastano fiere dichiarazioni di buone intenzioni», ma occorre agire – con leggi opportune – per proteggersi, anche mettendo in forse il trattato commerciale euro-atlantico. «A questa globalizzazione delle pure politiche di potenza, incarnate anche dai grandi padroni privati della Rete, bisogna cominciare ad opporre una politica dei diritti altrettanto globale», sostiene Rodotà, difendendo lo stesso Snowden da chi lo criminalizza. «Si è ormai aperta una partita che riguarda proprio i caratteri della democrazia al tempo della Rete, e questo terreno non può essere abbandonato». Aggiunge il giurista: «La morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie di sicurezza per affermare il loro diritto di violare la sfera privata», e inoltre «serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica». Regole, finalmente, sulla tecnologia digitale. «Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini: se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili».Chi aveva decretato la fine dell’età dei diritti, oggi dovrebbe riflettere sul fatto che la prima, vera crisi tra Stati Uniti e Unione Europea si è aperta proprio intorno alle violazioni di un diritto fondamentale – quello alla privacy. Ed è una crisi che mostra con chiarezza che cosa significhi in concreto la globalizzazione, quali siano i limiti della sovranità nazionale, di quale portata siano ormai le sfide rivolte alla democrazia attraverso diverse negazioni di diritti. L’Europa reagisce, ma non è innocente: fin dai giorni successivi all’11 Settembre, sapeva benissimo che la strada imboccata dagli Usa andava verso lo spionaggio di massa, la cancellazione delle garanzie per i cittadini, l’accesso alle banche dati. Stefano Rodotà parla di «colpevole sottovalutazione di queste dinamiche», e accusa: è rimasto inascoltato chi premeva per un cambio di passo nelle relazioni euro-atlantiche, «per impedire che sul mondo si abbattesse il “digital tsunami” poi organizzato dalla National Security Agency e provvidenzialmente rivelato da Edward Snowden».