Archivio del Tag ‘Usa’
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Sulla Luna con Alì, ogni giorno un miracolo di giustizia epica
Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.Lo zio lo chiamava ancora Cassius Clay perché non gli riconosceva il valore simbolico, ma lui mica votava comunista come papà. Invece, papà aveva capito bene il senso di quel ciclope furioso e gentile: il signor campione Muhammad Alì aveva mandato a quel paese la guerra del Vietnam e il presidente degli Stati Uniti, e per questo bisognava tifare solo per i suoi guantoni. Erano un segno di libertà per tutti, anche per gli operai di Settimo Torinese e Crotone, Scampia e Taranto, non soltanto per i neri americani e africani. Alì combatteva per tutti gli oppressi: dunque, per una volta si poteva restare alzati la notte e vederlo fare a pugni in tivù contro il nero venduto al potere, cioè Foreman. La prima veglia era stata per lo sbarco sulla Luna. La seconda per Italia-Germania. La terza, per quella battaglia nella giungla. Ecco, per capire davvero chi è morto l’altra notte (morto? ma figuriamoci) bisogna proprio tener conto dello spessore assoluto della storia che si andava vivendo, e raccontando allora.C’erano, in quel tempo memorabile, solo personaggi epici: il comandante Neil Armstrong, Gigi Riva, Pelè e Muhammad Alì. Per forza, poi, da grande ti avrebbero mandato al liceo classico. Altro che Odisseo e Socrate, i grandi della storia noi li vivevamo tutti i giorni, Omero metteva solo le didascalie. Prese un sacco di pugni per cinque round. Il venduto Foreman lo stava gonfiando come una zampogna. Ma lui niente, lui sempre in piedi a pigliare in giro quell’altro. Mi deludi, George. Non sai fare di meglio? Sei diventato debole, amico. Sei stanco? E Foreman picchiava come un pazzo, sprecando così ogni energia. Lo zio però pensava che al prossimo cazzotto ben dato, Alì sarebbe finito al tappeto. Invece papà era sicuro del contrario, i suoi occhi dicevano “stai tranquillo, figlio mio, alla fine i giusti vincono sempre”. All’ottava ripresa, infatti, Mohammad tirò un cartone dell’altro mondo al venduto che vacillò e andò a terra come morto. E Alì lo guardava cadere, stava per colpire ancora Foreman ma non lo fece, trattenne il guantone, sapeva che non ci sarebbe stato bisogno di niente di più, forse non voleva sfigurare il volto del nemico. Con quel pugno fantastico lo aveva già umiliato abbastanza, e si stava riprendendo tutto: il titolo mondiale, la gloria, l’orgoglio, un pezzo del suo passato e l’amore del mondo intero e dell’umanità: tutta, senza eccezioni. A parte lo zio.E poi ci fu quell’altra sera. Aspettavamo l’ultimo tedoforo nello stadio di Atlanta e quando comparve Alì, quando realizzammo che non era una visione mistica ma era invece tutto vero, ci sentimmo esattamente dentro la storia, quella da raccontare più ai nipoti che ai lettori. La torcia tremante nel pugno stretto di Muhammad Alì: eppure nulla era stato più fermo e più nitido, più esatto e definitivo, mai. La mano era la stessa dell’autografo, cinque anni prima. Alì a Torino per una manifestazione dell’Uisp, l’enorme silenzio quando lui entrò nella Reggia di Venaria. Barcollava e taceva. Poi gli misero sotto il naso dei cartoncini da firmare e Alì sedette assorto come un bimbo delle elementari: la mano guidava lentissimamente la penna che solcava la carta come un aratro. Veniva voglia di dirgli “scusi Alì, veramente, ci perdoni, siamo dei coglioni a farle fare questo sforzo immane, è lo stesso, lasci stare, non importa” e invece niente, il trofeo d’inchiostro si andava componendo sul foglio e sta ancora lì, appeso al muro, solo un po’ sbiadito.E poi i libri, certamente. Gli articoli, alcuni bellissimi. Gianni Minà, Emanuela Audisio. E poi “The fight” di Norman Mailer, tradotto chissà perché “La sfida” da Einaudi, un romanzo e non solo un reportage: la penna era la stessa che aveva raccontato il Vietnam e l’epopea dei primi astronauti. Ai ragazzi delle scuole di giornalismo forse basterebbe dare da leggere Mailer. Ecco perché Muhammad Alì è stato, semplicemente, il più grande atleta di tutti i tempi. Non solo per le vittorie, quelle le hanno ottenute anche Coppi e Carl Lewis, Federer e Michael Jordan, Maradona e Nuvolari. Alì è stato il più grande nel rapporto tra immenso ingombro sportivo e gigantesca valenza sociale, umana, culturale e politica. Nessuno come lui, in questo. Ovunque sia lo zio, ora sarà d’accordo pure lui.(Maurizio Crosetti, “Muhammad Ali, quel ciclope furioso e gentile che faceva finta di essere cattivo”, da “La Repubblica” del 4 giugno 2016).Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.
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Quando nel mondo c’era ancora posto per Muhammad Alì
Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.«Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato in Kentucky in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, scrive Gianni Riotta su “La Stampa”, in morte del campione. «Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi “diavoli”». Poi «si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi». Alì, continua Riotta, «aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura». Dopo di lui, l’espressione “messo alle corde” ha cambiato significato: «Alì si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto».Stessa tattica nel 1974 a Kinshasa, in Zaire, contro Foreman, «la folla a gridare “Ali Bòmaye”», Alì uccidilo! «Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman». L’anno dopo, a Manila, Alì soffre contro Frazier, vince e confessa: è stato come morire. «Ora sappiamo che era davvero “morire”», scrie Riotta. «L’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, “showman”. Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di “Selezione” dal “Reader’s Digest” andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano».«La boxe è l’imitazione di una lotta per la vita o per la morte, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento – le loro vite, accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti. La vita sul ring è ingrata, brutale e corta», scrive Joyce Carol Oates nella perfezione del suo saggio “Sulla Boxe”. «Di questa mattanza – conclude Riotta – Alì fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore». L’ultima uscita pubblica è stata contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America: una discriminazione anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Alì era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, ma ora era «impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo paese e nel mondo». Al congedo da Kinshasa, nel memorabile docu-film “Quando eravamo re”, di Lion Gast, all’aeroporto il trionfatore Alì accarezza i bambini congolesi che lo festeggiano: «Voi siete buoni, non avete idea di come sia il posto da cui vengo io». Ed era solo il 1974: un mondo in cui c’era ancora posto per un eroe come Muhammad Alì.Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.
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Un boss disonesto: Obama, il peggior presidente della storia
Bush è stato orribile, come presidente. A quel tempo pensavo che fosse il peggiore presidente della storia americana. Ma poi è arrivato Obama e ha stabilito un sacco di record… Per esempio, l’amministrazione Obama: ha fatto perseguire legalmente più informatori (“whistleblower”, come Edward Snowden) di tutti gli altri presidenti messi assieme. Ha fatto condannare questi informatori a un numero di anni di galera 31 volte superiore a quello di tutti gli altri presidenti messi assieme. Ha perseguito meno reati finanziari di quanto abbiano fatto Reagan, Clinton, ed entrambi i presidenti Bush (per quanto pessima fosse l’amministrazione Bush, almeno ha fatto processare i vertici di Enron, Worldcom, e un po’ di altri truffatori tra i colletti bianchi; al contrario, Obama non ha fatto processare nemmeno uno degli alti dirigenti di Wall Street.) È il presidente meno trasparente di sempre. È più ostile alla stampa di qualsiasi altro presidente nella storia.Obama rivendica il potere di sospendere le libertà degli americani in un modo in cui nessun altro presidente si era permesso… e in cui nemmeno Re Giorgio d’Inghilterra si era permesso. In effetti Obama ci ha fatto retrocedere, in termini di alcune libertà, ai tempi dell’emanazione della Magna Carta, nel 1215 in Inghilterra. Ha reso l’America il paese in cui i cittadini sono i più spiati nella storia dell’umanità. Si può ritenere che abbia centralizzato il potere in misura maggiore che qualsiasi altro presidente. Ha concesso la grazia ai condannati meno volte di qualsiasi altro presidente dopo Garfield, che però governò per soli 200 giorni prima di essere assassinato nel 1881. Potrebbe rivelarsi l’unico presidente della storia Usa durante il cui mandato non si è visto nemmeno un anno di crescita economica al 3% (in termini reali, cioè al netto dell’inflazione).Oltre a questo, durante la presidenza Obama si è visto: il maggiore tasso di disuguaglianza rispetto a qualsiasi altra presidenza; la prima volta nella storia che l’America viene vista come il maggiore pericolo mondiale dai cittadini del resto del mondo; uno dei maggiori aumenti del debito pubblico (in termini netti) della storia americana; forse il governo più corrotto dell’intera storia statunitense. E, come ha notato il “New York Times” questa settimana, Obama come presidente è stato in guerra più a lungo di qualsiasi altro presidente nella storia. Il peggior presidente di sempre!(Zero Hedge, “Obama è il peggior presidente della storia americana”, post ripreso da “Voci dall’Estero” il 17 maggio 2016).Bush è stato orribile, come presidente. A quel tempo pensavo che fosse il peggiore presidente della storia americana. Ma poi è arrivato Obama e ha stabilito un sacco di record… Per esempio, l’amministrazione Obama: ha fatto perseguire legalmente più informatori (“whistleblower”, come Edward Snowden) di tutti gli altri presidenti messi assieme. Ha fatto condannare questi informatori a un numero di anni di galera 31 volte superiore a quello di tutti gli altri presidenti messi assieme. Ha perseguito meno reati finanziari di quanto abbiano fatto Reagan, Clinton, ed entrambi i presidenti Bush (per quanto pessima fosse l’amministrazione Bush, almeno ha fatto processare i vertici di Enron, Worldcom, e un po’ di altri truffatori tra i colletti bianchi; al contrario, Obama non ha fatto processare nemmeno uno degli alti dirigenti di Wall Street.) È il presidente meno trasparente di sempre. È più ostile alla stampa di qualsiasi altro presidente nella storia.
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Dall’Ue al Ttip, l’atroce Europa filo-Usa creata per noi idioti
Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.Il progetto ha visto e vede in azione personaggi presentati come padri dell’Europa ma in realtà pagati e diretti da Washington, innanzi tutti Jean Monnet e Robert Schuman. L’idea di unione europea viene inizialmente proposta come comunità del carbone, dell’acciaio e dell’atomo, allo scopo di ingranare tra di loro le economie di Francia e Germania, così da prevenire fantomatici futuri conflitti tra esse. Poi quel primo organismo sviluppa una rovinosa politica agricola comune, diventa un’area di libero scambio; poi assume poteri legislativi e di controllo sempre più ampli sugli Stati nazionali; poi si fa Schengen, la Bce, l’euro, il Trattato di Lisbona che impegna a una crescente integrazione politico-istituzionale, poi il controllo centralizzato dei bilanci e delle banche, e via discorrendo, verso la creazione di un superstato europeo a direzione non democratica, non trasparente e irresponsabile (“non accountable”), con soppressione delle democrazie nazionali parlamentari in quanto “causa di guerre”.Il tory Boris Johnson, ex sindaco di Londra, nel suo intervento pro-Brexit, spiega che i due veri padri dell’Unione Europea, Monnet e Schuman, intendevano creare un senso di identità-solidarietà europea con un metodo della psicologia comportamentale, applicando un principio che era già stato osservato come efficace in altri contesti, cioè – nella fattispecie europea – forzando permanentemente e crescentemente i diversi popoli europei a tenere comportamenti simili tra loro attraverso l’imposizione di regolamentazioni comuni, la moneta comune, l’inno comune, la bandiera comune; imporre un agire comune per far nascere un sentire comune. Decenni dopo, constatiamo che questo metodo ha chiaramente fallito, e ha anzi risvegliato contrapposti nazionalismi, poggianti su oggettive contrapposizioni di interessi soprattutto economici. Risorgono le frontiere, le economie divergono, crescono i movimenti anti-Ue. Ma persino davanti a tali fallimenti, l’oligarchia massonico-finanziaria, liberal-cosmopolita, insiste nel suo programma di unificazione forzata, imponendo crescenti cessioni di sovranità e crescenti sacrifici.Questa evoluzione sta comportando (senza che lo si dica e che si permetta ali popoli di decidere) radicali e surrettizie trasformazioni costituzionali nei vari paesi aderenti, che perdono la loro sovranità a quote crescenti e a vantaggio delle burocrazie centrali, non democratiche e non responsabili, dell’Unione Europea – burocrazie oscenamente strapagate, e tanto corrotte, parassitarie e inefficienti, che da vent’anni l’organismo europeo di revisione dei conti non firma i loro bilanci. L’unica volta che si è fatto un controllo, è scoppiato lo scandalo della Commissione Santer con la commissaria Edith Cresson. Poi hanno deciso che era meglio non controllare più! Incidentalmente: il potere legislativo, come praticamente ogni potere dell’Ue, risiede nella Commissione, non eletta e irresponsabile, che discute e decide in segreto, a porte chiuse, altroché fascismo!Ogni cessione di sovranità a questa burocrazia viene richiesta come condizione per sviluppo e sicurezza, ma l’Unione Europea è sempre più in crisi e sempre più in fondo alla graduatoria dell’Ocse in fatto di crescita – stanno meglio solo i paesi che non hanno aderito all’euro. Questo il bilancio dell’unione e della sua moneta. Un bilancio che dovrebbe svegliare anche le menti più torbide e sognatrici. Solo gli idioti non riconoscono, a questo punto, che il progetto dell’Unione Europea non è mai stato rivolto al progresso e al benessere delle nazioni europei, bensì ad altri fini, a fini di dominazione, di controllo sociale. Informandoci, scopriamo che esso serviva e serve al dominio degli Stati Uniti sull’Europa attraverso un processo col quale il vassallo Germania è stato posto in una condizione di egemonia in Europa soprattutto mediante gli effetti dell’euro e delle politiche fiscali, che hanno prodotto e stanno producendo un forte e crescente indebitamento dei paesi periferici verso la Germania e hanno dato quindi a questa l’iniziativa politica, il controllo delle istituzioni comunitarie e il diritto di veto.La Germania impone, col pretesto di prevenire l’inflazione e di risanare i bilanci dei paesi Pigs, misure recessive, che generano un avvitamento fiscale con conseguenti calo del Pil, aumento del debito, accrescimento della sottomissione a Berlino, che diventa sempre più dominante. Invero l’euro non è una moneta unica, con un unico debito pubblico sottostante, ma un sistema di cambi fissi tra le precedenti valute, con debiti pubblici divisi, nel quale il regolamento delle transazioni internazionali si fa sostanzialmente mediante il rilascio di promesse di pagamento, cioè mediante indebitamento, delle singole banche centrali nazionali dei paesi a deficit commerciale verso quelli con attivo commerciale. I cambi fissi, impedendo l’aggiustamento fisiologico, cioè di mercato, dei rapporti valutare tra paesi con deficit e paesi con un surplus di bilancia commerciale, determinano un crescente deficit e un crescente indebitamento dei paesi meno efficienti soprattutto verso la Germania, ma anche una fuga di imprese, di capitali, di lavoratori e tecnici qualificati, così che la Germania si ritrova con enormi crediti che usa per comprarsi i pezzi più interessanti dei patrimoni e delle economie dei paesi indebitati – cioè trasforma i propri interessi attivi in beni reali dei paesi sottomessi. E l’Italia si ritrova non solo sempre più indebitata, ma sempre più deindustrializzata e sempre più abbandonata da giovani qualificati. Il crollo dei brevetti italiani è solo l’ultima riconferma di questo processo ultraventennale e strutturale di declino.Tale era il disegno europeista reale dietro l’europeismo di facciata concepito dai padri nobili per i figli scemi, dai padri che facevano leva su supposti sentimenti di fratellanza e solidarietà tra i popoli degli Stati europei, quando anche gli idioti sanno che, nella politica, soprattutto quella internazionale, le decisioni vengono prese per convenienza e calcolo, alla ricerca del vantaggio e della sopraffazione. Se teniamo presente questa realtà, non avremo alcuna difficoltà a capire per quale ragione tutte le innovazioni europeiste hanno avuto effetti contrari alle promesse. E per quale ragione ad ogni crisi causata da tali effetti, si è risposto che la cura era “più Europa”, più cessione di sovranità all’Unione, cioè a Berlino. Chi obietta, è estremista e populista, forse pazzo, quindi i suoi argomenti sono invalidi a priori, senza esame del merito, anzi non è nemmeno legittimato a parlare. Stile Stalin.La prossima innovazione, già in avanzato stadio di elaborazione, è il famoso Ttip, il trattato transatlantico di libero commercio, negoziato in segreto, senza che nemmeno i parlamentari possono fare copie delle bozze, e possono consultarle solo per due ore, sorvegliati dai carabinieri, senza poterne trascrivere brani, come recentemente denunciato dal sen. Tremonti. Perché questa segretezza ultra-dittatoriale? Per coprire gli interessi economici retrostanti e i loro progetti: col Ttip le multinazionali statunitensi potrebbero prendersi larghe fette dei mercati nazionali europei (soprattutto in Italia, ai danni dei milioni di piccole imprese che danno il grosso della ricchezza e dei posti di lavoro, e con vantaggio solo di quelle pochissime imprese, perlopiù grandi, di cui gli Usa importano i prodotti. Ossia: il Ttip sarà tutto a vantaggio delle esportazioni americane verso l’Europa e soprattutto verso l’Italia, e a danno dei piccoli produttori europei dai quali dipende il nostro livello di redditi e di occupazione.Le multinazionali americane potrebbero imporre la vendita in Europa senza etichette distintive di loro prodotti Ogm e in generale a rischio, potrebbero richiedere risarcimenti agli Stati che ponessero limiti allora affarismo quand’anche detti limiti siano giustificati da esigenze di tutte era della salute pubblica. Col Ttip disporrebbero anche, ciliegina sulla torta, di un tribunale sovranazionale praticamente organizzato da esse stesse, davanti a cui citare gli Stati dalle cui politiche e legislazioni si ritenessero danneggiate, per farli condannare a risarcire i danni da mancato profitto, e far pagare il risarcimento ai contribuenti. Anche quanto resta di libera ricerca e informazione medico-scientifica sarebbe tolto, perché contrario agli interessi del profitto. Molti economisti e giornalisti e politici in carriera, ipocritamente, dichiarano che il Ttip va bene, a condizione che la politica regolamenti l’affarismo. Ma ciò è proprio quel che il Ttip proibisce. E anche se non lo proibisse, la potenza di questo affarismo già controlla la politica.Se il Ttip passerà, e credo che passerà perché non vi sono in campo dinamiche capaci di contrastarlo, sarà la totale eliminazione, da parte del grande capitale finanziario, di ogni limite e di ogni valore che si opponga ai suoi calcoli e alle sue speculazioni, cioè la fine pratica dell’esistenza del principio politico e del principio legalitario, oltre che dei diritti dell’uomo. Rimarranno solo quelli degli investitori, come li chiama il Ttip, ossia del capitale finanziario. Sarà una riforma non semplicemente dell’economia, ma della società e dello stesso concetto di uomo, il quale sarà ridotto e considerato esclusivamente come componente dei processi finanziari. Il dominio Usa sull’Europa attraverso il processo di unificazione europea sotto il vassallo germanico serve ultimamente a questo.(Marco Della Luna, “Dall’europeismo al Ttip, un piano degli Usa”, dal blog di Della Luna del 24 maggio 2016).Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.
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Trump Show. In alternativa, la sinistra venduta alle banche
Dopo l’estate dell’umiliazione greca è arrivato l’autunno della migrazione respinta poi l’inverno della disgregazione europea e infine la primavera di Donald Trump. Non so se Trump vincerà le elezioni di novembre, non lo credo, anche se i sondaggi cominciano a dargli un vantaggio su Hillary Clinton. La sua ascesa trionfale va comunque interpretata. Partiamo da lontano. Agli operai tedeschi affamati e umiliati dall’aggressione finanziaria anglo-francese, Hitler disse: non siete operai sfruttati, ma ariani vincitori. Il nazionalsocialismo nacque da questo cambio di prospettiva. Non intendo dire che stia per ripresentarsi lo scenario degli anni ’30 (anche perché oggi le dimensioni di potenza sono ingigantite), ma intendo dire che la dinamica che portò il nazionalsocialismo al potere si ripresenta. Si ripresenta in contemporanea con un’esplosione dell’ordine che il bacino mediterraneo ha ereditato dal colonialismo. La coincidenza di stagnazione, impoverimento della classe operaia bianca euro-americana e deflagrazione dell’ordine geopolitico produce una forma inedita di nazionalismo aggressivo della razza bianca.La soggettività che si rappresenta in Trump, come nelle forze montanti della destra europea, è l’identità bianca che reagisce disperatamente al suo declino economico, demografico e geopolitico. Lo scenario rischia di divenire terrificante. Il 5 maggio, alle domande dei giornalisti sul trionfo di Trump alle primarie repubblicane, Obama ha risposto con la sua ironia intelligente di politico dell’età moderna: «Non stiamo parlando di entertainment, questo non è un reality show, è una gara per la presidenza degli Stati Uniti». Purtroppo Obama sbaglia, perché i confini tra politica e reality show non sono più quelli che conosceva la ragion politica moderna. La gara per la presidenza degli Stati Uniti è un reality show, e Obama è un personaggio dello show di cui Trump tende a diventare il regista.Gli italiani, che in fatto di anticipazione del potere autoritario hanno una lunga esperienza, hanno imparato a loro spese la lezione. Berlusconi si presentò con una campagna pubblicitaria fondata su due parole di origine calcistica: Forza Italia. I politici risposero che mica si trattava di entertainment, la politica non è uno spot pubblicitario. Il 27 marzo del 1994 Forza Italia vinse le elezioni e i confini della politica furono per sempre ridefiniti. I politici tradizionali pensano che la politica sia il discorso onnicomprensivo, e la pubblicità una dimensione discorsiva particolare. Berlusconi mostrò che la politica è divenuta una sottosfera, che dipende da una sfera pubblica mediatizzata. Il trionfo di Trump è politicamente inspiegabile perché coloro che sono andati a votare alle primarie e che andranno probabilmente a votare a novembre non appartengono al discorso politico ma alla media-sfera del reality show. Per questo molta più gente va a votare, e quella gente sa di trovarsi entro un reality show.Durante il suo viaggio asiatico, per rassicurare gli alleati giapponesi e riferendosi a opinioni espresse da Trump, Obama ha detto che «la persona che ha espresso queste opinioni non sa molto di politica estera o di politica nucleare e neppure del mondo in generale». Naturalmente Obama ha perfettamente ragione: Trump è totalmente ignorante sullo specifico storico, economico e antropologico delle questioni su cui si esprime. Ma quel che Obama sembra non (voler) capire è che l’ignoranza non è affatto un ostacolo sulla strada del potere contemporaneo. Gli americani hanno votato (due volte) un tizio che credeva che i Talebani fossero un gruppo rock prima di scoprire che volavano nel cielo americano in direzione delle torri di Manhattan. Quel tizio ha cambiato la storia del mondo iniziando una guerra infinita. Ciò che dobbiamo capire è che l’ignoranza è una potenza gigantesca, quando è guidata da umiliazione e disperazione.Le politiche neoliberiste hanno portato alla disperazione la grande maggioranza dei lavoratori bianchi occidentali. Questi non vogliono più sentirsi dire che sono operai sfruttati, da quando la sinistra si è messa al servizio delle banche. Come nel 1933 gli operai tedeschi votarono per chi li incitava a sentirsi bianchi ariani e purissimi, e indicava gli ebrei e i rom come nemici mortali – così oggi gli operai dell’Euro-America vogliono sentirsi dire quel che gli dicono Trump, Le Pen, Kazinski, Orban, Putin e Boris Johnson. Vogliono sentirsi dire che sono la razza superiore, e che per questo vinceranno chiudendo i migranti in un gulag di campi di concentramento diffusi lungo le coste sud. Oggi siamo tutti contenti perché in Austria i nazisti sono solo il 49.7%. E intanto l’agenzia finanziaria Morgan Stanley suggerisce ai governi europei di cambiare le loro leggi per rendere possibile una pieno funzionamento del mercato globale. Merkel Hollande, Renzi e Napolitano corrono ad eseguire il diktat delle banche. Aprono la strada al peggio. Lo sanno?(Franco “Bifo” Berardi, “Perché seduce il Trump Show”, da “Micromega” del 26 maggio 2016).Dopo l’estate dell’umiliazione greca è arrivato l’autunno della migrazione respinta poi l’inverno della disgregazione europea e infine la primavera di Donald Trump. Non so se Trump vincerà le elezioni di novembre, non lo credo, anche se i sondaggi cominciano a dargli un vantaggio su Hillary Clinton. La sua ascesa trionfale va comunque interpretata. Partiamo da lontano. Agli operai tedeschi affamati e umiliati dall’aggressione finanziaria anglo-francese, Hitler disse: non siete operai sfruttati, ma ariani vincitori. Il nazionalsocialismo nacque da questo cambio di prospettiva. Non intendo dire che stia per ripresentarsi lo scenario degli anni ’30 (anche perché oggi le dimensioni di potenza sono ingigantite), ma intendo dire che la dinamica che portò il nazionalsocialismo al potere si ripresenta. Si ripresenta in contemporanea con un’esplosione dell’ordine che il bacino mediterraneo ha ereditato dal colonialismo. La coincidenza di stagnazione, impoverimento della classe operaia bianca euro-americana e deflagrazione dell’ordine geopolitico produce una forma inedita di nazionalismo aggressivo della razza bianca.
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Operai licenziati, meglio i robot: la Foxconn fa da apripista
La Foxconn, azienda taiwanese che produce la metà delle componenti dei dispositivi elettronici di consumo venduti nel mondo, ha ridotto la propria forza lavoro, grazie all’introduzione dei robot che sostituiscono gli operai. Un taglio drammatico: da 110.000 ad appena 50.000 operatori. Niente da dire: «Un successo nella riduzione del costo del lavoro». Fino a dieci anni fa, scrive “Contropiano”, per capire dove stava andando il capitalismo occorreva guardare agli Stati Uniti. Ora invece fa testo la Cina, divenuta “la manifattura del mondo” grazie a un costo del lavoro che 40 anni fa era ai minimi mondiali. Altri punti di forza: la concentrazione politica del potere (il sindacato assorbito dal partito unico) e l’apertura agli investimenti stranieri, in cambio della condivisione del know how. Centinaia di milioni di persone avevano così «smesso di essere contadini in esubero per trasformarsi in operai industriali, assicurando un tasso di crescita del Pil superiore al 10% per oltre venti anni e facendo conquistare al paese il ruolo di seconda potenza industriale del pianeta». Ma la musica sta cambiando: «Ogni favola ha una fine, anche e soprattutto quelle capitalistiche».La Foxconn, aggiunge “Contropiano”, era anche conosciuta per l’alto tasso di suicidi tra i suoi lavoratori, schiacciati da ritmi infernali. «Ma i robot fanno meglio, più velocemente, senza soste fisiologiche, 24 ore su 24. Non si lamentano, non pretendono adeguamenti salariali, non si ammalano, non scioperano mai e non rischiano di farlo in futuro. Al massimo si rompono e vanno aggiustati». Ed è solo l’inizio: «Decine di altre aziende operanti in Cina stanno per fare lo stesso, magari su scala dimensionale anche superiore al 50% del personale». L’automazione sta conquistando tutte le fabbriche del pianeta. E i “futurologi” «stanno già sfornando elenchi di mansioni lavorative a rischio scomparsa», con «percentuali da capogiro nella sostituzione di uomini e donne con macchine». Attenzione: tutto ciò che è seriale può esser fatto meglio, «non c’è impiegato “di concetto” che possa sentirsi al sicuro: solo le professioni “creative” possono – entro certi limiti, comunque – essere risparmiate da questa corsa alla robotizzazione».La “quarta rivoluzione industriale”, aggiunge “Contropiano”, ha per orizzonte la produzione senza lavoro umano, o quasi: «Resteranno, seppur molto più limitate, solo le attività di installazione, manutenzione e programmazione dei robot». E quindi, «miliardi di esseri umani non avranno più un’occupazione, né potranno riciclarsi in altre attività in espansione, perché non avranno le cognizioni di base per fare il salto da una all’altra». Facile da capire: «Un tecnico, per quanto bravissimo, non può diventare un ingegnere informatico o elettromeccanico. Se perde il lavoro, mettiamo, intorno a 40 anni, con famiglia e figli a carico, non può tornare all’università per i cinque sei anni necessari a fare l’upgrade delle sue conoscenze. In ogni caso, serviranno assai meno ingegneri di quanti tecnici si troveranno a spasso». Idem per la sicurezza: «I poliziotti “indispensabili” saranno solo quelli necessari per le scorte e il controllo delle manifestazioni di piazza, oltre a informatici e analisti video». Conclusione: «La domanda, epocale, è persino disperatamente semplice. Che fine faranno quei miliardi di esseri umani senza possibilità di guadagnarsi da vivere vendendo la propria forza lavoro?».La Foxconn, azienda taiwanese che produce la metà delle componenti dei dispositivi elettronici di consumo venduti nel mondo, ha ridotto la propria forza lavoro, grazie all’introduzione dei robot che sostituiscono gli operai. Un taglio drammatico: da 110.000 ad appena 50.000 operatori. Niente da dire: «Un successo nella riduzione del costo del lavoro». Fino a dieci anni fa, scrive “Contropiano”, per capire dove stava andando il capitalismo occorreva guardare agli Stati Uniti. Ora invece fa testo la Cina, divenuta “la manifattura del mondo” grazie a un costo del lavoro che 40 anni fa era ai minimi mondiali. Altri punti di forza: la concentrazione politica del potere (il sindacato assorbito dal partito unico) e l’apertura agli investimenti stranieri, in cambio della condivisione del know how. Centinaia di milioni di persone avevano così «smesso di essere contadini in esubero per trasformarsi in operai industriali, assicurando un tasso di crescita del Pil superiore al 10% per oltre venti anni e facendo conquistare al paese il ruolo di seconda potenza industriale del pianeta». Ma la musica sta cambiando: «Ogni favola ha una fine, anche e soprattutto quelle capitalistiche».
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Cannibali feudali: la Germania e il Fmi sbranano la Grecia
Essendo riusciti ad usare l’Ue per conquistare il popolo greco, trasformando il governo “di sinistra” di Syriza in un fantoccio delle banche tedesche, la Germania si ritrova ora il Fmi a intralciare il suo piano per saccheggiare la Grecia fino alla sua scomparsa. Le regole del Fmi impediscono a questa organizzazione di prestare soldi a paesi che non siano in grado di restituirli. Il Fmi ha quindi concluso, sulla base di dati e analisi, che la Grecia non è in grado di restituire i soldi presi in prestito. Quindi, il Fmi non è disposto a prestare alla Grecia i soldi che le servono per ripagare le banche private creditrici. Il Fmi sostiene che i creditori della Grecia, molti dei quali non sono nemmeno i creditori originali ma semplicemente avvoltoi che hanno acquistato il debito greco a prezzo di saldo nella speranza di specularci, devono tagliare parte del debito in modo da riportarlo a un ammontare che sia sostenibile da parte dell’economia greca.Le banche non vogliono che la Grecia sia in grado di ripagare il suo debito, perché intendono invece usare l’incapacità della Grecia di ripagare per saccheggiarla dei suoi asset e delle sue risorse e per distruggere la rete di protezione sociale costruita durante il ventesimo secolo. Il neoliberismo intende ristabilire il feudalesimo – pochi baroni e molti servi della gleba: l’1% contro il 99%. Per come la vede la Germania, il Fmi dovrebbe prestare alla Grecia i soldi con cui ripagare le banche tedesche. Poi il Fmi verrà ripagato forzando la Grecia a ridurre o abolire le pensioni di anzianità, ridurre i servizi pubblici e i dipendenti pubblici, e utilizzare le somme risparmiate per ripagare il Fmi. Poiché le somme risparmiate saranno insufficienti, nuove misure di austerità vengono imposte così che la Grecia sia costretta a vendere gli asset nazionali, come le società pubbliche di gestione dell’acqua, i posti e le isole greche protette, agli investitori stranieri, principalmente le stesse banche o i loro migliori clienti.Finora i cosiddetti “creditori” si sono impegnati solo in qualche forma di sgravio del debito, ancora indefinito, tra 2 anni. Per allora i giovani greci saranno emigrati e saranno stati sostituiti da immigrati che scappano dalle guerre di Washington in Medio Oriente e in Africa, che avranno appesantito il sistema di welfare greco già privo di fondi. In altre parole, la Grecia viene distrutta dalla Ue, un’istituzione così follemente sostenuta e apprezzata. La stessa cosa sta accadendo in Portogallo e si prepara ad avvenire in Spagna e in Italia. Il saccheggio ha già divorato l’Irlanda e la Lettonia (e un buon numero di paesi dell’America Latina) ed è in corso in Ucraina. Gli attuali titoli dei giornali che riportano l’accordo raggiunto tra il Fmi e la Germania riguardo il tagli del debito greco a un livello sostenibile, sono falsi. Nessun “creditore” ha dato il suo assenso al tagli di nemmeno un centesimo del debito. Tutto quello che il Fmi ha ottenuto dai cosiddetti “creditori” è un vago “impegno” per un ammontare sconosciuto di tagli del debito che avverrà tra 2 anni.I titoli dei giornali non sono altro che una vernice esterna, per coprire il fatto che il Fmi ha ceduto alle pressioni e violato le sue stesse regole. La copertura consente al Fmi di dire che un tagli (futuro e indefinito) del debito consentirà alla Grecia di renderlo sostenibile e, pertanto, il Fmi può prestare alla Grecia i soldi per ripagare le banche private. In altre parole, il Fmi è ormai diventato l’ennesima istituzione occidentale senza regole e il cui regolamento conta meno della Costituzione degli Stati Uniti o della parola del governo di Washington. I media continuano a chiamare il saccheggio della Grecia un “salvataggio”. Chiamare il saccheggio di un paese e del suo popolo “salvataggio” è proprio orwelliano. Il lavaggio del cervello è talmente riuscito che perfino i media e i politici della saccheggiata Grecia chiamano l’imperialismo finanziario che la Grecia sta subendo un “salvataggio”.Da ogni parte del mondo occidentale un gran numero di interventi, sia delle società che dei governi, stanno portando alla stagnazione della crescita dei profitti. Per poter continuare a fare profitti, le mega-banche e le società multinazionali si sono dedicate al saccheggio. I sistemi di sicurezza sociale e i servizi pubblici vengono messi nel mirino per essere privatizzati, e l’indebitamento così ben descritto da John Perkins nel suo libro, “Confessioni di un sicario economico”, viene utilizzato per preparare il terreno al saccheggio di interi paesi. Il capitalismo è entrato nella fase del saccheggio. Il risultato sarà la devastazione.(Paul Craig Roberts, “Il capitalismo è arrivato al saccheggio, la Germania all’assalto del Fmi”, da “Counterpunch” del 26 maggio 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).Essendo riusciti ad usare l’Ue per conquistare il popolo greco, trasformando il governo “di sinistra” di Syriza in un fantoccio delle banche tedesche, la Germania si ritrova ora il Fmi a intralciare il suo piano per saccheggiare la Grecia fino alla sua scomparsa. Le regole del Fmi impediscono a questa organizzazione di prestare soldi a paesi che non siano in grado di restituirli. Il Fmi ha quindi concluso, sulla base di dati e analisi, che la Grecia non è in grado di restituire i soldi presi in prestito. Quindi, il Fmi non è disposto a prestare alla Grecia i soldi che le servono per ripagare le banche private creditrici. Il Fmi sostiene che i creditori della Grecia, molti dei quali non sono nemmeno i creditori originali ma semplicemente avvoltoi che hanno acquistato il debito greco a prezzo di saldo nella speranza di specularci, devono tagliare parte del debito in modo da riportarlo a un ammontare che sia sostenibile da parte dell’economia greca.
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Macchina del fango, contro Trump la grande stampa Usa
Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani – “Corriere”, “Stampa” e “Repubblica” – decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c’è qualcosa di poco “giornalistico” in un’operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il “New York Times”, il “Washington Post” e il “Los Angeles Times”, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il “Los Angeles Times” usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il “New York Times” e il “Washington Post”, che in un’azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell’uomo che nell’arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali.Il “Washington Post” ha pubblicato un paginone nel quale raccoglie tutte le presunte bugie e false affermazioni pronunciate da Trump negli ultimi mesi. Naturalmente, pur di aumentare il volume delle presunte “bugie”, il “Washington Post” non si fa scrupoli nell’elencare anche delle semplici opinioni di Donald Trump, che fa passare come “falsità” solo perché non sono supportate dai fatti (“unsupported claim”). Il “New York Times” è andato addirittura oltre, mettendo insieme una squadra di 20 giornalisti che sono stati incaricati di scavare nel passato di Trump, pur di far saltare fuori qualcosa di spiacevole sul suo conto. Ne è uscita una lista con dozzine di donne che sostengono di aver avuto con Trump un rapporto “ambiguo”, dove lui le avrebbe “usate” e contemporaneamente “denigrate” per il solo fatto di essere donne. Naturalmente, a nessuno del “New York Times” è venuto in mente che in certi casi possa essere la donna stessa a cercare questi rapporti “ambigui”, per ottenerne un chiaro vantaggio personale. Si chiama dare per avere. Berlusconi docet. Insomma, lo sbilanciamento contro Trump da parte delle testate più importanti è talmente evidente che porta a fare una riflessione: come mai in media di sistema temono così tanto un personaggio come Trump?Lo detestano semplicemente perchè è razzista e maschilista, o c’è sotto qualcosa di ben più grosso? (Di certo una presidenza Trump metterebbe un grosso freno alla politica imperialista espansionistica di Usa e Israele in Medio Oriente, tanto per dirne una). Ma la cosa più divertente è che i direttori di tutte queste testate si sono dimenticati di una cosa fondamentale: chi vota Donald Trump non legge certo né il “Los Angeles Times”, né il “New York Times” o il “Washington Post”. All’elettore razzista e xenofobo dell’Alabama non può fregar di meno di come Trump tratti le donne, e gliene frega ancor di meno del fatto che racconti bugie, visto che queste bugie coincidono regolarmente con quello che l’elettore repubblicano vuole sentirsi raccontare. Abbiamo quindi una totale spaccatura, sia a livello mediatico che a livello popolare, fra l’“intellighenzia” americana (localizzata sulle coste dell’Atlantico e del Pacifico) e il cuore profondo degli Stati Uniti, localizzato nel grande Mid-West, che ancora batte per veder sventolare in cima al Campidoglio la bandiera dei confederati. In America la Guerra Civile non è ancora finita. Quella di novembre sarà certamente una elezione che va ben oltre la semplice scelta fra un candidato democratico e uno repubblicano.(“Massimo Mazzucco, “La macchina del fango contro Donald Trump”, da “Luogo Comune” del 15 maggio 2016).Provate ad immaginare se i tre più importanti quotidiani italiani – “Corriere”, “Stampa” e “Repubblica” – decidessero tutti insieme di scatenare una campagna mediatica di discredito contro un singolo personaggio politico: persino i morti si accorgerebbero che c’è qualcosa di poco “giornalistico” in un’operazione del genere. Ebbene, è proprio quello che sta succedendo negli Stati Uniti in questi giorni: i tre più importanti quotidiani americani, e cioè il “New York Times”, il “Washington Post” e il “Los Angeles Times”, hanno deciso di sparare ad alzo zero contro Donald Trump. Già da tempo il “Los Angeles Times” usciva con articoli apertamente denigratori contro il magnate americano, definendolo ripetutamente un ciarlatano, un buffone senza credibilità, oppure addirittura una star da soap-opera. Adesso si sono aggiunti il “New York Times” e il “Washington Post”, che in un’azione chiaramente concertata stanno cercando di distruggere la credibilità dell’uomo che nell’arco di pochi mesi ha completamente stravolto le regole delle elezioni presidenziali.
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Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis
Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir, si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
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Uccido bambini e progetto attentati, nel nome di Ishmael
L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi, sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.L’infanticidio? Simboleggia morte e rinascita. Chi progetta un attentato, se ne “propizia” il successo alla vigilia, massacrando un neonato nel modo più atroce. E’ la legge di Ishmael, la piovra da incubo che il libro di Genna disvela, pagina dopo pagina. La trama è quella – potente, incalzante – del noir, giocato in modo perfetto sulla storia parallela di due poliziotti italiani, a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo è l’ispettore David Montorsi, che scopre un minuscolo cadavere in un campo da rubgy alla periferia di Milano poco prima che, nei cieli dell’Oltrepo Pavese, esploda in volo l’areo di Enrico Mattei, il patron dell’Eni: l’uomo che, da ex partigiano, aveva osato sfidare l’America, in piena guerra fredda. Il secondo è un altro detective della questura milanese, Guido Lopez, impegnato a proteggere l’anziano Kissinger al forum di Cernobbio, poco dopo aver scoperto – nello stesso campo da rugby – il cadavere di un altro minore, spaventosamente seviziato.Proprio tra i vip planetari convenuti per Cernobbio, Genna fotografa un’epoca: «Bush e Gorbaciov, gli eroi del disgelo. Quello che era successo da dieci anni dipendeva da loro. Muro di Berlino, crollo della Russia, riforma dell’economia mondiale. Erano stati loro. Dopo di loro sarebbe stato l’impero del male: l’impero di Ishmael». Il libro di Genna è stato scritto prima ancora del G8 di Genova e dell’11 Settembre, i due eventi-chiave che hanno aperto il baratro della crisi, con la “guerra infinita” in mezzo mondo, la catastrofe finanziaria e il manifestarsi dell’élite neo-feudale globalizzata che ha raso al suolo quarant’anni di diritti sociali, in Occidente. Tredici anni dopo il thriller “Ishmael”, nel monumentale saggio “Massoni”, Gioele Magaldi rivela che lo stesso Gorbaciov fu affiliato alla superloggia segreta “Golden Eurasia”, mentre Bush padre aveva fondato la “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”, molto più estremista (e feroce) della storica “Three Eyes”, ispiratrice dell’ultra-destra economica anglosassone, per decenni dominata da uno dei personaggi centrali del libro di Genna, Henry Kissinger.I grandi globalizzatori? Anche spietati, certo. Ma non solo: attorno a loro, aggiunge Genna, c’è una nebulosa inquietante, profonda e buia, che caratterizza il Dna dei loro “mandanti” più reconditi, i veri “invisibili”, i super-potenti, quelli che restano al loro posto anche quando i loro politici sono tramontati. Il volto oscuro dell’élite: qualcosa di barbarico, anche. Una “chiesa” di dominatori sanguinari che – all’occorrenza – si procurano bambini da “sacrificare”. «Veramente profetico, Genna, per ammissione dello stesso Cossiga», racconta l’ex avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dei peggiori misteri irrisolti della cronaca italiana, dal Mostro di Firenze alle Bestie di Satana fino alla strana uccisione del piccolo Samuele Lorenzi a Cogne. Un intreccio di poteri occulti, istituzioni infedeli e servizi deviati, attorno a cui fioriscono rituali magici e codici simbolici attorno a crimini che sembrano assurdi, senza un movente.E’ l’inferno che Genna chiama, semplicemente, “Ishmael”. Nel romanzo lo descrive come un vero e proprio cancro, inoculato dall’élite-ombra statunitense al tempo della sfida con l’Urss, scegliendo proprio l’Italia come fronte strategico da cui poi ingabbiare l’intera Europa. Per questo è così decisivo l’attentato a Mattei, fatto passare per incidente aereo. E sono pagine di altissima intensità quelle che Genna dedica al grande leader del riscatto italiano del dopoguerra. «Sappiamo di esserci, ma non ci siamo, a tutti gli effetti. L’Italia è questo qualcosa oltre il corpo e la mente, e la guerra che lui sta facendo è la costruzione di una salvezza», per proteggere il paese dal «regno arido, sormontato da potenze e da angeli oscuri», che è a tutti gli effetti l’America. «Bisogna salvare l’uomo, poiché l’uomo è pronto a divenire un americano e l’americano è pronto ad annullarsi. Annullata l’America, sarà annullata l’umanità. L’Italia, perciò, è l’idea della salvezza che è presente qui e sempre, ora, tra uomo e uomo, tra l’uomo e l’America».Contro questa salvezza combatte “Ishmael”, facendo esplodere l’aereo del ribelle italiano, il condottiero spericolato e sognatore. Ma poi, la piovra – che si insinua fin dentro le questure e la magistratura del Belpaese, sotto l’occhiuta regia di autentici mostri di cinismo come Kissinger – pian piano sfugge al controllo dei suoi stessi creatori fino a metterli in pericolo, verso l’instaurazione totalitaria del “tempo di Ishmael”, la nuova epoca – questa – in cui non ci sarà più alcuna certezza, cadranno leggi e autorità, tutto il pianeta sarà preda di un’oligarchia potentissima e invisibile, inafferrabile, sempre pronta – all’occorrenza – a usare il terrorismo e l’omicidio, spesso facendo precedere gli attentati da agghiaccianti ritrovamenti di bambini rapiti dai pedofili, quindi abusati e martoriati dai neo-satanisti dell’élite-fantasma.Una sequenza di morte, invariabilmente preceduta dal macabro rinvenimento della baby-vittima sacrificale. Nella “cronologia delle operazioni della rete Ishmael”, nell’appendice della fiction di Genna, trovano posto industriali, banchieri e tanti politici, uccisi o sfiorati dalla morte: il tedesco Adenauer e lo stesso De Gaulle, lo spagnolo Luis Carrero Blanco, e naturalmente Aldo Moro. Ci sono due Papi: Albino Luciani, morto, e Karol Wojtyla, ferito. E poi Roberto Calvi, Olof Palme, il craxiano Gabriele Cagliari. E ministri francesi, finanzieri di Stato tedeschi, la stessa Lady Diana. Cronometrico, nelle ore precedenti, il ritrovamento – non lontano – di un piccolo, a volte un neonato, ferocemente “sacrificato”. E’ la legge di Ishmael, scriveva Genna, quando ancora non era comparso un nome tanto simile, così ingannevolmente mediorientale: Isis.(Il libro: Giuseppe Genna, “Nel nome di Ishmael”, Mondadori, 486 pagine, euro 10,50).L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.
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Ambasciatore Usa: il Ttip proteggerà le truffe delle banche
Il 7 maggio, “Deutsche Wirtschafts Nachrichten” titolava: “Gli Usa pianficano un attacco frontale alle Corti in Europa via Ttip”, e argomentava che «l’urgenza dell’America di firmare il Ttip con l’Europa ha un motivo solido: le megabanche devono proteggersi da richieste da parte degli investitori europei che sostengono di essere stati truffati durante la crisi del debito… L’ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Italia ha rivelato il relae motivo – probabilmente involontariamente». In questo caso particolare, la megabanca che è stata citata in giudizio non è americana, ma tedesca, la Deutsche Bank, che l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, ha citato come esempio da difendere, forse per fare appello ai tedeschi per proteggere le loro megabanche contro azioni legali da parte di investitori esteri (come gli italiani) che si lamentano. L’amministrazione Obama sembra dunque voler dire che, senza il Ttip, le megabanche in Europa (e le agenzie di rating Usa S&P, Moody’s e Fitch) potranno essere citate in giudizio da parte degli investitori truffati, proprio come è avvenuto con le banche americane come Jp Morgan Chase e Goldman Sachs negli Stati Uniti, che – dal momento che il Tttip non è ancora in vigore, nemmeno egli Stati Uniti – sono state costrette a pagare miliardi agli investitori truffati investitori.L’argomento qui, anche se solo implicitamente, sembra essere che il Ttip è il modo per proteggere megabanche e le agenzie di rating. Se questo è il punto dietro le dichiarazioni dell’ambasciatore statunitense in Italia, allora le sue parole parole vanno lette come un avvetimento agli europei: se il Ttip non viene firmato, anche le loro grandi banche potrebbero vedersi costrette a pagare miliardi di dollari agli investitori truffati. Citato dalla “Reuters”, John Phillips ha dichiarato che «è molto improbabile che un caso come quello di Deutsche Bank si ripeta e venga portato fuori dai centri finanziari principali, dove i procuratori hanno la conoscenza ed esperienza giuridica in casi di frodi sui mercati» del genere. Phillips sostiene chiaramente che le piccole procure come quella di Trani non sono abbastanza esperte da poter garantire la protezione delle grandi banche. “Dwn” sostiene che nel quadro del Ttip il problema probabilmente non sarebbe nemmeno sollevato davanti ad una corte, ma sarebbe semplicemente finito davanti ad un collegio arbitrale, dove gli investitori danneggiati non esercitano alcuna influenza e i diritti di questi investitori non verrebbero sicuramente protetti.Un altro esempio citato è quello della città tedesca di Pforzheim, che ha citato in giudizio con successo, presso la Corte federale di giustizia la megabamca Jp Morgan Chase, e dove il giudice ha permesso a Pforzheim di rifarsi di “danni accumulati per 57 milioni di euro”. Sotto Ttip, una megabanca multata in questo modo potrebbe a sua volta fare causa ai contribuenti della nazione per rifarsi della perdita. Sotto il Tttip, l’azienda multata potrebbe sostenere che la legge in base alla quale è stata multata viola il Ttip e costituisce una violazione di tale trattato. Se il collegio arbitrale si esprime in favore della megabanca il governo potrebbe ritrovarsi a dover pagare una multa, e, dal momento che non esiste nessuna corte d’appello per questi collegi arbitrali, queste sentenze sono definitive. Obama e altri sostenitori di questo sistema, che si chiama Isds, Meccanismo per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stato, dicono che si tratta di un modo più efficace di trattare tali controversie. Negli affari commerciali internazionali, non solo elimina le Corti d’Appello, elimina gradualmente la democrazia, per multare il governo fino alla sottomissione definitiva a questi pannelli di tre arbitri internazionali, sempre più inclini verso le grandi aziende.(“Ttip necessario per proteggere le grandi banche, parola di ambasciatore Usa in Italia”, da “L’Antidiplomatico” del 10 maggio 2016).Il 7 maggio, “Deutsche Wirtschafts Nachrichten” titolava: “Gli Usa pianficano un attacco frontale alle Corti in Europa via Ttip”, e argomentava che «l’urgenza dell’America di firmare il Ttip con l’Europa ha un motivo solido: le megabanche devono proteggersi da richieste da parte degli investitori europei che sostengono di essere stati truffati durante la crisi del debito… L’ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Italia ha rivelato il relae motivo – probabilmente involontariamente». In questo caso particolare, la megabanca che è stata citata in giudizio non è americana, ma tedesca, la Deutsche Bank, che l’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, ha citato come esempio da difendere, forse per fare appello ai tedeschi per proteggere le loro megabanche contro azioni legali da parte di investitori esteri (come gli italiani) che si lamentano. L’amministrazione Obama sembra dunque voler dire che, senza il Ttip, le megabanche in Europa (e le agenzie di rating Usa S&P, Moody’s e Fitch) potranno essere citate in giudizio da parte degli investitori truffati, proprio come è avvenuto con le banche americane come Jp Morgan Chase e Goldman Sachs negli Stati Uniti, che – dal momento che il Tttip non è ancora in vigore, nemmeno egli Stati Uniti – sono state costrette a pagare miliardi agli investitori truffati investitori.
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L’ambigua grandezza di Pannella, rottamatore neoliberista
Più ombre che luci nella grandezza politica di Marco Pannella, protagonista indiscutibile del settantennio repubblicano. «Il personaggio ha meriti, e non piccoli», premette Aldo Giannuli, «come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica, di cui gli va dato atto lealmente». Ma attenzione: Pannella «ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neoliberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) e a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti». E poi «l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centrosinistra e centrodestra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali», senza contare «le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para-fiancheggiamento». Secondo il politologo dell’ateneo milanese, Pannella «ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti».Nel leader radicale, Giannuli vede «un sostanziale rifiuto della dimensione strategica della politica, surrogata dalla totale delega all’estro momentaneo del leader (massima negazione del principio di democrazia, tanto diretta quanto rappresentativa) e dalla sua abilità nel manipolare le folle». Soprattutto, Pannella «ha colpe imperdonabili sul piano dell’involuzione costituzionale del paese: a lui (e a Occhetto e Segni) dobbiamo il colpo di Stato del 1993, quando la fine del sistema elettorale proporzionale ha aperto la strada allo sventramento della Costituzione e, paradossalmente alla definitiva deriva oligarchica del regime: il Parlamento dei nominati ha la sua premessa logica nella battaglia pannelliana per il maggioritario uninominale». Con questo, Pannella «è stato l’alfiere di un ceto politico senza qualità, l’élite senza merito». E la “questione morale”? «Fu un gran fustigatore dei costumi, durissimo accusatore delle greppie di regime, ma la sua battaglia contro i fondi neri dell’Eni, a metà anni Sessanta, ebbe come sbocco la costituzione della Radoil, titolare di due pompe di benzina generosamente concesse da Cefis e che a lungo provvidero alla sopravvivenza del Pr e sua personale».Quale sia il giudizio che se ne voglia dare, continua Giannuli sul suo blog, Pannella ha attraversato gran parte della storia della Repubblica, con una stagione di notevole fortuna fra gli ultimissimi anni ‘60 e i primi ‘90. «Un ventennio in cui esercitò un ruolo politico il cui peso fu sempre superiore alle magre percentuali elettorali che raccoglieva: e che mai raggiunsero il 4%, con l’eccezione unica ed effimera delle europee 1999». Secondo Giannuli, «molto di quel che è diventato questo paese oggi, nel bene, ma più ancora nella degenerazione e nella decadenza, è dovuto a Pannella: l’Italia è diventata, in parte per la sua opera, un paese più laico, più moderno, ma anche più cinico, più “americanizzato”, più oligarchico, meno industriale e più povero, diciamolo: più squallido». Gli eredi? Personaggi della statura di Rutelli, Giachetti, Della Vedova, Elio Vito. «Un esame storico puntuale e documentato richiederebbe molte pagine», conclude Giannuli. «Si impone un giudizio equilibrato, che rimandiamo a meno frettolosa occasione. Qui ci basta un giudizio breve e sintetico che vede le ombre prevalere sulle luci».Più ombre che luci nella grandezza politica di Marco Pannella, protagonista indiscutibile del settantennio repubblicano. «Il personaggio ha meriti, e non piccoli», premette Aldo Giannuli, «come le battaglia per il divorzio, per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare, e più in generale per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, la denuncia della degenerazione partitocratica, di cui gli va dato atto lealmente». Ma attenzione: Pannella «ha avuto anche colpe somme come il sostegno all’ondata neoliberista, la banalizzazione della politica ridotta a celebrazione del leader (di cui fu il primo assertore) e a virtuosismo comunicativo privo di reali contenuti». E poi «l’allineamento servile agli Usa, le disgustose giravolte fra centrosinistra e centrodestra, sempre alla ricerca di spazi istituzionali», senza contare «le ambiguità sul terreno della lotta alla mafia, dove spesso il garantismo sfociava in una sorta di para-fiancheggiamento». Secondo il politologo dell’ateneo milanese, Pannella «ha espresso una visione della democrazia come competizione fra ristrette élites, sostenute da branchi di acritici attivisti».