Archivio del Tag ‘Usa’
-
Nazi-medicine, la chemioterapia e gli altri 7 farmaci letali
«È ora di prendere la medicina, amore». «Ma mamma, mi fa sentire strano e molto male e non mi fa stare meglio». «Beh, è quello che ha prescritto il dottore, quindi dobbiamo prenderla». Ti hanno mai detto di ascoltare la tua pancia? C’è una ragione per questo. In realtà, più di una. Molti farmaci “occidentali” sono prodotti in laboratorio utilizzando sostanze chimiche, sono altamente sperimentali e, peggio ancora, non sono mai testati sugli esseri umani, se non nel momento stesso in cui vengono loro prescritti, applicati o iniettati. Gli umani sono gli ultimi porcellini d’India in America, mentre Big Pharma intasca trilioni in profitti. Come si è arrivati a questo? La risposta è semplice: dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli scienziati nazisti appena usciti di prigione furono assunti a lavorare su prodotti farmaceutici, vaccini, chemioterapia e additivi chimici alimentari, al fine di alimentare il più insidioso business del pianeta – la medicina allopatica. E non è una teoria complottista. L’orrore dell’Olocausto in Germania è stato portato avanti, su scala ridotta, negli Stati Uniti, per denaro.Pensateci. Non esiste alcuna altra ragione per la quale le aziende farmaceutiche statunitensi dovessero impiegare assassini di massa condannati per occupare le posizioni più alte in Bayer, Basf e Hoechst. Fritz ter Meer, condannato per omicidio di massa, ha scontato solo 5 anni in prigione, dopo i quali è comodamente diventato il presidente del consiglio di sorveglianza della Bayer (sì, quella Bayer che fabbrica i medicinali per bambini nonché la famosa aspirina). Carl Wurster della Basf contribuì a creare il gas Zyklon-B, il potente pesticida utilizzato per giustiziare milioni di ebrei – questo mostro è andato a lavorare sulla chemioterapia, la più grande truffa medica del secolo. Kurt Blome, che partecipò all’uccisione di ebrei tramite “macabri esperimenti”, fu reclutato nel 1951 dalla divisione chimica dell’esercito Usa per lavorare sulla guerra chimica. Capite?In altre parole, i malefici semi di Big Pharma, che la Fda chiama medicina, sono stati piantati inizialmente negli Stati Uniti 65 anni fa. Molti degli “scienziati pazzi” che torturarono esseri umani innocenti durante l’Olocausto sono stati impiegati e promossi dai presidenti americani per spingere con forza la cosiddetta “medicina occidentale”, il cui scopo ultimo è la creazione di malattia e la cura dei suoi sintomi per profitto. Ascoltate bene, amici, perché questi sono gli 8 farmaci più pericolosi sul pianeta Terra. Si chiama “Guerra contro i deboli”.#1. Ssri (Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, ndt) – altamente sperimentali, nessuna prova di sicurezza o efficacia, possono bloccare completamente la serotonina portando a pensieri suicidi e persino ad atti omicidi e suicidi orrendi.#2. Vaccino Mpr (morbillo, parotite, rosolia) – associato ad autismo e ad altri disordini del sistema nervoso centrale e ad una miriade di problemi di salute. Quando il virus vivo del morbillo entra nel corpo, il sistema immunitario è seriamente compromesso, ed altri adiuvanti chimici ed ingredienti geneticamente modificati attaccano l’organismo del bambino causando esiti permanenti e talvolta fatali.#3. Vaccino antinfluenzale – contiene fino a 50.000 parti per miliardo (ppb) di mercurio, oltre a formaldeide, glutammato monosodico (Gms) e alluminio. Può causare interruzioni di gravidanza e aborti spontanei.#4. Antibiotici – distruggono la flora batterica intestinale benefica e quindi indeboliscono gravemente il sistema immunitario. I medici prescrivono antibiotici impropriamente per le infezioni virali peggiorando ulteriormente la situazione!#5. Vaccino anti-Hpv (papillomavirus umano) – noto per mandare le ragazzine in shock anafilattico e coma. Migliaia di famiglie hanno citato in giudizio i produttori per milioni di dollari per danni alla salute cronici e permanenti.#6. Chemioterapia – devasta il sistema immunitario e spesso porta allo sviluppo di nuovi tumori, specialmente del sangue. Gli scienziati nazisti sapevano negli anni ‘50 che la chemioterapia fa regredire solo temporaneamente il cancro, per ripresentarsi con maggior forza in altre parti del corpo! (Anche qui, la medicina occidentale definisce questo un successo).#7. Vaccino antirotavirus “RotaTeq” – il vaccino (orale) estremamente nocivo contiene ceppi virali ivi (G1, G2, G3, G4 e P1), insieme all’altamente tossico polisorbato 80 e siero bovino fetale. Contiene inoltre frammenti di circovirus porcino – un virus che infetta i maiali.#8. Vaccino antipolio (orale e iniettato) – È un fatto nudo e crudo e spaventoso che milioni di americani siano stati inoculati con il cancro contenuto nel vaccino antipolio. Non solo, le versioni orale e nasale del vaccino hanno diffuso la polio in India e lasciato molti bambini paralizzati a vita.Certo, le persone sono paranoiche riguardo alle malattie infettive e per un motivo ben preciso. L’industria medica americana ha esacerbato i peggiori casi registrati, per spaventare a morte tutti quanti affinché si facciano iniettare i loro carcinogeni per “protezione”. Questo è un racket ed è illegale, ma i produttori di vaccini sono immuni alle cause, protetti da un enorme fondo nero e dal loro tribunale segreto. Se voi o vostro figlio venite gravemente danneggiati dai vaccini, non potete citare il produttore del vaccino. Dovrete portare il caso all’Office of Special Masters della U.S. Court of Federal Claims, comunemente definito il segretissimo “Tribunale dei vaccini”. Questo “tribunale” corrotto gestisce un programma di risarcimento senza colpa (sì, avete letto bene), che funziona come tribunale alternativo ai vostri diritti costituzionali. Fu creato fin dal 1986, dopo che le aziende farmaceutiche persero enormi profitti in cause legali di alto profilo dovute a vaccini che avevano causato gravi danni a un certo numero di bambini, i quali ebbero convulsioni e danno cerebrale in seguito al vaccino Dtp (difterite-tetano-pertosse, ndt). Prima ancora di valutare se ingoiare o iniettarvi un’altra volta tossine chimiche chiamate “medicina”, andate almeno da un medico naturopata e scoprite se il vostro problema di salute ha una base alimentare, perché è molto probabile che sia così.(S.D.Welss, “Gli 8 farmaci più pericolosi del pianeta: ne state prendendo qualcuno?”, da “Naturalnews” del 30 giugno 2016, tradotto da Emanuela Lorenzi per “Come Don Chisciotte”).«È ora di prendere la medicina, amore». «Ma mamma, mi fa sentire strano e molto male e non mi fa stare meglio». «Beh, è quello che ha prescritto il dottore, quindi dobbiamo prenderla». Ti hanno mai detto di ascoltare la tua pancia? C’è una ragione per questo. In realtà, più di una. Molti farmaci “occidentali” sono prodotti in laboratorio utilizzando sostanze chimiche, sono altamente sperimentali e, peggio ancora, non sono mai testati sugli esseri umani, se non nel momento stesso in cui vengono loro prescritti, applicati o iniettati. Gli umani sono gli ultimi porcellini d’India in America, mentre Big Pharma intasca trilioni in profitti. Come si è arrivati a questo? La risposta è semplice: dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli scienziati nazisti appena usciti di prigione furono assunti a lavorare su prodotti farmaceutici, vaccini, chemioterapia e additivi chimici alimentari, al fine di alimentare il più insidioso business del pianeta – la medicina allopatica. E non è una teoria complottista. L’orrore dell’Olocausto in Germania è stato portato avanti, su scala ridotta, negli Stati Uniti, per denaro.
-
L’auto-golpe del boia Erdogan, ladrone e super-terrorista
“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia. Ci possono essere dissapori, tra il maniaco criminale di Ankara e quelli di Washington. Che so, sui curdi, sulla gestione del califfo, su pace o guerra con Mosca o Iran, ma mettere in discussione un pilastro Nato piantato in mezzo a Medioriente e Asia, ai confini della Russia che delenda est, una forza militare che è la seconda dell’Occidente dopo gli Usa, un regime che tiene appesa al gancio del collasso da migrazioni l’Unione Europea, ecchè, vogliamo metterlo in discussione?E allora tutti, da Obama al “Manifesto”, lungo l’intero arco atlantico da destra a sinistra, a inneggiare alla preservazione delle istituzioni, dei diritti civili e del governo democraticamente (sic!) eletto, con qualcuno dal sottofondo che flauteggia l’auspicio che Erdogan si ravveda e non ne combini più delle sue. Non se ne preoccupa più di tanto Tommaso De Francesco, del quotidiano cripto-Nato, ma con etichetta comunista, il quale non fa che inanellare scemenze e insipienze da quando attribuì a Milosevic despotismo e pulizie etniche e in questo caso, con una Turchia chiaramente spaccata a metà tra affascinati dalla Sharìa e resistenti umani, individua un “Erdogan ferito”, ma anche un “popolo turco”, tutto intero, sdraiatosi davanti ai carri armati come a Tien An Men, in difesa del suo presidente, “democraticamente eletto”. Già gli erano svaporati dalle malferme sinapsi i milioni che negli anni si sono ritrovati nelle piazze, da Dyiarbakir a Istanbul, per farsi sparare addosso dagli sgherri del democraticamente eletto.Divertente poi la linea a balzelloni del giornaletto restituito a malavita (lo ha annunciato l’altro giorno) e alla sua cooperativa più che da lettori fedeli, dai paginoni dei compagni di Eni, Enrel, Telecom, Enav, Coop. Come quando con il suo responsabile esteri sentenzia un Erdogan fragile e indebolito dall’emergere di un elemento di contrasto capace di tenerlo sulla corda per ben tre ore di golpe, nientemeno, mentre l’altro redattore si piega alla realtà di un presidente tornato in grande spolvero e ora in grado spazzare via ogni residuo di opposizione. Ma che riunioni di redazione fanno? Torniamo al “golpe”, auto. Quello sul cui fallimento il “Manifesto” e tanta stampa (un po’ meno lo scaltro “Il Fatto”) si azzarda a ricostruire la «centralità del Parlamento e del ruolo fondamentale dei partiti politici nel gioco democratico» (sic!): esattamente, ed è naturale, i termini in cui hanno salutato il salvataggio della democrazia da parte del più turpe energumeno nazista dell’area gli zii della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Pentagono e, scendendo molto in basso per li rami, pure Matteo Renzi e – qui ci scappelliamo – l’eurodama Mogherini.Ebbene qualcuno si ricorda dei colpi di Stato effettuati dai militari turchi ogni qualvolta sospettavano che l’eredità nazionale e laica di Ataturk fosse posta a repentaglio da destra o sinistra? E qualcuno gli ha messo a confronto quiell’aborto di colpetto di Stato della notte tra il 15 e il 16 luglio 2016? Hanno occupato la tv di Stato, ma non le tv private, tutte infeudate a Erdogan, non la Cnn turca (braccio mediatico Nato e Usa) dalla quale è difatti ripartito il controgolpe, cioè il colpo di Stato vero, con la trasmissione da smartphone dell’appello di Erdogan al pogrom antimilitare. Non hanno fatto nessuna delle cose che potevano assicurare il successo di una liberazione militare del popolo turco dalla Vergine di Norimberga in cui progressivamente lo ha rinchiuso il suo Torquemada. Non hanno spento i ripetitori delle telecomunicazioni, i cellulari, internet, non hanno ordinato il coprifuoco e proclamato la legge marziale, non hanno occupato i ministeri, appena qualche tank sui ponti sul Bosforo, di grande visibilità e dove sarebbero potuti arrivare in poco tempo e in tanti a “difendere la democrazia”.Non hanno occupato alcuna via di comunicazione strategica nel paese e tra il paese e i vicini, non hanno occupato le prefetture, presidiato i nodi ferroviari, bloccato gli aeroporti (solo per finta quello di Istanbul dove Erdogan è potuto subito arrivare dal suo luogo di vacanze, a Marmaris, che nessuno si è sognato di bombardare o occupare). Nel tempo delle immagini e dei leaderismi che ne scaturiscono non hanno saputo produrre un nome e una figura carismatica di riferimento, non hanno usato i social network. Dilettantismo di quattro sprovveduti, per quanto bene intenzionati, che non hanno neanche ricordato che i colpi di Stato si fanno a notte fonda, prima dell’alba, quando non si corre l’inconveniente di gente sveglia e per strada. E così le Cnn e le tv associate al disegno del despota hanno potuto riprendere strade e piazze con qualche centinaio di persone, emerse da discoteche e trattorie e poi moltiplicati dagli accorsi agli appelli di Erdogan liberamente trasmessi, simulando una rivolta di massa contro i carri.Poi è finito tutto. Salvo per i 300 morti, per ora, i 6000 arrestati, per ora, i 3000 magistrati dimessi e poi incarcerati, la campagna di linciaggi lanciata contro i soldati “traviati”, piazza pulita di tutti i critici e irriverenti, l’immaginabilissima ulteriore stretta sui diritti politici, civili, operai, la continuità del doppio forno antisiriano (alleanza con Isis, finto guerra all’Isis), lo sprofondare del paese in un abisso di regressione politica e culturale. Una Turchia degna dell’ingresso nell’Ue,vero modello avanzato di quanto si ha in mente a Bruxelles, Washington e tra coloro che brandiscono Nato e Ttip, tanto per assicurarci sulla «centralità del Parlamento turco e dei partiti come attori fondamentali del gioco democratico», come titola il foglio cripto-Nato su un pezzo davvero turco di tale Mariano Giustino. Cosa può essere successo?Che gli attentati finalizzati, come in Francia, come ovunque, ad accelerare la marcia verso lo Stato con gli stivali chiodati e a passo dell’oca non erano riusciti a far ingranare la quarta. Che nell’esercito, per quanto epurato, sopravvivevano fermenti laici, nazionalisti, in disaccordo con le catastrofiche imprese esterne e interne di un regime che andava isolandosi da tutti. Che si è lasciato che i portatori di questi fermenti, nei gradi medio-alti, congiurassero, che magari con agenti provocatori li si incoraggiasse, che addirittura gli si facesse balenare un appoggio euro-atlantico, che poi li si inducesse a commettere le ingenuità, gli errori clamorosi che si sono visti, nell’illusione, loro, che si sarebbero tirati dietro popolo e armate.Tutti a sottolineare il silenzio delle cancellerie occidentali, Obama, Merkel, Juncker, May, Hollande e Renzi (per quel che conta), nelle tre ore del golpe, interpretato e biasimato come un barcamenarsi in attesa di sapere chi avrebbe vinto. Balle! Sapevano benissimo chi avrebbe vinto, ma, davanti all’immagine del golem turco insediatasi ormai nella percezione della gente pensante in tutta la sua orripilante identità di padrino del terrorismo jihadista, massacratore del suo e di altri popoli, corrotto ladrone e capo di un clan di malfattori senza scrupoli, conveniva mostrare qualche disponibilità a chi aveva proclamato nel suo comunicato il «ritorno alla democrazia e al rispetto dei dirtti umani e la pace e amicizia con tutti i popoli vicini». Ovviamente anatema per la Nato e per un’Europa che si muove, per ora con mocassini e tacchi a spillo, nella stessa direzione.Pensate se avesse vinto il colpo di Stato. Via i Fratelli Musulmani, quelli tanto cari al “Manifesto”, ormai nettamene minoritari nella regione (Tunisia, Qatar e Turchia). Cioè via la forza sociale, militare e culturale ideata e nutrita dai colonialismi vecchi e nuovi a garanzia dei propri modelli di sviluppo e di sfruttamento, del proprio ordine mondiale. Al suo posto una realtà imprevedibile e incalcolabile, con rigurgiti nazionalisti e statalisti suscettibili di guardare oltre il soffocante perimetro delle alleanze e dipendenze occidentali, sicuramente laica e, dunque, ostica ai processi di decerebramento religioso che servono a neutralizzare nostalgie di autodeterminazione popolare e nazionale. Quelle che hanno animato alla rivolta alcune decine di milioni di egiziani, dopo aver assaporato la medicina dei Fratelli Musulmani e dei loro surrogati terroristici, sotto un presidente eletto “democraticamente” dal 17% della popolazione in un voto boicottato dalla maggioranza, che aveva imposto la sharìa, sparato sui manifestanti, incarcerato gli oppositori, bruciato le chiese cristiane, trasferito tagliagole in Siria e i cui seguaci ora assassinano civili, funzionari e poliziotti in una guerra terroristica che tutti preferiscono nascondere sotto le presunte infamie di Abdelfatah Al Sisi.Avessero vinto in Turchia i militari, ontologicamente fascisti secondo un’aporia di sinistra, a dispetto di dimostrazioni storiche contrarie, ci saremmo giocati «la centralità del Parlamento turco e dei partiti nel loro ruolo di attori fondamentali del gioco democratico», come temeva il “Manifesto” e tutto il cucuzzaro destro-sinistro dell’atlantismo? Chi lo sa. Di sicuro c’è che, come Al Sisi è meglio di Morsi per gli egiziani, gli arabi, il Medioriente, il movimento delle cellule cerebrali dell’essere umano, difficilmente qualcuno di quelli che si sono agitati l’altra notte a Istanbul avrebbe potuto essere peggio di Erdogan, il padrino degli squartatori del popolo iracheno, libico e siriano. Certo che la Nato, John Negroponte, l’Mi6, la Cia, Oxford Analytica e il “manifesto”, a questo qualcuno non avrebbero esitato un attimo a spedigli un Giulio Regeni, poveretto.(Fulvio Grimaldi, “Turchia, fanno tutto da soli e sono capaci di tutto”, da “Mondocane” del 17 luglio 2016).“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.
-
Magaldi: da Nizza ad Ankara, nessuno vi racconta la verità
Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.Primo capitolo, la Francia: il paese è chiaramente sotto attacco a partire dalla strage della redazione di Charlie Hebdo, le cui indagini sono state fermate dal governo Hollande con l’apposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura parigina, della triangolazione che ha coinvolto la Dgse, cioè i servizi segreti francesi, nella fornitura di armi al commando-killer (armi slovacche, acquistate in Belgio sotto la copertura dell’intelligence). Il grande spauracchio dell’ultimo scorcio si chiama Isis? Si tratta di un paravento, sostiene Magaldi, nonché di una “firma”: Isis è anche il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor, e Hathor Pentalpha è il nome della “loggia del sangue e della vendetta” fondata nel 1980 da Bush padre quando fu battuto da Reagan alle primarie repubblicane. A quella cupola di potere, sempre secondo Magaldi, è ascrivibile la regia dell’11 Settembre, con annessa “fabbricazione del nemico”, da Al-Qaeda a Saddam Hussein: della Hathor Pentalpha, scrive Magaldi, hanno fatte parte sia Tony Blair, “l’inventore” delle armi di distruzione di massa irachene, sia Nicolas Sarkozy, il demolitore del regime di Gheddafi. E inoltre lo stesso Erdogan, il massimo padrino dell’Isis.«Da fonti riservate – racconta Magaldi a “Colors Radio” – sapevo con certezza che in Turchia si stesse preparando un golpe: non il maldestro tentativo cui abbiamo appena assistito, facilmente controllato da Erdogan, ma un golpe autentico, programmato per l’autunno». Niente di più facile che il “sultano” l’abbia semplicemente anticipato, in modo farsesco, provando a disinnescare la minaccia. Ma attenzione: «Erdogan sa benissimo che i suoi veri, potenti nemici non sono toccabili: la sua repressione, feroce e molto rumorosa, non li sfiorerà neppure. Nel caso di un golpe a tutti gli effetti, quindi con il coinvolgimento dei massimi vertici dell’esercito, della marina e dell’aviazione, oltre che con la partecipazione degli Usa e di Israele, Erdogan verrebbe liquidato in poche ore, arrestato o ucciso». Cosa manca, al puzzle? Il piatto forte: le elezioni Usa. Solo allora, cioè dopo novembre, è plausibile che il quadro geopolitico possa chiarirsi. A cominciare da Ankara: al di là del chiasso organizzato in queste ore da Erdogan, dice Magaldi, la Turchia non ha ancora deciso “cosa fare da grande”. E soprattutto: come chiudere la pratica Isis, di cui resta la principale azionista.Quanto alla strage di Nizza, si tratta della «ripetizione ormai stanca» di un copione già invecchiato, quello dei tagliatori di teste che hanno seminato il terrore – con sapiente regia hollywoodiana – tra Iraq e Siria. La dominante, oggi, si chiama caos. E nessuno – tantomeno Erdogan – sa esattamente cosa accadrà domani, ovvero: su quale configurazione di forze si baseranno i poteri forti, anche super-massonici, che finora hanno assegnato precisi spazi agli attori sul terreno, da Obama a Putin, dalla Merkel a Erdogan. Sempre secondo Magaldi, il network trasversale della super-massoneria progressista si è impegnato con successo nelle primarie Usa, da un lato lanciando Bernie Sanders per spostare a sinistra la politica della Clinton, e dall’altro utilizzando Donald Trump come cavallo di Troia per eliminare dalla corsa il pericolo numero uno, Jeb Bush, ultimo esemplare della filiera Hathor Pentalpha. Comunque vada a novembre, conclude Magaldi, gli “architetti del terrore” dovrebbero finalmente perdere terreno: la stessa Clinton si starebbe smarcando da certi legami pericolosi con i settori più opachi del potere di Washington, e Trump non sarebbe certo disponibile a coprire azioni di macelleria internazionale come quelle a cui stiamo assistendo.Una grande retromarcia, dopo 15 anni di orrori? Qualche segnale lo stiamo già avendo, dice un altro analista dal solido retroterra massonica come Gianfranco Carpeoro: a inquietare i gestori del massimo potere è proprio la recente “diserzione” di una parte del vertice planetario, non più disposto ad avallare la strategia della tensione (da Bin Laden al Califfato) promossa dall’élite neo-aristocratica, quella che ha cinicamente ideato e gestito l’austerity europea incarnata da Draghi e Merkel. Se cresce il bilancio di sangue, anche in Europa – questa la tesi – è perché il potere oligarchico si sta indebolendo e teme di perdere la sua presa. E’ di ieri lo strappo del Brexit, e la Francia resta sotto tiro anche per via del suo ruolo-cardine in una struttura antidemocratica come l’attuale Unione Europea. I tempi stanno per cambiare? Se sì, a quanto pare, non sarà una passeggiata: è saggio aspettarsi di tutto, in questa fase di incertissima transizione. Certo, dice ancora Magaldi, bisogna tenere gli occhi aperti: è impensabile che la sicurezza francese abbia potuto “dimenticarsi” di quel camion-killer, parcheggiato da giorni sul lungomare di Nizza. E forse il primo a cadere sarà proprio il capo della “democratura” turca: «Erdogan sembra forte, ma in realtà è fragilissimo». Un consiglio? Allacciare le cinture, in attesa delle elezioni Usa.Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.
-
Il massone Erdogan, Hathor-Pentalpha e i ragazzi dell’Isis
Si è auto-organizzato un golpe-farsa per liquidare l’opposizione residua? Lo sospettano in molti. Ma Recep Tayyp Erdogan, leader di un paese che è il bastione della Nato in Medio Oriente nonché la principale “diga” dell’Unione Europea contro l’esodo dei migranti in fuga dalla guerra in Siria, è anche il principale fiancheggiatore dell’Isis: nei mesi scorsi, la Russia ha dimostrato che la Turchia acquistava il petrolio contrabbandato dallo Stato Islamico, dopo aver allestito – di concerto con gli Usa – le retrovie logistiche dei jihadisti impegnati nel tentativo di rovesciare sanguinosamente il regime di Bashar Assad. Ma c’è altro, che i media non raccontano. Secondo Gioele Magaldi, autore di “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Erdogan milita da anni nella superloggia internazionale “Hathor Pentalpha”, ritenuta responsabile della strategia della tensione globale innescata dall’11 Settembre. Una “guerra infinita” che ha travolto Afghanistan e Iraq, Yemen, Egitto, Libia, Siria.La “Hathor Pentalpha”, scrive Magaldi, fu fondata da Bush padre all’indomani della sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane all’inizio degli anni ‘80. Definita “loggia del sangue e della vendetta”, avrebbe annoverato trai suoi membri Bush junior e la sua cerchia di potere, gli uomini del Pnac, e poi leader europei come Nicolas Sarkozy e Tony Blair, oggi sotto accusa per la montatura delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam. E tra gli esponenti di quel circolo ultra-esclusivo figurerebbe lo stesso Erdogan: il leader più vicino all’Isis, al punto da far abbattere un jet russo Sukhoi-24 impegnato nei bombardamenti contro le truppe del Califfo (e le colonne di autocisterne col petrolio jihadista diretto in Turchia). Sempre Magaldi spiega che Isis, acronimo di “Stato Islamico della Siria e del Levante”, è anche – e soprattutto – un chiaro riferimento alla dea egizia Iside, il cui secondo nome è Hathor. Un modo per “firmare”, simbolicamente, la nascita dell’armata di tagliagole messa in piedi dall’Occidente con l’aiuto della Turchia.Analisti geopolitici come Aldo Giannuli sostengono che siamo di fronte a un inizio di terremoto, con clamorosi rivolgimenti in tutta l’area. Si ipotizza ad esempio che Erdogan, incassato il sostegno popolare e avviato uno spietato giro di vite contro i dissidenti, incluso un vero e proprio bagno di sangue, possa “divorziare” improvvisamente dall’Isis, presentandosi al mondo come garante del nuovo ordine, o al contrario mettersi ufficialmente alla testa del Califfato, riportato però sotto il pieno controllo turco. Sui media rimbalzano i titoli che raccontano la crisi dei rapporti fra Ankara e Washington, ma è impossibile reperire notizie sulla militanza di Erdogan nella super-massoneria internazionale neo-aristocratica e ultra-conservatrice, quella che lavora per imporre, anche e sopprattutto con il sangue e il terrorismo, la fine della democrazia. Se il leader turco è ancora inserito in quel circuito, è difficile immaginare che le sue mosse non siano concertate con il vertice-ombra dei grandi architetti del terrore.Si è auto-organizzato un golpe-farsa per liquidare l’opposizione residua? Lo sospettano in molti. Ma Recep Tayyp Erdogan, leader di un paese che è il bastione della Nato in Medio Oriente nonché la principale “diga” dell’Unione Europea contro l’esodo dei migranti in fuga dalla guerra in Siria, è anche il principale fiancheggiatore dell’Isis: nei mesi scorsi, la Russia ha dimostrato che la Turchia acquistava il petrolio contrabbandato dallo Stato Islamico, dopo aver allestito – di concerto con gli Usa – le retrovie logistiche dei jihadisti impegnati nel tentativo di rovesciare sanguinosamente il regime di Bashar Assad. Ma c’è altro, che i media non raccontano. Secondo Gioele Magaldi, autore di “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Erdogan milita da anni nella superloggia internazionale “Hathor Pentalpha”, ritenuta responsabile della strategia della tensione globale innescata dall’11 Settembre. Una “guerra infinita” che ha travolto Afghanistan e Iraq, Yemen, Egitto, Libia, Siria.
-
Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe in Turchia
I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.L’abbattimento del velivolo provocò la rottura delle relazioni tra Ankara e Mosca e generò una crisi diplomatica profonda che si è conclusa solo dopo circa otto mesi, nel giugno scorso, quando il Cremlino ha ricevuto le scuse formali per l’abbattimento del jet da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Fino a quel momento, infatti, Ankara aveva sempre rifiutato di assumersi le responsabilità dell’accaduto. Il fatto, però, che i due piloti che obbedirono all’ordine di abbattere il jet russo, figurino ora tra le file dei militari golpisti e oppositori di Erdogan, spinge a ripensare gli eventi del 24 novembre alla luce degli accadimenti dello scorso fine settimana. La spaccatura fra Erdogan ed una parte dei militari, del resto, non è cosa nuova, ma vecchia di almeno dieci anni, e il golpe fallito messo in atto nella giornata di venerdì viene considerato da molti analisti solo l’apice di un processo che va avanti da tempo.C’è quindi chi già pensa che forse, dietro l’abbattimento del caccia di Mosca, impegnato nelle operazioni contro lo Stato Islamico nel nord della Siria, potrebbe non esserci stato un ordine diretto di Erdogan, ma che forse l’iniziativa partì da quegli stessi generali dell’aviazione turca, che risultano, secondo le controverse informazioni a disposizione finora, essere stati alla base dell’organizzazione del tentativo colpo di Stato. «All’epoca dell’incidente fu l’allora premier Ahmet Davutoglu a prendersi la responsabilità di quello che successe e non Erdogan», spiega a “Gli Occhi della Guerra” Alexander Sotnichenko, professore di relazioni internazionali all’Università di San Pietroburgo ed esperto di relazioni russo-turche, «ora Erdogan sta cercando di dimostrare che non fu lui il colpevole di quella vicenda, ma i sostenitori di Gulen».In più, il tentativo di golpe, che avrebbe potuto essere messo in atto in diverse occasioni, ultima quella delle contestate elezioni del 2015, avviene proprio in un momento in cui le relazioni tra Ankara e Washington sono ai minimi storici e mentre è iniziato un percorso di normalizzazione delle relazioni con la Russa. Percorso che ha aperto anche un’ulteriore strada, quella che porta verso una composizione diplomatica della crisi siriana. Le prime tappe di questo percorso sono state la rimozione delle sanzioni, gli incontri al vertice tra i ministri degli esteri dei due paesi e la ripresa del dialogo in diversi settori. Un incontro tra Erdogan e Putin è previsto, inoltre, per la prima settimana di agosto, e secondo alcune indiscrezioni, il bilaterale tra i due leader, che si sarebbe dovuto tenere a settembre, al G20 di Guangzhou, in Cina, sarebbe stato anticipato proprio durante una telefonata tra i due, avvenuta a seguito degli eventi degli ultimi giorni, in cui Mosca si è detta preoccupata della instabilità nell’area, augurando ad Erdogan un «veloce ripristino di un robusto ordine costituzionale e della stabilità».Se le relazioni con la Russia sono tornate buone, quelle tra Washington e Ankara, invece, continuano a precipitare dopo il tentato golpe. La Turchia sta accusando gli Stati Uniti di proteggere l’imam Fethullah Gulen, considerato da Erdogan la mente del golpe fallito in Turchia. Ankara sta chiedendo l’estradizione del dissidente turco che da 15 anni risiede negli Stati Uniti, ma Washington non vuole concederla se non a fronte di prove legali e dell’apertura di un processo formale. Una figura, quella di Gulen, che divide anche gli stessi vertici statunitensi. All’interno dell’amministrazione Obama, svela infatti il “Wall Street Journal”, c’è chi lo considera un settantenne innocuo, e chi ammette che i “gulenisti” abbiano giocato negli ultimi anni, un ruolo di primo piano nel cercare di indebolire l’esecutivo dell’Akp. Proprio Gulen, intanto, da oltreoceano, esclude di avere a che fare con gli esecutori del colpo di Stato e, al contrario, accusa Erdogan di essersi organizzato il golpe da solo, per operare la tanto attesa svolta islamista ed autocratica, dichiarandosi, quindi, sicuro, che la richiesta di estradizione della Turchia agli Usa non andrà a buon fine. Richiesta che Ankara ha inviato nella giornata di martedì.Forse per questo motivo la Turchia continua ad accusare gli Stati Uniti di aver avuto un ruolo, anche se indiretto nel tentativo da parte dei militari di prendere il potere. Il comandante della base aerea di Incirlik, quella messa a disposizione dalla Turchia agli Stati Uniti per i raid contro lo Stato Islamico, il generale Bekir Ercan Van, ed altri dieci militari sono stati arrestati domenica per complicità nel colpo di Stato, e le autorità turche hanno eseguito delle perquisizioni nella base aerea nei pressi del confine siriano per raccogliere prove dell’utilizzo della base da parte dei militari golpisti. I caccia che si sono alzati in volo su Ankara e Istanbul, infatti, si sono riforniti grazie alle 10 cisterne di carburante presenti nel complesso concesso in uso agli americani, che guidano la coalizione internazionale anti-Isis. La Turchia, paese membro della Nato, ha lanciato così una provocazione neanche troppo velata agli alleati di oltreoceano. Provocazione che si era già concretizzata nell’accusa diretta del ministro del lavoro di Ankara, Suleyman Soylu, il quale aveva dichiarato lo scorso 16 luglio che “gli istigatori di questo colpo di stato sono gli Stati Uniti”. Accuse subito definite “false” e “dannose” dal Dipartimento di Stato.(Alessandra Benignetti, “Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe”, da “Il Giornale” del 19 luglio 2016).I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.
-
I 5 Stelle: basta terrore, l’Italia si smarchi da Ue e Nato
Dopo la strage di Nizza del 14 luglio e il fallito golpe in Turchia, il Movimento 5 Stelle batte un colpo e chiede apertamente che l’Italia si smarchi dal guinzaglio Usa-Ue. «Gli ultimi eventi europei impongono a tutti i cittadini una profonda riflessione a proposito della politica estera italiana», spiegano i 5 Stelle in una nota sul blog di Grillo, accompagnata da un video-editoriale del deputato Manlio Di Stefano. «Il governo è totalmente in preda agli eventi, elargisce solidarietà a destra e a manca ma non agisce in alcun modo, anche perché tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra», è la premessa. L’esecutivo «nicchia, non prende posizione, si accoda alle grandi cordate e non si guarda dentro». Tocca quindi al Parlamento provare a fare «quello che il governo non ha il coraggio di fare», ovvero: «Discutere di un cambio nella nostra politica estera». Tema decisivo e urgentissimo, dal momento che «tutt’intorno una Terza Guerra Mondiale a pezzetti prende sempre più piede».Dai 5 Stelle, dunque, anche una lettera ai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso. «Ci troviamo in una fase cruciale e la paura è il denominatore comune che ci sta accompagnando in questi mesi convulsi, segnale dell’impotenza e dello stato confusionale in cui versa l’establishment euro-atlantico», scrivono i grillini. L’Unione Europea «appare come un ‘contenitore geopolitico’ incapace di adeguarsi ai mutamenti in atto e dare risposte in termini di sicurezza e lotta al terrorismo». Attenzione: «L’intera impalcatura su cui è costruito il potere del sistema euro-atlantico sembra essere ormai vicina al collasso». Consci della gravità del problema, i 5 Stelle questo chiedono «una svolta nella politica estera e una reale volontà politica nel farlo». In altre parole, «l’Italia ha l’obbligo di tornare ad esprimere una politica estera sempre più autonoma e che abbia come principale interesse la sicurezza nazionale. Una politica estera non più schiava di decisioni altrui che negli ultimi anni si sono rivelate drammatici fallimenti».Come forza principale di opposizione, i 5 Stelle chiedono di inserire nell’agenda parlamentare un dibattitto su temi strategici, a cominciare dalla «ridiscussione del ruolo e degli accordi con la Turchia, come principale alleato nella gestione dell’immigrazione, alla luce degli ultimi eventi». I grillini vogliono anche ridiscutere la decisione emersa nell’ultimo vertice Nato di proseguire la missione militare in Afghanistan, per la quale si chiede all’Italia un impegno più consistente. Altra proposta: «Non destinare più nostri finanziamenti a paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar e i paesi del Golfo a causa della loro ambiguità con il terrorismo internazionale», oggi targato Isis, introducendo anche una moratoria sulle armi da fuoco. Infine, i parlamentari grillini chiedono al governo Renzi di instaurare «una collaborazione senza precedenti tra le forze di intelligence dei paesi Ue, Nato e della Federazione russa».Dopo la strage di Nizza del 14 luglio e il fallito golpe in Turchia, il Movimento 5 Stelle batte un colpo e chiede apertamente che l’Italia si smarchi dal guinzaglio Usa-Ue. «Gli ultimi eventi europei impongono a tutti i cittadini una profonda riflessione a proposito della politica estera italiana», spiegano i 5 Stelle in una nota sul blog di Grillo, accompagnata da un video-editoriale del deputato Manlio Di Stefano. «Il governo è totalmente in preda agli eventi, elargisce solidarietà a destra e a manca ma non agisce in alcun modo, anche perché tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra», è la premessa. L’esecutivo «nicchia, non prende posizione, si accoda alle grandi cordate e non si guarda dentro». Tocca quindi al Parlamento provare a fare «quello che il governo non ha il coraggio di fare», ovvero: «Discutere di un cambio nella nostra politica estera». Tema decisivo e urgentissimo, dal momento che «tutt’intorno una Terza Guerra Mondiale a pezzetti prende sempre più piede».
-
Fermare Trump: maxi-attentato e terzo mandato per Obama
Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».In ogni caso, avverte Azadgan in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, meglio stare in guardia rispetto all’auto-terrorismo “false flag”, alias strategia della tensione: «Queste astuzie diaboliche sono sempre state usate nel corso della storia umana, ma abbiamo assistito a una concentrazione senza precedenti del loro impiego a partire dall’11 Settembre, che altro non era che una ricetta prefabbricata per garantire la durata del primo mandato di Bush (2000-2004) e, poi, della sua rielezione nel 2004-2008». La storia del ‘900 parla da sola. Prima il naufragio del Lusitania nel 1915 come preludio all’entrata di Washington nella Prima Guerra Mondiale. Poi la macchinazione di Hitler per bruciare il Reichstag nel 1933 ed eliminare i suoi avversari politici schierati a sinistra. Quindi l’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, servito come pretesto per l’ingresso di Washington nella Seconda Guerra Mondiale. E ancora: l’incidente nel Golfo di Tonchino che è servito come scusa per la guerra in Vietnam. Ultimo, ma non meno importante, l’11 Settembre. Quindici anni di guerra ininterrotra in Medio Oriente, a scopo di dominio.Tutti eventi «progettati con astuzia, attraverso un calcolo preprogrammato avente come conseguenza la fabbricazione fallace del consenso del popolo americano, ipnotizzato da paure largamente false e mal percepite». Tornando a oggi: “colpo di Stato” di Obama nel caso in cui Trump abbia la meglio contro Clinton? «Tutti questi fattori di paura, in combinazione con il crollo economico del 2008 che non è mai stato veramente risolto (tranne che per quell’1% a scapito del 99%), così come le dispendiose e sconsiderate guerre del primo decennio del 2000, e non solamente nel Medio Oriente, ma anche alle porte della Russia, attraverso l’Ucraina», secondo Azadgan ha creato avversione e diffidenza nei confronti di Hillary Clinton, «essendo lei coinvolta in pieno in queste decisioni rivelatesi errate, ossia l’invasione del 2003 e l’occupazione dell’Iraq e la seguente in Libia con la destituzione di Muhammar Gheddafi nel 2011 e l’assassinio dell’ambasciatore Stevens, un colpo organizzato dai servizi americani in associazione con quel guazzabuglio chiamato Bengasi».Pesa il coinvolgimento della Clinton in tutti questi fatti, e più ancora il suo comportamento sospetto ed evasivo, la sua intenzionale mancanza di trasparenza (la soppressione di migliaia di mail dal server del suo computer personale nel corso delle sue attività per sovvertire il regime libico, fatto nel quale lei è invischiata fino ai collo). «Il suo comportamento arrogante e solitamente aggressivo hanno prodotto ed esacerbato una profonda avversione e sospetto da parte di una notevole porzione di elettorato americano, democratico e repubblicano in ugual misura: ciò che spiega il fenomeno Bernie Sanders benché quest’ultimo fosse ormai a fine carriera». Tutto questo favorisce la campagna di Donald Trump, che peraltro fino a oggi ha offerto «uno spettacolo clownesco della realtà, nel quadro di una politica demagogica tossica e pericolosa». Ci sarebbero dunque le condizioni (teoriche) per «una continuazione del regime Obama», alla quale però lo stesso Azadgan dice di non credere. Ma restano rischi, «se le strutture di potere a Wall Street (e a Washington) si sentissero minacciate da ciò che potrebbe somigliare a una presa di controllo imminente da parte di Trump».Alcuni gruppi di analisti, conclude Azadgan, sostengono che «la cricca di Washington neocon/neolib potrebbe produrre un’altra operazione sotto falsa bandiera stile 11 Settembre, ma non di pari grandezza, al fine di sostenere il regime Obama con il falso pretesto di un’urgenza nazionale». Questi stessi ambienti, inoltre, denunciano che il complesso delle percezioni, dei sentimenti e dei timori americani è già stato perfettamente «plasmato per preparare le masse ad accettare questo possibile scenario attraverso una serie di operazioni “false flag”». Lo scenario non è rassicurante: «Dall’ “inside job”dell’11 Settembre al 7 luglio 2005 nel Regno Unito, e tutto il cammino percorso per arrivare alla creazione di uno stato di ferocia permanete attraverso gli agenti Isis a Parigi, San Bernardino, Bruxelles, e adesso nell’orribile atto di Orlando, in Florida».Un terzo mandato per la presidenza Obama? Sarebbe perfetto per sospendere le presidenziali di novembre e allontanare quello che resta l’incubo numero uno per Wall Street, ovvero Donald Trump. Naturalmente, per arrivare a tanto servirebbe qualcosa di eccezionale, mostruoso, devastante. Come ad esempio un replay del maxi-attentato dell’11 Settembre. La cosa incredibile è che se ne stia parlando apertamente, negli Usa, come racconta Alexander Azadgan: «Recentemente, si è sollevato un certo interesse (negli Stati Uniti e all’estero) sulla validità giuridica di un eventuale terzo mandato della presidenza Obama nel caso di una guerra imminente in forma di attacco terroristico stile 11 Settembre che, senza essere di quelle proporzioni, permetterebbe una sospensione temporanea delle elezioni presidenziali di novembre». Solo supposizioni, naturalmente, che si devono a esponenti della destra dell’intellighenzia americana e a fonti di intelligence. L’uica certezza è che Wall Street e i cospiratori del Pnac desiderano «il proseguimento della politica di Obama attraverso la candidatura di Hillary Clinton», dal momento che «rappresenta per loro l’opzione più sicura, la più prevedibile, malleabile e controllabile».
-
5 Stelle e zero idee: l’Italia non ha alternative al peggio
C’è qualcosa di sconcertante nel tempismo con cui, all’indomani del voto sul Brexit, il Movimento 5 Stelle si è precipitato a dichiarare la propria assoluta contrarietà all’uscita dall’Unione Europea e dalla tenaglia suicida dell’euro. Il partito fondato da Grillo e Casaleggio, che ha costruito la sua narrazione propagandistica sulla riappropriazione della sovranità da parte dei cittadini, è come se gettasse la maschera: fa sapere infatti che non muoverà un dito contro la colossale macchina europea edificata per abolire ogni sovranità democratica utilizzando proprio la leva finanziaria per impedire agli Stati di investire in occupazione. A quanto pare, tutto quello che faranno, i 5 Stelle, sarà – al massimo – sostituire il Pd, magari ripulendo il volto del personale politico, ma senza disturbare il manovratore. Non una parola, dai grillini, su come costruire un piano-B per restituire salute economica al paese. E silenzio assoluto anche sul vasto e assordante background della geopolitica, fra terrorismo opaco, fiumi di profughi e guerre alle porte. Nessuna vera indicazione: né sulla politica economica, né sulla politica estera.Era tutto previsto fin dall’inizio, sostegono alcuni critici come Gianfranco Carpeoro, secondo cui i 5 Stelle sono stati, da sempre, la carta di riserva degli Stati Uniti per contenere la protesta e impedire all’Italia di esprimere una politica autonoma. In altre parole: se cade Renzi arriva Di Maio, ma non cambia assolutamente nulla. Un ex pentastellato come Bartolomeo Pepe, ai microfoni di “Forme d’Onda”, mette la parte il risentimento dell’ex per lasciare spazio all’amarezza e alla preoccupazione: denuncia la manipolazione verticistica di cui la stragrande maggioranza degli stessi 5 Stelle (elettori ed eletti) sarebbe vittima, e su Di Maio esprime un giudizio ben poco lusinghiero: il super-canditato grillino sarebbe «un bravo attore, una scatola senza contenuti», reduce da svariate ricognizioni nei centri di potere – politici, diplomatici, finanziari – per rassicurare i padroni del vapore e spiegare loro che, coi 5 Stelle a Palazzo Chigi, non avranno nulla da temere.Se il senatore Pepe – un coraggioso attivista antimafia – racconta il profondo travaglio personale col quale ha vissuto la disillusione e quindi lo strappo dal gruppo Grillo-Casaleggio, al pubblico resta un senso di desolazione: si sta avvicinando il momento delle grandi decisioni, e l’Italia non ha una squadra da schierare in campo. La meteora Renzi sta evaporando, il centrodestra non esiste più, i 5 Stelle non esprimono un’alternativa di governo. Tra i loro più fermi detrattori, il profetico Paolo Barnard: già all’indomani delle politiche 2013 si era affrettato a proporre ai grillini un piano di piena occupazione messo a punto da un team di economisti guidato da Warren Mosler. Valore: 2 milioni di posti di lavoro. Bellissimo, risposero, ma Grillo e Casaleggio non ne vogliono sapere. Dopo tre anni di piccolo cabotaggio e conquiste di Comuni e città, con l’Europa in frantumi e l’Italia sempre più in bilico, dai 5 Stelle non è finora pervenuta nessuna soluzione strutturale per riconvertire il declino italiano strappando il paese allo strapotere dell’élite finanziaria internazionale. “There is no alternative”, diceva Margaret Thatcher.C’è qualcosa di sconcertante nel tempismo con cui, all’indomani del voto sul Brexit, il Movimento 5 Stelle si è precipitato a dichiarare la propria assoluta contrarietà all’uscita dall’Unione Europea e dalla tenaglia suicida dell’euro. Il partito fondato da Grillo e Casaleggio, che ha costruito la sua narrazione propagandistica sulla riappropriazione della sovranità da parte dei cittadini, è come se gettasse la maschera: fa sapere infatti che non muoverà un dito contro la colossale macchina europea edificata per abolire ogni sovranità democratica utilizzando proprio la leva finanziaria per impedire agli Stati di investire in occupazione. A quanto pare, tutto quello che faranno, i 5 Stelle, sarà – al massimo – sostituire il Pd, magari ripulendo il volto del personale politico, ma senza disturbare il manovratore. Non una parola, dai grillini, su come costruire un piano-B per restituire salute economica al paese. E silenzio assoluto anche sul vasto e assordante background della geopolitica, fra terrorismo opaco, fiumi di profughi e guerre alle porte. Nessuna vera indicazione: né sulla politica economica, né sulla politica estera.
-
La sinistra europeista che teme il popolo e la democrazia
Uno spettro si aggira per l’Europa: è la democrazia. Dopo il referendum greco, con il quale più del 60% della popolazione di quel paese ha detto no all’austerità imposta dalla Ue e dalla Troika, è arrivata la Brexit, che ha visto una maggioranza meno netta, ma per molti versi più significativa, di cittadini inglesi chiedere il divorzio dalle istituzioni oligarchiche di quell’Europa che impone gli interessi del finanzcapitalismo globale ai propri sudditi. In entrambi i casi non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando. In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista.In entrambi casi ciò è infatti esattamente quanto è successo. In Grecia con il ricatto che ha indotto Tsipras a calare le brache e tradire ignominiosamente il verdetto popolare. In Inghilterra con il tentativo di far pagare così cara la Brexit a coloro che l’hanno votata da dissuadere altri a imboccare la stessa strada (non a caso il risultato deludente di Podemos e la marcia indietro di 5 Stelle sull’Europa sono state accolte con soddisfazione: la lezione è servita a qualcosa…). In entrambi i casi le élite hanno dispiegato tutto il loro disprezzo nei confronti dei proletari “sporchi, brutti e cattivi“ che si sono ribellati ai loro diktat. Imitati dalle sinistre: tutte, anche quelle che si proclamano radicali e antagoniste: non si può stare dalla parte degli operai inglesi perché sono egemonizzati dalla destra razzista e xenofoba (qualche idea sul perché ciò sia avvenuto?). I peggiori sono quegli intellettuali post operaisti che ormai sono parte integrante del polo liberal chic che definisce l’essere di sinistra o di destra non in base all’appartenenza e agli interessi di classe, bensì in base all’impegno per i diritti individuali, e affida l’emancipazione sociale a un immaginario “comunismo del capitale”.Ho quindi accolto con piacere un intervento di Bifo che ha rotto il fronte “europeista”, riconoscendo che l‘aspetto dirimente del voto inglese non è il colore ideologico, ma da quali interessi di classe è stato dettato. Credo però che occorra fare altri due passi: 1) chiedersi perché i giovani “creativi” hanno votato in massa Remain; 2) ragionare concretamente sulla forma politica che oggi assume la resistenza proletaria al finanzcapitalismo e alle sue istituzioni oligarchiche. Affrontare il primo punto significa fare i conti con il mito del cognitariato, prendere atto che questo gruppo sociale non ha mai espresso, non esprime, né mai esprimerà una cultura anticapitalista, che il suo strato superiore è parte integrante delle élite e, in quanto tale, è un nemico di classe, mentre lo strato inferiore – che continua a nutrire la speranza in una illusoria mobilità sociale, benché falcidiato da precariato, redditi miserabili, condizioni di vita oscene – potrà prendere coscienza dei propri interessi solo se egemonizzato dalla spinta antagonista che viene da fuori e dal basso.Quanto al secondo punto: se è vero – come è innegabile non appena si guardi a quanto avviene negli Stati Uniti e in tutti i paesi europei – che oggi la lotta di classe assume la forma dell’opposizione alto/basso, dell’odio per le élite politiche ed economiche (que se vayan todos), del rifiuto di ogni forma di delega, che assume cioè una forma populista, occorre decidersi a prenderne atto – perché la teoria e la prassi politica rivoluzionarie sono una cosa sola, sono cioè analisi concreta della situazione concreta – e agire di conseguenza. Il populismo di destra si combatte con il populismo di sinistra, non con le ammoine radical chic. Il che vuol dire lotta per l’egemonia (cioè cambiare il senso di parole come popolo, comunità, sovranità, ecc. trasformandole in armi nella battaglia fra i flussi globali del capitale e i luoghi da cui i flussi estraggono valore), costruire blocco sociale a partire dal basso e non dall’alto delle nuove aristocrazie del lavoro, costruire organismi di democrazia diretta e riaprire la vecchia sfida, tenendo conto che l’unica cosa che oggi produce contro terrore rispetto al terrorismo psicologico delle élite è la democrazia e che, dopo la morte della democrazia rappresentativa, l’unica forma esistente di democrazia è appunto il populismo.(Carlo Formenti, “Brexit, uno spettro si aggira per l’Europa: la democrazia”, da “Micromega” del 28 giugno 2016).Uno spettro si aggira per l’Europa: è la democrazia. Dopo il referendum greco, con il quale più del 60% della popolazione di quel paese ha detto no all’austerità imposta dalla Ue e dalla Troika, è arrivata la Brexit, che ha visto una maggioranza meno netta, ma per molti versi più significativa, di cittadini inglesi chiedere il divorzio dalle istituzioni oligarchiche di quell’Europa che impone gli interessi del finanzcapitalismo globale ai propri sudditi. In entrambi i casi non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando. In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista.
-
Oliver Stone: Putin e Trump meglio di Obama e Hillary
«Non è stato facile farmi coinvolgere in una storia controversa come questa, dopo i miei film in Sudamerica so bene che posso subire attacchi anche violenti, e per me è inconcepibile che si possa essere accusati solo perché si mostrano fatti in contrasto con le versioni ufficiali. Ma è importante che l’opinione pubblica conosca gli eventi dell’Ucraina orientale da una prospettiva diversa da come ci sono stati presentati». Oliver Stone parla di “Ukraine on fire” dell’ucraino Igor Lopatonok, cittadino americano dal 2008, presentato in anteprima mondiale al festival di Taormina, del quale non solo è coproduttore ma partecipa come intervistatore dell’ex presidente Viktor Yanukovich e del presidente russo Vladimir Putin. Il film, scrive Maria Pia Fusco su “Repubblica”, ricostruisce la storia del paese dal 1941 al 2014, ponendo l’accento sui movimenti nazionalisti che parteciparono alla seconda guerra mondiale affiancando i nazisti nella strage di ebrei e polacchi. E che, supportati dalla Cia durante la guerra fredda, si sono infiltrati nelle manifestazioni ucraine pacifiche degli ultimi anni.Oliver Stone parla di «necessità di una controinformazione» e cita Mark Twain: “Se non leggi i giornali non sei informato, se li leggi sei informato male”. «E’ importante per gli Usa e per l’Europa conoscere la realtà, perché tutto questo, che è anche una guerra fatta dai media, ha portato alle sanzioni, all’embargo, conseguenze dure per l’economia». È vero che in Ucraina molti manifestanti erano motivati da ragioni giuste e si sentivano oppressi, riconosce il regista, «ma noi raccontiamo la storia da prima della rivoluzione arancione, e come sappiamo in Ucraina ci son sempre stati governi corrotti. Sicuramente in questo governo, insediato da due anni, ci sono elementi che discendono da assassini, persone che si unirono al Reich. È il primo governo con elementi nazisti, è molto pericoloso. E negli Usa non c’è stata reazione, si parla solo dell’aggressione russa». Il ruolo dei media: così determinante? Eccome: «Sappiamo quante volte la Cia abbia usato il cosiddetto “soft power” per influenzare altri paesi, magari per scongiurare l’affermazione di governi di sinistra. Ma prima dell’Ucraina, gli Usa sono intervenuti in tanti paesi dell’ex Urss, con addestramenti delle forze Nato, storie che i grandi media non raccontano».A Stone, la Fusco chiede direttamente un giudizio su Putin come persona e come leader. «Un uomo molto intelligente, articolato, razionale, che conosce a fondo i problemi», risponde Stone. «Putin dal 2001 in poi sta cercando una sorta di alleanza con gli Usa: ha espresso la sua solidarietà dopo l’11 Settembre, ha cercato di affiancarli nell’Asia centrale e nella lotta al terrorismo, ma il comportamento degli americani è sempre lo stesso: abbattere i regimi ostili e crearne di compiacenti, senza cercare di capire le ragioni interne di un paese, la cultura, il disagio, le divisioni». E non è cambiato niente con la presidenza Obama?«L’ho votato due volte, ma sono deluso», amette il cineasta. «Aveva promesso di cambiare la politica estera di Bush, parlava di trasparenza, voleva smettere con le intercettazioni illegali. Non è successo niente, non ha capito che non si può lottare contro le idee, bisogna prima capirle». E il futuro? «Il sistema americano è troppo consolidato, penso che nessuno possa cambiarlo veramente: né Trump, né la Clinton. Anzi, Hillary mi sembra ancora più radicale di Obama in tema di politica estera».«Non è stato facile farmi coinvolgere in una storia controversa come questa, dopo i miei film in Sudamerica so bene che posso subire attacchi anche violenti, e per me è inconcepibile che si possa essere accusati solo perché si mostrano fatti in contrasto con le versioni ufficiali. Ma è importante che l’opinione pubblica conosca gli eventi dell’Ucraina orientale da una prospettiva diversa da come ci sono stati presentati». Oliver Stone parla di “Ukraine on fire” dell’ucraino Igor Lopatonok, cittadino americano dal 2008, presentato in anteprima mondiale al festival di Taormina, del quale non solo è coproduttore ma partecipa come intervistatore dell’ex presidente Viktor Yanukovich e del presidente russo Vladimir Putin. Il film, scrive Maria Pia Fusco su “Repubblica”, ricostruisce la storia del paese dal 1941 al 2014, ponendo l’accento sui movimenti nazionalisti che parteciparono alla seconda guerra mondiale affiancando i nazisti nella strage di ebrei e polacchi. E che, supportati dalla Cia durante la guerra fredda, si sono infiltrati nelle manifestazioni ucraine pacifiche degli ultimi anni.
-
Zeman: anche a Praga un referendum sull’Ue (e sulla Nato)
Il Brexit sta provocando sconquassi dovunque. In primo luogo in Europa, ma – si presume – gli effetti si faranno sentire anche sulla stessa fisionomia della Gran Bretagna. Il primo leader europeo – già fortemente critico verso l’attuale Unione – a prendere la “palla al balzo”, in pieno torneo europeo di calcio, è stato il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman. E il suo calcio di punizione è stato potentissimo. Ancora non sappiamo se sarà un goal, ma certamente non sarà agevole pararlo. Zeman, infatti, ha detto che, anche lui, ritiene necessario, ora, dopo il voto britannico, un referendum popolare che lasci esprimere i suoi concittadini sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea, o meno. Il clamore (e la preoccupazione di diverse cancellerie europee) è stato moltiplicato dalla seconda proposta: che si faccia il referendum anche sulla questione della appartenenza alla Nato. I due quesiti aprirebbero non uno ma due squarci nel muro delle idee correnti sull’Europa. Zeman ne è ben consapevole e si è affrettato a precisare che lui, personalmente, è per rimanere in Europa (significativo silenzio per quanto riguarda la Nato), ma che farà «ogni cosa per dare ai suoi concittadini la possibilità di potere esprimersi» su entrambe le questioni.Milos Zeman sa quel che dice. Un recente sondaggio dell’Istituto Cvvm ha rivelato che solo il 25% dei cittadini della Repubblica Ceca sono soddisfatti dello stato delle cose (un anno fa lo erano il 32%). Solo che, per realizzare la proposta del presidente in carica, bisognerebbe modificare la Costituzione del paese. E, per farlo, occorrerebbe il voto favorevole di almeno il 60% dei voti del Parlamento. Una maggioranza che, se si formasse, equivarrebbe alla caduta dell’attuale governo di Bohuslav Sobotka. Il quale si è subito affrettato a dichiarare che non ha alcuna intenzione di indire un tale referendum. Non senza aggiungere che, anche lui, pensa che sia necessario inviare a Bruxelles «un chiaro segnale», prima dell’autunno, della necessità di «cambiamenti positivi».In ogni caso la mossa di Zeman esprime un sentimento che va ben oltre il palazzo presidenziale di Praga, e sicuramente oltre i confini della Repubblica Ceca. La critica a Bruxelles, sia per la gestione della tragedia dei profughi, sia per le sanzioni contro la Russia, sia per la politica monetaria, sia per i nuovi missili installati dagli Stati Uniti in Polonia e Romania, è largamente diffusa nei paesi dell’est Europa. Ciascuno per conto proprio e con diverse agende, ma tutti guardano a Bruxelles con crescente insofferenza. Zeman in particolare è preoccupato per il completo oblio dei temi della sicurezza comune europea e non ha nascosto, a più riprese, il suo desiderio di riaprire la questione del dialogo positivo con la Russia.(Giulietto Chiesa, “Milos Zeman apre i giochi europei del dopo-Brexit”, da “Sputnik News” del 4 luglio 2016).Il Brexit sta provocando sconquassi dovunque. In primo luogo in Europa, ma – si presume – gli effetti si faranno sentire anche sulla stessa fisionomia della Gran Bretagna. Il primo leader europeo – già fortemente critico verso l’attuale Unione – a prendere la “palla al balzo”, in pieno torneo europeo di calcio, è stato il presidente della Repubblica Ceca, Milos Zeman. E il suo calcio di punizione è stato potentissimo. Ancora non sappiamo se sarà un goal, ma certamente non sarà agevole pararlo. Zeman, infatti, ha detto che, anche lui, ritiene necessario, ora, dopo il voto britannico, un referendum popolare che lasci esprimere i suoi concittadini sulla permanenza all’interno dell’Unione Europea, o meno. Il clamore (e la preoccupazione di diverse cancellerie europee) è stato moltiplicato dalla seconda proposta: che si faccia il referendum anche sulla questione della appartenenza alla Nato. I due quesiti aprirebbero non uno ma due squarci nel muro delle idee correnti sull’Europa. Zeman ne è ben consapevole e si è affrettato a precisare che lui, personalmente, è per rimanere in Europa (significativo silenzio per quanto riguarda la Nato), ma che farà «ogni cosa per dare ai suoi concittadini la possibilità di potere esprimersi» su entrambe le questioni.
-
Carpeoro: via Renzi arriva Di Maio, il Piano-B dello Zio Sam
«Tranquilli, non c’ è pericolo che in Italia cambi qualcosa: se cade Renzi, c’è già pronto Di Maio, il grillino». Con la consueta chiarezza, l’avvocato Gianfranco Carpeoro – scrittore, studioso di linguaggio simbolico e già gran maestro della massoneria di rito scozzese, ospite dell’ultima puntata della trasmissione web-radio “Border Nights”, sostiene che in Italia non vi sarà nessuna immediata conseguenza politica della Brexit. Premessa: secondo Carpeoro, l’Inghilterra è uscita dall’Unione Europea “per modo di dire”, perché di fatto «in Europa la Gran Bretagna non c’è mai stata davvero». Terremoti geopolitici in vista? Nemmeno: «Al di là delle apparenze – terrorismo europeo, crisi, Isis e chi più ne ha più ne metta – il quadro non cambierà, perché gli Usa sono interessati a congelare la situazione: il loro debito è in mano alla Cina e non vedono l’ora di chiudere questo problema, perché non tollerano l’idea di dipendere da qualcun altro. Hanno bisogno tempo, dunque di stabilità. Fingono di osteggiare l’intervento russo in Siria, ma in realtà fa comodo anche a loro. Idem l’Italia: nulla di sostanziale deve cambiare, e quindi non cambierà».Di ispirazione socialista, Carpeoro esprime un punto di vista sempre fuori dal coro, L’esoterismo? «Il potere non esita a metterlo in burletta, promuovendo i Maghi Otelma di turno, perché teme il potenziale di verità dell’esoterismo serio». L’analisi sullo scenario coincide con quella di Gioele Magaldi: «La massoneria reazionaria internazionale è al lavoro per il massimo profitto dell’élite, revocando diritti e sicurezze». Forse qualcuno si sta sfilando, da quel super-vertice occulto, mettendo in allarme i grandi manovratori, che infatti – attraverso i servizi segreti e manovalanza anche islamica – ricorrono in modo ormai sistematico alla strategia della tensione targata Isis. L’Unione Europea azzoppata dalla Brexit? Ma no: l’Ue non è mai stata altro che una colossale trappola congegnata per drenare ricchezza dal basso verso l’alto, impedendo all’Europa di conquistare una vera sovranità, in autonomia dagli Usa. «E poi: come potrebbe mai funzionare una Unione con al suo interno democrazie parlamentari e monarchie?».Insomma, tutto sotto controllo (si fa per dire). Nel senso: nessun rivolgimento in vista. Anche perché non ci sono segni che possa essere insidiato, nel suo meccanismo fondamentale, «un sistema come questo, fondato su un’economia che prevede che, perché qualcuno stia meglio, c’è bisogno che altri stiano peggio». Inutile illudersi che cambi qualcosa di sostanziale, in Europa come in Italia. Da noi c’è in panchina il movimento fondato da Beppe Grillo? Appunto: «I 5 Stelle sono sempre stati la carta di riserva degli americani, nel caso cedesse il Pd». Che i militanti se ne rendano conto o meno, il movimento è stato “coltivato” dallo Zio Sam. Non a caso, oggi non si accoda agli inglesi che hanno scelto il “leave”. Uscire dall’Ue? Nemmeno per idea, hanno subito chiarito i vari portavoce pentastellati. Su cui svetta il possibile futuro premier Luigi Di Maio: «Le sue visite al consolato americano a Roma sono aumentate, forse è un segno che il tempo di Renzi sta davvero per finire. Beninteso: per gli italiani non cambierà assolutamente niente».«Tranquilli, non c’è pericolo che in Italia cambi qualcosa: se cade Renzi, c’è già pronto Di Maio, il grillino». Con la consueta chiarezza, l’avvocato Gianfranco Carpeoro – scrittore, studioso di linguaggio simbolico e già gran maestro della massoneria di rito scozzese, ospite dell’ultima puntata della trasmissione web-radio “Border Nights”, sostiene che in Italia non vi sarà nessuna immediata conseguenza politica della Brexit. Premessa: secondo Carpeoro, l’Inghilterra è uscita dall’Unione Europea “per modo di dire”, perché di fatto «in Europa la Gran Bretagna non c’è mai stata davvero». Terremoti geopolitici in vista? Nemmeno: «Al di là delle apparenze – terrorismo europeo, crisi, Isis e chi più ne ha più ne metta – il quadro non cambierà, perché gli Usa sono interessati a congelare la situazione: il loro debito è in mano alla Cina e non vedono l’ora di chiudere questo problema, dato che non tollerano l’idea di dipendere da qualcun altro. Hanno bisogno tempo, dunque di stabilità. Fingono di osteggiare l’intervento russo in Siria, ma in realtà fa comodo anche a loro. Idem l’Italia: nulla di sostanziale deve cambiare, e quindi non cambierà».