Archivio del Tag ‘Usa’
-
Lassù qualcuno ci odia: Halloween, per abituarci all’orrore
Alla fine, Halloween è passata, per fortuna. Ma ha lasciato sul terreno il solito cimitero di sporcizia: morti per finta, zombie per ridere, incubi per scherzo, sangue per celia. Su questa funebre sagra d’importazione si è detto e scritto tanto e molti si sono giustamente soffermati su un paio di considerazioni ineccepibili se non ovvie, trascurandone però una terza, quella più inquietante. Quanto alle prime due, ci sbrighiamo in fretta: riguardano la funzione sociale e quella economica di Halloween. La festività del due novembre non ci appartiene affatto, com’è noto, non sgorga dalla nostra tradizione patria. È, in tutto e per tutto, un’americanata di derivazione anglosassone, un carnevale di orrori, un folklore plastificato promosso a tutto volume, in tutto il mondo, dalla regia unificata dei media unificati per dotare le masse già spaesate del globo anche di una loro brava (e spaesante) celebrazione globalizzata. Sulla funzione economica non vale neppure la pena di soffermarsi, tanto è evidente: Halloween è un business stratosferico e – quanto più si diffonde, grazie anche al contributo del popolo coglione, assuefatto e teledipendente – tanto più si accumula la grana nei granai di chi la detiene.Ora veniamo al terzo aspetto, quello meno approfondito, di questa festività pagana. La sensazione è che vi sia una regia occulta a favorirne il successo su scala mondiale. ‘Occulta’ non nel senso letterale di ‘nascosta’ (le implicazioni complottistiche, pur possibili, mettiamole da parte), ma in quello paranormale di ‘maligna’. ‘Occulta’ in quanto densamente impregnata del lato oscuro della forza. Halloween è, a tutti gli effetti, la festa delle porte spalancate alle potenze delle Tenebre. Non conta tanto che le Tenebre esistano o meno – la stragrande maggioranza degli evoluti abitanti dell’evoluto Occidente ovviamente non ci crede – quanto che le loro lugubri ombre si allunghino sulla psiche individuale conscia, e sull’inconscio collettivo; proprio come un’entità provvisoriamente libera di scorrazzare nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre piazze non già contrastata o frenata o inibita, ma addirittura vezzeggiata, corteggiata, blandita. Il quizzino ormai idiomatico (sintesi sublime dell’intera baracconata) è: dolcetto o scherzetto?Nella sua innocente formulazione sottende – in controluce, simile all’ectoplasma impercettibile di uno spettro – un colpevolissimo e mafioso avvertimento: preferisci pagare o morire? Sì, lo sappiamo, è tutto solo un gioco, ma fino a che punto le nostre deboli menti, già intossicate dal male, lo percepiscono per tale? Questo profluvio di putridi gadget e di impiccati da vetrina è davvero solo un passatempo per esorcizzare il dì dei defunti? O non è piuttosto un nuovo rito che – sottotraccia, in incognito – ci sta addestrando al culto infero del Disordine e del Caos? Già ne siamo quotidianamente bombardati: ogni giorno, in fondo, si officia un Halloween ‘laico’ attraverso gli schermi lordi di sangue e di corpi ammazzati della tivù. Ora ci siamo regalati anche un bel Natale di morte. Lassù, davvero, qualcuno ci odia.(Francesco Carraro, “Lassù qualcuno ci odia”, dal blog di Carraro del 4 novembre 2017).Alla fine, Halloween è passata, per fortuna. Ma ha lasciato sul terreno il solito cimitero di sporcizia: morti per finta, zombie per ridere, incubi per scherzo, sangue per celia. Su questa funebre sagra d’importazione si è detto e scritto tanto e molti si sono giustamente soffermati su un paio di considerazioni ineccepibili se non ovvie, trascurandone però una terza, quella più inquietante. Quanto alle prime due, ci sbrighiamo in fretta: riguardano la funzione sociale e quella economica di Halloween. La festività del due novembre non ci appartiene affatto, com’è noto, non sgorga dalla nostra tradizione patria. È, in tutto e per tutto, un’americanata di derivazione anglosassone, un carnevale di orrori, un folklore plastificato promosso a tutto volume, in tutto il mondo, dalla regia unificata dei media unificati per dotare le masse già spaesate del globo anche di una loro brava (e spaesante) celebrazione globalizzata. Sulla funzione economica non vale neppure la pena di soffermarsi, tanto è evidente: Halloween è un business stratosferico e – quanto più si diffonde, grazie anche al contributo del popolo coglione, assuefatto e teledipendente – tanto più si accumula la grana nei granai di chi la detiene.
-
Più debito pubblico, o sarà peggio della Grande Depressione
Dai primi brontolii della crisi finanziaria, nel 2007, la gente si è consolata ricordando la Grande Depressione e pensando a quanto avrebbe potuto andare peggio. In parte è vero. La crisi economica attuale è stata molto meno grave della Grande Depressione. Tuttavia, la nostra crisi non è finita. Stando a quasi tutti i parametri – occupazione, reddito, patrimonio netto, produzione totale – l’economia è ancora in sofferenza. E ora siamo arrivati a una cupa pietra miliare. Entro il 2019, una misura basilare della salute dell’economia – il prodotto interno lordo per adulto in età lavorativa – avrà probabilmente recuperato meno nei dodici anni trascorsi dall’inizio della nostra crisi che nei dodici anni che hanno seguito l’inizio della Grande Depressione. Quando ho visto il grafico che mostra questo fatto, in un recente articolo di Olivier Blanchard e Larry Summers, sono rimasto stupefatto. Il prodotto interno lordo, o Pil, misura la produzione totale della nazione, che determina in gran parte il suo tenore di vita. E il crollo della produzione durante la Grande Depressione è stato chiaramente molto peggiore di quello degli ultimi anni. Ma l’economia, allora, ha poi avuto un rimbalzo, prima con una rapida crescita verso la metà degli anni ’30 e poi durante la mobilitazione per la guerra all’inizio degli anni ’40.Questa volta invece il paese non ha mai avuto il 25% di disoccupazione né una percentuale simile di gente in miseria – grazie a Dio – ma dopo la crisi ha sopportato anni di crescita debolissima. Entro il 2019, il Pil per ogni adulto in età lavorativa probabilmente sarà superiore solo dell’11% rispetto a quando la crisi è iniziata (escludendo un’impennata imprevista della crescita o una nuova recessione). Questo, considerando un periodo di tempo così prolungato, è un tasso di crescita ben misero. Sì, l’economia è andata abbastanza bene negli ultimi uno o due anni, ma non abbastanza da riuscire a compensare minimamente il lungo calo, soprattutto tenendo conto che la crescita era stata mediocre anche nei primi anni dopo il 2000. Non c’è da meravigliarsi che tanti americani siano furenti e frustrati. Nel loro lavoro, Blanchard (ex economista capo del Fondo Monetario Internazionale) e Summers (ex segretario del Tesoro e consigliere della Casa Bianca) sostengono che è giunto il momento per il paese di affrontare più seriamente il suo grave malessere. Come?Gli economisti dovrebbero rimettere in discussione le teorie che dominano da tempo, come hanno fatto sia dopo la Grande Depressione sia durante la stagflazione degli anni Settanta. La Federal Reserve, che ha sottovalutato già più volte la debolezza dell’economia, dovrebbe prendere in considerazione politiche più coraggiose, come l’ipotesi di fare aumentare l’inflazione. Il Congresso e la Casa Bianca dovrebbero prendere in considerazione l’idea di spendere di più per creare posti di lavoro con stipendi dignitosi, nonostante le legittime preoccupazioni sul debito federale. E invece, molti politici ed economisti continuano a muoversi come se la Grande Recessione non ci fosse mai stata e continuano a restare attaccati alle loro vecchie teorie. Sono cresciuti nella convinzione che il grande rischio dell’economia sia sempre che si surriscaldi, perché questo è stato il grande problema degli anni ’70. Di conseguenza, in molti sono ossessionati dai pericoli legati a un’alta inflazione e ai grandi deficit di bilancio.Si tratta di pericoli reali – ma non sono questi i maggiori pericoli che l’economia deve affrontare adesso. «Avere una scarsità eccessiva di domanda», come dichiara Summers, «oggi è diventato un problema uguale all’averne troppa». Gli economisti a volte utilizzano come metafora dell’economia una fascia di gomma. Quanto più viene tirata in una direzione, con tanta più forza ritorna nell’altra. Ma è una metafora che andava bene negli anni ’30. Oggi non è più corretta. Dopo la peggior crisi in 70 anni, l’economia americana, come quella di gran parte del mondo, è afflitta da una crescita bassissima. E non c’è ragione di accettare questa crescita asfittica come la nuova normalità.(David Leonhardt, estratto dall’articolo “Sta andando peggio che dopo la Grande Depressione”, pubblicato sul “New York Times” il 12 ottobre 2017, tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Nel confronto tra Grande Depressione e Grande Recessione, si esamina l’andamento cumulativo percentuale del Pil per adulto in età lavorativa, ogni anno dall’inizio della crisi. Blanchard e Summers hanno presentato il loro grafico in una conferenza intitolata “Rethinking Macroeconomic Policy” (ripensare la politica macroeconomica), cui hanno partecipato Ben Bernanke e altri importanti economisti. Entro giovedì, si potranno leggere qui gli articoli della conferenza. La Grande Depressione iniziò nel 1929, la Grande Recessione nel 2007. Gli adulti in età lavorativa sono quelli tra i 18 e i 64 anni. Le previsioni per gli anni futuri provengono dall’ufficio di bilancio del Congresso Usa e dall’Ufficio di Censimento).Dai primi brontolii della crisi finanziaria, nel 2007, la gente si è consolata ricordando la Grande Depressione e pensando a quanto avrebbe potuto andare peggio. In parte è vero. La crisi economica attuale è stata molto meno grave della Grande Depressione. Tuttavia, la nostra crisi non è finita. Stando a quasi tutti i parametri – occupazione, reddito, patrimonio netto, produzione totale – l’economia è ancora in sofferenza. E ora siamo arrivati a una cupa pietra miliare. Entro il 2019, una misura basilare della salute dell’economia – il prodotto interno lordo per adulto in età lavorativa – avrà probabilmente recuperato meno nei dodici anni trascorsi dall’inizio della nostra crisi che nei dodici anni che hanno seguito l’inizio della Grande Depressione. Quando ho visto il grafico che mostra questo fatto, in un recente articolo di Olivier Blanchard e Larry Summers, sono rimasto stupefatto. Il prodotto interno lordo, o Pil, misura la produzione totale della nazione, che determina in gran parte il suo tenore di vita. E il crollo della produzione durante la Grande Depressione è stato chiaramente molto peggiore di quello degli ultimi anni. Ma l’economia, allora, ha poi avuto un rimbalzo, prima con una rapida crescita verso la metà degli anni ’30 e poi durante la mobilitazione per la guerra all’inizio degli anni ’40.
-
Chi prende il comando, se il presidente americano muore
Cosa hanno in comune Andrew Cuomo e Dick Cheney, Ted Stevens ed Eric Holder, Bob Gates e Terrel Bell? Apparentemente nulla se non una profonda rivalità politica. Eppure tutti quanti rientrano in una categoria forse ai più sconosciuta, ma di importanza strategica per le dinamiche a stelle e strisce. Parliamo dei designated survivors, i sopravvissuti designati, detti anche i presidenti (mancati) per un giorno. Ossia, chi deve essere pronto a guidare il paese se tutti quelli che lo precedono nella linea di successione alla Casa Bianca vengono a mancare. Cosa accadrebbe infatti se si verificasse un cataclisma o un attentato nelle occasioni in cui il Commander in Chief e gli altri membri della linea di successione si trovano nel medesimo luogo, per esempio quando il Congresso è riunito in seduta comune? L’intera catena di comando americana verrebbe annientata, e il paese si troverebbe senza nessuna autorità riconosciuta. Per questo, dagli anni della guerra fredda, quando era forte il timore di un attacco nucleare, c’è la consuetudine di nominare i sopravvissuti designati, che vengono tenuti in un posto fisicamente lontano, sicuro e segreto, per mantenere ininterrotta la catena di comando in caso un evento catastrofico elimini tutti gli altri.La legge statunitense non prevede che altre persone oltre quelle della lista possano accedere al potere, e quindi nell’ipotesi di una catastrofe, deve esserci qualcuno che prenda in mano le redini della nazione. Quella dei sopravvissuti designati è una figura istituzionale negli Usa, che può essere rivestita solo da chi possiede i requisiti costituzionali per diventare presidente. Il prescelto entra in gioco in alcuni momenti particolarmente significativi dell’anno: per esempio, durante il discorso sullo Stato dell’Unione, il messaggio che l’inquilino della Casa Bianca legge annualmente alle Camere in seduta comune, e durante la cerimonia di insediamento del presidente. A levare i veli a questa categoria di politici è stata ancor prima delle cronache politiche delle cannoniere mediatiche Usa una serie televisiva americana chiamata appunto “Designated Survivor”, trasmessa dal 21 settembre 2016 dall’emittente “Abc”. Da poco è iniziata la seconda stagione, che va in onda anche in Italia su Netflix, dal 6 ottobre. La serie ha come protagonista Kiefer Sutherland nei panni di un membro di poco rilievo del gabinetto Usa, Tom Kirkman, segretario dello sviluppo urbano, che è stato scelto come sopravvissuto designato per il discorso sullo Stato dell’Unione.Kirkman sta seguendo l’appuntamento con la moglie Alex davanti al televisore, quando il Campidoglio viene fatto saltare in aria uccidendo il presidente, il vicepresidente e quasi tutti i membri del Congresso, dell’amministrazione e i giudici della Corte Suprema. E lui viene portato di fretta alla Casa Bianca per assumere le funzione di presidente. La consuetudine va avanti dal 1981, a partire dall’insediamento al 1600 di Pennsylvania Avenue di Ronald Reagan, 40esimo presidente degli Stati Uniti. Il primo sopravvissuto designato di cui si ha notizia è Terrel Bell, segretario dell’Istruzione, che il 18 febbraio fu tenuto in un luogo segreto durante il discorso presidenziale al Congresso in seduta comune. La maggior parte di loro sono sconosciuti ai più, ma scorrendo la lista si trova anche qualche nome noto, come l’attuale governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, che il 19 gennaio del 1999, durante il discorso sullo Stato dell’Unione dell’allora presidente Bill Clinton, fu scelto come designated survivor. Il democratico a quell’epoca ricopriva il ruolo di segretario dello sviluppo urbano. Sebbene nella realtà nessuno dei sopravvissuti designati abbia preso in mano le redini del paese, come avviene nella fiction, la figura ha assunto una maggiore rilevanza dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.In momenti particolarmente difficili della storia americana, il designated survivor è addirittura il vicepresidente, così da assicurare al paese una leadership autorevole in caso di bisogno. Proprio ciò che accadde il 20 settembre 2001, nove giorni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono: durante il discorso al Congresso di George W. Bush è stato il numero due Dick Cheney a rivestire questo ruolo. Il leader dei falchi dell’amministrazione, che facevano capo alla corrente dei neocon, dopo l’11 settembre assunse direttamente la gestione della crisi in atto, e per motivi di sicurezza rimase per un periodo sempre fisicamente distante da Bush, alloggiando in una serie di località segrete. Per l’insediamento di Barack Obama nel 2009, invece, è stato scelto Robert Michael Gates, segretario della difesa durante l’era Bush, succeduto al dimissionario Donald Rumsfeld. Nel caso della transizione da un’amministrazione a un’altra, il sopravvissuto designato viene scelto all’interno del gabinetto uscente, visto che il neo eletto deve ancora formare il governo. Dopo la vittoria di Obama, però, fu tutto più semplice, visto che Gates ha accettato di rimanere nel medesimo ruolo anche con il 44esimo presidente sino al 2011, quando è arrivato Leon Panetta. Nell’era Trump i designated survivor sono stati due: il senatore dello Utah Orrin Hatch, scelto per il ruolo durante l’Inauguration Day del 20 gennaio scorso, e David Shulkin, segretario per gli affari dei veterani, sopravvissuto designato al discorso del tycoon al Congresso in seduta comune, il 28 febbraio scorso.(Valeria Robecco, “Gli uomini al comando se i leader Usa muoiono”, dal “Giornale” del 13 ottobre 2017).Cosa hanno in comune Andrew Cuomo e Dick Cheney, Ted Stevens ed Eric Holder, Bob Gates e Terrel Bell? Apparentemente nulla se non una profonda rivalità politica. Eppure tutti quanti rientrano in una categoria forse ai più sconosciuta, ma di importanza strategica per le dinamiche a stelle e strisce. Parliamo dei designated survivors, i sopravvissuti designati, detti anche i presidenti (mancati) per un giorno. Ossia, chi deve essere pronto a guidare il paese se tutti quelli che lo precedono nella linea di successione alla Casa Bianca vengono a mancare. Cosa accadrebbe infatti se si verificasse un cataclisma o un attentato nelle occasioni in cui il Commander in Chief e gli altri membri della linea di successione si trovano nel medesimo luogo, per esempio quando il Congresso è riunito in seduta comune? L’intera catena di comando americana verrebbe annientata, e il paese si troverebbe senza nessuna autorità riconosciuta. Per questo, dagli anni della guerra fredda, quando era forte il timore di un attacco nucleare, c’è la consuetudine di nominare i sopravvissuti designati, che vengono tenuti in un posto fisicamente lontano, sicuro e segreto, per mantenere ininterrotta la catena di comando in caso un evento catastrofico elimini tutti gli altri.
-
Globalizzati e sempre più poveri: come nell’Impero Romano
I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.In Europa occidentale questo è un po’ meno evidente, o forse è solo in ritardo, ma con il globalismo e il neoliberismo, che sono ancora le religioni economiche dominanti, non ci sarà via d’uscita. Che è successo? Beh, noi non facciamo più le cose. Ecco tutto. Dobbiamo comprare da altri tutte le cose che ci servono: sempre di più. E di conseguenza non abbiamo nemmeno le competenze per fare altre cose. Siamo diventati dipendenti, per la nostra sopravvivenza, da nazioni che stanno dall’altra parte del pianeta. Dipendenti da nazioni che sono interessate solo a venderci le loro cose, se le possiamo pagare. Nazioni che vedono le richieste di salario interno salire e che – dovranno – farci pagare i loro prodotti a prezzi sempre più alti. E noi non avremo altra scelta che pagare. Ma possiamo pagare solo con quello che possiamo prendere in prestito – come nazioni, come imprese e come individui. Dobbiamo prendere in prestito perché, come nazioni, come società e come individui noi non facciamo più le cose. È un circolo vizioso con cui la globalizzazione ci ha benedetto. E da cui – ci viene detto – potremo uscire solo se riusciremo a crescere ancora. Cosa che non possiamo fare, perché noi non facciamo nulla.Quindi ci affidiamo ai banchieri centrali per gestire la crisi. Perché ci viene detto che loro sanno come gestirla. Non lo sanno, ma fingono di saperlo. Però, a leggere bene tra le righe, ammettono la loro ignoranza. A Janet Yellen, poche settimane fa, è scappato di dire che non ha idea del motivo per cui l’inflazione è debole. Mario Draghi ha detto più o meno la stessa cosa. Perché non lo sanno? Perché conoscono solo i modelli attuali, che non vanno più bene, perché non si adattano. E i modelli sono tutti quelli che hanno. Nel settore bancario centrale i modelli economici sono più importanti del buon senso. La Fed ha almeno un migliaio di dottorati PhDs sotto contratto. Ma la Yellen, il loro capo, continua a sostenere che “forse” sono sbagliati i modelli che dicono che se cresce l’inflazione aumentano i salari. Non hanno idea del perché i salari non crescano. Perché i modelli dicono che invece dovrebbero crescere. Perché loro hanno tutti un lavoro – i 1000 dottoroni ben pagati. E questo è tutto quello che hanno da dire. Dicono che il fatto che i salari non aumentano è un mistero.Io dico che quelli per cui questo è un mistero non sono le persone giuste per fare il lavoro che fanno. Se si esportano milioni di posti di lavoro in Asia, si sposta anche il potere negoziale dei lavoratori e li si spinge a fare dei lavori di merda e senza nessun benefit, allora c’è solo un risultato possibile. E questo risultato non include né inflazione, né crescita dei salari. L’unico risultato possibile, invece, è una erosione continua delle economie. Il mantra globalista afferma che riempiremo lo spazio che perdono le nostre economie offrendo posti di lavoro migliori, nel settore dei servizi e nel settore della conoscenza. Ma la realtà non segue il mantra. La maggior parte dei nuovi posti di lavoro non sono sicuramente “migliori”. E mentre aspettiamo di vedere questi posti di lavoro migliori, salutiamo i clienti di Wal-Mart, vediamo che i robot cominciano a prendersi cura di quel poco che ci rimane della nostra capacità produttiva e i servizi pronta consegna eliminano dagli scaffali anche quello che restava nei nostri magazzini di mattoni e di calce. Sì, questo significa che stiamo perdendo anche i lavori “di minor qualità”.Nel frattempo i cinesi, che ora fanno i nostri vecchi lavori, sono stati capaci di farli grazie ad una folle quantità di inquinamento prodotto. E come se non fosse abbastanza, recentemente, solo per mantenere in vita il loro nuovo magico paradiso produttivo, sono stati costretti a prendere in prestito tanto quanto abbiamo preso in prestito noi – a livello statale, a livello di governo locale e ora anche a livello individuale. In Cina, le funzioni del credito sono come gli oppiacei in America. Milioni di persone che non erano mai entrate in contatto con le cose – e avrebbero continuato a viver bene anche se non ci fossero mai entrate in contatto – ora sono state agganciate. Ma sono stati agganciati anche i governi locali, che hanno creato un sistema bancario ombra che minaccerà presto Pechino; ma per i cittadini, questo, è un fenomeno relativamente nuovo. E si vede gente che dice cose come: “Se non compri un appartamento oggi, non te lo potrai mai più permettere”; oppure: “Una persona senza un appartamento non ha futuro a Shenzhen”.Sappiamo tutti che è sbagliato, ma i cinesi sono gente che ha visto solo che i prezzi dei beni salgono, e che non ha mai pensato che esistono delle città fantasma, e che ha pochi altri modi per parcheggiare i soldi che si guadagna, grazie al lavoro importato dagli Stati Uniti e dall’Europa. Pensano, senza avere mai dubbi, che i loro salari continueranno a crescere, proprio come il “valore” degli appartamenti. E’ gente che non ha mai visto i prezzi scendere. Ma se noi dobbiamo prendere soldi in prestito per permetterci di comprare i prodotti che (i cinesi) fanno per ripagare i soldi che hanno preso in prestito per comprare i loro appartamenti, allora siamo tutti in difficoltà, siamo tutti in mezzo ai guai. E allora è la stessa globalizzazione ad essere in difficoltà. I beneficiari assoluti, i proprietari della globalizzazione saranno in mezzo ai guai. Anche se lo saranno non prima di essersi pappati la maggior parte dei frutti del nostro lavoro. Che cosa ci farete, poi, con tutti i vostri miliardi, quando il tipo di società che avevate conosciuto quando siete cresciuti saranno state sradicate dal processo stesso che vi ha permesso di fare quei miliardi? Da qualche parte però, quei miliardi dovranno andare!Se quei 1000 dottoroni vogliono studiare un nuovo modello, potrebbero cominciare da qui. La globalizzazione provoca molti problemi. Il fatto che il lavoro scompaia dalle società – in modo che i cittadini di queste società possano però acquistare gli stessi prodotti per pochi centesimi di meno, se vengono in Cina – è un grande problema. Ma il problema principale della globalizzazione è quello finanziario: i soldi svaniscono continuamente dalle società, che devono indebitarsi sempre più per non regredire. La globalizzazione, come qualsiasi tipo di centralizzazione, fa questo: chiede soldi lontano, li chiede alle “periferie”. Il modello di Wal-Mart, McDonald’s, Starbucks ha già portato via lavoro, negozi e soldi incalcolabili dalle nostre società, ma non abbiamo ancora visto nulla. L’avvento di Internet farà prendere gli steroidi a quel modello; ma perché bisogna lasciare che un gruppo di capitalisti-avventurieri di Silicon Valley gestisca certi affari, come Uber o Airbnb, anche nel posto in cui viviamo noi, quando noi potemmo farlo benissimo e utilizzare i profitti di questi affari per migliorare la nostra comunità, invece di lasciarla diventare più povera?Vedo che, nel Regno Unito, Jeremy Corbyn ci aveva già pensato, e aveva fatto bene. La Gran Bretagna può diventare la prima grande vittima del lato oscuro della centralizzazione e, dopo essere uscita dall’organizzazione che l’appoggia – l’Unione Europea – l’idea di Corbyn di creare una cooperativa locale per sostituire Uber è proprio il modo di pensare di cui avrà bisogno. Ma perché devi accentrare tanti soldi e tanta capacità produttiva e poi lasciare tutto nel posto in cui si vive? Non si riuscirà mai a correre abbastanza velocemente, e non si deve farlo. Questo è il succo del dibattito sulla centralizzazione dell’Impero Romano. Anche se i Romani non spingevano mai le loro periferie a smettere di produrre i beni essenziali, però chiedevano di versare a Roma una parte. Il loro problema era che, verso la fine dell’Impero, la quota-parte che richiedevano (con la forza) divenne sempre più grande. Fino a che le periferie non si ribellarono – anche loro con forza.Il club delle banche centrali del mondo presto avrà delle nuove leadership. La Yellen potrebbe andar via, così come Kuroda in Giappone e Zhou in Cina; la Bce e Mario Draghi – della Goldman – cambieranno un po’ più tardi. Ma non c’è nessun segnale che le religioni economiche a cui aderiscono tutti saranno sostituite; così si andrà avanti con la centralizzazione. E se non dovesse funzionare, imporranno ancora più centralizzazione. Come finiranno i giochi in questo processo è dolorosamente ovvio già dall’inizio. La centralizzazione alimenta forze centrali, siano esse governative, militari o commerciali, pagate con i frutti del lavoro delle popolazioni locali, delle periferie. Questo è un processo che, sempre e inevitabilmente, andrà a sbattere contro un muro, perché sono troppi i frutti di quel lavoro che vengono tolti. Troppo è il peso di quei frutti che continuano a scorrere verso il centro, sia verso la Silicon Valley, sia verso Wall Street o sia verso Roma Antica. Non c’è nessuna differenza. Ci sono cose che si possono tranquillamente centralizzare (come le trattative di pace), ma non si possono centralizzare beni essenziali come il cibo, la casa, i trasporti, l’acqua, l’abbigliamento. Hanno un costo troppo alto a livello locale per essere centralizzati. Oppure tutti e ovunque finiremo per romperci l’osso del collo solo per sopravvivere. E’ molto facile, forse perché nessuno ci fa caso.(Raul Ilargi Meijer, “La globalizzazione è povertà”, da “The Automatic Earth” del 16 ottobre 2017, post ripreso da “Come Con Chisciotte” con traduzione di Bosque Primario).I banchieri centrali non hanno mai fatto tanti danni all’economia mondiale quanti ne hanno fatti in questi ultimi dieci anni. Possiamo anche dire che finora non hanno mai avuto tanto potere per farlo. Se i loro predecessori avessero avuto questo potere… chissà? Comunque, l’economia globale non è mai stata più interconnessa come lo è oggi, soprattutto per effetto dell’avanzamento del globalismo, del neoliberismo e forse anche della tecnologia. Ironia della sorte, tutti e tre questi fattori vengono continuamente magnificati come forze del bene. Ma gli standard di vita per molti milioni di persone in Occidente sono scesi – o sono pieni di incertezze – mentre milioni di cinesi ora hanno un livello di vita migliore. Alle persone in Occidente hanno detto di guardare a questo come ad uno sviluppo positivo; dopo tutto, permette di comprare prodotti che costano meno di quelli che produrrebbero le industrie nazionali. Ma insieme al loro posto di lavoro nella produzione, è sparito anche tutta la loro way of life, il loro modello di vita. O, piuttosto, si è nascosto dietro un velo di debiti, tanto da non poter credibilmente negare che circa tre quarti degli americani hanno difficoltà a pagare le bollette. Cosa che sicuramente non succedeva dagli anni ’50 e ’60.
-
Resuscitare Hitler in Sudamerica, travisando documenti Cia
Come far “risorgere” Adolf Hitler in Sudamerica, spacciando carte false: fingendo cioè che la Cia “sapesse” della sopravvivenza del Führer in America Latina, dove invece a fare notizia (se così si può dire) è solo un presunto, sedicente Hitler – l’ennesimo, peraltro. A ricostruire l’errore ottico dell’ultimo “scoop” sul capo del nazismo è Massimo Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. Un equivoco, alimentato in Italia dal titolo dell’Ansa: “File Cia desecretato, Hitler dopo la guerra vivo in Sudamerica”. Il sottotitolo recita: “Lo rivela documento pubblicato su media Usa, c’e’ anche una foto”. Per l’agenzia di stampa, si tratta di «un documento che potrebbe riscrivere la storia». E racconta: «In uno dei file desecretati della Cia, custoditi dagli archivi nazionali Usa, si afferma che Adolf Hitler è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale». La fonte? A sostenere la tesi dell’Hitler “latinoamericano” sarebbe uno 007 dell’intelligence statunitense: nome in codice “Cimleody-3”. «Purtroppo l’Ansa non si preoccupa di mettere link a questi fantomatici “media Usa” che avrebbero pubblicato la notizia», scrive Mazzucco. Basta però una breve ricerca: “Newsweek”, per esempio, spiega che si tratta di una semplice suggestione: c’era un signore tedesco che assomigliava a Hitler e sostenere di essere proprio lui, il Führer.«Un documento della Cia appena desecretato sostiene che Adolf Hitler sarebbe sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale e avrebbe vissuto per diversi mesi in Colombia, nel 1954», scrive “Newsweek”. Se poi si va a leggere il documento originale della Cia, datato 17 ottobre 1955, si apprende che «da un memorandum senza data, scritto probabilmente intorno a febbraio 1954, risulta che un certo Phillip Citroen aveva conosciuto un individuo che assomigliava fortemente a, e sosteneva di essere, Adolf Hitler». Secondo Citroen, continua il documento Cia, «gli esuli tedeschi che vivevano nella piccola cittadina colombiana di Tunja, seguivano questo presunto Adolf Hitler con una idolatria degna del passato nazista, e lo idolatravano chiamandolo Fuhrer». Conclude Mazzucco: «La grande “notizia” dell’Ansa sarebbe quindi tutta qui: c’era un tizio Sudamerica che assomigliava a Hitler, e che gli esuli tedeschi chiamavano “Fuhrer”». Nell’ultima parte della sua vita, osserva ancora Mzzucco, «Hitler aveva diversi sosia che andavano a impersonarlo nelle situazioni più delicate: “l’uomo di Tunja” quindi potrebbe essere uno qualunque di questi sosia».Inoltre, continua Mazzucco, esiste anche un altro documento, sempre della Cia, datato 4 novembre 1955, che dice: «Visto che [un'indagine su questo presunto Hitler] rischia di impegnare energie enormi con scarsissime possibilità di ottenere qualcosa di concreto, suggeriamo di lasciare perdere del tutto questa faccenda». Quindi, già nel 1955 la Cia stessa era talmente “eccitata” da questa non-scoperta, che suggeriva di lasciar perdere. Ma la cosa più interessante deve ancora arrivare, aggiunge Mazzucco: questo clamoroso “scoop” di “Newsweek” – che l’Ansa ha pedestremente ricopiato – è basato su un documento che è in realtà in circolazione già da molti anni. Nel libro “Sulle tracce di Hitler”, pubblicato da Abel Basti nel 2014, a pagina 224 è pubblicato proprio quel documento della Cia che, secondo “Newsweek”, sarebbe stato «appena desecretato», con tanto di fotografia del presunto Hitler accanto al fantomatico Citroen. Siamo quindi passati da un Hitler “vivo in Sudamerica dopo la guerra” (titolone dell’Ansa) a un documento vecchio di anni, «che compare addirittura in libri già pubblicati in diverse nazioni, e dal quale non si può dedurre assolutamente nulla di certo». Insomma: il solito “lavoretto” degli addetti all’informazione, quelli che ci raccontano ogni giorno come va il mondo – secondo loro.Come far “risorgere” Adolf Hitler in Sudamerica, spacciando carte false: fingendo cioè che la Cia “sapesse” della sopravvivenza del Führer in America Latina, dove invece a fare notizia (se così si può dire) è solo un presunto, sedicente Hitler – l’ennesimo, peraltro. A ricostruire l’errore ottico dell’ultimo “scoop” sul capo del nazismo è Massimo Mazzucco, sul blog “Luogo Comune”. Un equivoco, alimentato in Italia dal titolo dell’Ansa: “File Cia desecretato, Hitler dopo la guerra vivo in Sudamerica”. Il sottotitolo recita: “Lo rivela documento pubblicato su media Usa, c’e’ anche una foto”. Per l’agenzia di stampa, si tratta di «un documento che potrebbe riscrivere la storia». E racconta: «In uno dei file desecretati della Cia, custoditi dagli archivi nazionali Usa, si afferma che Adolf Hitler è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale». La fonte? A sostenere la tesi dell’Hitler “latinoamericano” sarebbe uno 007 dell’intelligence statunitense: nome in codice “Cimleody-3”. «Purtroppo l’Ansa non si preoccupa di mettere link a questi fantomatici “media Usa” che avrebbero pubblicato la notizia», scrive Mazzucco. Basta però una breve ricerca: “Newsweek”, per esempio, spiega che si tratta di una semplice suggestione: c’era un signore tedesco che assomigliava a Hitler e sosteneva di essere proprio lui, il Führer.
-
Bruxelles, svelata la lista dei 226 Soros-boys (14 italiani)
Affidabili perché? Amichetti di chi? I parlamentari italiani affidabili per George Soros e la sua Open Society, ma soprattutto per i suoi progetti di diffusione di immigrati e profughi in tutta Europa, sono 14, dei quali 13 del Partito Democratico, che a Bruxelles e Strasburgo sta nel gruppo che ora si chiama “alleanza progressista democratici e socialisti”, e 1 della lista Tsipras, che è Barbara Spinelli. Gli altri sono Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecilia Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella De Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein, Daniele Viotti. I loro nomi compaiono in un documento interno della Open Society che è una mappa dettagliata fino alla maniacalità sul Parlamento Europeo e la sua struttura, le sue ramificazioni, al centro della quale ci sono 226 parlamentari sui 751 dell’intero Parlamento, 7 vicepresidenti, decine di coordinatori e di questori, i membri di 11 commissioni e 26 delegazioni, tutti definiti affidabili alleati già dimostratisi tali o che tali possono diventare, assieme al gruppo dei loro assistenti, collaboratori, funzionari e portaborse a titolo vario.La maggioranza, 82, è nel partito dell’Alleanza progressista dei socialisti e democratici, ma ci sono circa 38 del Partito Popolare Europeo e 36 del gruppo Liberale, 34 della Sinistra Nordica, fino a 7 conservatori e riformisti europei. Un appoggio trasversale. Per carità, le grandi compagnie nell’organizzare attività di lobby così fanno, individuano le persone avvicinabili in una istituzione per disponibilità e per competenza. Ma se si trattasse solamente di individuare chi è vicino a certe opinioni, certe battaglie, a certe campagne in modo ideale, per appartenenza politica e sentimento, perché solo 226 presi nell’intera area progressista del Parlamento, e non solo? Perché solo 14 italiani, quando si suppone che tutti e 31 gli eletti del Partito Democratico dovrebbero condividere le stesse opinioni? Perché nessuno dei 17 eletti dei 5 Stelle? Nessuno sensibilizzabile fra i 13 di Forza Italia?È un bel malloppo quello preparato dalla Open Society che “DCleaks” ha reso noto, e che il governo ungherese, gran nemico di George Soros, ora ritiene di poter utilizzare nella sua furibonda battaglia contro i progetti della Open Society di riempire di profughi e di immigrati tutti i paesi europei. I 226 parlamentari sono elencati per incarichi, competenze, interessi, background, appartenenza politica, paesi di provenienza, ruoli nelle varie commissioni passati presenti e futuri; c’è Martin Schulz, non più presidente perché si è candidato nel partito socialdemocratico tedesco e ha sfidato la Merkel portando il suddetto partito al suo minimo storico. C’è l’italiano Gianni Pittella, che del gruppo Socialista è il presidente. Ci sono nomi famosi come Sergio Cofferati e Barbara Spinelli, e meno noti al pubblico, ma segnalati come influenti nel loro partito e nel Parlamento Europeo, come Roberto Gualtieri.Sull’autenticità del rapporto non c’è il minimo dubbio; su reazioni, annunci e speculazioni che fanno gli ungheresi alcune premesse sono necessarie perché il rapporto tra governo di Budapest e George Soros è di guerra. A dir la verità siamo prossimi alla guerra anche tra gli organismi che dirigono l’Unione Europea e Budapest, ma anche Varsavia, Bratislava e Praga, a cui aggiungere Vienna. Lo scontro ruota intorno alla politica di accoglienza indiscriminata, causa principale anche dell’uscita dell’Inghilterra, sarà bene ricordarlo. Con Soros, Budapest e il governo nazionalista di Viktor Orban hanno un conto doppio, perché George Soros è nato in Ungheria, nel 1930, da ebreo del ghetto di Budapest ai nazisti, imparando magistralmente fin da bambino l’arte della sopravvivenza a modo suo, denunciando ai nazisti i luoghi nei quali altri ebrei erano rifugiati. Da lì è partita la sua straordinaria avventura di finanziere e speculatore, con pelo sullo stomaco come pochi, basta ricordare la svalutazione della sterlina e della lira nel 1992.La Open Society e la filantropia sono venute dopo, ma non sono meno aggressive nei metodi e nei finanziamenti di certi partiti e di certi candidati piuttosto che di altri. Open Society Foundation si propone di “far accettare agli europei i migranti e la scomparsa delle frontiere”, cito il titolo di un progetto. Progetto finanziato di recente per 18 miliardi di dollari con il passaggio di una parte del patrimonio di Soros a Open society. Sarà complottismo, impazza anche negli Stati Uniti, visti i rapporti strettissimi tra Barack Obama e Hillary Clinton e Soros, e lo smacco subito con l’elezione di Donald Trump che proprio non era prevista visto il fiume di soldi profusi, ma l’idea è che per raggiungere l’obiettivo basterebbe negli Stati europei un milione di migranti l’anno, con la collaborazione attiva della sinistra “no borders”, della finanza apolide, dei neoguelfi al potere in Vaticano. Tutte colonie.Nelle parole di Viktor Orban, giudicato pericoloso autocrate nelle capitali dell’Europa occidentale ma estremamente popolare nel suo paese, l’Europa potrebbe diventare presto ostaggio di «un impero finanziario e speculativo che promuove l’invasione orchestrata di nuovi immigrati». Magari Orban è pazzo, ma come mai senza un appuntamento prestabilito né un argomento dichiarato, George Soros può incontrare Jean-Claude Juncker? Se è per questo, ha lungamente incontrato anche il premier italiano, Gentiloni, l’estate scorsa, in piena crisi di barconi. Insomma, a 87 anni compiuti, ma evidentemente ancora sostenuto da un’energia indomabile, il vecchio speculatore si muove come un leader politico mondiale. E liste come questa del Parlamento Europeo aiutano lui ma non aiutano la considerazione e la fiducia degli elettori.(Maria Giovanna Maglie, “Svelata la lista dei 226 parlamentari europei considerati affidabili dal miliardario Soros: gli italiani sono 14, di cui 13 del Pd”, da “Dagospia” del 1° novembre 2017).Affidabili perché? Amichetti di chi? I parlamentari italiani affidabili per George Soros e la sua Open Society, ma soprattutto per i suoi progetti di diffusione di immigrati e profughi in tutta Europa, sono 14, dei quali 13 del Partito Democratico, che a Bruxelles e Strasburgo sta nel gruppo che ora si chiama “alleanza progressista democratici e socialisti”, e 1 della lista Tsipras, che è Barbara Spinelli. Gli altri sono Brando Maria Benifei, Sergio Cofferati, Cecilia Kyenge, Alessia Mosca, Andrea Cozzolino, Elena Gentile, Roberto Gualtieri, Isabella De Monte, Luigi Morgano, Pier Antonio Panzeri, Gianni Pittella, Elena Schlein, Daniele Viotti. I loro nomi compaiono in un documento interno della Open Society che è una mappa dettagliata fino alla maniacalità sul Parlamento Europeo e la sua struttura, le sue ramificazioni, al centro della quale ci sono 226 parlamentari sui 751 dell’intero Parlamento, 7 vicepresidenti, decine di coordinatori e di questori, i membri di 11 commissioni e 26 delegazioni, tutti definiti affidabili alleati già dimostratisi tali o che tali possono diventare, assieme al gruppo dei loro assistenti, collaboratori, funzionari e portaborse a titolo vario.
-
Da dove viene il potere di Putin, l’uomo che non sbaglia mai
Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.Da delegato del Dipartimento per la gestione delle proprietà presidenziali (giugno 1996) Putin ascese alla poltrona di primo ministro (agosto 1999), passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del Consiglio di sicurezza. «Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse», scrive Scaglione su “Linkiesta”. E poi, certo: 31 dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa presidente. «Insomma: Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale?». A questo passaggio, dieci anni fa Scaglione dedicò quasi metà di un libro (“La Russia è tornata”). La tesi: «Putin non è un carrierista di successo, ma un uomo scelto e allevato per il Cremlino». Da chi? «Da chi comandava all’inizio degli anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevano più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il paese». Qualcosa di simile lo racconta anche il filologo Igor Sibaldi, di madre russa, che vede in Putin l’ultimo terminale del nuovo Kgb fondato da Andropov, che già nell’era Khrushev aveva intuito l’inevitabile collasso dell’Urss, fondando una super-struttura segreta incaricata di tenere in piedi la Russia. Lo stesso Gorbaciov era il protetto di Andropov e veniva pure lui da Kgb, cioè dal network dal quale proviene lo stesso Putin.Anche Scaglione sostiene che Putin è il prodotto di un progetto preciso, a lunga scadenza: «Se ho ragione sarà meglio mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con la Russia di Vladimir Putin». Perché è chiaro: se “Vova” è l’astuto arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un piano, «allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può star lì un altro bel po’». Nel 1996 Putin viene chiamato a Mosca, e l’anno dopo Zbigniew Brzezinsky, ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. «Chiaro, no? Sulla Russia, Zibi Brzezinski aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della Ue, per contenerla il più possibile. Ecco, Putin ha mandato tutto questo a banane».Basta fare un piccolo elenco, osserva Scaglione: l’uomo del Cremlino «ha stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province. Frammentare la Russia? Addio». Poi lo “zar” «ha piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento economico del paese ma anche per la sua politica estera: un po’ come la “golden share” del nostro governo su Telecom ma con i modi un po’ più spicci della politica russa». Ovvero: «Mikhail Khodorkovskij vuole portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera, così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio».E’ sul fronte europeo che Putin, secondo Scaglione, ha patito ciò che Brzezinski sperava: «La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più “Vova” riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali (copyright Charles de Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei paesi usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania». Anche perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito, insomma. «E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che curiosamente è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio più che di calcio totale». Però, secondo Scaglione, Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. «Alla spinta americana che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio».L’attivismo del Cremlino nei paesi islamici è plateale: l’intesa con l’Iran, la fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici. E poi «la diplomazia con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende del mercato mondiale del petrolio» sono tutte vicende che «hanno trasformato la Russia in un’insidia vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione». E poi, «sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla», Putin si è lasciato portare verso Est, «cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal Mar Cinese meridionale alla Siria». Cina che adesso «si espande in Africa e in Europa, ma intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda». E poi tante altre cose, «belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle polizie, come ci piace raccontare?».Se così fosse, conclude Scaglione, «avremmo di fronte magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!». “Vova” è bravo, chi può negarlo. «Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico e di qualche amico diventato ingombrante». Ma tutto da solo? «Resto della mia idea di dieci anni fa», insiste Scaglione: Putin è l’ottimo interprete di un grande progetto condiviso dietro le quinte. La pensa così anche Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere) aggiunge un elemento: sostiene che Putin sia affiliato alla Ur-Lodge “Golden Eurasia”, la stessa di Angela Merkel. E’ una delle 36 superlogge internazionali del massimo potere, dove le grandi decisioni vengono vagliate in anticipo sui tempi della politica. Nemmeno il potere sovietico è mai stato estraneo a quel livello decisionale: lo stesso Lenin, scrive Magaldi, fondò a Ginevra la superloggia (reazionaria) “Joseph De Maistre”. «Putin era un colonnello del Kgb, non un generale», sottolinea Sibaldi, come a dire che i generali ci sono e restano nell’ombra, magari non avendo il talento pubblico del frontman che regna al Cremlino. Chiosa Scaglione: «Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che continueremo ad averci a che fare per un bel po’».Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.
-
Magaldi: dite a Civati che i big progressisti erano massoni
Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?Pietra dello scandalo, la polemica accesa da Magaldi contro la “caccia alle streghe” della Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi con accanto il suo vice Claudio Fava, «che nei mesi scorsi ha chiesto le liste dei massoni per valutare presunte infiltrazioni mafiose». Ha protestato il gran maestro del Goi, Stefano Bisi: ma perché non si chiedono anche le liste degli iscritti a partiti, sindacati e associazioni varie? «Una volta tanto ne ha detta una giusta anche Bisi», dice Magaldi, mai tenero col Grande Oriente d’Italia. «Evidentemente c’è una cultura massonofobica, di grande ignoranza e grande pregiudizio», sostiene Magaldi, «tant’è che Claudio Fava è stato anche uno degli estensori di una proposta di legge liberticida, che sarà cassata come incostituzionale fintanto che l’Italia resterà un paese democratico: si vorrebbe vietare ai massoni di ricoprire incarichi pubblici». Per Magaldi, una discriminazione inaccettabile e pericolosa: «Il massone “buono” è sempre quello segreto e occulto, se invece sei un massone a viso aperto devi essere discriminato». Magaldi, peraltro, non è indulgente nemmeno con i “fratelli” in grembiulino: ne ha messi alla berlina a decine, nel bestseller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014, un libro che denuncia i maneggi delle Ur-Lodges, le superlogge al vertice del potere mondiale.L’incidente diplomatico di Londra? Non privo di retroscena movimentati: «Ho rifiutato subito la location, una sala intitolata a Karl Marx», dice Magaldi: «Rispetto Marx come analista economico e grande filosofo, ma aborro l’ideologia marxista perché autoritaria, non democratica, foriera di esiti totalitari e liberticidi». Tra i promotori dell’incontro, oltre a Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt, i “terminali” britannici delle svariate “famiglie” italiane della neo-sinistra antirenziana: dai citaviani di “Possibile” fino al soggetto politico di Anna Falcone e Tomaso Montanari (teatro Brancaccio), fino ad “Articolo 1 Mdp” (D’Alema, Bersani e Speranza). Tra i volti nuovi, una giovane di talento come Rosa Fioravante, legata alla fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. «Lavorando con Moiso – dice Magaldi – hanno gustato il cibo sapido della proposta ideologica “rooseveltiana”: il loro manifesto era insipido, noioso e verboso, tipico di chi pensa di recuperare categorie ottocentesche nella contrapposizione tra capitale e lavoro». In più, la Fioravante ha appena pubblicato un post “rooseveltiano” contro l’ideologia neoliberista della “fine dello Stato”. E s’è messa pure a parlare di Olof Palme, il leader svedese assassinato nel 1986, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, a febbraio.«A proposito: Rita Fioravante e i suoi sapevano che Olof Palme era un illustre massone, oltre che un politico progressista?». Massone, proprio come Magaldi e gli altri, che Civati vorrebbe mettere alla porta. «Noi parliamo da mesi, di Olof Palme, il convegno di Milano servirà a risvegliare i valori socialisti», annuncia Magaldi. «E adesso arriva costei, la Fioravante, e scrive un pezzo proprio su Olof Palme». Strana contaminazione culturale, a tempo di record? E la “fatwa” di Civati sull’ingombrate Magaldi, messo alla porta come massone? «Ci sarà rimasto male: una volta, richiesto di un parere su di lui, ho detto che non mi sembrava un fulmine di guerra», ammette il fondatore del Movimento Roosevelt. «Del resto, il suo consigliere economico all’epoca della battaglia per la segreteria Pd passò armi e bagagli con Renzi: quanto poteva divergere la politica economica di Civati da quella di Renzi? Poi Civati ha contrasato il Jobs Act renziano, è vero. Ma non è che prima del Jobs Act avessimo la piena occupazione, in Italia: la crisi dura da 25 anni, questo è un paese in declino». E poi: qual è la visione democratica e liberale della cittadinanza, per il “massonofobico” Civati?«Non è possibile una persona che rappresenta le istituzioni (Civati è tuttora deputato), dopo aver elaborato con i suoi un programma comune per un evento comune a Londra, dica, ipocritamente: non vado a un incontro con Magaldi perché è massone». Un giudizio netto, da Magaldi: «C’è ipocrisia, perché Civati sapeva benissimo che io fossi massone. E c’è ignoranza, perché mi dicono che Civati sia laureato in filosofia rinascimentale. Spero che non abbia studiato sui Bignami e che abbia qualche cognizione dell’esoterismo rinascimentale che poi si istituzionalizza tra ‘600 e ‘700 e diventa massoneria». Infierisce Magaldi: «Dato che mi pare sia tra quanti vogliono difendere la Costituzione e attuarla a dovere, spero che Civati sappia, per esempio, che il presidente della “commissione dei 75” che ha redatto il testo costituzionale, Meuccio Ruini, era un noto e conclamato massone». Senza contare, aggiunge, che i padri della patria italiana, «quelli che hanno fatto sì che Civati non sia nato nel regno lombardo-veneto ma in Italia», erano tutti massoni.Era massone Giuseppe Garibaldi, primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, e così Cavour, Mazzini e i tanti patrioti, anche lombardi, che si distinsero sin dalle “giornate di Milano” per il loro patriottismo e per la loro militanza massonica e carbonara. Insiste Magaldi, sempre a “Colors Radio”: «Civati non avrebbe dibattuto con il padre della patria Meuccio Ruini? Non avrebbe dibattuto con colui che ha liberato l’Europa dal nazifascismo, Franklin Delano Roosevelt, massone conclamato al pari di Eleanor Roosevelt, madrina dei diritti umani? E non avrebbe collaborato, Civati, con Martin Luther King, Gandhi o Arthur Meier Schlesinger, l’ideologo della New Frontier kennediana? E ancora: non avrebbe interoquito con John Maynard Keynes, le cui teorie economiche sono alla base della socialdemocrazia europea?». A Civati, Magaldi addebita «ignoranza e insipienza storico-critica». Spiacevole, per «un parlamentare laureato in filosofia, che ignora il ruolo dell’esoterismo rinascimentale e poi massonico nell’elaborazione dei valori di democrazia e libertà, e si permette il lusso di porre una discriminante verso qualcuno per ragioni di appartenza spirituale, filosofica, meta-religiosa».Massoni? No, grazie. «Mi sarebbe piaciuto dibattere con Massimo D’Alema, che credo abbia molte responsabilità nella perdita di credibilità delle politiche progressiste nel nostro paese, essendo stato l’interprete italiano della pessima “terza via” altrove declinata da Blair e Clinton, poi sposata dal sedicente centrosinistra». Ma Gioele Magaldi non avrà l’onore di discutere con D’Alema, a Londra: entrambi non saranno presenti al dibattito promosso da esponenti della sinistra italiana anti-Renzi di stanza nella capitale inglese, alle prese con «una sorta di manifesto per rinnovare la politica italiana, come se la rigenerazione della politica debba passare per forza per la rigenerazione della sinistra, anziché della democrazia, cioè dell’interesse del popolo». L’irritazione di Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, nasce dal “niet” sulla sua presenza giunto da Pippo Civati: Magaldi lasciamolo a casa, perché è massone. «Il tutto, dopo settimane di collaborazione tra civatiani e “rooseveltiani” londinesi». Ma sa di cosa parla, Civati? E’ estremanente diretto, Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”: si rende conto, l’onorevole Civati, che erano massoni tutti i fondatori dell’Italia nonché il presidente della commissione che partorì il testo della Costituzione repubblicana, Meuccio Ruini?
-
Tenetevi forte, il vero Russiagate inguaia i Clinton e Obama
Bye bye Clintons. Scommettete che gli stessi che li hanno vezzeggiati e coperti per decenni stanno per farli fuori esattamente come hanno fatto col maiale Weinstein? Il dossier farlocco su Trump e la Russia l’hanno pagato i democratici, e tutti, Fbi compreso, sono stati complici. Uranium One è stata una svendita di patrimonio nazionale e materiale nucleare ai russi, pagata ai Clinton con denaro riciclato. Le due storiacce si intersecano e si intrecciano, partono da lontano, da un accordo di affari in Kazakistan siglato da Bill Clinton, passano per le famose email fatte sparire da Hillary, infangano niente male l’immacolato Barack Obama, il suo consigliere nazionale e il suo attorney-general. Avete letto qualcosa in proposito sui giornali italiani? Sarebbe una notizia. Eppure lo scandalo sta per esplodere, Hillary Clinton ha un bel dichiarare che è tutto un baloney, tutte cazzate, ma la prova del contrario sta nel fatto che ora i giornali suoi alleati e amici si affrettano a pubblicare notizie compromettenti e a ribadire la certezza delle fonti, nel fatto che il Congresso si è deciso a indagare, che persino il superprocuratore dell’inchiesta sul Russiagate sta cambiando direzione di indagini.Tenetevi forte, è proprio vero che a forza di tentare di fregare qualcuno, magari ricorrendo a fake news, arrivano le notizie vere e investono in pieno l’accusatore, in questo caso la candidata trombata Hillary Clinton, l’ex presidente Barack Obama, la sua Amministrazione, l’agenzia federale di investigazione, Fbi. Naturalmente l’affare si complica se uno dei collusi del passato, Robert Mueller, già direttore dell’Fbi, adesso è a capo dell’investigazione sull’avversario, ovvero su Donald Trump e la sua campagna, accusati pesantemente con campagna mediatica oltre che nomina di procuratore speciale, di collusioni con la Russia di Vladimir Putin tali da falsare il risultato elettorale. Ma invece è tutto il contrario, sono stati la campagna Clinton e il Comitato Democratico a pagare il dossier bufala su Trump che innescò il Russiagate. A questa operazione ha lavorato per i democratici proprio Paul Manafort, ovvero l’ex consigliere di Donald Trump, principale accusato dell’inchiesta di oggi. Seguono una serie di domande, alcune delle quali ormai praticamente retoriche.L’Fbi di James Comey ha utilizzato quel dossier pagato dalla campagna Clinton e dal Comitato democratico, e non verificato, per ottenere dalla Corte Fisa un mandato a sorvegliare il team Trump durante e dopo la campagna elettorale? I dati raccolti illegalmente sui componenti del team sono stati comunicati senza necessaria autorizzazione ad almeno due ministri dell’amministrazione Obama? L’operazione truffaldina è stata fatta non solo per danneggiare prima il candidato, poi il presidente, ma anche per coprire le collusioni passate con la Russia, arrivate fino a venderle un quinto dell’uranio, materiale nucleare, americano in cambio di denaro sporco a Bill Clinton e alla fondazione Clinton? L’intera operazione è stata scoperta dall’Fbi e non comunicata al Congresso su ordine del governo Obama? Il capo di allora dell’Fbi che tacque colpevolmente è lo stesso che ora presiede la commissione di inchiesta sul Russiagate?Il tutto cominciò con un viaggio di Bill Clinton nel 2005 assieme al socio canadese della fondazione, Frank Giustra, in Kazakistan a fare accordi con un pericoloso autocrate filorusso, Nursultan A. Nazarbayev, mentre la moglie Hillary era senatore e si preparava a candidarsi alle presidenziali? Frank Giustra era anche il titolare della UrAsia Energy, venduta ad Uranium One nel 2007. Queste notizie sono state tenute accuratamente nascoste per mesi, ipotesi avanzate solo dai pochi media vicini al presidente, come “New York Post”, “Fox News”, fino a “Breitbart News”, ma ora pubblicano scoop e ricostruzioni un giornale progressista come “The Hill”, l’arci avversario “Washington Post”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”, e persino il “New York Times” comincia a ricordarsi di accurate inchieste del passato poi sepolte. Probabilmente vuol dire che la realtà incalza e tocca correre.Viene la confusione a me, figuriamoci a voi. Proviamo ad andare per ordine. Questa vicenda è gravissima, altro che Watergate, lo dico da mesi e lo ribadisco oggi. Naturalmente potete decidere che preferite leggervi sui giornaloni importanti come il “Corriere” racconti puntuti su quanto non sia in realtà ricco Trump, evidentemente ne sanno più di “Forbes”, su come sia stata fondamentale la campagna su Facebook per far vincere le elezioni a Trump, evidentemente con 6500 dollari – tanti su 100mila ne sono stati dedicati al candidato repubblicano – si influenza una campagna presidenziale, sul fatto che Trump tenga appeso sul suo aereo privato, non nella Trump Tower giudicata dal “Corriere” troppo cafona per accettare di viverci, un Renoir che è una crosta perché l’originale sta al museo di Chicago, probabilmente ha ragione il museo, ma ricordare di quanti falsi siano pieni i musei, magari la storia del falsario Mark Landis, non guasterebbe. Se invece decidete che lo scandalo che presto potrebbe fare impallidire Watergate vi interessa, ecco i primi elementi certi.Il famoso dossier che conteneva immagini e racconti di uno scandaletto sessuale protagonista Donald Trump in un albergo di una città dell’Est europeo, e che suggeriva pesanti connections con Mosca e Putin, è stato finanziato e commissionato dalla campagna presidenziale di Hillary Clinton e dal Comitato Nazionale Democratico alla Fusion Gps, il cui presidente e vicepresidente in questi giorni si rifiutano di rispondere alla commissione di Intelligence, invocando il Quinto emendamento, ovvero il diritto a non autoincriminarsi. La Fusion Gps fa capo dal 2016 a Marc Elias, un avvocato che rappresenta la campagna Clinton e il comitato democratico. Fu assoldato un ex agente segreto inglese, Christopher Steele, che aveva mantenuto dei rapporti con Fbi e servizi segreti degli Stati Uniti, che aveva a lungo lavorato in Russia. Confezionò un insieme di pezzi di dossier vecchi in un unico falso, anche piuttosto sfacciato, come poi è risultato essere. Trump in quella città non c’è neanche mai stato. Il tutto è stato pagato circa 9 milioni di dollari. Steele fu tanto preso sul serio che quando incominciò l’indagine sul presunto Russiagate, l’Fbi lo assoldò sia pure per poco tempo.Il famoso dossier ha poi fatto il giro del mondo per alcuni mesi, dopo l’elezione del presidente, al Congresso ci ha pensato il repubblicano John McCain a farlo distribuire, dovrebbe spiegare perché, i giornali lo avevano tutti ma nessuno aveva il coraggio di pubblicarlo perché smaccatamente fasullo, finché non lo fece una piccola pubblicazione, e da lì si parte per il Russiagate. Due parole in più sullo scandalo invece di Uranium One, partendo da alcune precisazioni che finalmente si fanno strada. Basterebbe il mezzo milione di dollari che in una sola volta Putin ha fatto avere per una conferenza a Bill Clinton a suscitare un sospetto di connivenza. Invece tutti concentrati su centomila dollari in tutto di inserzioni su Facebook, che secondo i democratici e secondo anche alcuni giornalisti italiani, avrebbero sfacciatamente favorito l’elezione di Trump. Quelle inserzioni sono cominciate a giugno del 2015, e a controllarle tutte vedrete che sono genericamente messaggi sul razzismo e sul controllo di armi; secondo Marx Penn, analista e stratega politico, sempre di area democratica, sulle elezioni del 2016 si sono soffermate inserzioni per 6.500 dollari.Se qualche impiccio con la Russia va ipotizzato, varranno ben di più i soldi incassati dai Clinton tra conferenze e affare di Uranium One, no? Però, essendo all’epoca della stipula del contratto di vendita la Clinton segretario di Stato e membro di una commissione governativa incaricata degli accordi, non si può accusare solamente lei, ma l’intera amministrazione di Barack Obama, e qui si parla di interessi e sicurezza nazionale. Si parla di aver venduto un quinto della capacità americana di estrarre uranio alla Russia e per l’esattezza a una compagnia di energia nucleare controllata dallo Stato, la Rosatom. La quale nella sua filiale americana, come l’Fbi ben sapeva, si dava un gran da fare in truffe, ricatti riciclaggio di denaro, frodi ed estorsioni. Se l’Fbi indagò e riferì al dipartimento di Giustizia, quest’ultimo nascose, tanto che l’attività della Rosatom americana continua ancora indisturbata per 4 anni. L’avessero rivelata per tempo, la vendita non sarebbe mai avvenuta. C’era un informatore che aveva lavorato sotto copertura il quale voleva riferire tutto al Congresso, e fu minacciato e bloccato dal Fbi. Ora però parlerà. Per ora mi fermo. Tanto siamo solo agli inizi.(Maria Giovanna Maglie, “Il vero Russiagate scoppierà adesso, e travolgerà i Clinton che l’hanno fabbricato, complice Obama”, da “Dagospia” del 26 ottobre 2017).Bye bye Clintons. Scommettete che gli stessi che li hanno vezzeggiati e coperti per decenni stanno per farli fuori esattamente come hanno fatto col maiale Weinstein? Il dossier farlocco su Trump e la Russia l’hanno pagato i democratici, e tutti, Fbi compreso, sono stati complici. Uranium One è stata una svendita di patrimonio nazionale e materiale nucleare ai russi, pagata ai Clinton con denaro riciclato. Le due storiacce si intersecano e si intrecciano, partono da lontano, da un accordo di affari in Kazakistan siglato da Bill Clinton, passano per le famose email fatte sparire da Hillary, infangano niente male l’immacolato Barack Obama, il suo consigliere nazionale e il suo attorney-general. Avete letto qualcosa in proposito sui giornali italiani? Sarebbe una notizia. Eppure lo scandalo sta per esplodere, Hillary Clinton ha un bel dichiarare che è tutto un baloney, tutte cazzate, ma la prova del contrario sta nel fatto che ora i giornali suoi alleati e amici si affrettano a pubblicare notizie compromettenti e a ribadire la certezza delle fonti, nel fatto che il Congresso si è deciso a indagare, che persino il superprocuratore dell’inchiesta sul Russiagate sta cambiando direzione di indagini.
-
Altro che Bankitalia: comandano i boss del Casinò-Europa
Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.«Possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano», è l’accusa. «Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia», dissero i parlamentari europei. Questo “pericolo per la democrazia”, osserva Baranes, diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto del Ceo. «In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1». Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento Europeo su una direttiva comunitaria riguardante gli “hedge fund” e le “private equity”, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario. Al Parlamento Europeo, continua Baranes, sono attivi gruppi come l’Epfsf (European Parliamentary Financial Services Forum), che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento Europeo e l’industria dei servizi finanziari”.«Questo “dialogo” – scrive Baranes – comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali Jp Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri». E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in sede Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. «Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili». Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.«Analogamente – aggiunge Baranes – il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati». Uno squilibrio «ancora più impressionante» quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti”, ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche: «In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo». Nel “De Larosière Group on financial supervision in the European Union”, figurano ben 62 membri del mondo finanziario, e nessuno da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse. «Sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5». La musica non cambia nel gruppo di esperti sui derivati: 86 provengono dal mondo finanziario, e nessuno da Ong, consumatori o sindacati.Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione Europea ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati. «Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”». La parola stakeholder, precisa Baranes, viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. «Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei». I risultati? Ovvi: «Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci». Sicché, il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi «continua a lavorare indisturbato», mentre – al culmine del paradosso – sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita «a ritrovarsi con il cerino in mano e a dover accettare sacrifici e austerità».Osserva sempre Baranes: «La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati». Altro capitolo cruciale: «La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto». A settembre 2013 il commissario europeo Michel Barnier annunciava tranquillamente in un comunicato stampa: «Dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, «per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo», a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della crisi, «la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse».Era il 2014, ma da allora non si è andati oltre le parole: nessuno osa rievocare il Glass-Steagall Act creato da Roosevelt per mettere l’economia al riparo dalla finanza speculativa: quella provvidenziale diga, che separava il credito ordinario dalle banche d’affari, fu abbattuta da Bill Clinton. E non un partito, in Europa, che oggi metta in agenda la questione: si preferisce restare al riparo di piccole polemiche, come quelle che investono la presunta omessa vigilanza di Bankitalia (Ignazio Visco), in realtà – come tutti sanno e fingono di non sapere – messo lì apposta, come i predecessori, per chiudere un occhio sul “grande gioco” deciso lontano da Roma. «Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio», conclude Andrea Baranes, che cita il compianto sociologio Luciano Gallino. «Il paradosso – disse – è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli Stati».Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.
-
Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
-
Zero crescita: peggio dell’Italia solo Grecia e Centrafrica
Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.Escludendo i paesi di cui sopra, la Grecia ha sperimentato la maggior riduzione assoluta del Pil reale rispetto a qualsiasi paese al mondo nel 21 ° secolo e (insieme con la Repubblica Centrafricana) il terzo peggior tasso di crescita economica di qualsiasi paese. Gli evidenti effetti negativi dell’appartenenza all’Eurozona non sono limitati alla Grecia. Subito dopo la Grecia e la Repubblica Centrafricana viene l’Italia, che ha visto la quarta più lenta crescita economica di tutto il mondo nel 21° secolo, una crescita a malapena dell’1% nel corso degli ultimi 16 anni. Non molto lontano, il Portogallo risulta la sesta economia più lenta al mondo, con una crescita negli ultimi 16 anni del 3%. Da notare che tra i 25 paesi con la crescita economica più lenta del mondo, sette sono paesi dell’Eurozona, tra cui la Germania (un po’ sorprendente), i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia. La Danimarca, che è nell’Ue, ma non nell’area dell’euro (però ha la moneta agganciata all’euro), è anche lei tra i 25 paesi con la crescita più lenta al mondo. Comunque possiamo congratularci con i leader economici dell’Eurozona per avere ridotto l’economia della Grecia meno (parlando di percentuali) di quanto ha fatto un dittatore di 93 anni come Robert Mugabe nello Zimbabwe e delle varie fazioni che governano lo Yemen lacerato dalla guerra.In altre parole, negli ultimi 17 anni la crescita economica greca, italiana e portoghese è stata peggiore rispetto a: Iraq (nonostante 15 estenuanti anni di guerra e insurrezione), Iran (nonostante gli anni di schiaccianti sanzioni internazionali), Ucraina (nonostante il suo conflitto con la Russia), Liberia (nonostante la guerra civile e migliaia di persone uccise da Ebola), Sudan (nonostante anni di genocidio, guerra civile e la divisione in due del paese) e di quasi tutti gli altri paesi del mondo. Naturalmente, mantenere elevati tassi di crescita è più difficile per le grandi economie sviluppate. Tuttavia, questa non è una scusa per la crescita negativa o vicina a zero osservata in Grecia, Italia e Portogallo. Tutte le grandi economie sviluppate al di fuori dell’Eurozona infatti sono cresciute notevolmente nello stesso periodo. Questo è particolarmente vero visto che anche l’economia – famigerata per la sua lentezza – del Giappone è cresciuta di un relativamente veloce 13%, la Svizzera del 31%, il Regno Unito del 32%, gli Stati Uniti del 33%, il Canada del 36%, l’Australia del 59%, la Russia del 71% e la Cina di un incredibile 325%. Sebbene la crescita economica non sia l’unica misura importante per giudicare un’economia, né garantisca che la ricchezza economica sia distribuita in modo equo, in assenza di crescita, semplicemente, non è possibile avere sostanziali miglioramenti economici per la popolazione di un paese.Ciò che sta succedendo in diverse economie dell’Eurozona non può essere attribuito a un rallentamento economico ciclico, né a un recupero lento dalla crisi finanziaria del 2008, né è semplicemente una conseguenza inevitabile per un’economia sviluppata. Lo smentiscono le prestazioni migliori di praticamente qualsiasi altro paese sulla Terra, dai più grandi paesi avanzati ai paesi del Terzo mondo che hanno affrontato guerre, genocidi, epidemie, corruzione e rivoluzioni. Grecia, Italia, Portogallo e alcuni altri paesi dell’Eurozona soffrono di profondi problemi strutturali (per esempio una moneta strutturalmente sopravvalutata) e di una gestione economica tra le più incapaci del mondo. Forse è giunto il momento di iniziare a considerare i leader economici dell’autodichiarata élite che gestisce l’eurozona responsabili dei risultati che hanno ottenuto. E, dato che la Grecia continua a lottare per sostenere il suo debito sovrano non ripagabile, vale la pena di notare che i sette paesi africani e centroamericani che hanno scelto di fare default sui propri debiti sovrani a partire dal 2000, sono tutti cresciuti più della Grecia (con la probabile eccezione del Venezuela). Forse la Grecia dovrebbe cogliere il suggerimento.(Taps Coogan, “Crescita economica mondiale 2000-2016: Grecia e Italia agli ultimissimi posti”, da “The Sounding Line”, dell’11 agosto 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Nel mese di maggio, qui su “The Sounding Line”, abbiamo sottolineato che l’economia greca si è ridotta del 9% da quando ha adottato l’euro nel 2002, dimostrando che la Grecia non ha tratto sostanzialmente alcun beneficio economico dall’ingresso nell’euro e ha perso l’equivalente di un’intera generazione di crescita e prosperità. «L’economia greca oggi è ridotta del 9 % rispetto a quando la Grecia ha adottato l’euro, nel 2002. Solo per questo fatto l’economia greca ha sperimentato una delle peggiori performance di “crescita” economica a lungo termine di tutto il mondo». L’affermazione che la Grecia ha sperimentato una delle peggiori performance economiche del mondo potrebbe sembrare un’iperbole, ma purtroppo non è così. Per illustrare ulteriormente questo punto, abbiamo analizzato il prodotto interno lordo reale (Pil) di ogni paese del mondo dal 2000 al 2016 in valuta locale, tenuto conto dell’inflazione in base ai dati della Banca Mondiale. Gli unici paesi che mancano sono quella manciata di Stati per i quali i dati economici pertinenti non erano disponibili per queste cause: conflitti militari (Somalia, Afghanistan, Siria); nel 2000 non esistevano (Sud Sudan); sono micro-Stati (Monaco, Andorra); oppure, nel caso del Venezuela e della Corea del Nord, hanno un tasso di inflazione che non è più calcolabile o è sconosciuto. In definitiva, i dati sono risultati disponibili per 181 paesi.