Archivio del Tag ‘Urss’
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Attenzione al cretino, è molto più pericoloso del ladro
Odiamo i ladri di denaro pubblico, giustamente. Ma non vediamo il vero pericolo: gli imbecilli. Sono loro, gli incapaci, a firmare i disastri peggiori. Aldo Giannuli consiglia di sfogliare i libri di storia: dimostrano che le catastrofi del pianeta non sono mai state causate dai disonesti, ma dagli inetti. Certo, «rubare denaro pubblico è un gesto assolutamente odioso che delegittima la democrazia, spesso affetta dalla corruzione, e crea disfunzioni sistemiche anche gravi», dunque «cacciare i politici corrotti è un obbligo». Ma, mentre l’opinione pubblica teme la corruzione dei politici, non fa caso alla piaga dell’inettitudine: «Il cretino fa tenerezza: si è convinti che, poverino, sbagli in buona fede. Per cui, pazienza se non ne imbrocca una». Non lo fa apposta: ha sbagliato, ma imparerà. Sintetizza Giannuli: voi da chi vi fareste operare, da un giovane medico onestissimo ma inesperto o da un chirurgo mascalzone, che magari prende tangenti sulle forniture dell’ospedale e rilascia certificati compiacenti ai mafiosi, però salva il 100% dei pazienti? «E cosa vi fa pensare che la politica sia diversa dalla chirurgia?».«Noi non dobbiamo scegliere “Mister onestà” o proclamare santo qualcuno, dobbiamo scegliere il miglior chirurgo o il politico più in grado di risolvere i problemi del paese», scrive Giannuli nel suo blog. Obiezione: come fidarsi di un disonesto mettendogli in mano la propria vita? «Debbo deludervi, l’esperienza storica insegna che molti grandi sono stati autentici banditi: avete idea dei traffici del “signor” Giulio Cesare? O della grande disinvoltura di Napoleone in materia di denaro pubblico? Danton era un corrotto terrificante, ma non c’è dubbio che sarebbe stato assai preferibile che vincesse lui al posto di quel fanatico dell’Incorruttibile Robespierre». Vogliamo parlare di Cavour? «Con il denaro pubblico fece scavare il grande canale che oggi porta il suo nome e che, del tutto incidentalmente, ha irrigato essenzialmente terre che gli appartenevano». Garibaldi? «Il figlio letteralmente rubò un milione del tempo al Banco di Napoli e tentò una maxi-speculazione con il progetto della deviazione del Tevere, sempre con la protezione e benedizione paterna». L’eroe? Un genio militare ma, «politicamente, era un vero imbecille».Un altro peso massimo della storia patria, Giolitti, era «un super-disonesto» ma, al tempo stesso, «un grande riformista che avrebbe tenuto il paese fuori dal carnaio della Prima Guerra Mondiale, a differenza di Salandra che ce lo portò». Lyndon Johnson: «Non era esattamente uno stinco di santo, ma fu il presidente più progressista e riformatore dopo Roosevelt». Il generale Maurice Gamelen, capo dello stato maggiore francese nel 1940, era un soldato integerrimo, al di sopra di ogni sospetto, ma «sotto il suo comando la Francia perse la guerra in quattro settimane e le truppe tedesche sfilarono sotto l’arco di trionfo». Pio X? «Un santo, però fu anche uno dei peggiori papi del Novecento, persecutore del modernismo», l’uomo che impedì ogni rinnovamento della Chiesa. In Urss, Laurentj Beria – capo del Kgb – disdegnava denaro, privilegi e benefici, «ma fu un criminale responsabile delle peggiori repressioni di epoca staliniana».Il presidente americano Herbert Hoover? «Non era particolarmente chiacchierato sul piano morale, ma fu un totale incapace che portò gli Usa al disastro nella crisi del 1929». Anche per questo, sottolinea Giannuli, è bene ricordarsi che «l’incompetenza è la maggior forma di disonestà, perché «se non sei pari al compito che ti è assegnato, ma resti al tuo posto, sei il peggiore delinquente che si possa trovare». Molti dei maggiori disastri della storia «sono ascrivibili più alle scelte di personaggi inetti che a personaggi corrotti». Spiegazione: se il corrotto è intelligente, ha tutto l’interesse ad allevare la sua “gallina dalle uova d’oro”. «Il che non costituisce l’autorizzazione a rubare a man salva, anche perché poi i corrotti non sono tutti Cavour, Danton e Giulio Cesare». Il punto è un altro: «Un corrotto puoi sempre sorvegliarlo, circondarlo di persone oneste e capaci, creare un sistema di controlli e, al limite, punirlo. Ma con un cretino cosa puoi fare?».Nel caso di un’emergenza che richieda genialità, prontezza di riflessi e inventiva, «il governante capace, intelligente e preparato forse sarà all’altezza della situazione, anche se dovesse essere un corrotto, mentre è certo che l’inetto sbaglierà tutto provocando catastrofi, anche se fosse il più onesto degli uomini». Stendhal diceva che “l’onestà è la virtù dei mediocri”. Certo esagerava, conclude Giannuli, «ma non sbagliava di molto, se considero il “festival della mediocrità” che stiamo vivendo, dove l’“onestismo”, insieme alla nonviolenza, al buonismo e all’ambientalismo fanatico è uno dei principali ingredienti della torta alla glassa della sinistra “politicamente corretta”». Attenzione: «Anteporre l’onestà alla competenza è una delle più sicure stimmate dell’antipolitica corrente: un segno di grande modestia intellettuale». Punire i disonesti? «Benissimo, aprire le celle. Ma solo dopo aver convocato il plotone di esecuzione per gli imbecilli».Odiamo i ladri di denaro pubblico, giustamente. Ma non vediamo il vero pericolo: gli imbecilli. Sono loro, gli incapaci, a firmare i disastri peggiori. Aldo Giannuli consiglia di sfogliare i libri di storia: dimostrano che le catastrofi del pianeta non sono mai state causate dai disonesti, ma dagli inetti. Certo, «rubare denaro pubblico è un gesto assolutamente odioso che delegittima la democrazia, spesso affetta dalla corruzione, e crea disfunzioni sistemiche anche gravi», dunque «cacciare i politici corrotti è un obbligo». Ma, mentre l’opinione pubblica teme la corruzione dei politici, non fa caso alla piaga dell’inettitudine: «Il cretino fa tenerezza: si è convinti che, poverino, sbagli in buona fede. Per cui, pazienza se non ne imbrocca una». Non lo fa apposta: ha sbagliato, ma imparerà. Sintetizza Giannuli: voi da chi vi fareste operare, da un giovane medico onestissimo ma inesperto o da un chirurgo mascalzone, che magari prende tangenti sulle forniture dell’ospedale e rilascia certificati compiacenti ai mafiosi, però salva il 100% dei pazienti? «E cosa vi fa pensare che la politica sia diversa dalla chirurgia?».
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Canfora: il capitalismo sta benissimo e impone i suoi Renzi
Troppe volte dato per morto, a livello mondiale il capitalismo è appena cominciato: lo dimostra il boom dell’economia capitalistica in tre quarti del pianeta, in regioni – a partire da Russia e Cina – in cui l’economia era stata lungamente rurale o comunque arretrata. Lo sostiene un insigne storico italiano come Luciano Canfora, che avverte: il grande capitale ormai «governa direttamente», facendo a meno della mediazione politica, delle Costituzioni da difendere, dei principi fondamentali. Comandano i grandi banchieri: «Se si fidano del personale che hanno al proprio servizio lo lasciano fare, altrimenti i capitalisti intervengono direttamente». E’ già successo in Francia con Pompidou, dopo la parentesi bonapartistica di De Gaulle. Oggi il denaro la fa da padrone e la democrazia è diventata una scatola vuota: e l’esperienza del socialismo reale, che nessuno rimpiange, può essere rivista come un tentativo per mettere un argine al predominio del business come unico potere. Ma l’Urss cadde perché non seppe risolvere le diseguaglianze al suo interno. E sottovalutò la vitalità del capitalismo.L’esperienza sovietica è crollata, spiega Canfora, intervistato da Vittorio Bonanni, perché – senza uguaglianza – non era più credibile per i suoi stessi concittadini e sudditi. «La gara spaziale, le guerre stellari, il contrasto militare in tutto il pianeta: sappiamo queste cose. Però è stata una gloriosa esperienza durata abbastanza, una settantina d’anni del XX secolo. Per cui se ne deve parlare con rispetto, ma anche con la convinzione che è stato un periodo eroico della storia umana». Ma la constatazione più rilevante è un’altra: nel presupposto che mise in moto un processo rivoluzionario di grandissima estensione, a livello euroasiatico, c’era un errore di fondo: «Ci si illudeva di essere giunti al capolinea della storia, di essere al punto di arrivo del sistema capitalistico». Intanto perché si aveva una percezione molto limitata e parziale della realtà americana, sottovalutata in pieno. Solo Trotsky aveva conosciuto l’America. Oggi possiamo solo constatare che «l’esperienza del socialismo reale ha modernizzato due gigantesche aree del mondo, l’ex impero russo e la Cina, trascinandole fuori da una situazione semi-feudale», in cui la Cina «era in una posizione semi-coloniale» mentre la Russia era «un impero separato, essenzialmente agricolo e arretrato».Crollando sul piano politico, proprio il socialismo reale «ha creato i presupposti per un gigantesco sviluppo del capitalismo in quei tre quarti del mondo che ancora non erano a quel livello: quindi la storia del capitalismo è appena cominciata», anche se «nessuna forma economico-sociale è eterna». Il capitalismo «ha una storia molto più lunga di quella che allora si era pensato, nell’illusione determinata dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dalla crisi gigantesca del 1917-18 e 19». Ma attenzione: «Erano degli europei, e non cittadini del mondo, quelli che pensavano queste cose. E come europei, vedendo crollare tre imperi che erano stati gli architrave della storia – quello tedesco, quello austroungarico e quello zarista – si erano convinti che si stava voltando pagina nella storia dell’umanità. In parte era vero, ma non nella frettolosa conclusione che eravamo arrivati al dunque. Nessuno può pilotare la storia», avverte Canfora. Men che meno l’Europa, che per secoli ha osservato il mondo con occhiali essenzialmente eurocentrici.Oggi, l’Europa si è ridotta ad essere «una piccola articolazione della politica statunitense». Aggiunge Canfora: «E’ comico essere europeisti, ed è comico tutto il ciarpame che ci viene ammanito quotidianamente. Che non è neanche oppio della storia: è una droghetta, mariuana». Problema: come contrastare tutto questo? «Secondo me si tratta di una battaglia culturale, intellettuale, scolastica, educativa, dovunque ci siano spazi di libertà di parola. Perché le forze politiche nate sull’onda del Novecento sono arrivate al lumicino. Si è realizzato in forme diverse, nei vari paesi, quello che Gramsci aveva intuito sviluppando in modo originale certe formulazioni del pensiero elitistico tardo-ottocentesco, come quello di Pareto e dello stesso Croce: che cioè siamo in una realtà di partito unico articolato, diversificato al proprio interno ma sostanzialmente unico». Le conquiste sociali del movimento operaio, tradotte in Costituzioni? Finite, con l’espulsione della forza operaia dalla storia politica. «Quel che resta fa un’altra cosa, fa quello che tradizionalmente fanno i partiti nei regimi capitalistici, cioè i comitati di affari della borghesia – giustamente divisi tra loro, altrimenti l’inganno elettorale non funzionerebbe».Durissimo il giudizio su Renzi: «Il liquidatore del comunismo italiano è già arrivato. E’ un gaglioffo di 40 anni che sta facendo la parte sua e, localmente, sta attuando il piano di Gelli di “Rinascita democratica”, cioè due partiti sostanzialmente equivalenti che si dividono il potere». Non che gli altri scenari europei non sono molto diversi: la Spd, un tempo leader della socialdemocrazia, «è ormai lo sgabello della Merkel e non può fare altro, perché da sola non ce la farà più: prendiamone atto e cerchiamo di capire se si intravedono altre possibilità». Luciano Canfora guarda al potenziale intellettuale mobilitabile dal «magma gigantesco del mondo della scuola», perché per fortuna «tutto questo sviluppo ha prodotto un’acculturazione di massa, magari scandente ma diffusissima, e con un inevitabile bisogno di capire». Quindi, «tutti quelli che hanno a che fare con quel mondo si rimbocchino le maniche e cerchino di portare chiarezza».Troppe volte dato per morto, a livello mondiale il capitalismo è appena cominciato: lo dimostra il boom dell’economia capitalistica in tre quarti del pianeta, in regioni – a partire da Russia e Cina – in cui l’economia era stata lungamente rurale o comunque arretrata. Lo sostiene un insigne storico italiano come Luciano Canfora, che avverte: il grande capitale ormai «governa direttamente», facendo a meno della mediazione politica, delle Costituzioni da difendere, dei principi fondamentali. Comandano i grandi banchieri: «Se si fidano del personale che hanno al proprio servizio lo lasciano fare, altrimenti i capitalisti intervengono direttamente». E’ già successo in Francia con Pompidou, dopo la parentesi bonapartistica di De Gaulle. Oggi il denaro la fa da padrone e la democrazia è diventata una scatola vuota: e l’esperienza del socialismo reale, che nessuno rimpiange, può essere rivista come un tentativo per mettere un argine al predominio del business come unico potere. Ma l’Urss cadde perché non seppe risolvere le diseguaglianze al suo interno. E sottovalutò la vitalità del capitalismo.
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Gorbaciov: fame e ingiustizia non si curano con la guerra
Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si sfferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».Per Gorbaciov è venuta meno la fiducia reciproca, grazie alla quale fu possibile metter fine all’incubo nucleare della guerra fredda, «quella fiducia in assenza della quale le relazioni internazionali nel mondo globale risultano inconcepibili». Gli anni ‘90 dovevano portare a una nuova Europa e a un ordine mondiale più sicuro? «Ma invece di costruire nuovi meccanismi e nuove istituzioni a tutela della sicurezza europea, e di inseguire una decisiva smilitarizzazione della politica europea – cosa che per inciso era stata promessa nella Dichiarazione di Londra della Nato – alla fine della guerra fredda l’Occidente, e in particolar modo gli Stati Uniti, dichiararono vittoria». Peggio: «L’euforia e il trionfalismo diedero alla testa dei leader occidentali: approfittandosi dell’indebolimento della Russia, e dell’assenza di un contrappeso, proclamarono il proprio monopolio della leadership e del dominio del mondo, rifiutandosi di ascoltare gli inviti alla cautela». Alla crisi in Ucraina si è arrivati per gradi, attraverso l’allargamento della Nato, i nuovi piani missilistici, le guerre in Iraq, Libia e Siria. Chi paga più di tutti? «L’Europa, la nostra casa comune».«Invece di diventare un leader del cambiamento nel mondo globale – sostiene Gorbaciov – l’Europa si è trasformata in un’arena di sconvolgimenti politici, di competizione fra sfere d’influenza e, infine, di conflitto armato. Inevitabilmente, la conseguenza di tutto ciò è l’indebolimento europeo, proprio nel momento in cui altri centri di potere e d’influenza stanno crescendo. Se va avanti così, l’Europa perderà la possibilità di far sentire con forza la propria voce nelle questioni internazionali, finendo col diventare gradualmente sempre più irrilevante». Minaccioso e pericoloso il degradarsi della partnership russo-tedesca, senza la quale «in Europa non può esserci sicurezza». Come uscirne? «L’esperienza degli anni ‘80 dimostra che, anche in situazioni apparentemente disperate, ci dev’essere una via d’uscita», dal momento che «la situazione in cui il mondo si trovava allora non era né meno urgente né meno pericolosa di quella in cui si trova oggi». Quello che allora salvò il mondo fu il dialogo, oggi praticamente scomparso: persono Mitterrand e la Thatcher riuscirono ad accettare la riunificazione della Germania, che temevano.Prima regola: tornare a parlarsi, come sembrano suggerire gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco e sul disimpegno militare in Ucraina, ma anche gli accordi trilaterali sul gas fra Russia, Ucraina e Ue, e la stessa sospensione dell’escalation delle sanzioni reciproche. «In questo contesto – aggiunge Gorbaciov – vi invito a prendere attentamente in considerazione le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin durante il Forum di Valdai. Nonostante la durezza delle sue critiche nei confronti dell’Occidente, e in particolar modo degli Stati Uniti, nel suo discorso intravedo il desiderio di trovare il modo per abbassare il livello di tensione, e in ultima analisi di costruire delle nuove basi per una partnership». Due gli obiettivi: cooperazione nelle sfide globali e sicurezza paneuropea. «I problemi globali – terrorismo ed estremismo, incluso quello di natura settaria; la povertà e la disuguaglianza; l’ambiente, il problema delle risorse, e le migrazioni; le epidemie – stanno tutti peggiorando ogni giorno. Per quanto diversi essi siano fra loro, c’è un tratto che li accomuna tutti: nessuno di questi richiede una soluzione militare. Eppure i meccanismi politici necessari a risolverli mancano, o risultano disfunzionali. Le lezioni di una crisi globale continua dovrebbero convincerci della necessità di cercare un nuovo modello che garantisca sostenibilità politica, economica e ambientale. Questo è un problema che dev’essere affrontato adesso, senza ulteriori ritardi».Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si afferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».
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Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
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Ebola e bioterrorismo, chi tocca muore: strage di scienziati
«Il pericolo, nella ricerca della verità, è che qualche volta la si trova» (William Faulkner). Nel periodo compreso tra il 12 novembre 2001 e l’11 febbraio 2002, ben sette microbiologi scoprono a proprie spese che fare il loro mestiere è più pericoloso che correre in Formula Uno, fare bungee-jumping tutti i week-end e coltivare l’hobby del sesso non protetto. Anche altri microbiologi faranno in seguito una brutta fine. Non tutti i microbiologi sono tuttavia egualmente a rischio; i microbiologi specializzati in sequenziamento del Dna sarebbero i più suscettibili di morire in circostanze “strane ed inconsuete”. Precisiamo che il sequenziamento del Dna è una delle tecniche necessarie dell’emergente campo di applicazione delle armi biologiche di distruzione di massa, soprattutto per ciò che riguarda la creazione di nuovi virus e batteri. Tuttavia, il mestiere di microbiologo era diventato a rischio già qualche tempo prima. Curiosamente, proprio all’indomani dell’11 Settembre o giù di lì.Il 4 ottobre 2001, infatti, un aereo commerciale in volo tra Israele e Novosibirsk fu abbattuto “per errore” sopra il Mar Nero da un missile terra-aria ucraino fuori rotta di 100 chilometri rispetto a presunte esercitazioni in atto. Inizialmente si diffuse la voce che si trattasse di un volo charter, invece si trattava di un regolare volo di linea, il volo “Air Sibir 1812”. Novosibirsk è nota come la capitale scientifica della Siberia, ed è riconosciuta come sede di importanti ricerche microbiologiche. Si ritiene che sull’aereo precipitato si trovassero almeno cinque microbiologi israeliani. Il 12 novembre 2001, Benito Que, 52 anni, esperto in malattie infettive e biologo cellulare, venne trovato in coma per strada vicino al laboratorio della Università Medica di Miami, dove lavorava. Il “Miami Herald” scrisse che sarebbe stato assalito da quattro persone armate di mazze da baseball, ma la versione ufficiale fu che era stato colto da malore. Morì il 6 dicembre. Era esperto di sequenziamento del Dna. Aveva lavorato con Don C. Wiley e con David Kelly, altri due microbiologi morti “suicidi”.Quattro giorni dopo, il 16 novembre 2001, Don C. Wiley, 57 anni, uno dei più eminenti esperti americani del settore, scomparve. La sua auto a noleggio fu trovata abbandonata sull’Hernando de Soto Bridge vicino a Memphis, Tenn, col serbatoio pieno e le chiavi nel cruscotto. Wiley era appena uscito da una cena ed era in procinto di partire per una vacanza con la famiglia. Il suo corpo fu trovato il 20 dicembre nel Mississipi, a 500 chilometri di distanza. La tesi ufficiale fu che, forse a causa di una vertigine, fosse caduto nel fiume dal ponte. Wiley era un esperto su come il sistema immunitario risponda ad attacchi virali come l’Hiv, l’Ebola e l’influenza. Aveva vinto un importante premio per il suo lavoro nel campo dei vaccini anti-virali. Si occupava di sequenziamento del Dna. Aveva lavorato con David Kelly.Il 23 novembre 2001, Vladimir Pasechnik, 64 anni, biologo specializzato in passatempi simpatici come la vaporizzazione di peste bubbonica, fu trovato morto a Wiltshire, Inghilterra, non lontano da casa. Pasechnik era stato responsabile per lo sviluppo di armi biologiche in Unione Sovietica ed era passato al blocco occidentale nei primi anni Novanta. Il giorno dopo, 24 novembre, un aereo della Crossair precipitò in Svizzera. Tra i passeggeri vi erano tre eminenti israeliani: Yaakov Matzner, 54 anni, preside di medicina della Università Ebraica, Amiramp Eldor, 59 anni, capo del dipartimento di ematologia dell’ospedale Ichilov di Tel Aviv, e Avishai Berkman, 50 anni, direttore del dipartimento di salute pubblica di Tel Aviv. Il 10 dicembre, Robert Schwartz, 57 anni, fu trovato assassinato nella sua casa di campagna nella contea di Loudoun, in Virginia. Si occupava di sequenziamento del Dna e organismi patogeni.L’11 dicembre, Set Van Nguyen, 44 anni, fu trovato morto all’ingresso di una camera refrigerata nel laboratorio dove lavorava, a Geelong nello Stato di Victoria, in Australia. Van Nguyen era entrato nella camera refrigerata senza accorgersi che era satura di un gas velenoso, che lo aveva ucciso rapidamente. Nello stesso centro di ricerca, cinque anni prima era stato isolato un virus della famiglia delle Paramyxoviridae, lo stesso ceppo al quale appartiene il virus della Sars. Tale virus era stato identificato come trasmissibile agli esseri umani. Il 9 febbraio 2002, Victor Korshunov, 56 anni, direttore della subfacoltà di microbiologia alla Università statale medica di Mosca, fu trovato morto in una strada. Altri due scienziati russi, Ivan Glebov ed Alexi Brushlinski, erano stati uccisi nelle settimane precedenti.L’11 febbraio 2002, Ian Langford, 40 anni, fu trovato morto nella sua residenza a Norwich, Inghilterra. Il 27 febbraio, Tanya Holzmayer, 46 anni, scienziata russa emigrata negli Stati Uniti, fu uccisa a colpi di pistola da un altro microbiologo, Guyang Huang, il quale poco dopo fu trovato morto in un parco con la pistola vicino alla propria mano. La Holzmayer si occupava di genoma umano. David Wynn-Williams, 55 anni, astrobiologo impegnato nella ricerca sulla possibile esistenza di microbi extraterrestri, il 24 marzo morì investito da un’auto mentre faceva jogging. Il giorno dopo, Steven Mostow, 63 anni, noto come “dottor influenza” per la sua esperienza nel trattamento dell’influenza, morì schiantandosi col suo Cessna in fase di atterraggio, apparentemente per il distacco di uno dei motori. Mostow era anche un noto esperto in bioterrorismo.Il 24 giugno 2003 morì in Africa il dottor Leland Rickman, 47 anni, apparentemente per un malore. Era un esperto di malattie infettive, nonché consulente in materia di bioterrorismo. Da ultimo (ma siamo sicuri?), il 17 luglio, David Kelly, 59 anni, esperto microbiologo nonché consulente in armi biologiche di distruzione di massa per il governo britannico, fu trovato morto in un bosco. L’inchiesta terminò con una dichiarazione di suicidio, ma ogni evidenza suggerisce che si sia invece trattato di un omicidio. Mesi dopo, emersero testimonianze sul fatto che Kelly sarebbe stato in procinto di scrivere un libro sui programmi di guerra biologica delle grandi nazioni. C’è chi aggiunge alla lista anche Jeffrey Paris, 49 anni, trovato spiaccicato a fianco di un parcheggio automobilistico il 6 novembre 2001, e Christopher Legallo, 33 anni, analista di problemi del terrorismo, schiantatosi in aereo il 30 settembre 2002. Su quest’aereo avrebbe dovuto trovarsi anche sua moglie, Laura Koepfler, analista nel campo delle armi di distruzione di massa, ma aveva cambiato programma all’ultimo momento. Qui mi fermo, ma gli strambi decessi di microbiologi sarebbero proseguiti in seguito.Secondo Maurizio Blondet, nel giugno 2004 la somma dei microbiologi morti in circostanze anomale sarebbe giunta a ventiquattro. Per sapere se la morte di tutti questi microbiologi è solo un’anomalia statistica degna di nota, bisognerebbe conoscere la quantità esatta di microbiologi che ci sono al mondo e calcolare se il tasso percentuale di decessi bizzarri è superiore alla norma. Non ho questo dato, né tutto sommato mi interessa. Certe volte, il dubbio è di gran lunga preferibile alla certezza. Preferisco sbagliarmi senza esserne sicuro piuttosto che essere sicuro di non sbagliarmi. Per la seconda edizione del libro (“Il mito dell’11 Settembre, l’opzione del dottor Stranamore”), nel 2007 aggiungiamo per scrupolo che la Sfiga dei Microbiologi prosegue imperterrita. I 15 microbiologi sono nel frattempo cresciuti sino a varie decine. Elencarli tutti non avrebbe alcun senso, ne riportiamo solo alcuni a mo’ di esempio.John Clark, un microbiologo i cui studi avevano aperto la strada alla clonazione della famosa pecora Dolly, si impicca il 12 agosto 2004. Leonid Strachunsky, specialista nella creazione di microbi resistenti alle armi biologiche, ucciso l’8 giugno 2005 da una bottiglia di champagne che anziché dargli alla testa gli ha dato sulla testa. Un bel colpo secco. David Banks, esperto in prevenzione di epidemie e quarantene, muore l’8 maggio 2005 a bordo del solito aereo che casca. Matthew Allison, biologo molecolare, il 13 ottobre 2004 entra nella sua auto parcheggiata che esplode come succede solo nei film. E terminiamo i nostri esempi con Antonina Presnyakova, scienziata che si occupava direttamente di armi biologiche e che il 25 maggio 2004 crede anch’essa di trovarsi in un film e quindi si punge per sbaglio con un ago infetto di Ebola, che ovviamente la uccide. Se non ne avete abbastanza, su Internet la lista continua.Non è la prima volta che scienziati di un settore specifico muoiono in rapida successione temporale in condizioni misteriose. Era accaduto pochi anni prima in Inghilterra ad almeno sei scienziati della Marconi (c’è chi dice che furono parecchi di più), a quel tempo colosso industriale, oggi sull’orlo del fallimento. Tuttavia, siamo appena usciti dal cinema dove abbiamo rivisto “America under Attack”, in versione Director’s Cut, e già ci troviamo alle prese con un nuovo film che si preannuncia così tosto da farci completamente dimenticare quello che abbiamo appena visto. Forse arriveremo addirittura a rimpiangere “America under Attack” e con esso i bei tempi in cui la partecipazione di tutti gli spettatori alla realizzazione di un colossal mediatico non era ancora un dovere sociale. O un destino inevitabile. Con “Sars Attack II” oppure “Sars Attack III”, la musica potrebbe infatti essere completamente diversa.(Roberto Quaglia, “Il caso dei microbiologi scomparsi”, da “Mondialisation” del 3 novembre 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).«Il pericolo, nella ricerca della verità, è che qualche volta la si trova» (William Faulkner). Nel periodo compreso tra il 12 novembre 2001 e l’11 febbraio 2002, ben sette microbiologi scoprono a proprie spese che fare il loro mestiere è più pericoloso che correre in Formula Uno, fare bungee-jumping tutti i week-end e coltivare l’hobby del sesso non protetto. Anche altri microbiologi faranno in seguito una brutta fine. Non tutti i microbiologi sono tuttavia egualmente a rischio; i microbiologi specializzati in sequenziamento del Dna sarebbero i più suscettibili di morire in circostanze “strane ed inconsuete”. Precisiamo che il sequenziamento del Dna è una delle tecniche necessarie dell’emergente campo di applicazione delle armi biologiche di distruzione di massa, soprattutto per ciò che riguarda la creazione di nuovi virus e batteri. Tuttavia, il mestiere di microbiologo era diventato a rischio già qualche tempo prima. Curiosamente, proprio all’indomani dell’11 Settembre o giù di lì.
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Tifano Putin i leader che misero fine alla guerra fredda
Vladimir Vladimirovic Putin non è andato in Germania ad assistere alle celebrazioni su un’importante vicenda storica di un quarto di secolo fa, la rimozione del Muro di Berlino. Era a Pechino per fare la Storia del prossimo quarto di secolo, mentre firmava un altro storico mega-accordo sul gas con il presidente cinese Xi Jinping. A Putin non manca il senso della Storia. Venticique anni fa era proprio in Germania Est, e precisamente a Dresda, dove soggiornava da quattro anni in veste di ufficiale del Kgb. Aveva avuto modo tante volte di girare in tutto il vasto centro di quella città ricca di storia, che nei secoli si era guadagnata la definizione di Elbflorenz (“Firenze sull’Elba”). Ricca di storia, sì, eppure nessuno degli edifici che costeggiava le camminate di Putin aveva più di cinquant’anni. La città infatti era stata letteralmente rasa al suolo dal 13 al 15 febbraio 1945 dai bombardieri britannici e americani. Morirono decine di migliaia di persone, quasi tutte civili. La Repubblica Democratica Tedesca aveva ricostruito la città, facendo di essa un primario centro industriale e di ricerca.Quando la Germania Ovest annesse la Germania Est, non trovò certo una terra di nessuno. Era un paese industriale ricostruito dopo una catastrofe. Proprio nel rapporto con quello Stato era nata l’Ostpolitik, il modo di stemperare la Guerra Fredda per evitare un’altra catastrofe. Ci si spiava, ci si parlava. Putin ha fatto la gavetta lì. La vecchia guardia dei politici europei dei tempi andati non perde ormai occasione per dirlo: separare i destini dell’Europa dalla Russia è un suicidio politico, un errore strategico, una follia economica, un’avventura insensata. L’ultimo leader dell’Urss, Mikhail Gorbaciov, si è pronunciato in tal senso nell’occasione più solenne, proprio la celebrazione dei 25 anni dalla rimozione del Muro, con una dichiarazione che si schiera nettamente con quel fa e dice l’inquilino odierno del Cremlino, Vladimir Putin. Nel corso dei mesi della crisi ucraina abbiamo sentito anche le dichiarazioni dell’ex primo ministro francese Dominique De Villepin, quelle degli ex presidenti del Consiglio italiani Silvio Berlusconi e Romano Prodi, per non parlare degli ex cancellieri tedeschi Gerhard Schröder e Helmut Kohl (quest’ultimo praticamente silenziato da tutti i principali organi di informazione italiani), e altri ancora, come l’ex cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel.Sono tutti politici che hanno dovuto fare i conti – al loro tempo – con l’ingombrante superpotenza degli Usa: tutti la vedevano come un interlocutore essenziale e indispensabile, ma agivano per salvaguardare spazi di manovra per sé, in modo da essere autonomi nel nome di interessi radicati presso le proprie classi dirigenti nazionali e nella “Casa comune europea”. All’alba del “momento unipolare” statunitense, quando crollava la cortina di ferro fra l’Est e l’Ovest dell’Europa, e poi negli anni successivi, ognuno di questi politici ha giocato le sue scommesse, vincendone e perdendone. Nessuno di loro pensava che il suo compito fosse obbedire ciecamente agli Usa. Gorbaciov fu sconfitto da coloro che vollero la fine dell’Urss; Kohl scommise sulla riunificazione tedesca ma assisté allo sconvolgimento degli equilibri europei che seguirono; De Villepin vide le istituzioni golliste della vecchia Francia indipendente travolte dalle presidenze atlantiste di Sarkozy e di Hollande; Berlusconi e Prodi – lungo i decenni – hanno contribuito gravemente al declino dell’Italia, ma si ricorda anche qualche tentativo da parte loro di non azzerare la capacità di manovra internazionale ereditata dalla Prima Repubblica. La cosiddetta “sovranità limitata” non era sinonimo di “sovranità azzerata”.Questi diversi governanti parlavano spesso della Casa comune europea. Questa casa non è stata poi costruita per vari motivi. Dov’è che sono mancati i mattoni? Perché quella casa non c’è? Perché tutti questi governanti avevano limiti e ambiguità, perché hanno proiettato gravi errori sulle generazioni successive, perché c’erano condizioni – storiche e oggettive – che non controllavano, perché maturava una crisi più grande che stava fuori e al di sopra della crisi europea, ossia la crisi dell’Impero atlantico e della potenza nordamericana. Intanto l’Impero in crisi puntava a far pagare a tutti il prezzo sempre più esoso della propria sopravvivenza. Il dollaro non era più quello di una volta, la finanza si faceva via via più devastante, ma anche la Nato non era quella di prima: in contrasto contro ogni altra logica, si espandeva. L’Impero doveva accentuare tutte le spinte militari, aumentare la dose di controllo fino a rendere la propria “intelligence” un incubo orwelliano e a trasformare la Casa comune europea in una Caserma.In pieno revival berlinese, visito a Berlino la sede della Stasi, diventata un museo che vorrebbe perpetuare la vergogna di un sistema che impiegava decine di migliaia di persone per violare “le vite degli altri”. Scatto molte foto ai microfoni nascosti negli orologi, alle macchine fotografiche mascherate da innaffiatoi o tronchi d’albero, ai campioni di tessuto degli oppositori (da far odorare ai cani per rintracciarli prima), ai registratori e alle bobine che carpivano migliaia di voci. Mentre fotografo questo tragicomico modernariato dello spionaggio, mi rendo conto di quanto esso sia poca cosa di fronte a quel che ha rivelato Edward Snowden. Potete anche voi visitare il museo della Stasi, ma non c’è ancora un museo che spieghi che tutte le vostre email – anche se siete uomini potenti, anzi, soprattutto se siete potenti – sono in pancia alla Nsa e ad altre strutture spionistiche atlantiche. Strutture con budget sterminati che vogliono e ottengono una sola cosa, la Tia – Total Information Awareness, ossia la sorveglianza totalitaria. Altro che il buffo innaffiatoio della vecchia Germania Est.Ecco perché le classi dirigenti europee di nuova generazione, dal lato atlantico, oggi sono molto cambiate: totalmente ricattabili, asservite, incapaci di affermare una propria elaborazione autonoma, disarticolate. Se la generazione dei grandi vecchi che abbiamo citato commetteva errori e subiva sconfitte, questa generazione è addirittura annichilita, almeno a Ovest: perché innanzitutto non è libera. E si fa portare in guerra, a partire dal disastro ucraino. Gli esponenti più avveduti delle classi dirigenti, ovunque in Europa, sanno che la Guerra Fredda e le sanzioni sono un pessimo affare e che la sicurezza collettiva non può esistere se va contro qualcuno, specie se quel qualcuno ha il peso della Russia. I più liberi di parlare restano i vecchi ed ex politici. Nessuno di loro ha consuetudine con i politici della generazione Obama. Li vedono come maggiordomi che – così come Barack – non possiedono pensiero autonomo, ma recitano un copione redatto presso i veri piani alti dell’Impero e della finanza, e lo recitano meccanicamente fino in fondo, anche quando sanno che annienterà la sovranità dei propri paesi, sacrificata all’altare di una nuova Guerra Fredda.Perciò, i vecchi, com’è naturale, guardano con attenzione speciale a Mosca, dove vedono una classe dirigente vera. Putin e Lavrov sovrintendono al proprio copione, e questo rende leggibile il loro operato. La politica internazionale del Cremlino mira a essere “prevedibile”, cioè esplicita nell’enunciare i propri interessi di lungo periodo, senza aree di ambiguità. Quando Putin dice di non voler ricostruire l’Unione Sovietica, è vero. E quando dice che non consentirà alla Nato di minare l’efficacia della deterrenza nucleare, è altrettanto vero. Capirlo ci consentirebbe di risparmiare sulle spese militari che ingrassano coloro per i quali Obama fa il piazzista. L’americano Paul Craig Roberts, un altro reduce di quando la politica governava ancora qualche decisione, è arrivato a definire Putin “il leader morale del mondo”. Suonerà una definizione controversa per molti potenziali lettori, letteralmente bombardati dalla campagna anti-russa e dall’isteria anti-Putin che fa scrivere a tutta la stampa occidentale anche le notizie più assurde pur di lordare con sangue e sperma la sua reputazione. Ma c’è qualcosa che spiega lo stesso la definizione usata da Roberts. Un tempo l’ideologia occidentale era riassunta nell’espressione “siamo il Mondo Libero”, un concetto già smentito dalle sue guerre e dai dittatori al suo servizio, e oggi sempre più inconsistente, fino a diventare un’autorappresentazione al limite della patologia. La nemesi è in atto: Vladimir Putin si sta ritrovando a essere il leader del Mondo Libero così come è da intendere oggi, ossia il mondo che per emanciparsi deve sganciarsi dal dominio di Washington, e perciò costruisce nuove alleanze fra continenti, popoli, gruppi di interesse, forze militari, movimenti politici molto diversi.Putin non aveva lavorato per questo obiettivo, perché stava lavorando a sollevare la marea geopolitica del suo immenso paese. Nel sollevarsi, la marea a sua volta ha sospinto la barca del Cremlino fino a un rango di relazioni autenticamente “globali”, a dispetto della definizione che i burattinai russofobi fanno leggere a Obama sul suggeritore elettronico: «Russia potenza “regionale”». Il che rivela il vero pensiero che le classi dirigenti imperiali rivolgono anche a tutti gli altri attori internazionali: a Washington non accettano il mondo multipolare e faranno di tutto per spegnere ogni ambizione da potenza globale, impedendo prima di tutto ai vari attori “regionali” di interagire, separandoli artificialmente contro i loro interessi. Con l’Europa la faccenda funziona, tanto che ora il Muro lo vogliono costruire da Ovest, per separare l’Ucraina dalla Russia sul modello del Muro israeliano, che hanno già digerito senza menare scandalo. Con la Cina e i Brics funziona molto meno, tanto che la velleità Usa viene travolta da giganteschi accordi economici che cambieranno gli assetti mondiali, e fuori dal dollaro.In Russia sanno che rimane loro poco tempo per sganciarsi dai mille fili che li legano ancora alla finanza anglosassone e alle leve che manovrano il prezzo degli idrocarburi, e sanno anche che l’esito non è scontato. In America sanno che rimane poco tempo per impedire il sorgere di un mondo multipolare e riallineare a sé interi continenti, dall’Africa, all’Europa asservita dei nuovi trattati, fino al Caos artificiale in Medio Oriente, mentre si prepara ogni grado di aggressione a danno delle grandi potenze eurasiatiche. In Europa, i vecchi politici sanno che rimane poco tempo alle loro vite per testimoniare l’urgenza di ricostruire un buon rapporto con la Russia, da cui passano le strade della sicurezza collettiva. Rimane quindi poco tempo all’Europa tutta per ascoltarli, anziché allearsi con i nazisti ucraini e farsi governare dagli incubi robotici del neoliberismo reale degli Juncker e dei Katainen.(Pino Cabras, “Ricercato, il leader del mondo libero”, da “Megachip” del 10 novembre 2014).Vladimir Vladimirovic Putin non è andato in Germania ad assistere alle celebrazioni su un’importante vicenda storica di un quarto di secolo fa, la rimozione del Muro di Berlino. Era a Pechino per fare la Storia del prossimo quarto di secolo, mentre firmava un altro storico mega-accordo sul gas con il presidente cinese Xi Jinping. A Putin non manca il senso della Storia. Venticique anni fa era proprio in Germania Est, e precisamente a Dresda, dove soggiornava da quattro anni in veste di ufficiale del Kgb. Aveva avuto modo tante volte di girare in tutto il vasto centro di quella città ricca di storia, che nei secoli si era guadagnata la definizione di Elbflorenz (“Firenze sull’Elba”). Ricca di storia, sì, eppure nessuno degli edifici che costeggiava le camminate di Putin aveva più di cinquant’anni. La città infatti era stata letteralmente rasa al suolo dal 13 al 15 febbraio 1945 dai bombardieri britannici e americani. Morirono decine di migliaia di persone, quasi tutte civili. La Repubblica Democratica Tedesca aveva ricostruito la città, facendo di essa un primario centro industriale e di ricerca.
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Orsi: è ufficiale, l’Italia in rottamazione non è più salvabile
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».«Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile». Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che «il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno». Pericoloso al punto che «potrebbe essere superato il punto di non ritorno». L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: «La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico». E un default, naturalmente, «comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica».I tre pezzi, scrive in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” il professor Roberto Orsi (London School of Economics e Università di Tokyo) potrebbero essere considerati come l’inizio di un’offensiva mediatica indirizzata alla Bce per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della Fed, della Bank of Japan e della Bank of England: un intervento che tutti e tre gli autori auspicano, insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo. I tre analisi invocano le famose riforme strutturali? La natura e la portata delle riforme finora proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale) dimostrano che l’Italia «manca delle fondamenta», scrive Orsi, secondo cui «tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione».La tempistica italiana è eterna: nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers, osserva Orsi, è stata portata a termine una sola riforma strutturale, la drammatica riforma Fornero (pensioni) firmata dal governo Monti, anche perché «l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema». E se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficiente a evitare il collasso del sistema-paese? Il mondo è cambiato: prima la super-globalizzazione del 2007 e poi il crack di Wall Street del 2008. «In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione». Quanto alle “riforme” evocate da Renzi e dei poteri forti – Bce, Troika Ue, finanza – restano sfocate. Quando Münchau scrive che «l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico», secondo Orsi offre certamente «consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati?».Riguardo poi al suggerimento di «cambiare l’intero sistema politico», ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento, rileva Orsi. «Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato». L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva e “scientificamente corretta” ai problemi economici «tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche». Al riguardo, aggiunge Orsi, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani sono «prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati». Per lo più derivano da «dottrine neo-liberal ormai superate». Visione del futuro? Non pervenuta. Dell’Italia non resta altro che l’astrazione contabile del Def, puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. «Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno Stato così concepito non ha molto senso». Vere riforme, serie ed eque, ben diverse da quelle finora proposte? «Arriverebbero comunque troppo tardi: il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale». Per Orsi, «le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare».L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro, scrive Orsi, è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. «Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione». Il blogger Stefano Bassi ipotizza un progressivo “smantellamento” del paese, mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. I “mercati” potrebbero cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza, innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della Bce, da cui dipende la sopravvivenza dell’euro. La Germania però resta inflessibile – niente espansione monetaria – e per contro «non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona».Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, dice Orsi, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’Ue e la dirigenza tedesca «abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali». Sicché, «l’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare». Nessuna speranza, all’interno dell’attuale struttura Ue. L’euro? «Non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai». Forse si può sperare nella graduale transizione verso un distema duale, a doppia moneta, che permetta di ridenominare i debiti nazionali. «In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili». Quanto all’Italia, per dirla con Bassi, «non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione».Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».
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Servire il Popolo, anzi il business (e addio alla sinistra)
Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.«L’esistenza di una destra e di una sinistra – premette Caputo – aveva ancora senso qualche decennio fa». A prescindere dalla guerra fredda, quello che separava (e allo stesso tempo univa) i due schieramenti, «era un profondo spirito di appartenenza ideale e una forte identità culturale». Eppure «entrambi, come le subculture degli anni Sessanta e Settanta, sono stati inglobati dal sistema dominante per diventare progressivamente forze antinazionali e conservatrici». Il “tradimento” della sinistra, continua Caputo sul blog “Da dietro il sipario”, è tuttavia anteriore a quello della destra. E affonda le sue radici nell’eccentrica parabola dei trotzkisti italiani. Riuniti sotto diverse sigle (“Gruppo Comunista Rivoluzionario”, “Servire il Popolo”, “Avanguardia Operaia”, “Lotta Continua”, “Potere Operaio”) ed eredi del pensiero di Lev Trockij (internazionalismo e anti-sovietismo), dopo la contestazione studentesca del ‘68 adottarono la strategia dell’“entrismo”, cioè l’infiltrazione nei sindacati, nel Pci di Berlinguer e nei giornali di area.Tutto questo, probabilmente, secondo Caputo è avvenuto anche «con il sostegno economico dei servizi statunitensi, i quali finanziavano tutte le forze anti-sovietiche e di destabilizzazione dell’epoca», indipendentemente dal loro colore politico, «come del resto si è potuto verificare nei decenni successivi: non è un caso che quegli stessi trotzkisti che militavano nelle organizzazioni extra-parlamentari si siano successivamente ritrovati a occupare posizioni di potere in ambienti che spaziano da quello accademico a quello mediatico-giornalistico, passando per quello politico». La lista di quelli che Caputo chiama “i traditori dei principi della sinistra” è pressoché sterminata. Da “Servire il Popolo” provengono il sondaggista Renato Mannheimer, collaboratore del “Corriere della Sera” e docente dell’Università Bicocca di Milano, nonché Antonio Polito, membro dell’Aspen Institute ed editorialista del “Corriere”, e Barbara Pollastrini, ministro delle Pari opportunità del governo Prodi e attualmente deputata del Pd.Sempre da “Servire il Popolo” arrivano Linda Lanzillotta, senatrice di “Scelta Civica” di Mario Monti, e il popolarissimo Michele Santoro, mattatore della Tv-contro. E’ invece “Lotta Continua” la casa-madre di Adriano Sofri, editorialista di “Repubblica” come l’ex compagno Gad Lerner. Sono ex di “Lc” anche Paolo Liguori, giornalista Mediaset e conduttore televisivo, e il sociologo Luigi Manconi, docente universitario e senatore Pd. “Potere Operaio”, di Toni Negri, ha invece allevato Francesco Pardi, detto Pancho, già senatore Idv e promotore del “No Cav Day”. Con lui Ritanna Armeni, conduttrice televisiva di “Otto e Mezzo” con Giuliano Ferrara, e un peso massimo della cultura italiana come Paolo Mieli, storico, già direttore del “Corriere”, ora dirigente di Rcs. Infine, dal “Gruppo Comunista Rivoluzionario” è emerso Paolo Flores D’Arcais, direttore di “Micromega” (Gruppo Espresso), nel quale spicca il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro, che archivia il suo passato di sinistra con editoriali come quello intitolato “L’Occidente da difendere”, in cui «identifica il nemico russo e quello islamico, legittimando di conseguenza l’Occidente capitalista, pseudo-democratico, imperialista e a trazione statunitense». Mala tempora currunt: persino l’ex “zapatista” salottiero Bertinotti arriva a dire: «Abbiamo sbagliato tutto, sono anche un liberale». Poi uno si chiede dov’è finita la sinistra. E si domanda perché nessuno alzi mai la voce, neppure una volta, per difendere gli italiani massacrati dal rigore dell’élite tecno-finanziaria di Bruxelles, braccio armato dell’oligarchia ultraliberista.Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.
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Craig Roberts: l’America mente sempre e ci distruggerà
L’atteggiamento aggressivo e insensato che i guerrafondai di Washington continuano a tenere nei confronti di Russia e Cina ha frantumato la costruzione geopolitica messa in atto da Reagan e Gorbaciov. Reagan e Gorbaciov alla fine alla guerra fredda bandirono la minaccia di un Armageddon nucleare. Ora i neocon, tutto l’apparato militare Usa – bilancio-dipendente – (che vivono sulle spalle dei contribuenti), tutto il complesso degli organi di sicurezza, e i politici americani – dipendenti da fondi elettorali versati dall’apparato militare e da quello della sicurezza – hanno resuscitato la minaccia nucleare. Il regime corrotto e doppiogiochista di Clinton, per primo, ruppe l’accordo che l’amministrazione di George Bush fece con Mosca nel 1990, quando Mosca acconsentì alla riunificazione della Germania che diventò membro della Nato e in cambio Washington convenne che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato verso est. Gorbaciov, il segretario di Stato americano James Baker, l’ambasciatore degli Usa a Mosca Jack Matlock e tutti i documenti declassificati testimoniano il fatto che a Mosca fu assicurato che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato in Europa Orientale.Nel 1999 il presidente Bill Clinton sbugiardò l’amministrazione del presidente George Bush e il corrotto Clinton fece entrare Polonia, Ungheria e la neonata Repubblica Ceca nella Nato. Anche il presidente George W. Bush sbugiardò di fatto suo padre George H.W. Bush e il segretario Stato di suo padre, James Baker. “Dubya”, il ben noto imbecille-ubriacone, nel 2004 fece entrare Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania nella Nato, e il regime corrotto e disperato di Obama ha aggiunto l’Albania e la Croazia nel 2009. In altre parole, nel corso degli ultimi 21 anni, tre presidenti degli Stati Uniti in carica per due mandati hanno insegnato a Mosca che la parola del governo degli Stati Uniti non ha nessun valore. Oggi la Russia è circondata da basi militari Usa e Nato, e altre arriveranno in Ucraina (che è stata parte della Russia per secoli), in Georgia (anche parte della Russia per secoli e paese natale di Stalin), in Montenegro, in Macedonia, in Bosnia-Erzegovina, e forse anche in Azerbaigian. Una grande distesa di terre che facevano parte dell’impero sovietico ora sono diventate parte dell’impero di Washington. L’“arrivo della democrazia” significava semplicemente “arrivo di nuovi padroni”.E’ sempre Washington che sceglie il burattino che sarà eletto segretario generale della Nato. L’ultimo è un ex politico e primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg. Per ordine di Washington, il burattino ha messo subito le sue carte in tavola dicendo a Mosca che la Nato ha un esercito potente, che svolge il ruolo di polizia globale e che può essere dislocato ovunque voglia Washington. Affermazione questa in totale contraddizione con gli obiettivi e lo statuto della Nato. Igor Korochenko, membro del Consiglio del ministero della difesa russo, ha replicato al burattino-Stoltenberg: «Dichiarazioni di questo genere sono in contrasto con le norme del sistema di sicurezza internazionale, pertanto se la Nato dovesse rappresentare una minaccia per la Russia saranno prese misure sensibili». E le misure che possono essere prese, come rezione a una minaccia, non sono altro che quello che vi state aspettando: la disponibilità di tante armi nucleari da poter spazzar via Stati Uniti e Europa, parecchie volte.Quegli sciocchi arroganti di Washington, gongolandosi nella loro tracotanza da “nazione indispensabile”, hanno provocato Mosca fino al punto che ora la Russia ha uno schieramento di armi nucleari superiore a quello degli Stati Uniti. E’ questo il risultato che ha ottenuto Washington non mantenendo la parola data e mettendo basi missilistiche Abm sul confine della Russia: la Russia ha sviluppato un sistema di missili balistici intercontinentali supersonici che possono rapidamente cambiare traiettoria e non possono essere abbattuti da nessun sistema di difesa missilistica. Naturalmente, le società americane che guadagnano miliardi di dollari vendendo un inutile sistema Abm a Washington, negheranno tutto. Inoltre, paesi, come la Polonia, i cui governi sono tanto stupidi da accettare le basi Abm degli Usa, sarebbero annientati ancor prima di far funzionare quelle basi stesse. La stupidità dell’Europa orientale, o meglio dei governi-comprati-e-pagati per far sembrare credibile la politica di Washington sarà probabilmente la causa principale della “WW-III”, la Terza Guerra Mondiale. Chi sarà contento di entrare nel nuovo Armageddon è il complesso militare della sicurezza americana, una banda di avidi bastardi – composto da imprese “private” sovvenzionate solo da fondi pubblici, che pensano solo ai soldi, senza preoccuparsi del costo potenziale in vite umane.Il loro portavoce al Senato degli Stati Uniti, Jim Inhofe, membro della sottocommissione per le forze strategiche degli “Armed Services”, ha resuscitato l’argomento – che si raccontava 60 anni fa – che l’America è in ritardo nella corsa agli armamenti. Infatti, ricominciare la corsa agli armamenti è essenziale per far aumentare i profitti del complesso militare della sicurezza Usa e per i contributi delle campagne elettorali dei senatori. Ma quegli scriteriati di Washington non hanno ricominciato a “sfruculiare” solo le forze strategiche nucleari della Russia, ma anche quella della Cina. L’anno scorso la Cina ha fatto circolare una descrizione pittoresca su come il nucleare cinese potrebbe distruggere gli Stati Uniti. Lo ha fatto come risposta al folle piano di Washington di costruire nuove basi aeree e navali dalle Filippine al Vietnam, per controllare il flusso commerciale nel Mar Cinese Meridionale. Quanto può essere idiota un governo americano che pensa che la Cina possa sopportare una interferenza di questo genere nella sua sfera di influenza?La Cina ora ha aggiunto al suo arsenale nucleare una nuova variante di uno dei suoi apparati mobili Icbm, ma Washington non sa molto su questo nuovo missile, forse perché la Cia è troppo occupata a organizzare le proteste di Hong Kong. Sia la Russia che la Cina erano soddisfatte di essere entrate a far parte dell’economia mondiale e di poter rendere migliore la situazione economica dei loro cittadini con lo sviluppo economico. Ma subito dopo sono arrivati i neocon con l’“Unipower – la Superpotenza”, un branco di psicopatici arroganti che dicono che Washington non permetterà a nessun altro paese, nemmeno a Russia e Cina, di assurgere al rango di paese che può esercitare una politica estera indipendente dagli obiettivi di Washington. La guerra nucleare è tornata in scena. Prima Washington minaccia tutti quelli che vede come possibili rivali, poi quando questi rivali non accettano di sottomettersi, Washington li demonizza. Nelle storia scritta dagli storici di corte di Washington, i più grandi demoni dei tempi moderni furono i governi di Giappone e Germania durante la Seconda Guerra Mondiale insieme al governo sovietico di Stalin nel dopoguerra. Questi storici di corte americani non conoscono i fatti.Il Giappone fu costretto alla guerra da Washington, che tagliò la via di accesso alle risorse del paese, che poi fu “nuked” due volte mentre il suo governo stava cercando di arrendersi. Tutte le promesse del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson fatte alla Germania, per mettere fine alla Prima Guerra Mondiale, come ad esempio nessuna concessione territoriale e nessun risarcimento, furono tradite. La Germania fu smembrata e parti di territorio tedesco consegnate a Polonia, Francia e Cecoslovacchia. Nonostante questa promessa del presidente americano Woodrow Wilson, invece, il Trattato di Versailles impose delle spese di riparazione impossibili, tanto che il preveggente John Maynard Keynes dichiarò che le riparazioni si sarebbero tradotte in una seconda guerra mondiale. Se la memoria non m’inganna, altri appezzamenti di terre tedesche furono assegnati anche a Belgio, Lituania e Danimarca. Questa umiliazione per un popolo industrioso e potente, messa in atto da eserciti che alla fine della Prima Guerra Mondiale occuparono territori stranieri, dimostrò – già da allora – la falsità delle cosiddette “potenze occidentali”.Furono i francesi, gli inglesi, gli americani che spianarono la strada ad Adolf Hitler. Nel 1935 Hitler era abbastanza forte da denunciare il Trattato di Versailles e se Hitler non avesse avuto l’arroganza di mandare le armate tedesche a marciare nelle steppe della Russia, dove si distrussero da sole, oggi lui, o chi per lui, sarebbe ancora al potere in Europa. La vera storia è tanto diversa da quella che Washington finge di conoscere e che viene insegnata nelle scuole americane. La maggior parte degli americani è cieca e inconsapevole che Washington sta portando il mondo ad un passo dalla guerra. Se Ebola e il riscaldamento globale non riusciranno a distruggere l’umanità, a farlo saranno l’ignoranza del popolo americano e la guerra di Washington per l’egemonia mondiale.(Paul Craig Roberts, “Washington sta distruggendo il mondo”, da “Information Clearing House” del 7 ottobre 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).L’atteggiamento aggressivo e insensato che i guerrafondai di Washington continuano a tenere nei confronti di Russia e Cina ha frantumato la costruzione geopolitica messa in atto da Reagan e Gorbaciov. Reagan e Gorbaciov alla fine alla guerra fredda bandirono la minaccia di un Armageddon nucleare. Ora i neocon, tutto l’apparato militare Usa – bilancio-dipendente – (che vivono sulle spalle dei contribuenti), tutto il complesso degli organi di sicurezza, e i politici americani – dipendenti da fondi elettorali versati dall’apparato militare e da quello della sicurezza – hanno resuscitato la minaccia nucleare. Il regime corrotto e doppiogiochista di Clinton, per primo, ruppe l’accordo che l’amministrazione di George Bush fece con Mosca nel 1990, quando Mosca acconsentì alla riunificazione della Germania che diventò membro della Nato e in cambio Washington convenne che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato verso est. Gorbaciov, il segretario di Stato americano James Baker, l’ambasciatore degli Usa a Mosca Jack Matlock e tutti i documenti declassificati testimoniano il fatto che a Mosca fu assicurato che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato in Europa Orientale.
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Eurogendfor, la Gestapo europea non risponde ai giudici
I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.La nuova super-polizia, scrive Cesare Sacchetti su “L’Antidioplomatico”, non risponderà più neppure al presidente della Repubblica, che è il comandante in capo delle forze armate secondo la Costituzione italiana. Eurogendfor obbedirà solo agli ordini del Cimin, l’alto comando interministeriale composto dai rappresentanti dei ministeri delle parti firmatarie, che ha il compito di governare la gendarmeria europea. «Nelle democrazie costituzionali il controllo delle forze armate deve rispondere a criteri di trasparenza e sono previsti precisi meccanismi di controllo sul loro operato», ricorda Sacchetti. Eurogendfor, invece, «si colloca gerarchicamente al di sopra delle forze di polizia italiane, indirizzandone le attività ordinarie e persino d’intelligence». Potrà infatti «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico, monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale». Inoltre potrà assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence. «I servizi segreti italiani potranno trovarsi tagliati fuori nella gestione dell’intelligence, con gravi rischi per la sicurezza nazionale».Ma l’aspetto più inquietante, secondo Sacchetti, è l’immunità penale che questo trattato attribuisce ai membri della gendarmeria europea: «I membri del personale di Eurogendfor – recita la normativa – non potranno subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti nello Stato ospitante o nello Stato ricevente per un caso collegato all’adempimento del loro servizio». Super-polizia sovrana, al di sopra della magistratura: niente informazioni, controlli, perquisizioni, indagini. «Le autorità delle parti non potranno entrare nei locali e negli edifici senza il preventivo consenso del comandante Egf o, ove possibile, del comandante della Forza Egf», si legge. «Gli archivi di Eurogendfor saranno inviolabili». E l’inviolabilità degli archivi «si estenderà a tutti gli atti, la corrispondenza, i manoscritti, le fotografie, i film, le registrazioni, i documenti, i dati informatici, i file informatici o qualsiasi altro supporto di memorizzazione dati appartenente o detenuto da Eurogendfor, ovunque siano ubicati nel territorio delle parti».In linea teorica, segnala Sacchetti, «Egf potrebbe avere già un archivio (illegale) dove vengono schedati cittadini che per qualche motivo sono sotto osservazione». Archivio ovviamente «precluso l’accesso alle autorità italiane». L’obbligatorietà dell’azione penale, alla quale è tenuta la magistratura italiana? «In questo modo è annullata, e viene meno uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, attraverso il trapianto di una milizia sovranazionale sul territorio italiano con sede a Vicenza, le cui spese sono a carico dello Stato italiano come previsto dall’articolo 10 del trattato». Milizia che «non risponde all’autorità giudiziaria dello Stato, e non è tenuta ad osservare le sentenze emesse dai suoi tribunali». L’inviolabilità delle sedi e l’impossibilità di intercettare le comunicazioni della gendarmeria europea «è una situazione di extra legem, ovvero la completa inefficacia degli atti giuridici nazionali». Per Sacchetti, «il Trattato di Velsen rappresenta una chiara violazione della Carta, poiché le forze armate non debbono e non possono possedere un’immunità penale nell’esercizio delle loro funzioni, né tantomeno sono escluse dalla possibilità di essere intercettate e le loro sedi possono essere perquisite su mandato della magistratura». Di fatto, «la gendarmeria di Velsen non risponde alle leggi italiane e alla sua Costituzione».Chi ha concepito e firmato quel trattato «ha pensato di istituire una forza di polizia che non appartenesse direttamente agli Stati nazionali, da poter utilizzare violando le fondamentali procedure di controllo democratiche». Storia: «Gli esempi di polizie che non rispondono a principi democratici sono da rintracciare nel passato come la Gestapo della Germania nazista, o la Ceka dell’Unione Sovietica, vere e proprie polizie politiche incaricate di perseguire gli avversari dei rispettivi regimi», scrive Sacchetti. «La gendarmeria europea è stata utilizzata ad Atene nel 2010 durante le manifestazioni contro la Troika, e non è da escludersi che possa operare prossimamente sul nostro territorio per reprimere il dissenso montante nei confronti delle politiche di austerità». Col pretesto dei tagli alla spesa, l’Italia di Renzi torna a parlare di riordino delle forze dell’ordine (troppi corpi di polizia) ma definisce fantascienza la sparizione dell’Arma dei carabinieri, assorbita da altre strutture. Sicuri che siano solo fantasie? L’articolo 3 della legge di ratifica di Velsen dice chiaramente che «la forza di polizia italiana a statuto militare per la forza di gendarmeria europea è l’Arma dei carabinieri».I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.
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Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre
La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.(Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
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Putin agli Usa: agite da nemici, sappiate che resisteremo
A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.La Russia è stata emarginata da numerosi momenti decisionali di rilievo internazionale, messa in secondo piano, scartata senza troppi complimenti. Era (anche) un modo per farle capire che non contava e che non si voleva che contasse. Espulsa dalla gestione dei conflitti africani, ignorata nel dibattito finanziario, messa in fila per il Wto. E duramente offesa nell’intera vicenda jugoslava, fino al bombardamento di Belgrado e all’indipendenza del Kosovo. Ammessa in sala riunioni solo là dove era indispensabile che ci fosse, nel negoziato con l’Iran e nella crisi siriana. Peggio ancora: con gli ultimi presidenti americani, da Clinton, via George Bush Junior, fino a tutto Obama compreso, gli Stati Uniti hanno manovrato su scala planetaria ignorando platealmente ogni riconoscimento delle zone d’influenza russa, passeggiandovi dentro senza alcun riguardo diplomatico. Tutta l’Asia centrale ex sovietica è stata praticamente occupata dalle loro iniziative: dall’Azerbaigian fino alla Kirghisia. Non dovunque con gli stessi successi. Ma quello che conta, è il significato: Washington semplicemente mandava a dire a Mosca che non avrebbe tenuto in alcun conto il peso della Russia in quelle aree.Per non parlare della Nato, la cui espansione a est – dopo la fine del patto di Varsavia – ha proceduto senza soste, alla pari con l’allargamento dell’Unione Europea su tutta l’Europa orientale, fin dentro alcuni territori che erano stati parte dell’Unione Sovietica, come le tre repubbliche baltiche. Il tutto violando gli accordi, verbali e scritti, che impegnavano la Nato a non portare basi e armamenti nelle nuove repubbliche che via via aderivano all’Unione Europea. Espansione accompagnata da dichiarazioni sempre più incongruenti con i fatti, secondo cui l’estensione della Nato non sarebbe stata indirizzata all’accerchiamento progressivo della Russia. Infine le operazioni degli ultimissimi anni, con l’inserimento della Georgia di Saakashvili nei meccanismi Nato e la promessa di un futuro ingresso a vele spiegate nella Nato della quarta repubblica ex sovietica; e con le analoghe pressioni e promesse nei confronti della Moldavia. Da ricordare la “guerra georgiana”, conclusasi con la secca sconfitta di Tbilisi dopo il massacro di Tzkhinvali e l’intervento delle forze armate russe per ricacciare indietro i georgiani dal territorio dell’Ossetia del Sud.Il riconoscimento russo delle due repubbliche di Abkhazia e Ossetia del Sud (che Putin non aveva concesso fino all’agosto 2008) fu il primo segnale che il Cremlino aveva deciso – sebbene non di propria iniziativa ma pressato dall’iniziativa avversaria – di alzare il segnale di stop verso Washington. Tutto questo è stato superato, d’un colpo, dall’avventura spericolata del colpo di stato a Kiev, dal rovesciamento violento di Yanukovic e dal varo di una nuova Ucraina dichiaratamente ostile e bellicosa nei confronti di Mosca. Il tutto non solo con il consenso ma con il finanziamento, la direzione, il controllo americano delle operazioni sul territorio, e politiche e, infine, militari. Non si comprende la sintesi putiniana di Sochi se non tenendo conto della sommatoria di questi eventi. La conclusione è esplicita: la leadership americana non prevede alcun multipolarismo, né alcun rispetto delle regole di un qualsivoglia partenariato tra eguali. Non ci sono più regole condivise. Esiste uno stato di caos, senza alcuna direzione. Putin prende atto – senza dirlo esplicitamente, ma facendo capire che ha ben compreso – che il bersaglio è lui in persona. Che le sanzioni non sono cominciate colpendo la Russia, ma colpendo il suo stesso entourage. Che negli atteggiamenti e nelle dichiarazioni dei leader occidentali è riconoscibile l’idea che Putin non rappresenta la Russia e che, dunque, una volta eliminato lui, la Russia sarà ricondotta all’ovile. In altri termini: l’Occidente non intende negoziare con la Russia fino a che Putin sarà alla sua testa.La risposta di Sochi è ora nettissima, un vero e proprio punto di non ritorno. Poggiato su alcuni pilastri. Il primo è l’idea che l’unità dell’Occidente è precaria. L’Europa non è compatta dietro l’America. Resta un partner, anche se si trova sotto costrizione. Lo dicono i numeri delle relazioni economiche e commerciali, oltre che la storia del dopoguerra. Questo è il primo pilastro. Potrebbe essere una scommessa che non si verificherà. Ma è un modo per tenere aperto un campo di manovra. Putin mostra di sapere perfettamente che la Russia che si trova tra le mani è incastonata in mille modi nel sistema occidentale. Anche nei suoi quattordici anni di potere, non solo in quelli elstsiniani, la Russia si è legata mani e piedi ai destini dell’Occidente. Dunque è vulnerabile e dovrà pagare prezzi salati, forse salatissimi. Qui Putin è con le spalle al muro, e dovrà dimostrare ai suoi cittadini che riesce a svincolarsene. Lo spazio potrà forse aprirsi come effetto della crisi politica di questa Europa.Lo sfaldamento della tenuta dei partiti politici tradizionali, quasi dovunque, mostra che ci possono essere altri interlocutori, oltre ai conservatori tradizionali, ormai avvinghiati alle sinistre socialdemocratiche, tutte emigrate oltre Oceano. L’Europa popolare va a destra, si muove in senso antieuropeo, antiamericano e antiglobalista, e converge sull’altro pilastro su cui Putin si appoggia: quello del patriottismo, del conservatorismo etico, dei valori tradizionali della famiglia, dell’educazione, del rispetto della memoria. La “famiglia europea” potrebbe cambiare di segno nei prossimi anni. E c’è un altro pilastro, ormai evidente: l’Oriente, la Cina, l’Iran, il resto del mondo. Verso quella direzione – andassero male i tentativi verso l’Occidente – guarderà l’aquila bifronte. Le sanzioni – dice Putin – non fermeranno questa Russia, che nelle parole di Putin appare vicina, risvegliata, compatta come non lo era da molti decenni.È una specie di preludio a un governo di salvezza nazionale, in cui entreranno forse i comunisti di Ziuganov, i liberal-democratici di Zhirinovskij, i nazionalisti di destra e di sinistra, saltando a piè pari le distinzioni europee-occidentali che in Russia hanno sempre contato poco. L’America di Obama, l’America che Mosca vede come in preda a una crisi senza ritorno (perché dopo Obama potrebbe venire il peggio, con una Hillary Clinton che vince le elezioni con il programma dei repubblicani più forsennati), non è più un partner. L’orso russo – proprio questo ha detto Putin – non intende uscire dal suo habitat. Non ha ambizioni espansive. Ma non è disposto a farsi sloggiare. Putin a questa conclusione è giunto. Questo è il suo piano di resistenza. Si tratta ora di vedere se è in condizione di reggerlo. E con un’America che gioca alla “o la va o la spacca”, sarà una partita dura. È dura quando entrambi i contendenti hanno le spalle al muro.(Giulietto Chiesa, “Il reset di Putin”, da “Megachip” del 26 ottobre 2014).A Sochi, nell’ottobre 2014, Putin ha “resettato” drasticamente il rapporto tra la sua Russia e Washington. Un discorso ben meditato, che sarebbe grave errore, per tutti, sottovalutare. Molto più forte, a tratti drammatico nella sua chiarezza, di quello da lui pronunciato a Monaco, nel 2007. Nei 14 anni del suo potere il presidente russo non si era mai spinto fino a questo punto. E si capisce il perché solo seguendo il suo ragionamento. Vediamo di quale reset si tratta. Fino all’altro ieri Putin era rimasto “dentro” lo schema del post guerra fredda. C’era rimasto sia perché non aveva scelte diverse da fare, sia perché – con ogni probabilità – a quello schema credeva e lo riteneva utile e realistico. La crisi era già visibile. La Russia ci stava dentro scomoda. Ma rimaneva l’intenzione di superarla, con il tempo, costruendo una nuova architettura della sicurezza mondiale assieme agli Stati Uniti. Per anni, dopo il crollo del Muro, la Russia ha dovuto sopportare molti “sgarbi”. È un eufemismo. In molti casi la parola giusta sarebbe schiaffi.