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Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo
Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
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L’eroica lotta degli italiani per i diritti, un esempio per tutti
Gli studenti americani si sono ribellati, la scorsa settimana, ed hanno impedito ad un portavoce di Donald Trump di venire a tenere un discorso all’Università di Berkeley. Incuranti dei getti d’acqua e dello spray urticante della polizia, questi studenti hanno lottato fino all’ultimo per affermare il proprio diritto di non vedere il loro campus calpestato da un personaggio con cui non volevano avere nulla a che fare. I cittadini catalani stanno portando avanti da mesi una dura lotta per riuscire a fare il referendum sulla secessione, e stanno obbligando il premier Mariano Rajoy a ricorrere a tutte le più sofisticate armi burocratiche pur di impedirglielo. Avanti di questo passo, riusciranno sicuramente a meritarsi il diritto di votare liberamente sul futuro della propria regione. In Romania da quasi una settimana il popolo è sceso in piazza contro le riforme del governo, che voleva abolire il reato di abuso di ufficio e altri reati minori.Compatti e uniti, i cittadini romeni sono riusciti ad ottenere il ritiro del nuovo regolamento da parte del proprio governo, e ora, non contenti, chiedono anche la testa del proprio primo ministro. Anche in Italia i nostri concittadini hanno imparato ormai da tempo a scendere in strada per difendere i propri diritti. Storico infatti il loro successo dell’anno scorso, nel quale, dopo una lunga serie di dure manifestazioni di piazza, sono riusciti a far revocare dal governo l’abolizione dell’articolo 18. Altrettanto entusiasmante è stata la protesta con la quale si sono rifiutati di vedersi inserire l’obbligo del pagamento del canone televisivo nella bolletta elettrica, una scelta chiaramente incostituzionale.Ancora più rumorose ed efficaci sono le lotte che stanno facendo gli italiani in piazza per vedere finalmente rispettato il loro diritto di andare a votare, e di scegliersi il proprio governo con elezioni regolari. In fondo, dopo aver espresso con tanta chiarezza il proprio desiderio, il 4 dicembre, non ci si poteva che aspettare una presa di posizione così forte da parte dei nostri concittadini in difesa dei propri diritti. Noi sì che siamo un popolo di gente unita e dura, gente che sa combattere per ottenere ciò che ci spetta, e che su questo terreno non ha nulla da imparare da nessuno. (Chiedo scusa, ma temo di essermi addormentato scrivendo l’ultima parte dell’articolo).(Massimo Mazzucco, “Italiani esempio per tutti”, dal blog “Luogo Comune” del 5 febbraio 2017).Gli studenti americani si sono ribellati, la scorsa settimana, ed hanno impedito ad un portavoce di Donald Trump di venire a tenere un discorso all’Università di Berkeley. Incuranti dei getti d’acqua e dello spray urticante della polizia, questi studenti hanno lottato fino all’ultimo per affermare il proprio diritto di non vedere il loro campus calpestato da un personaggio con cui non volevano avere nulla a che fare. I cittadini catalani stanno portando avanti da mesi una dura lotta per riuscire a fare il referendum sulla secessione, e stanno obbligando il premier Mariano Rajoy a ricorrere a tutte le più sofisticate armi burocratiche pur di impedirglielo. Avanti di questo passo, riusciranno sicuramente a meritarsi il diritto di votare liberamente sul futuro della propria regione. In Romania da quasi una settimana il popolo è sceso in piazza contro le riforme del governo, che voleva abolire il reato di abuso di ufficio e altri reati minori.
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Michelangelo Florio Crollalanza, in arte William Shakespeare
La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.La teoria dell’origine messinese del grande drammaturgo, scrive Principiato, era stata avanzata anche in sede universitaria, nel 1950, dalla cattedra di storia del diritto italiano dell’ateneo di Palermo, dal professor Enrico Besta. Molto più recentemente, Martino Iuvara da Ispica (Ragusa), pubblicò nel 2002 un volume intitolato “Shakespeare era italiano”, in cui riprese le varie tesi esposte nel tempo, arricchendole con alcuni particolari inediti frutto di sue ricerche. «In particolare – precisa Principiato – avrebbe chiarito il mistero del nome italiano del Bardo che, secondo lo studioso ispicese, era Michelangelo Florio, figlio di un medico e di una nobile siciliana, Guglielma Crollalanza, da cui la traduzione inglese di William Shakespeare». La notizia fu «una ghiottoneria per tutti gli organi di stampa, non solo italiani». Lo stesso “Times”, in articolo di Richard Owen, «uscì sulla vicenda con toni sorprendentemente accondiscendenti verso la tesi di Iuvara», secondo cui il vero Shakespeare, cioè Michelangelo Florio, nacque a Messina il 23 aprile 1564 da Giovanni Florio, medico e pastore calvinista di origine palermitana, e dalla nobile Guglielma Crollalanza.Il piccolo Michelangelo, cioè il futuro William, si rivelò subito un bambino prodigio, dotato di grande genialità e appassionato della lettura. A 16 anni conseguì il diploma del Gimnasium in latino, greco e storia. Giovanissimo, a conferma delle sue doti, scrisse una commedia in dialetto dal titolo “Tantu trafficu ppi nenti”. «A causa delle credenze religiose del padre, Michelangelo (o Shakespeare, se preferite), non più al sicuro a causa dell’Inquisizione, venne prima mandato in Valtellina e poi a Milano, Padova, Verona, Faenza e Venezia. Ebbe anche il tempo di tornare a Messina, ma la sua permanenza nella città dello stretto durò poco», continua Principiato. A 21 anni Michelangelo iniziò il suo personale “giro del mondo”: soggiornò prima ad Atene, dove fu insegnante, poi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. «Tornato ancora una volta in Italia, precisamente a Tresivio, s’innamorò di Giulietta». Ma la storia tra i due «finì in tragedia con il rapimento, per cause religiose, e la successiva morte di quest’ultima». Sconvolto per la morte dell’amata, Michelangelo si trasferì a Venezia ma, dopo che anche il padre per le stesse ragioni fu trucidato, decise di mettersi in salvo trasferendosi a Londra. «È qui che Michelangelo Florio cambia identità e diventa il famoso William Shakespeare».«Lasciatosi alle spalle tutte le paure e i dolori precedenti», “Shakespeare” ebbe finalmente modo di dedicarsi a scrivere per il teatro, continua Principiato. «Le rappresentazioni dei suoi testi ebbero grande consenso tra il pubblico. Ma grande merito del successo andava al dotto e letterato cugino che lo aiutò nelle traduzioni dall’italiano all’inglese e alla moglie, sposata quando il drammaturgo aveva 28 anni, e di 8 anni più grande di lui». Superate le iniziali difficoltà legate al problema della lingua, “Shakespeare” «si impadronì perfettamente dell’inglese, coniando addirittura migliaia di nuovi vocaboli e arricchendo in maniera straordinaria la propria produzione letteraria». Divenne ricco e famoso, e le sue opere molto apprezzate. Morì a Londra il 23 aprile 1616, sempre secondo lo Iuvara. Sicché, “Molto rumore per nulla” sarebbe la versione italiana di “Tantu trafficu ppi nenti”, che Michelangelo Florio di Crollalanza scrisse a Messina intorno al 1579 (manoscritto andato perduto). Ma sono davvero tante le argomentazioni sulla presunta messinesità di Shakespeare, a cominciare da “Amleto”, in cui compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio aveva conoscciuto. Nella stessa opera si trovano poi molti proverbi, pubblicati da Florio, senza pseudonimi, nel volumetto “I secondi frutti”.L’origine italiana di Shakespeare, continua Principiato, forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani: “Romeo e Giulietta”, “Otello”, “Due signori di Verona”, “Sogno di una notte di mezza estate” e “Il mercante di Venezia”, oltre a “Molto rumore per nulla”. Poi “La bisbetica domata”, che è di Padova. E ancora: “Misura per misura”, “Giulio Cesare”, “Il racconto dell’inverno” e “La tempesta”, che inizia a Milano. «Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia». «Nel “Mercante di Venezia” il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma e si dà l’esatta Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e Padova, che deve essere percorsa da Porzia e Nerissa». Proprio nel “Mercante”, il Bardo «rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene». E c’è di più: «Il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il professor Ottonello Discalzio». La gran parte delle opere firmate Shakespeare rivela una conoscenza diretta dei luoghi che Michelangelo Florio ha visitato durante la sua giovinezza girovaga. E “Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza.Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare, annota Principiato. Si sa che l’artista frequentasse a Londra un “Club In”. In quel club, però, non risulta registrato fra i soci nessuno “Shakespeare”, mentre vi risulta registrato Michelangelo Florio. «E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi». I drammi di Shakespeare, poi, «rivelano una straordinaria esperienza secolare». Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali: nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina. Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell lo definisce «lo scrittore che sapeva tutto». Un uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire: un suddito rispettato, ma illetterato.E’ noto che “Shakespeare” conoscesse bene anche la storia romana: sapeva anche che Pompeo aveva soggiornato a Messina, nel 36 a.C. Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II, scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano Pompeo, Menecrate e Menas, in assetto di guerra”». In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, «sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese», addirittura “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I). Osserva Principiato: “crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è traducente perfetto di “shakespeare”. «L’atto da cui deriva il cognome risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare», (capitolo 11). Traduzione: “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi”. E la voce “crollare”, nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini, «dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e allo “shake” scespiriano».I biografi, aggiunge Principiato, ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso, per poco tempo, il cancelliere del tribunale di Stratford. Ipotesi ben poco credibile. E poi: chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Attorno a Stratford non ve n’era traccia. «Un religioso del XVIII secolo controllò tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare». E i manoscritti dei drammi, aggiunge Principiato, costituiscono un problema ancora maggiore: «Non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza». Tutto questo, nonostante tenga ancora banco – ufficialmente – la vulgata della nazionalità britannica del grande artista.L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica infatti il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata “Lord Chamberlain’s Men”, proprietaria del Globe Theatre a Londra. Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli. «La visione scettica afferma invece che lo Shakespeare di Stratford fu semplicemente il prestanome di un altro drammaturgo non rivelatosi». Argomenti a sostegno di questa tesi: «Le ambiguità e le informazioni mancanti nella visione tradizionale e l’affermazione che le opere teatrali di Shakespeare richiedevano un livello culturale (compresa la conoscenza per le lingue straniere) maggiore di quello che si suppone Shakespeare avesse». In più, svariati indizi «suggeriscono che l’autore sia deceduto mentre lo Shakespeare di Stratford era ancora in vita: i dubbi sulla sua paternità espressi da suoi contemporanei».Gli “stratfordiani” sostengono che Shakespeare avrebbe potuto frequentare la The King’s School di Stratford fino all’età di quattordici anni, dove avrebbe studiato i poeti latini e le opere teatrali di autori come Plauto e Ovidio. Ma si tratta di semplici congetture, obietta Principiato, perché «non esistono registri di ammissione o di frequenza che parlino di lui in alcuna scuola secondaria, college o università». Molti “anti-stratfordiani”, poi, si interrogano sul trattino che spesso appare nel nome, spezzanmdolo in due (“Shake-speare”): secondo loro indica che si tratti di uno pseudonimo. Quel trattino, ad esempio, appare sul frontespizio dei “Sonetti” del 1609. Uno studioso di Oxford come Charlton Ogburn fa notare che, fra le 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623 in cui l’autore veniva menzionato, il nome conteneva il trattino in ben 15 casi, quasi la metà. «Ciò è molto significativo, poiché rafforza la tesi del cognome composto: scrolla = shake, lanza/lancia=speare». Altre stranezze, infine, sulla sua morte: nel 1700 Richard Davies scrisse che morì da cattolico, «frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo». Ma soprattutto: «Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registrano in Inghilterra, quasi fosse uno straniero».La probabile origine messinese di William Shakespeare, nato nell’aprile del 1564 e spentosi 52 anni dopo, il 23 aprile 1616, nasce da varie considerazioni che hanno come denominatore comune la città dello Stretto, sia nella produzione letteraria del grande drammaturgo che nelle vicende della sua vita. Lo ricorda Nino Principiato su “Messina ieri e oggi”, facendo notare che la commedia “Molto rumore per nulla” (“Much ado about nothing”), scritta da “Shakespeare” tra il 1598 e il 1599, è interamente ambientata a Messina e con personaggi tutti messinesi. Nel 1927 un giornalista romano, Santi Paladino, con un articolo sul quotidiano “L’Impero” dal titolo “Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano”, affermò che il “bardo di Stratford” sarebbe stato il calvinista siciliano Michelangelo Florio (Michel Agnolo), figlio di Giovanni Florio e di Guglielmina Crollalanza. Paladino si basò sul ritrovamento di un volumetto del Florio che conteneva numerosi proverbi che si ritrovano tutti anche nell’“Amleto”, tesi a cui dedicò due libri, già nel 1929 e poi nel 1955, “Un italiano autore delle opere shakespeariane”.
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Siamo tutti interconnessi, neuroni-specchio risuonano in noi
“Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.Studi successivi, effettuati con tecniche non invasive, hanno dimostrato l’esistenza di sistemi simili anche negli uomini: sembrerebbe che essi interessino diverse aree cerebrali, comprese quelle del linguaggio. I neuroni-specchio «permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri». Ovvero: «Quando osserviamo un nostro simile compiere una certa azione si attivano, nel nostro cervello, gli stessi neuroni che entrano in gioco quando siamo noi a compiere quella stessa azione. Per questo possiamo comprendere con facilità le azioni degli altri: nel nostro cervello si accendono circuiti nervosi che richiamano analoghe azioni compiute da noi in passato». Il neurone-specchio, dunque, “ricorda” qualcosa che è già avvenuto, e “risponde” in modo simultaneo a qualcosa che appartiene al proprio vissuto. «Anche il riconoscimento delle emozioni sembra poggiare su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà “specchio” già rilevata nel caso della comprensione delle azioni». Rispondenza perfetta, riscontrata nei test: «Quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore o di disgusto si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione».Un’altra conferma, continua “Coscienze in Rete”, viene da studi clinici su pazienti affetti da patologie neurologiche: una volta perduta la capacità di provare un’emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene espressa da altri. Alcune evidenze sperimentali sembrano indicare che anche la comprensione del linguaggio faccia riferimento, almeno per certi aspetti, a meccanismi di “risonanza” che coinvolgono il sistema motorio: «Comprendere una frase che esprime un’azione provoca probabilmente un’attivazione degli stessi circuiti motori chiamati in causa durante l’effettiva esecuzione di quell’azione». La scoperta dei neuroni-specchio potrebbe offrire una spiegazione biologica per almeno alcune forme di autismo, come, ad esempio, la sindrome di Asperger: gli esperimenti finora condotti sembrano indicare un ridotto funzionamento di questo tipo di neuroni nei bambini autistici, che non riescono a entrare in sintonia con il mondo che li circonda, con i gesti e le azioni altrui, nonché le emozioni degli altri. In ogni caso, «l’esistenza dei neuroni-specchio prospetta la necessità di una profonda modifica nelle attuali concezioni riguardanti il modo di operare della nostra mente», ridimensionando il modello prospettato dalla psicologia cognitivista.Il cognitivismo è basato sull’analogia funzionale con i calcolatori: definisce regole formali che sarebbero alla base del funzionamento della mente, «ignorando completamente il ruolo dell’esperienza corporea legata al comportamento motorio». I neuroni-specchio, invece, implicano l’esistenza di un meccanismo che consente di comprendere immediatamente il significato delle azioni altrui, e persino delle intenzioni, senza porre in atto alcun tipo di ragionamento. Le ricerche sono ancora agli inizi, ma – secondo il neuroscienziato Vilayanur Ramachandran – è probabile che si tratti di una delle più importanti scoperte, destinata ad avere profonde ripercussioni nel nostro modo di concepire la mente. «Praticamente i neuroni-specchio confermano il fatto che non siamo delle isole separate, ma che siamo in rete. E in questa rete i pensieri, le azioni e i sentimenti circolano dall’uno all’altro. Si potrebbe dire che entrano nella psiche-anima delle persone e somatizzano attraverso i circuiti cerebrali», su cui si sedimentano le nostre individuali esperienze di pensiero, sentimento e azione.In questa ottica, osserva “Coscienze in Rete”, i neuroni-specchio «possono probabilmente essere utilizzati per moltiplicare il bene, con l’esempio e con la condivisione». Per contro, «si possono usare anche per moltiplicare elementi negativi, dallo “scandalo” di cui parla il Vangelo, fino ai comportamenti deteriori di ognuno di noi che influenzano gli altri, fino alle grandi operazioni oscure che tendono ad eccitare o deprimere le coscienze di intere popolazioni o del mondo, non solo con le guerre, ma anche tramite l’uso “nero” dell’arte, delle forme pensiero dei comportamenti, della violenza, dell’erotismo fine a se stesso, del vizio». In altre parole, i neuroni-specchio sarebbero un formidabile moltiplicatore, benché invisibile, capace di amplificare le conseguenze di qualsiasi azione, nel bene e nel male: «Se si amano gli altri e la società, ovviamente sarà importantissimo essere esempio vivente delle azioni, dei sentimenti e dei pensieri rivolti al bene, per diventare elementi diffusori di bene», mettendo i propri neuroni-specchio «ancora di più al servizio della evoluzione umana».“Nessun uomo è un’isola”, scrisse il poeta John Donne. Aveva ragione: siamo tutti interconnessi, collegati strettamente l’uno all’altro. Lo ha scoperto il team del professor Giacomo Rizzolatti, del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. Quello che ci unisce – questa la scoperta – è qualcosa di infinitamente piccolo: neuroni. Li hanno battezzati “neuroni specchio”, perché riflettono, in modo automatico e senza il filtro della mente, i comportamenti altrui. In pratica, questi neuroni fanno sì che “risuoni”, dentro di noi quello in cui ci imbattiamo: persone, azioni, immagini. «I neuroni specchio – scrive “Coscienze in Rete” – sono una delle più importanti scoperte scientifiche dgli ultimi vent’anni», qualcosa che «ha cambiato il nostro modo di comprendere l’interazione tra gli essere umani (e tra gli animali)». L’esistenza dei neuroni-specchio è stata rilevata prima volta verso a metà degli anni ‘90 da Rizzolatti e colleghi, osservando un gruppo di scimmie, macachi: i ricercatori si accorsero che alcuni gruppi di neuroni non si attivavano solo quando gli animali erano intenti a determinate azioni, ma anche quando guardavano qualcun altro compiere le stesse azioni.
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Verità per Regeni? Dagli 007 inglesi: l’hanno ucciso loro
Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.Chi invece ha contribuito a distogliere l’attenzione da questa ipotesi, scagliando l’opinione pubblica contro il regime del Cairo, è stato il gruppo “Espresso” capitanato da “Repubblica”, accusa Dezzani, intervistato da Stefania Nicoletti ai microfoni di “Border Nights”. La realtà sarebbe tutt’altra, ben nota a Roma come al Cairo e a Londra, nonché a tutti i servizi segreti presenti in territorio egiziano. Un verità così indigesta da costringere l’Egitto sulla difensiva a recitare la parte del cattivo, di fronte al governo italiano che finge di reclamare collaborazione nelle indagini, pur sapendo benissimo cosa sarebbe accaduto, in realtà, il 25 gennaio 2016 al Cairo, quando una telefonata da Londra ordinò ai killer di uccidere il coraggioso ricercatore italiano. «L’assassinio di Regeni – scrive Dezzani nel suo blog – si è dispiegato come un’articolata manovra ai danni dell’Italia: sono finiti nel mirino l’Eni e la nostra collaborazione col Cairo sul dossier libico. Ma anche una piccola società d’informatica milanese, l’Hacking Team, diventata d’intralcio al club degli spioni anglosassoni, noto come “Five Eyes”».Manipolazioni, accusa Dezzani, realizzate in collaborazione coi media mainstream: «Perché giornali e istituzioni hanno dedicato poche e stringate parole a Giovanni Lo Porto, il cooperante ucciso in Afghanistan nel gennaio 2015 da un drone statunitense? Perché hanno liquidato in pochi giorni la vicenda di Fausto Piano e Salvatore Failla, i due tecnici uccisi in Libia, dopo che un raid americano a Sabrata fece saltare le trattative per la liberazione? E perché, al contrario, la triste storia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato al Cairo e poi ucciso, è stata oggetto per un anno intero del dibattito politico, di inchieste, di manifestazioni e di appelli? Si direbbe che fosse utile dimenticare le morti di Lo Porto, Piano e Failla, e facesse comodo tenere quella di Regeni sotto i riflettori, il più a lungo possibile». Non solo il caso Regeni ha monopolizzato l’attenzione dei media per un anno intero, «ma ha assunto connotati quasi ridicoli», con i giornali – “Repubblica” in primis – a dar voce ai “si dice”, ad “anonimi” che incolpano il capo della polizia criminale egiziana, il ministero dell’interno, i vertici dei servizi segreti e, dulcis in fundo, il presidente Abd Al-Sisi in persona. «Illazioni, fonti non attendibili», risponderà tranciate la magistratura italiana a distanza di poche ore.“La Repubblica”, continua Dezzani, è lo stesso giornale che, a pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Regeni, informava il pubblico che l’Eni avrebbe dovuto a breve firmare con l’Egitto il contratto per lo sfruttamento del maxi-giacimento di Zohr, sostenendo che «congelarlo, fino ad una chiara identificazione e punizione degli assassini di Giulio, potrebbe essere una buona arma (diplomatica) di pressione». Dunque, «un qualche interesse petrolifero che esulava dalla morte del povero Regeni?», si domanda Dezzani. «Il sospetto è più che legittimo: non solo perché, come diceva Andreotti, “a pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”, ma anche perché al battage del gruppo “L’Espresso” contro l’Egitto si affianca da subito la martellante campagna di Amnesty International», che ha sede a Londra e «solidi legami col Dipartimento di Stato americano e il variegato mondo della vecchia sinistra extra-parlamentare (ex-Lotta Continua, ex-Potere Operaio, “Il Manifesto”) che da sempre gravita nell’orbita Nato». E allora: quale “verità” hanno invocato per dodici mesi i media e le Ong? «La verità oggettiva, oppure una verità di comodo? Quella utile a scoprire i veri carnefici di Giulio Regeni, oppure quella utile all’establishment atlantico, lo stesso in cui si annidano i mandanti dell’omicidio?».In svariati post sul suo blog, Dezzani ha sviscerato a fondo la dinamica del feroce assassinio, evidenziando «tutti gli elementi che indicano una chiara regia atlantica, e inglese in particolar modo, dietro il delitto». Lo scenario è squisitamente geopolitico: tutto comincia nel luglio 2013, quando il golpe militare di Al-Sisi mette fine alla “rivoluzione colorata” del 2011 e depone il governo dei Fratelli Musulmani. Attenzione: benché islamista, la Fratellanza Musulmana è «manovrata da Londra sin dal secolo scorso». Tra il nuovo Egitto nazionalista e l’Italia i rapporti si infittiscono: interscambi commerciali, investimenti, sintonia sullo scacchiere mediorientale. Nel 2014, l’Eni si aggiudica la concessione Shorouk al largo delle coste egiziane. Nel marzo 2015, continua Dezzani nella sua ricostruzione, il vertice di Sharm El-Sheik coincide con lo zenit dei rapporti tra Roma e il Cairo: l’Italia si affida all’Egitto per risolvere il rebus libico, puntando così implicitamente sul generale Khalifa Haftar, già in buoni rapporti con i servizi segreti italiani. Ma ecco che, nel luglio 2015, un’autobomba sventra un’ala del consolato italiano al Cairo: «Rivendicato dall’Isis, l’attentato è un primo messaggio angloamericano affinché l’Italia si svincoli dall’Egitto».Un mese dopo, ad agosto, l’Eni annuncia la scoperta del maxi-giacimento Zohr all’interno della concessione Shorouk: 850 miliardi di metri cubi, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mediterraneo. Ancora un mese, e nel settembre 2015 al Cairo sbarca Regeni. «Reduce da un’esperienza alla società di consulenze Oxford Analytica, il dottorando italiano all’università di Cambridge svolge un programma di studio e azione sul campo (“Participatory action research”) che lo mette in contatto con esponenti dell’opposizione di Al-Sisi: i suoi docenti, Anne Alexandre e Maha Abdelrahman, sono infatti legate al milieu della Fratellanza Mussulmana e delle “rivoluzioni colorate”». Secondo Dezzani, la decisione di “sacrificare” Regeni risale già a questa fase: «Il ricercatore è deliberatamente esposto all’ambiente dei dissidenti, informatori e spioni, così da creare il pretesto per il suo successivo sequestro e omicidio». In altre parole, sarebbe stato mandato al macello. A dicembre, intanto, al vertice marocchino di Skhirat convocato per decidere le sorti della Libia, gli angloamericani “staccano” l’Italia dal generale Haftar e la spingono verso l’effimero governo d’unità nazionale libico: «A questo punto, bisogna solo più incrinare i rapporti italo-egiziani ed estromettere, se possibile, l’Eni dalle sue concessioni».E arriva il fatidico 25 gennaio 2016: Regeni è rapito «su ordine dei servizi inglesi», scrive Dezzani, precisando che «le celle telefoniche testimoniano un traffico tra Regno Unito ed Egitto al momento del sequestro». L’operazione è affidata a «criminali comuni», oppure a «qualche sgherro della Fratellanza Musulmana». Non è neppure da escludere che i rapitori «abbiano agito in uniforme da poliziotti». Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il cadavere di Regeni è rinvenuto alla periferia del Cairo. «Se Regeni fosse effettivamente morto durante un interrogatorio della polizia, il suo corpo non sarebbe mai stato ritrovato», assicura Dezzani, che aggiunge: «Grazie allo zelante ambasciatore Maurizio Massari, con una lunga esperienza a Londra e Washington alle spalle, la situazione precipita in poche ore. E la delegazione del ministro Federica Guidi, in visita in Egitto, è bruscamente richiamata in Italia. Massari sarà promosso qualche mese dopo alla carica di ambasciatore italiano presso la Ue». Il 9 aprile, l’Italia richiama l’ambasciatore, dopo un “fallimentare” vertice a Roma con le autorità egiziane. «Lo sforzo per sabotare l’attività dell’Eni in Egitto raggiunge l’acme e si avanza esplicitamente l’ipotesi che il cane a sei zampe, “visto che ha in piedi in Egitto il più grande investimento, da circa sette miliardi di euro”, faccia le dovute pressioni sul Cairo. Come? Sospendendo i progetti. Si ventilano anche possibili sanzioni economiche contro l’Egitto».A giugno, il filone delle indagini che porta in Inghilterra «si schianta contro il muro di omertà dell’università di Cambridge». Un aspetto della massima serietà. «Il rifiuto di collaborare con gli inquirenti italiani non genera però nessuna crisi diplomatica in questo caso: Londra e Washington godono infatti di una totale impunità in Italia, sin dagli accordi di Yalta del 1945». Uccidere Regeni? Due piccioni con una fava: «Sabotare la presenza italiana in Libia, separandola dalla coppia Al-Sisi/Haftar, ed estromettere l’Eni dal giacimento Zohr». Missione compiuta, a distanza di dodici mesi? Forse, osserva Dezzani, la tradizionale “elasticità” della politica estera italiana, «un po’ cerchiobottista e un po’ levantina», ha limitato i danni: «Il governo ha adottato una linea intransigente contro l’Egitto, seguendo il copione impostogli da Londra e Washington, mentre l’Eni ha mantenuto toni concilianti e filo-egiziani, così da non compromettere gli interessi italiani nella regione». Nel complesso, quindi, «i danni che i mandanti dell’omicidio Regeni volevano infliggere all’Italia sono stati circoscritti e limitati». L’Italia ha sì interrotto la collaborazione con il Cairo in Libia, però l’Eni si è alleata con la russa Rosneft per l’affare del gas. Già, ma il povero Regeni? Verrà mai il giorno in cui, finalmente, i mandanti dei suoi killer avranno un nome, al di là della recita pubblica sulla “verità” per Giulio?Verità per Giulio Regeni? Chiedetela agli 007 inglesi, per i quali lavorava, dietro copertura universitaria. La giusta causa della missione del giovane ricercatore? Nobile: contribuire alla democrazia in Egitto. Molto meno edificante, invece, il vero obiettivo dei suoi committenti-killer: sabotare le relazioni tra l’Italia e il governo del generale Al-Sisi, dopo che l’Eni aveva scoperto, al largo delle coste egiziane, un colossale giacimento di gas. E’ la tesi rilanciata da un analista geopolitico come Federico Dezzani, a un anno dall’atroce “sacrificio” di Regeni, trucidato e fatto curiosamente ritrovare nel modo più clamoroso e raccapricciante, esibito come vittima degli “aguzzini” del Cairo: come se la polizia di Al-Sisi, dovendo liquidare un “nemico”, fosse così folle e autolesionista da metterne in piazza la crocifissione. Il primo a lanciare la pista alternativa a quella della versione ufficiale fu il giornalista Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Le fonti: riservate, di intelligence. Il messaggio, chiaro: Regeni ucciso su ordine di Londra, per rovinare il business italo-egiziano.
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Tagliare i viveri ai blog scomodi, la prima vittima è ByoBlu
«Stampatevi bene questa data nella testa: 27 gennaio 2017. Il giorno in cui gli effetti della campagna contro le cosiddette “fake news” (ma in realtà con l’obiettivo di colpire l’informazione libera e indipendente), orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l’informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza, hanno iniziato a colpire anche in Italia, togliendo la linfa vitale della monetizzazione Adsense, con motivazioni che avrebbero del ridicolo o del tragicomico, se non rappresentassero qualcosa di ben più grave». Così Claudio Messora, dopo che il servizio pubblicitario di Google ha improvvisamente “tagliato i viveri” a “ByoBlu”, il più seguito video-blog indipendente italiano, che vive di donazioni e, appunto, delle inserzioni pubblicitarie “random” veicolate da Adsense. «Oggi è un giorno pesante, il più pesante per l’informazione libera e indipendente in Italia e nel mondo – dichiara Messora – da quando ho iniziato a fare questo “mestiere” del blogger, dieci anni fa».Gli fa eco Pino Cabras su “Megachip”: «Fa molto bene Claudio Messora a sottolineare che il vero obiettivo della campagna contro le ‘fake news’ non erano certo quei cialtroni che infestano il web di notizie false, razziste e irresponsabili per acchiappare clic, che pure ci sono e da chissà chi sono mossi». No, il vero obiettivo politico era «ogni forma di dissidenza informativa, ogni voce non inserita in quell’oligopolio che controlla – con apparente pluralismo ma sostanziale totalitarismo – la galassia dei media tradizionali, un mainstream in radicale crisi di credibilità e ormai in modalità panico». Aggiunge Cabras: «Fa anche bene Messora a non fare tanti giri di parole quando fa i nomi dei maggiori artefici di questa sistematica volontà di censura, che stanno dentro le istituzioni e nelle aziende dominanti delle telecomunicazioni. Sono nomi che si muovono in un sistema legato mani e piedi al blocco d’interessi di cui Hillary Clinton sarebbe stata il maggiore garante, se non avesse subito il rovescio elettorale. E’ un blocco che ha una sua ideologia e che ha ancora molto potere: perciò vuole trasformare l’ideologia in misure concrete, mirate, inesorabili».Così, accanto al “lavoro ai fianchi” ideologico (in cui «si fa aiutare persino da gente che crede di difendere la libertà»), questa galassia di controllori «fa un lavoro più sporco, inteso a prosciugare le risorse del dissenso». Oltre alle personalità e alle istituzioni citate da Messora, Cabras ricorda anche la Nato, un’organizzazione sempre più attenta a inserire nelle azioni di guerra anche la “guerra della percezione”: ha persino redatto un “Manuale di Comunicazione Strategica” che intende coordinare e sostituire tutti i dispositivi antecedenti che si occupavano di diplomazia, pubbliche relazioni anche militari, sistemi elettronici di comunicazione (Information Operations) e, naturalmente, operazioni psicologiche (PsyOps). «Sono azioni coordinate ad ampio spettro, portate avanti da strutture dotate di risorse immani e che lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro in coordinamento con i grandi amministratori delegati di imprese del calibro di Google».L’offensiva è dunque in atto e viene da lontano, prende nota Cabras, attivo su “Megachip” e su “Pandora Tv”, voci libere nate su iniziativa di Giulietto Chiesa. Un’eminenza grigia molto importante dell’amministrazione Usa uscente, Cass Sunstein, anni fa scrisse un saggio in cui – oltre a teorizzare l’«infiltrazione cognitiva» dei gruppi dissenzienti, da perfezionare spargendo disinformazione, confusione, e calunnie – invitava il legislatore a prendere «misure fiscali» (diceva proprio così) contro i propugnatori delle “teorie cospirazioniste” e per l’assoluto divieto di esprimersi liberamente su quanto sia disapprovato dalle autorità, ricorda Cabras. «Ci siamo a suo tempo chiesti dove volesse andare a parare, il professor Sunstein. Voleva dire che chi dissente paga pegno allo Stato? E come diavolo doveva chiamarsi questa nuova imposta? All’epoca erano misteri e deliri di un professore di Harvard, un costituzionalista che ripudiava i capisaldi della Costituzione scritta americana. Ma nel frattempo quel delirio si è fatto strada e si è fatto sistema di potere. E’ bene ricordarlo a quelli che si scandalizzano per Trump senza accorgersi che le ossessioni contro la libertà di espressione hanno colonizzato le istituzioni e i media in cui hanno riposto fiducia, anche a casa Clinton e a casa Obama. Oggi attaccano “Byoblu.com”. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti. E’ una questione già maledettamente seria». In pericolo il pluralismo: è scattato un “maccartismo 2.0”, «un’isteria che vuol fare tabula rasa dell’informazione non allineata».«Stampatevi bene questa data nella testa: 27 gennaio 2017. Il giorno in cui gli effetti della campagna contro le cosiddette “fake news” (ma in realtà con l’obiettivo di colpire l’informazione libera e indipendente), orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l’informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza, hanno iniziato a colpire anche in Italia, togliendo la linfa vitale della monetizzazione Adsense, con motivazioni che avrebbero del ridicolo o del tragicomico, se non rappresentassero qualcosa di ben più grave». Così Claudio Messora, dopo che il servizio pubblicitario di Google ha improvvisamente “tagliato i viveri” a “ByoBlu”, il più seguito video-blog indipendente italiano, che vive di donazioni e, appunto, delle inserzioni pubblicitarie “random” veicolate da Adsense. «Oggi è un giorno pesante, il più pesante per l’informazione libera e indipendente in Italia e nel mondo – dichiara Messora – da quando ho iniziato a fare questo “mestiere” del blogger, dieci anni fa».
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Più crisi, meno democrazia: l’élite “deve” sottometterci
Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».L’ipotesi di combattere le cause dell’impoverimento di massa e della disuguaglianza, scrive Formenti su “Micromega”, non viene nemmeno presa in considerazione, «quasi si trattasse di fenomeni “naturali”». Meglio dunque ricorrere al comodo fantasma del “populismo”, «termine che continua a essere usato in modo propagandistico, senza alcuno sforzo di analisi politologica e senza compiere distinzioni ideologiche, mischiando nello stesso calderone Trump e Sanders, Maduro e Marine Le Pen, Podemos e la Lega, l’M5S e i neonazi tedeschi». Se tale è lo scenario, tanto vale ridurre ulteriormente gli spazi di democrazia, cambiando le regole, in modo da rendere superflua l’approvazione popolare. Un esempio, dice Formenti, viene dal “New York Times”, dove Eduardo Porter auspica leggi speciali e riforme che diano più potere al governo, «dopo essersi chiesto se globalizzazione, mutamenti demografici e rivoluzione culturale abbiano eroso il consenso del popolo americano nei confronti della “democrazia del libero mercato”, al punto da indurlo a votare per un uomo come Trump (Sanders non è nemmeno citato!), che ha fatto campagna sostenendo che il sistema serve gli interessi di un’élite cosmopolita contro quelli della gente comune».Porter, «bontà sua», ammette che «il popolo ha molte ragioni per lamentarsi», ma poi «conclude incongruamente che il vero motivo del successo populista non sta in queste ragioni, bensì nei difetti del sistema elettorale (!?)», quindi conclude «citando i suggerimenti di riforme orientate a garantire la “governabilità” offerti da alcuni solerti politologi». Stessa musica sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio, dove Michele Salvati «ribadisce che sì, la vita della maggioranza dei cittadini è grama e tale resterà a lungo» per cui, appurato che «le “leggi” dell’economia non ammettono deroghe e che dunque occorrerà in ogni caso farle digerire al popolo», a tale scopo «servirà comunque “riformare” la Costituzione». Il compito si è rivelato impossibile per un’unica forza politica? E allora «non resta che lavorare alla costruzione di una grande coalizione “anti populista” che abbia la maggioranza necessaria per compiere le riforme senza che poi debbano essere sottoposte a referendum».Sempre sul “Corriere”, Gustavo Ghidini rilancia con forza «l’imprescindibile esigenza di “normalizzare” la comunicazione online». Gli argomenti sono i soliti: combattere le bufale, gli incitamenti all’odio, l’uso di termini offensivi e “politicamente scorretti”. E’ evidente, scrive Formenti, come «il senso di queste e altre definizioni possa essere opportunamente dilatato per colpire ben altri bersagli, come la libertà di opinione ed espressione, ed è altrettanto evidente come questa crociata sia, non casualmente, iniziata subito dopo che sondaggisti e studiosi di comunicazione hanno accusato Internet di avere favorito i successi elettorali “populisti”, bypassando un sistema dei media mainstream sempre più blindato a sostegno del pensiero unico liberal-liberista e delle forze politiche che ne incarnano gli interessi». Insomma: per Formenti «la grande controffensiva è iniziata, ed è destinata a farsi più feroce a mano a mano che l’insofferenza dei cittadini nei confronti delle élites si farà più forte, fino a generare (si spera) una domanda esplicita di rottura sistemica».Non era il caso di illudersi: la vittoria del No nel referendum che ha bocciato la “riforme” renziane «non rallenterà gli sforzi delle élites per de-democratizzare il sistema politico», dal quale «decenni di controrivoluzione liberal-liberista hanno già espunto molti elementi di democrazia». Al contrario, sostiene Carlo Formenti, gli sforzi in questa direzione si moltiplicheranno «perché per le caste politiche, economiche, accademiche, e per il sistema dei media che le sostiene, la distruzione di quanto resta della democrazia è questione di sopravvivenza». Già dopo il referendum, nel giro di qualche giorno, «questa fin troppo facile previsione ha ottenuto numerose conferme». Per Formenti, la tesi che i “nemici della democrazia” difendono sempre più apertamente, e senza troppi giri di parole, è la seguente: «Visto che le condizioni socioeconomiche che hanno favorito l’ascesa dei “populismi”sono destinate a durare, non resta che modificare le regole del sistema politico in modo tale da poterlo governare a prescindere dal fatto che esso ottenga il consenso – e un riconoscimento di legittimità – da parte della maggioranza dei cittadini».
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Sta sparendo il buio: in pericolo salute, animali e piante
Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.Alcuni alberi sono sensibili alla durata del giorno poiché questa determina i loro ritmi stagionali. Ma, nel momento in cui la luce artificiale estende la loro esposizione a una fonte luminosa, queste specie cambiano modalità di fioritura, di germoglio e di perdita delle foglie. Uno degli effetti più gravi, secondo William R. Chaney del Dipartimento delle risorse forestali e naturali dell’università Purdue, è che la luce artificiale «promuove la crescita continua degli alberi e pertanto impedisce loro di sviluppare l’inattività che permette di sopravvivere al rigore dell’inverno». Circa 4 americani su 5 non possono vedere la Via Lattea. Più del 99 percento degli americani vive sotto un cielo considerato inquinato. Ma, sebbene l’inquinamento luminoso sia molto diffuso nel paese, gli Stati Uniti non sono presenti nella lista stilata dagli scienziati di Harvard nella quale sono inserite le 20 nazioni più inquinate in questo senso. Tra i paesi del G20, gli Stati Uniti si trovano al nono posto.Per quanto riguarda il corpo umano, l’inquinamento luminoso interferisce con la produzione di melatonina durante la notte. L’esposizione alla luce nelle ore notturne è risultata correlare con molte malattie fra cui diabete, obesità, cancro al seno e alla prostata. Come se non bastasse, secondo l’International Dark-Sky Association la quantità di luce utilizzata ogni anno per illuminare le strade e i parcheggi disseminati nel paese è superiore a quella utilizzata nella città di New York in due anni. Più del 50 percento della luce viene sprecata perché non adeguatamente direzionata. Sebbene illuminare le strade sembri essere una misura necessaria per la sicurezza, Chaney ricorda che «molte aree ad alta concentrazione di traffico sono così intensamente illuminate che la visibilità viene disturbata dal riverbero prodotto dalla poca schermatura degli impianti».(Tara Macisaac, “L’inquinamento luminoso danneggia natura, salute e portafoglio”, da “Epoch Times”, ripreso da “La Crepa nel Muro” l’11 gennaio 2017).Tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita una falena attirata dalle luci fuori casa andare a sbattere senza alcun timore contro una lampadina. Questo istinto è lo stesso che le guida a volare in circolo quando sono presenti le luci naturali di stelle e luna e che le fa rimbalzare sulle fonti luminose. L’inquinamento luminoso è un fenomeno che disturba i flussi migratori, i rituali di accoppiamento, la caccia e molti altri processi essenziali per la vita di piante, insetti e animali. Alcune fra le 450 specie di uccelli presenti nel Nord America utilizzano la luna e le stelle per orientarsi durante le proprie migrazioni notturne. Gli scienziati hanno documentato incidenti nei quali interi stormi di uccelli sono andati a sbattere contro degli edifici illuminati delle città. Ne sono morti decine di migliaia in una singola notte. Gli effetti negativi dell’inquinamento luminoso vengono subiti da animali migratori volanti, di terra o acquatici. Per esempio, i pattern migratori del salmone sono correlati al sole. Secondo quanto riscontrato in una ricerca citata dall’International Dark-Sky Association, nel momento in cui il salmone viene esposto a luce artificiale, tali pattern divengono irregolari.
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India: laboratorio mondiale per la demonetizzazione forzata
Oltre mezzo miliardo di indiani costretti ad aprirsi un conto in banca, quindi a far guadagnare le banche e a farsi controllare, al centesimo. Tutto questo da que mesi a questa parte, con l’improvvisa soppressione del cash a favore della moneta elettronica. «Pensavo che un esperimento del genere compiuto nel corpo vivo di una nazione di 1.276 milioni di abitanti, con oltre 3 milioni di chilometri quadrati, con la bomba atomica e situata in una posizione strategica (sia geopoliticamente che economicamente e finanziariamente), avrebbe richiamato l’interesse di qualche guru dell’economia, specialmente di sinistra», scrive Piero Pagliani. «Invece niente», nessuno si è accorto dell’enormità che sta avvenendo. In compenso, il magnate statunitense Steve Forbes ha definito la “demonetizzazione” indiana «nauseante e immorale, una rapina di massa», paragonandola alla politica di sterilizzazione forzata voluta da Indira Gandhi. Tutto è partito l’8 novembre scorso, quando il governo nazionalista indù retto da Narendra Modi ha dichiarato fuori corso tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie (ovvero 7 e, rispettivamente, 14 euro). «Questo è equivalso a mettere fuori corso circa l’80% del denaro circolante».Gli indiani, ricorda Pagliani su “Megachip”, avevano due settimane di tempo per cambiare le loro banconote ormai “illegali” con quelle da 500 e 2.000 rupie, «facendo esasperanti code agli sportelli bancari dove sono morte decine di persone per infarto o collasso, o prelevare ai bancomat». Prelievi comunque limuitati, «solo fino a uno striminzito tetto massimo di 2.000 rupie, poi elevato a 4.000», cioè 55 euro. Pagliani denuncia «gli effetti di questa violenta demonetizzazione sui milioni di piccoli operatori economici che costituiscono il fitto tessuto economico indiano». Considera l’operazione «un enorme regalo alle banche che ha aspetti di sadismo sociale in una nazione di milioni di piccoli operatori economici». Si parla infatti di «centinaia e centinaia di milioni di persone danneggiate e a volte minacciate fin nella loro esistenza fisica e in quella dei loro familiari». In pratica, almeno 800 milioni di persone «gettate nella difficoltà e a volte nella disperazione», che oltretutto «sono solo un’avanguardia, una prima tranche». Infatti, «la mossa di Narendra Modi è un esperimento in grandissimo stile di un piano ben più generale portato avanti da potenti interessi radicati negli Stati Uniti e con vaste diramazioni internazionali».L’operazione, continua Pagliani, «è parte della politica di partnership strategica tra Usa e India, fortemente voluta dal presidente uscente Barack Obama». Più precisamente, «costituisce uno dei protocolli di cooperazione firmati tra il ministero indiano delle finanze e l’agenzia governativa statunitense Usaid». La manovra, aggiunge Pagliani, fa capo alle linee di azione della “Better Than Cash Alliance”, di cui fanno parte Mastercard, Visa, la Fondazione Ford e la Fondazione Gates, che agiscono anche individualmente, ad esempio proprio nell’iniziativa che ha colpito l’India. Non a caso Bill Gates era in visita in quel paese proprio in quei giorni e rilasciava dichiarazioni di sostegno alla demonetizzazione: «La moneta di plastica è il futuro in India». Ma uno dei padrini nascosti di questa manovra, spiega Pagliani, è Raghuram Rajan, governatore della Reserve Bank indiana fino a due mesi prima dell’annuncio a sorpresa che ha scioccato gli indiani. «Questo signore ha un passato come economista capo all’Fmi, è professore di economia all’Università di Chicago (culla accademica del neoliberismo) ed è membro del Gruppo dei Trenta» dove, spiega Norbert Haering, «rappresentanti di alto livello delle maggiori istituzioni commerciali finanziarie a livello mondiale condividono opinioni e piani coi presidenti delle più importanti banche centrali, a porte chiuse e senza nessun verbale».Raghuram Rajan è considerato un possibile successore di Christine Lagarde alla guida dell’Fmi: «Si sta conquistando il merito sul campo». Aggiunge Pagliani: «Se consideriamo il tessuto produttivo e commerciale indiano, il fatto che il 97% delle transazioni sono eseguite in contante e che solo il 55% degli indiani ha un conto in banca (e ci sono aree dove le banche sono lontanissime fisicamente) e che quei conti sono pochissimo movimentati, si capisce la misura del disastro indotto-voluto da questa manovra». Un disastro mistificato da slogan come “inclusione finanziaria” e “inclusione digitale”. «Insomma, il solito “nuovo che avanza”, il progresso, come ai tempi di Enrico VIII ed Elisabetta I lo erano le “enclosure” che gettavano nella miseria e nella disperazione i contadini inglesi che potevano solo andare a mendicare nelle città per farsi impiccare a schiere per via delle draconiane leggi contro l’accattonaggio e il vagabondaggio». Karl Marx sosteneva che la cosiddetta “accumulazione originaria” del capitale si ripete ciclicamente, come al solito «grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro». Il perspicace “Hindustan Times titolava”: «Modi è come la regina Antonietta che diceva: Se non avete il pane mangiate le brioches».Quali sono i vantaggi che le élite mondializzate intendono trarre dalla demonetizzazione forzata che per ora vediamo all’opera in India? Almeno tre. Il primo: «Ogni cittadino, almeno nelle intenzioni, sarà costretto a imprestare il grosso del denaro che possiede e che guadagna alle banche. Semplicemente perché per poter usare la “moneta di plastica” deve avere un conto in banca, e ogni volta che versa sul conto in banca fa un prestito alla banca stessa. Un drenaggio di ricchezza verso i soliti noti che già posseggono la quasi totalità del pianeta Terra». Secondo, la tracciabilità: «Ovvero il controllo capillare. Praticamente su tutto. Un potere immenso di sorveglianza». Terzo vantaggio, per l’élite finanziaria: «Il controllo tecnico-politico delle transazioni e quindi delle grandi istituzioni finanziarie e di conseguenza un controllo politico dei governi che fanno loro riferimento». In fondo, conclude Pagliani, a Maria Antonietta «tagliarono la testa per molto meno».Oltre mezzo miliardo di indiani costretti ad aprirsi un conto in banca, quindi a far guadagnare le banche e a farsi controllare, al centesimo. Tutto questo da due mesi a questa parte, con l’improvvisa soppressione del cash a favore della moneta elettronica. «Pensavo che un esperimento del genere compiuto nel corpo vivo di una nazione di 1.276 milioni di abitanti, con oltre 3 milioni di chilometri quadrati, con la bomba atomica e situata in una posizione strategica (sia geopoliticamente che economicamente e finanziariamente), avrebbe richiamato l’interesse di qualche guru dell’economia, specialmente di sinistra», scrive Piero Pagliani. «Invece niente», nessuno si è accorto dell’enormità che sta avvenendo. In compenso, il magnate statunitense Steve Forbes ha definito la “demonetizzazione” indiana «nauseante e immorale, una rapina di massa», paragonandola alla politica di sterilizzazione forzata voluta da Indira Gandhi. Tutto è partito l’8 novembre scorso, quando il governo nazionalista indù retto da Narendra Modi ha dichiarato fuori corso tutte le banconote da 500 e 1.000 rupie (ovvero 7 e, rispettivamente, 14 euro). «Questo è equivalso a mettere fuori corso circa l’80% del denaro circolante».
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Levin: gli Usa hanno interferito nelle elezioni in 45 paesi
Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.Per la Cia, il Cremlino avrebbe tentato di aiutare Donald Trump a conquistare la presidenza? «Eppure, nessuno dei due paesi può dirsi estraneo a tentativi di ingerenza nelle elezioni di altri paesi». Gli Stati Uniti, per di più, vantano record ineguagliati in questo campo: «Hanno una storia lunga e impressionante di tentativi di influenzare le elezioni presidenziali in altri paesi», scrive Shane Dixon Kavanaugh, in un post ripreso da “Voci dall’Estero” in cui si documentano i risultati del recente studio condotto da Dov Levin, ricercatore in scienze politiche dell’Università Carnegie-Mellon di Pittsburgh, Pennsylvania. E’ un fatto: gli Usa hanno «cercato di influenzare le elezioni in altri paesi per ben 81 volte tra il 1946 e il 2000». Spesso lo hanno fatto «agendo sotto copertura», con tentativi che «includono di tutto: da agenti operativi della Cia che hanno portato a termine con successo campagne presidenziali nelle Filippine negli anni ’50, al rilascio di informazioni riservate per danneggiare i marxisti sandinisti e capovolgere le elezioni in Nicaragua nel 1990». Facendo la somma, calcola Levin, gli Usa avrebbero condizionato le elezioni in non meno di 45 paesi in tutto il mondo, durante il periodo considerato. E nel caso di alcuni paesi, come l’Italia e il Giappone, gli Stati Uniti hanno cercato di intervenire «in almeno quattro distinte elezioni».I dati di Levin, aggiunge Shane Dixon Kavanaugh, non includono i golpe militari o i rovesciamenti di regime che hanno seguito l’elezione di candidati contrari agli Stati Uniti, come ad esempio quando la Cia ha contribuito a rovesciare Mohammad Mosaddeq, il primo ministro democraticamente eletto in Iran nel 1953. Il ricercatore definisce l’interferenza elettorale come «un atto che comporta un certo costo ed è volto a stabilire il risultato delle elezioni a favore di una delle due parti». Secondo la sua ricerca, questo includerebbe: diffondere informazioni fuorvianti o propaganda, creare materiale utile alla campagna del partito o del candidato favorito, fornire o ritirare aiuti esteri e fare annunci pubblici per minacciare o favorire un certo candidato. «Spesso questo prevede dei finanziamenti segreti da parte degli Usa, come è avvenuto in alcune elezioni in Giappone, Libano, Italia e altri paesi».Per costruire il suo database, Levin si è basato su documenti declassificati della stessa intelligence americana, come anche su una quantità di report del Congresso sull’attività della Cia. Ha poi esaminato ciò che considera resoconti affidabili della Cia e delle attività americane sotto copertura, nonché ricerche accademiche sull’intelligence statunitense, resoconti di diplomatici della guerra fredda e di ex funzionari sempre della Cia. «Gran parte delle ingerenze americane nei processi elettorali di altri paesi sono ben documentate, come quelle in Cile negli anni ’60 o ad Haiti negli anni ’90», senza contare il caso di Malta nel 1971: secondo lo studio di Levin, gli Usa avrebbero cercato di condizionare la piccola isola mediterranea strozzandone l’economia nei mesi precedenti all’elezione di quell’anno. «I risultati della ricerca suggeriscono che molte delle interferenze elettorali americane sarebbero avvenute durante gli anni della guerra fredda, in risposta all’influenza sovietica che andava espandendosi in altri paesi», sottolinea Shane Dixon Kavanaugh.«Per essere chiari, gli Usa non sarebbero stati gli unici a cercare di determinare le elezioni all’estero. Secondo quanto riportato da Levin lo avrebbe fatto anche la Russia per 36 volte dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla fine del ventesimo secolo. Il numero totale degli interventi da parte di entrambi i paesi sarebbe stato dunque, in quel periodo, pari a 117». Eppure, anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, nonostante venisse a mancare l’alibi della guerra fredda, il grande nemico a Est, gli Stati Uniti «hanno continuato i propri interventi all’estero, prendendo di mira elezioni in Israele, nella ex Cecoslovacchia e nella stessa Russia nel 1996». In altre parole: se la Russia di Putin ha archiviato le attività “imperiali” dell’Urss, l’America ha invece raddoppiato la posta: secondo Levin, dal 2000 a oggi gli Usa hanno pesantemente interferito con le elezioni in Ucraina, Kenya, Libano e Afghanistan, per citarne solo alcuni dei paesi sottoposti alle “attenzioni elettorali” di Washington.Mentre infuriano le polemiche per le (del tutto presunte) interferenze russe nelle elezioni presidenziali americane, “Vocativ” commenta una recente ricerca in cui si contano almeno 81 casi di interventi americani in 45 paesi, dal dopoguerra ad oggi, volti a condizionare l’esito delle elezioni politiche. E questo, senza contare i colpi di Stato militari promossi e organizzati dalla Casa Bianca. Scrive “Voci dall’Estero”: «Il motivo per cui – fingiamo pure che il fatto sussista – un certo establishment americano sta gridando allo scandalo e rialzando una cortina di ferro, non è altro che quello che lo stesso establishment americano ha sempre fatto verso il resto del mondo». Lo conferma un recentissimo studio, che mostra che l’America ha una lunga storia di ingerenze nelle elezioni in paesi stranieri, sintetizza Shane Dixon Kavanaugh su “Vocative”, prendendo spunto dalla clamorosa propaganda di Obama contro la Russia: 35 diplomatici espulsi e la richiesta di nuove sanzioni, in risposta a ciò che gli Usa ritengono essere una serie di cyber-attacchi condotti da Mosca durante la campagna presidenziale. Peccato che questa specialità – il pilotaggio delle elezioni altrui – sia un talento squisitamente statunitense.
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Italiani analfabeti, 7 su 10 non capiscono quel che leggono
Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.Non sono certamente analfabeti “strumentali”, bene o male sanno leggere anch’essi e – più o meno – sanno tuttora far di conto (comunque c’è un 5 per cento della popolazione italiana che ancora oggi è analfabeta strutturale, “incapace di decifrare qualsivoglia lettera o cifra”); ma essi sono analfabeti “funzionali”, si trovano cioè in un’area che sta al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura o nell’ascolto di un testo di media difficoltà. Hanno perduto la funzione del comprendere, e spesso – quasi sempre – non se ne rendono nemmeno conto. Quando si dice che quella di oggi non è più la civiltà della ragione ma la civiltà della emozione, si dice anche di questo. E quando Bauman (morto ieri, grazie a lui per ciò che ci ha dato) diceva che, indipendentemente da qualsiasi nostro comportamento, ogni cosa é intessuta in un discorso, anche l’”analfabetismo” sta nel “discorso”. Cioè disegna un profilo di società nella quale la competenza minima per individuare una capacità di articolazione del proprio ruolo di “cittadino” – di soggetto consapevole del proprio ruolo sociale, disponibile a usare questo ruolo nel pieno controllo della interrelazione con ogni atto pubblico e privato – questa competenza appartiene soltanto al 20 per cento dei nostri connazionali.E’ sconcertante, e facciamo fatica ad accettarlo. Ma gli strumenti scientifici di cui la linguistica si serve per analizzare il rapporto tra “messaggio” e “comprensione” hanno una evidenza drammatica. Non é un problema soltanto italiano. L’evoluzione delle tecnologie elettroniche e la sostituzione del messaggio letterale con quello iconico stanno modificando un po’ dovunque il livello di comprensione; ma se le percentuali attribuibili ad altre societá (anche Francia, Germania, Inghilterra, o anche gli Usa, che non sono affatto il modello metropolitano del nostro immaginario ma piuttosto un’ampia America profonda, incolta, ignorante, estremamente provinciale) se anche quelle societá denunciano incoerenze e ritardi, mai si avvicinano a queste angosciose latitudini, che appartengono soltanto all’Italia, e alla Spagna.Il “discorso” è complesso, e ha radici profonde, sociali e politiche. Se prendiamo in mano i numeri, con il loro peso che non ammette ambiguità e approssimazioni, dobbiamo ricordare che nel nostro paese circa il 25% della popolazione non ha alcun titolo di studio o ha, al massimo, la licenza della scuola elementare. Non é che la scuola renda intelligenti, e però fornisce strumenti sempre più raffinati – quanto più avanti si vada nello studio – per realizzare pienamente le proprie qualità individuali. Vi sono anche laureati e diplomati che sono autentiche bestie, e però è molto più probabile trovare “bestie” tra coloro che laurea e diploma non sanno nemmeno che cosa siano. (La percentuale dei laureati in Italia, poi, é poco più della metà dei paesi più sviluppati.)Diceva Tullio De Mauro, il più noto linguista italiano, ministro anche della Pubblica Istruzione (incarico che siamo capaci di assegnare perfino a chi non ha né laurea né diploma – e questo dato rientra sempre nel “discorso”), che più del 50 per cento degli italiani si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge le complessità, ma che anche davanti a un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale) é capace di una comprensione appena basilare.Un dato impressionante ce l’ha fatto conoscere ieri l’Istat: il 18,6 per cento degli italiani – cioè quasi uno su 5 – lo scorso anno non ha mai aperto un libro o un giornale, non é mai andato al cinema o al teatro o a un concerto, e neppure allo stadio, o a ballare. Ha vissuto prevalentemente per la televisione come strumento informativo fondamentale, e non é azzardato credere – visti i dati di riferimento della scolarizzazione – che la sua comprensione della realtà lo piazzi a pieno titolo in quell’80 per cento di analfabeti funzionali (che riguarda comunque un universo sociale drammaticamente molto più ampio di questa pur amara marginalità). E da qui, poi, il livello e il grado della partecipazione alla vita della società, le scelte e gli stili di vita, il voto elettorale, la reazione solo di pancia – mai riflessiva – ai messaggi dove la realtà si copre spesso con la passione, l’informazione e la sua contaminazione con la pubblicità e tant’altro che ben si comprende. E’ il “discorso”.Il “discorso” ha al centro la scuola, il sistema educativo del paese, le scelte e gli investimenti per la costruzione di un modello funzionale che superi il ritardo con cui dobbiamo misurarci in un mondo sempre più aperto e sempre più competitivo. Se noi destiniamo alla ricerca la metà di un paese come la Bulgaria, evidentemente c’é un “discorso” da riconsiderare. (Questo testo é un omaggio a Tullio De Mauro, morto nei giorni scorsi, che ha portato la linguistica fuori dalle aule dell’accademia, e l’ha resa uno degli strumenti fondamentali di analisi di una società) .(Mimmo Càndito, “Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce”, da “La Stampa” del 10 gennaio 2017).Il 70 per cento degli italiani è analfabeta: legge, guarda, ascolta, ma non capisce. Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all’80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch’essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell’unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”. Qual è questa loro diversità? Che sono incapaci di ricostruire ciò che hanno appena ascoltato, o letto, o guardato in tv e sul computer. Sono incapaci! La (relativa) complessità della realtà gli sfugge, colgono soltanto barlumi, segni netti ma semplici, lampi di parole e di significati privi tuttavia di organizzazione logica, razionale, riflessiva.
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Illusioni e delusioni, lo show del Magus sul ring del potere
Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.Per Barnard, la politica occidentale è stata scientificamente colonizzata dal potere economico, a partire dagli anni ‘70, sulla scorta del Memorandum Powell tradotto in tutte le lingue, attraverso la Trilaterale dei Kissinger e dei Rockefeller, e declinato in manuali di propaganda che hanno fatto storia, fino alla “Crisi della democrazia” celeberata nel Vangelo di Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, per arrivare ai Chigaco Boys di Milton Friedman e al Nobel per l’Economia assegnato al grande stratega europeo del governo “illuminato” dell’élite, l’austriaco Friedrick von Hayek. Università, editoria, informazione: un unico grande coro, per dire che il mercato ha sempre ragione, che “non c’è alternativa” (Thatcher), che bisogna rimuovere ogni ostacolo alla finanza speculativa (Bill Clinton). E’ così che la destra economica si è imposta anche sulla sinistra, colonizzando partiti, sindacati e leader, da Massimo D’Alema a Gerhard Schroeder, da Tony Blair a Romano Prodi, per affermare l’onnipotenza “storica” nel neoliberismo, fino all’ordoliberismo dei super-massoni Angela Merkel, Mario Draghi, Wolfgang Schaeuble, Giorgio Napolitano, Jacques Attali, Jens Weidmann, François Hollande.Cade Grillo, perdendo la sua residua “credibilità antisistema” proprio mentre si affaccia sugli Usa e sul mondo il nuovo regno del presidente Trump, presentatosi come alfiere del “popolo” contro l’oligarchia? Illusioni ottiche, sostiene l’avvocato Gianfranco Carpeoro, massone e scrittore, esperto di simbologia e studioso del potere come «schema astratto, che “fabbrica” persone utili si suoi scopi». Il super-potere apolide ha rottamato per via giudiziaria la Prima Repubblica italiana, gremita anche di personaggi come Craxi e Andreotti, scomodi per il nuovo vertice europeo che si doveva imporre? Vero, ma i partiti di Craxi e Andreotti «facevano i congressi con i morti, gestendo pacchetti di voti di militanti defunti da tempo». E i cittadini dov’erano? A casa, come sempre. Rassegnati alla “fine della storia” celebrata dall’ultimo cantore della Trilaterale, Francis Fukuyama. Persuasi della “morte delle ideologie”. Una liberazione? Al contrario: «L’ideologia – sottolina Carpeoro – contiene il futuro: è l’idea di come vorremmo la società fra trent’anni. C’è qualche politico, oggi, che pensa a un orizzonte che vada oltre i sei mesi?».Carpeoro è uno studioso dei Rosacroce, misteriosi antesignani dell’anarchismo socialista utopico e pre-marxista, le cui prime parole d’ordine sono probabilmente contenute nel manifesto “Fama Fraternitatis”, che nel 1614 chiedeva l’abolizione della proprietà privata e dei confini tra le nazioni. Un mondo migliore, liberato dalla logica del dominio, la cui comparsa sulla Terra uno studioso come Francesco Saba Sardi fa risalire addirittura al neolitico, con la scoperta dell’agricoltura e l’improvvisa necessità di possedere terre, gestirle, difenderle, conquistarle. Proprio l’esigenza di sudditi, destinati a lavorare e combattere, secondo Saba Sardi partorì “l’invenzione” della religione, da parte del re-sacerdote, come pretesto per l’obbedienza e la sottomissione, da cui – per successiva e ulteriore degenerazione – nacque il Magus, l’uomo del potere che utilizza la conoscenza per manipolare la comunità.E’ una storia lunga 12.000 anni, con di mezzo imperi e dominazioni, millenni di evoluzione, grandiosi progressi, guerre, rivoluzioni. Per Carpeoro, però, siamo ancora e sempre prigionieri del cerchio magico tracciato da Magus di turno: all’interno del cerchio vivono promesse di miracoli, fuori dal cerchio ci minaccia il Nemico. «Rompere il cerchio significa imparare a chiedersi perché, il perché delle cose». Ovvero: «Perché questo sistema prevede che, perché noi stiamo meglio, altri devono per forza stare peggio?». Il Magus ha una caratteristica invariabile: non rischia mai, davvero. Durante la sanguinosa fase storica della decolonizzazione, nel secondo ‘900, l’ideologia comunista ha partorito personaggi come Patrick Lumumba, Ernesto Che Guevara, Thomas Sankara. Hanno tutti pagato, con la vita, il prezzo delle loro idee. Loro la vedevano, eccome, la proiezione nel tempo della società ideale. Oggi invece – altra epoca, altro millennio – i più restano a casa, con idee a portata di click, limitandosi ad assistere alla caduta del Magus di turno, senza mai mettere in discussione – nella vita quotidiana – il potere che l’aveva creato, per accomodare il pubblico nel suo rassicurante cerchio magico. Poi il cerchio esplode, come una bolla di sapone, nel lutto degli adepti. Il potere invece se la ride, sta già fabbricando il Magus che verrà.Incoerenza e fellonia conclamata anche da parte dei 5 Stelle, il cui vertice si schiera sottobanco con l’establishment euro-economicida tentando, ancora, di raccontare ai follower e agli elettori italiani la favola bella della rivoluzione gentile a colpi di democrazia diretta via Casaleggio Associati? Se c’è un capolavoro assoluto e perfetto, a cura del potere che ci manipola incessamente da decenni, per un outsider “guerrigliero” come Paolo Barnard è proprio questo: aver storicamente tolto, agli elettori, ogni possibilità di incidere realmente nei destini della comunità, nazionale e internazionale, facendo semplicemente piazza pulita di qualsiasi reale oppositore, di qualsiasi vero antagonista di un sistema che è teleguidato dalla grande finanza paramassonica ma gode del pieno consenso della gran parte del pubblico, sempre passivo, ridotto a massa composita di ex cittadini trasformati in docili spettatori, in semplici consumatori, cui la relativa libertà del web consente di coltivare l’illusione della partecipazione, affidata ai social media e alle riserve indiane, i blog della cosiddetta controinformazione complottistica.