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‘Edoardo Agnelli era un Sufi, ma con parenti nel B’nai B’rith’
Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».L’impatto sulla famiglia, di una scelta così radicale? «Per l’Avvocato, bastava che Edoardo non mettesse piede in azienda», dichiara Carpeoro a Fabio Frabetti di “Border Nigths”. «Poi lì c’è un entourage, però, che mal sopportava questo, sicuramente». E aggiunge: oggi siamo passati da un Sufi a una famiglia il cui capostipite, «che poi è il marito di Margherita Agnelli», cioè lo scrittore e giornalista Alain Alkann, appartiene al B’nai B’rith, espressione «di un certo sionismo reazionario che ha fatto tanti danni alla cultura israeliana». Il primo che si è scagliato contro questo tipo di potere «è un grande personaggio della cultura ebraica che si chiama Moni Ovadia», dice Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. B’nai B’rith? Per Wikipedia, si tratta di una innocua loggia di ebrei, di prevalente origine tedesca, nata un secolo prima dello Stato di Israele: fondata il 13 ottobre del 1843 a New York. Da allora, i “figli dell’alleanza” hanno una missione ufficiale: assistere i poveri. «L’organizzazione partecipa a numerose attività legate ai servizi sociali, tra cui la promozione dei diritti degli ebrei, l’assistenza negli ospedali e alle vittime dei disastri». Inoltre, la “lega dei fratelli” stanzia premi per gli studenti di scuole ebraiche e combatte l’antisemitismo tramite il suo Center for Human Rights and Public Policy.Oltre alle sue attività sociali, continua Wikipedia, il B’nai B’rith è anche un sostenitore dello Stato di Israele: insieme all’Aipac, potente lobby ebraica di Washington, la super-massoneria ebraica ha finanziato associazioni giovanili e studentesche. Ma, secondo Carpeoro, non sono soltanto umanitari gli scopi del B’nai B’rith, che apparterrebbe a pieno titolo al panorama delle potentissime superlogge internazionali, in strettissimo contatto con il Mossad, l’intelligence di Tel Aviv: sempre secondo Carpeoro, oltre ad Alain Elkann (cognato di Edoardo Agnelli), al B’nai B’rith apparteneva l’anziano Lion Klinghoffer, ucciso dal commando palestinese che dirottò la nave la crociera Achille Lauro nel 1985, da cui poi la crisi di Sigonella, con i carabinieri inviati da Craxi a proteggere i dirottatori, che i marines volevano catturare. Una tensione senza precedenti, in ambito Nato, che probabilmente costò il futuro politico dello stesso Craxi: «La sua telefonata con Reagan – racconta Carpeoro, allora vicino al leader socialista – fu deliberatamente mal tradotta, in diretta, dal politologo statunitense Michael Ledeen: cosa che Craxi non gli perdonò mai, perché compromise i suoi rapporti col presidente Usa».Di Ledeen, Carpeoro ha parlato spesso, anche nel suo saggio (uscito nel 2016) che denuncia la manipolazione atlantica dell’opaco neo-terrorismo europeo targato Isis. Ledeen? «All’epoca era vicino a Craxi, ma al tempo stesso anche a Di Pietro. Poi, in tempi assai più recenti, è stato al fianco di Renzi ma anche del grillino Di Maio». L’altra notizia? «Lo stesso Ledeen è un autorevole esponente del B’nai B’rith». Dunque il giovane Edoardo Agnelli, già scomodo anche per la Fiat (durissima una sua lettera al padre, all’epoca di Tangentopoli) poteva non essere più facilmente tollerato in una famiglia con componenti fortemente sioniste? La verità è più complessa, spiega Carpeoro, ricordando che Gianni Agnelli ha sposato la principessa Marella Caracciolo, sorella del fondatore de “L’Espresso”: «La linea materna di Edoardo è particolare: colta, raffinata, un po’ decadente». Il giovane Agnelli, semplicemente, «era molto più simile al ramo di sua madre che non a quello di suo padre». Lo conferma, nel modo più estremo possibile, il motto dei Sufi: “Nel mondo, ma non del mondo – nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”.Quando a Torino si impose il ramo Elkann, ricorda Lapo in un’intervista rilasciata a Giovanni Minoli per “La Storia siamo noi”, Edoardo Agnelli era già stato “bruciato” una prima volta dalla scelta del cugino Giovannino (Giovanni Alberto, figlio di Umberto Agnelli) come successore dell’Avvocato al vertice dell’impero Fiat. Poi Giovannino morì e al suo posto, pochi giorni dopo il funerale nel dicembre 1997, ricorda Gigi Moncalvo su “Lo Spiffero”, nel consiglio di amministrazione della Fiat venne nominato John Elkann, che di anni ne aveva appena 22 e nemmeno era laureato. Nella sua ultima intervista, rilasciata a Paolo Griseri per il “Manifesto”, il 15 gennaio 1998, Edoardo Agnelli boccia la designazione di “Jaky”: «Considero quella scelta uno sbaglio e una caduta di stile, decisa da una parte della mia famiglia, nonostante e contro le perplessità di mio padre». E aggiunge: «Non si nomina un ragazzo pochi giorni dopo la morte di Giovanni Alberto, per riempire un posto». E ancora: «Si è preferito farsi prendere dalla smania con un gesto che io considero offensivo anche per la memoria di mio cugino».Nel documentario di Minoli, è lo stesso Lapo Elkann – non ancora travolto dal suo secondo scandalo sessuale, quello di New York – ad avere parole umanissime per Edoardo Agnelli: «Era una persona bella dentro e bella fuori. Molto più intelligente di quanto molti l’hanno descritto: un insofferente che soffriva, che alternava momenti di riflessività e momenti istintivi». Nella villa di famiglia a Villar Perosa, in val Chisone, non lontano dal Sestriere, «ci sono state tante gioie ma anche tanti dolori». Dice Lapo, di Gianni Agnelli: «Con tutto l’affetto e il rispetto che ho per lui e con le cose egregie che ha fatto nella vita, mio nonno era un padre non facile. Quel che ci si aspetta da un padre – dei gesti di tenerezza, non parlo di potere: i gesti normali di una famiglia normale – probabilmente mancavano». Lapo Elkann riconosce quanto abbia pesato, su Edoardo, l’indicazione di far entrare suo fratello, John Elkann, nell’impero Fiat: «Credo che la parte difficile sia stata prima, la nomina di Giovanni Alberto. Poi, “Jaky” è stata come una seconda costola tolta. Ma Edoardo si rendeva conto che non era una posizione per lui», così portato per l’introspezione filosofica e religiosa – addirittura pervasa del misticismo Sufi, quello dei Dervisci rotanti, la confraternita iniziatica fondata dal sommo poeta afghano Rumi nel 1200.A ben altra scuola esoterica, secondo Carpeoro, appariene invece l’ebreo Alain Elkann, classe 1950, nato a New York da padre francese e madre italiana, giornalista e scrittore, docente universitario in Pennsylvania. Suo padre, il rabbino Jean-Paul Elkann, banchiere e industriale, è stato presidente del Concistoro ebraico di Parigi. La madre di Alain, Carla Ovazza, discende da una famiglia di banchieri torinesi (e nel 1976 fu vittima di un sequestro di persona). Un suo zio, il banchiere Ettore Ovazza, fascista fino al 1938 e amico di Mussolini, aveva fondato il giornale ebraico antisionista “La Nostra Bandiera”, prima di essere assassinato nel 1943 dai nazisti. Giornalista e scrittore, Alain Elkann è stato sodale di Alberto Moravia e Indro Montanelli. Ha scritto romanzi e saggi, anche in collaborazione con personaggi prestigiosi come Elio Toaff, storico rabbino capo emerito di Roma, nonché l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini e il Re di Giordania Abdullah. Tema a lui caro: la fede ebraica in rapporto alle altre religioni, e l’essere ebrei oggi. Dal 2004 è presidente della Fondazione del Museo Egizio di Torino, e ha collaborato con l’allora ministro Sandro Bondi (beni culturali).Alain Elkann è membro della Fondazione Italia-Usa e fa parte del comitato scientifico del Meis di Ferrara, il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, nonché di istituzioni universitarie italo-americane. Nel 2009 è stato anche insignito della Legion d’Onore, massima onorificenza francese. Ma ovviamente nel suo curriculum non c’è traccia dell’appartenenza al B’nai B’rith. Suo figlio, John, è oggi il reggente dell’impero industriale Fca, Fiat-Chrysler. Suo cognato Edoardo Agnelli morì suicida, senza un cenno di addio, o fu assassinato? E’ la domanda irrisolta a cui cerca di rispondere Minoli, nel suo reportage televisivo. «Se qualcuno mi dimostrasse che Edoardo è stato ucciso ne sarei in qualche modo felice, perché significherebbe che non era così disperato da fare questo gesto», dice il cugino, Lupo Rattazzi, convinto però che Edoardo fosse proprio deciso a farla finita. «L’inchiesta giornalistica sulla figura dell’erede mancato della famiglia Agnelli, e sulla sua tragica scomparsa – scrive Mario Baudino sulla “Stampa” – mette in fila tutti gli elementi, anche quelli controversi, di un avvenimento che, data la notorietà del protagonista, ha avuto negli anni anche interpretazioni assai dietrologiche».Soprattutto, aggiunge il giornalista, Minoli ricostruisce una personalità complessa e tormentata, e una vicenda umana dolorosa. A tenere aperto il giallo sulla fine di Edoardo Agnelli è la testimonianza di un pastore, che la mattina del 15 novembre del 2000 pascolava i suoi animali sulle rive del fiume Stura di Demonte: l’uomo sostiene di aver visto il cadavere di Edoardo Agnelli verso le 8.30, cioè molto prima che l’auto – abbandonata sul viadotto soprastante – avesse varcato il casello autostradale. Ma l’ex capo dei Ris di Parma, Luciano Garofalo, non dà credito alla testimonianza: la ritiene un tipico caso di auto-inganno della memoria. Se invece il pastore avesse ragione, scrive Baudino, «bisognerebbe pensare che sulla Croma di Edoardo Agnelli ci fosse, in quel momento, qualcun altro; anzi, che ci fosse sempre stato qualcun altro a bordo. Un giallo troppo complicato e inverosimile». C’è poi la tesi di una televisione iraniana, che aveva fatto scalpore con un documentario in cui prospettava l’ipotesi di un omicidio “sionista”, «commesso per eliminare un erede della dinastia italiana convertitosi all’Islam». Edoardo Agnelli, ricorda Baudino, era affascinato dalle fedi: si era laureato in storia delle religioni, con una tesi su quelle orientali. Era «affascinato dalla mistica Sufi», anche se «nessuno degli amici più intimi ha mai avuto il più lontano sentore che fosse diventato musulmano». A ricordarlo, oggi, c’è invece quella foto inequivocabile, postata su Facebook da Carpeoro.Edoardo Agnelli era un Sufi: lo scomodo figlio dell’Avvocato, morto il 15 novembre del 2000, era approdato all’ala mistica dell’Islam. Una mosca bianca, nell’impero Fiat, oggi retto da una famiglia «il cui capostipite fa parte del B’nai B’rith», cioè dell’élite massonica del sionismo più reazionario. Lo afferma l’avvocato Gianfranco Pecoraro, alias Carpeoro, che pubblica su Facebook una foto del giovane Agnelli raccolto in preghiera: «Se le fonti sono giuste», scrive Carpeoro, la foto è stata scattata a Teheran il 27 marzo 1981 durante la Preghiera del Venerdì, condotta dall’ayatollah Seyyed Khamenei, “guida suprema” della repubblica islamica. Edoardo, in prima fila sulla destra, prega insieme a un Imam «che è famoso per aver avuto forme di collaborazione anche con Battiato». Si tratta di un religioso musulmano che, «appartenendo alla parte sciita dell’ambiente islamico, era anche uno dei capi del movimento Sufi». Molto si è detto sul mistero della fine di Edoardo Agnelli, trovato morto ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona 17 anni fa. Si era anche parlato della sua insofferenza verso il potere, delle sue inclinazioni mistiche e della sua vicinanza all’Islam. In diretta web-streaming, Carpeoro mette a fuoco il problema in modo più preciso: «Che risulti a me, Edoardo Agnelli era diventato Sufi».
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La Nato: trasporti veloci, in Europa, per attaccare la Russia
C’era una volta l’Unione Sovietica, che inviò i carri armati a spegnere nel sangue la rivolta liberale in Ungheria, nel dopoguerra, e poi quella socialista in Cecoslovacchia nel Sessantotto, minacciando infine anche la Polonia in tempi meno remoti, nel 1981: «Quando feci il colpo di Stato, a Varsavia – confessò il generale Jaruzelski in una memorabile intervista a Jas Gawronski – ero stato avvertito, dai sovietici: se non avessi dispiegato l’esercito polacco, l’Armata Rossa avrebbe invaso anche noi». Solo che poi, una volta estinto il Patto di Varsavia con la caduta del Muro del Berlino, è rimasto in piedi il suo antagonista storico: la Nato. Che oggi, ricorda Massimo Mazzucco, «ci chiede di rinforzare i ponti e le strade, per permettere il passaggio di carri armati e mezzi pesanti in caso di una guerra contro la Russia». Ma è difficile trovare accenti, nella politica italiana, che mettano in discussione il nuovo ruolo di questo pericoloso relitto storico: il fantasma della guerra, il vampiro inestinto che sopravvive a una storia morta e sepolta. A che serve, oggi, la Nato? A minacciare la Russia. E dunque che ci fa, l’Italia, nella Nato? Qualche partito ha mai chiesto, agli elettori italiani, se sono d’accordo sul fatto che l’esercito tricolore concorra a minacciare un paese amico come la Russia, di cui l’Italia è uno dei maggiori partner potenziali?Lo scherzetto delle sanzioni contro Mosca è già costato miliardi di euro, all’Italia – per la precisione 10 miliardi già nel 2016, in termini di mancate esportazioni, come denunciato dalla Coldiretti: per rispondere alle mosse occidentali, la Russia ha reagito «chiudendo le frontiere a verdura, formaggi, carne, salumi e pesce, provenienti da Ue, Usa, Canada, Norvegia ed Australia», ricorda Luigi Grassia sulla “Stampa”. La guerra commerciale «ha interrotto la crescita travolgente delle esportazioni agroalimentari italiane verso la Russia, che nei cinque anni precedenti il blocco erano più che raddoppiate in valore (+112%)». La Coldiretti osserva che il guaio, per l’Italia, è doppio: al mancato export si somma il danno provocato dalla diffusione sul mercato russo di prodotti di imitazione che non hanno nulla a che fare con il “made in Italy”. Passi che la cosa lasci insensibili i vertici della Nato, ma è bizzarro che la cosa non preoccupi il governo italiano. E non solo: la permanenza dell’Italia nella Nato (o almeno, le sue condizioni) non compaiono in evidenza nell’agenda politica di nessun partito. In generale, la politica estera italiana non esiste. Tantomeno il vassallaggio Nato, sempre più anacronistico e autolesionistico: per Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, la Russia ha ragione a temere il crescente dispiegamento militare Nato lungo i propri confini.Washington, ricorda spesso Craig Roberts, ha tradito la parola data a Gorbaciov alla fine degli anni ‘80: Reagan aveva solennemente promesso che la Nato, una volta disciolto il Patto di Varsavia, non sarebbe avanzata verso Est. Bush ha invece inlcuso nella Nato i paesi baltici nonché le altre nazioni del blocco ex sovietico, dalla Polonia alla Bulgaria, passando per Repubblica Ceca, Ungheria e Romania. Poi Obama ha dato il massimo contributo alla crescita della minaccia militare occidentale verso la Russia, coinvolgendo anche l’Italia. E la storia continua, di male in peggio, nel silenzio assordante della politica italiana. La portavoce della Nato, Oana Lungescu, ha da poco dichiarato che la Nato intende creare due nuove centrali di comando in Europa, perché «la capacità di dispiegare velocemente le forze dell’alleanza è importante per la difesa collettiva della Nato». E lo stesso segretario della Nato, Jens Stoltenberg, in un incontro con i ministri della difesa alleati, ha chiarito ancor meglio il concetto: «Una centrale di comando riguarderà l’Atlantico e servirà a rinforzare le nostre capacità di proteggere le vie del mare, che sono di fondamentale importanza per l’alleanza transatlantica»Per Stoltenberg, «dobbiamo essere in grado di spostare eserciti e truppe attraverso l’Atlantico, dal Nord America verso l’Europa». Ci sarà poi una seconda centrale di comando, «responsabile degli spostamenti delle truppe all’interno dell’Europa», cosa che è «ovviamente altrettanto importante». Sul blog “Luogo Comune”, Mazzucco riporta con attenzione le parole di Stoltenberg, specie dove il segretario della Nato si riferisce al territorio europeo, incluso quello italiano: «Dobbiamo anche assicurarci – dice – che le strade e i ponti siano abbastanza robusti da reggere il passaggio dei nostri veicoli più grossi, e che le reti ferroviarie possano supportare un rapido spostamento dei carri armati e dei mezzi pesanti». Trasporto veloce di mezzi pesanti? Nel rompicapo assoluto rappresentato dal controverso progetto Tav Torino-Lione, la cui utilità sfugge anche ai migliori esperti dell’università italiana, c’è chi si spinge a ipotizzare proprio la funzione strategica, militare e bellica dell’ipotetica futura linea: la Torino-Lione come asse veloce per trasportare carri armati dal Mediterrano al Baltico, destinati a portare la guerra in Russia esponendo l’Europa e l’Italia alla ritorsione (missilistica, atomica) di Mosca?Sotto questo aspetto, è possibile leggere in modo diverso le dichiarazioni dello stesso Stoltenberg, quando afferma: «La Nato ha dei requisiti militari rispetto alle infrastrutture civili, e queste vanno aggiornate per essere sicuri che le attuali necessità militari siano garantite». Ma, aggiunge: «Questo non è un lavoro che la Nato può svolgere da sola. Richiede uno stretto coordinamento con i governi nazionali e con l’industria privata». E specifica: «Anche l’Unione Europea gioca in questo caso un ruolo importante». Quindi, conclude Stoltemberg, «la Nato e l’Unione Europea devono continuare a lavorare spalla a spalla su questo argomento di vitale importanza». Di vitale importanza per chi? Non certo per l’export italiano, né per chi abbia a cuore la sicurezza dell’Europa: sempre secondo Craig Roberts, il complesso militare-industriale che domina la politica Usa sta esponendo i paesi europei a rischi serissimi, dato che continua a minacciare i russi. E, sempre nel silenzio dei partiti italiani, di governo e di opposizione, la Nato va oltre: «Gli alleati – rivela la portavoce, Oana Lungescu – stanno modificando le leggi nazionali per permettere agli equipaggiamenti militari di transitare più rapidamente attraverso le frontiere, e stanno lavorando per rafforzare le infrastrutture nazionali».C’era una volta l’Unione Sovietica, che inviò i carri armati a spegnere nel sangue la rivolta liberale in Ungheria, nel dopoguerra, e poi quella socialista in Cecoslovacchia nel Sessantotto, minacciando infine anche la Polonia in tempi meno remoti, nel 1981: «Quando feci il colpo di Stato, a Varsavia – confessò il generale Jaruzelski in una memorabile intervista a Jas Gawronski – ero stato avvertito, dai sovietici: se non avessi dispiegato l’esercito polacco, l’Armata Rossa avrebbe invaso anche noi». Solo che poi, una volta estinto il Patto di Varsavia con la caduta del Muro di Berlino, è rimasto in piedi il suo antagonista storico: la Nato. Che oggi, ricorda Massimo Mazzucco, «ci chiede di rinforzare i ponti e le strade, per permettere il passaggio di carri armati e mezzi pesanti in caso di una guerra contro la Russia». Ma è difficile trovare accenti, nella politica italiana, che mettano in discussione il nuovo ruolo di questo pericoloso relitto storico: il fantasma della guerra, il vampiro inestinto che sopravvive a una storia morta e sepolta. A che serve, oggi, la Nato? A minacciare la Russia. E dunque che ci fa, l’Italia, nella Nato? Qualche partito ha mai chiesto, agli elettori italiani, se sono d’accordo sul fatto che l’esercito tricolore concorra a minacciare un paese amico come la Russia, di cui l’Italia è uno dei maggiori partner potenziali?
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Ur-Lodges, gli uomini al comando: la mappa del vero potere
Mario Draghi (classe 1947, presidente della Banca centrale europea dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, alla “Three Eyes” e alla “Der Ring”). Giorgio Napolitano (classe 1925, già presidente della Repubblica italiana, affiliato alla “Three Eyes”). Massimo D’Alema, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. Mario Monti (classe 1943, economista, senatore a vita e presidente del Consiglio italiano dal 2011 al 2013, affiliato in forma più o meno coperta alla United Grand Lodge of England e alla Ur-Lodge “Babel Tower”). Fabrizio Saccomanni (classe 1942, banchiere, economista, già direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 al 2013, dal 2013 al 2014 è stato ministro dell’economia del governo Letta, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Edmund Burke”). Pier Carlo Padoan (classe 1950, economista, dal 24 febbraio 2014 ministro dell’economia nel governo Renzi e nel governo Gentiloni, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).Gianfelice Rocca (classe 1948, tra i più importanti imprenditori italiani, presidente di Techint e di Assolombarda, affiliato alla “Three Eyes”). Domenico Siniscalco (classe 1954, economista, banchiere, già ministro dell’economia dal 2004 al 2005, affiliato alla “Edmund Burke”). Giuseppe Recchi (classe 1964, top manager, affiliato alla “Three Eyes”). Marta Dassù (classe 1955, saggista, già sottosegretaria e viceministra degli affari esteri, attualmente nel cda di Finmeccanica, affiliata alla “Three Eyes”). Corrado Passera (classe 1954, banchiere, manager, politico, già ministro dello sviluppo economico dal 2011 al 2013 nel governo Monti, affiliato alla “Atlantis-Aletheia”). Ignazio Visco (classe 1949, economista, governatore della Banca d’Italia dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”).Enrico Tommaso Cucchiani (classe 1950, banchiere e top manager, affiliato alla “Three Eyes”). Alfredo Ambrosetti (classe 1931, economista, fondatore e presidente emerito di The European House-Ambrosetti, affiliano alla “Pan-Europa”).Carlo Secchi (classe 1944, economista e politico, affiliato alla “Three Eyes”, alla “Pan-Europa” e alla “Babel Tower”). Emma Marcegaglia (classe 1965, imprenditrice e top manager, affiliata alla “Pan-Europa”). Matteo Arpe (classe 1964, banchiere e top manager, affiliato alla “Edmund Burke”). Vittorio Grilli (classe 1957, economista, direttore generale del ministero del Tesoro dal 2005 al 2011 e ministro dell’economia con il governo Monti, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Giampaolo Di Paola (classe 1944, ammiraglio, ministro della difesa dal 2011 al 2013 con il governo Monti, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Federica Guidi (classe 1969, imprenditrice, già ministro dello sviluppo economico del governo Renzi, affiliata alla “Three Eyes”).Angela Merkel (classe 1954, politica, cancelliera tedesca dal 2005, affiliata alla “Golden Eurasia”, alla “Valhalla” e alla “Parsifal”). Vladimir Putin (classe 1952, attuale presidente della Federazione Russa, affiliato alla “Golden Eurasia”). Christine Lagarde (classe 1956, avvocatessa e politica francese, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, affiliata alla “Three Eyes” e alla “Pan-Europa”). George W. Bush (classe 1949, presidente degli Stati Uniti dal 2001 al 2009, affiliato alla “Hathor Pentalpha”). Michael Ledeen (classe 1941, giornalista, intellettuale e politologo statunitense, affiliato alla “White Eagle” alla “Hathor Pentalpha”). Condoleezza Rice (classe 1954, politica, affiliata alla “Three Eyes” e alla “Hathor Pentalpha”, già esponente di punta dell’amministrazione Bush). Abu Bakr Al-Baghdadi (classe 1971, terrorista iracheno, leader dell’Isis e Califfo dell’autoproclamato Stato islamico, affiliato alla “Hathor Pentalpha”).José Manuel Durão Barroso (classe 1956, portoghese, docente universitario, politico, presidente della Commissione Europea dal 2004 al 2014, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Parsifal”). Olli Rehn (classe 1962, politico finlandese, già vicepresidente della Commissione Europea, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Babel Tower”). Tony Blair (classe 1953, premier britannico dal 1997 al 2007, affiliato alla “Edmund Burke” e poi alla “Hathor Pentalpha”). David Cameron (classe 1966, premier britannico dal 2010, affiliato alla “Edmund Burke” e alla “Geburah”). Pedro Passos Coelho (classe 1964, primo ministro del Portogallo dal 2011, affiliato alla “Three Eyes”, alla “Edmund Burke” e alla “White Eagle”). Mariano Rajoy (classe 1955, primo ministro della Spagna dal 2011, affiliato alla “Pan-Europa”, alla “Valhalla” e alla “Parsifal”). Antonis Samaras (classe 1951, politico, già primo ministro della Grecia, affiliato alla “Three Eyes”). Jean-Claude Trichet (classe 1942, economista e banchiere francese, presidente della Bce dal 2003 al 2011, affiliato alla “Pan-Europa”, alla “Babel Tower” e alla “Der Ring”.Bernard Arnault (classe 1949, imprenditore francese, dominus della Louis Vuitton Moët Hennessy, affiliato alla “Three Eyes” e alla “Edmund Burke”). Nicolas Sarkozy (classe 1955, politico, presidente della Repubblica francese dal 2007 al 2012, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Geburah”, alla “Atlantis-Aletheia”, alla “Pan-Europa” e alla “Hathor Pentelpha”). Manuel Valls (classe 1962, già primo ministro francese, iniziato a suo tempo nel Grand Orient de France e poi affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Der Ring”). Christian Noyer (classe 1950, banchiere, attuale governatore della Banca di Francia, affiliato alla “Pan-Europa”, e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”). Mark Rutte (classe 1967, primo ministro dei Paesi Bassi dal 2010, affiliato alla “Three Eyes” e alla “Pan-Europa”). Ben van Beurden (classe 1958, top manager olandese, ceo della Royal Dutch Shell, affiliato alla “Geburah” e alla “Der Ring”). Wolfgang Schäuble (classe 1942, politico, attuale ministro delle finanze tedesco, attuale maestro venerabile della “Der Ring”, affiliato alla “Joseph de Maistre”). Peter Voser (classe 1958, top manager olandese e ceo della Royal Dutch Shell, affiliato alla “Pan-Europa”). Bill Gates (classe 1955, imprenditore statunitense fondatore della Microsoft, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).(Elenco sintetico di eminenti personalità italiane e internazionali affiliate a superlogge neo-conservatrici e reazionarie, fornito dal libro di Gioele Magaldi “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”. Secondo Magaldi, già “venerabile” della loggia romana Monte Sion del Grande Oriente d’Italia e poi iniziato alla superloggia sovranazionale progressista “Thomas Paine”, le 36 logge madri di cui ha rivelato l’esistenza costituirebbero l’autentico “back-office” del potere mondiale. Nel dopoguerra e fino agli anni ‘70, sostiene Magaldi, la leadership internazionale è stata esercitata in questo ambito da strutture di orientamento progressista, rooseveltiano e keynesiano, con esiti misurabili in Europa dall’impegno di personaggi come l’inglese William Beveridge, “l’inventore” del welfare, e lo svedese Olof Palme, punta avanzata della miglior socialdemocrazia europea. Poi, dagli anni ‘80, anche gli esponenti della tradizione socialista – da Blair a D’Alema, da Manuel Valls allo stesso Napolitano – sarebbero stati affiliati a Ur-Lodge di segno neo-feudale e oligarchico, massime interpreti della globalizzazione più vorace e privatizzatrice).Mario Draghi (classe 1947, presidente della Banca centrale europea dal 2011, affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, alla “Three Eyes” e alla “Der Ring”). Giorgio Napolitano (classe 1925, già presidente della Repubblica italiana, affiliato alla “Three Eyes”). Massimo D’Alema, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. Mario Monti (classe 1943, economista, senatore a vita e presidente del Consiglio italiano dal 2011 al 2013, affiliato in forma più o meno coperta alla United Grand Lodge of England e alla Ur-Lodge “Babel Tower”). Fabrizio Saccomanni (classe 1942, banchiere, economista, già direttore generale della Banca d’Italia dal 2006 al 2013, dal 2013 al 2014 è stato ministro dell’economia del governo Letta, affiliato alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Edmund Burke”). Pier Carlo Padoan (classe 1950, economista, dal 24 febbraio 2014 ministro dell’economia nel governo Renzi e nel governo Gentiloni, affiliato alla “Pan-Europa” e alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”).
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Mundell, il genio malvagio dell’euro: così vi rovineremo
L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.Ma Mundell, da intraprendente canadese-americano, aveva intenzione di fare qualcosa: trovare un’arma che spazzasse via regole governative e norme sul lavoro (odiava veramente gli idraulici sindacalizzati che gli avevano fatto pagare un fracco di soldi per spostare il suo trono). «È molto difficile licenziare lavoratori in Europa», si era lamentato. La sua risposta fu l’euro. L’euro avrebbe realmente fatto il suo dovere quando sarebbero arrivate le crisi economiche, aveva spiegato Mundell. Togliere al governo il controllo sulla valuta avrebbe impedito agli odiosi, piccoli funzionari eletti di usare “estratti” di politiche monetarie e fiscali keynesiane per tirare un paese fuori dalla recessione. L’euro «mette la politica monetaria fuori dalla portata dei politici», disse. E «senza politica fiscale, l’unico modo in cui le nazioni possono mantenere i posti di lavoro è la riduzione competitiva delle regole sugli affari». Citò leggi sul lavoro, norme di tutela ambientale e, naturalmente, le tasse. L’euro avrebbe spazzato via tutto. Non si sarebbe permesso alla democrazia di interferire con il mercato – o con l’impianto idraulico!Come osserva un altro Nobel, Paul Krugman, la creazione dell’Eurozona ha violato la regola economica di base conosciuta come “area valutaria ottimale”. Era una regola inventata da Bob Mundell, ma questo non preoccupa Mundell: per lui, l’euro non riguardava la trasformazione dell’Europa in una potente unità economica unificata. Si trattava di Reagan e Thatcher. «Reagan non sarebbe stato eletto presidente senza l’influenza di Mundell», scrisse Jude Wanniski sul “Wall Street Journal”. L’economia dell’offerta pionieristica di Mundell è divenuta il modello teorico per la Reaganomics – o “economia voodoo”, come l’ha definita George Bush senior: la magica convinzione nella panacea del libero mercato che ha ispirato che le politiche della signora Thatcher. Mundell mi ha spiegato che, infatti, l’euro fa parte delle Reaganomics: «La disciplina monetaria impone la disciplina fiscale anche ai politici». E quando si verificano crisi, le nazioni economicamente disarmate hanno poco da fare, ma cancellano i regolamenti governativi all’ingrosso, privatizzano in modo massiccio le industrie statali, riducono le tasse e gettano lo stato sociale europeo nella discarica.Così, vediamo che il primo ministro Mario Monti (non eletto) ha preteso la “riforma” del diritto del lavoro in Italia per rendere più facile, per i datori di lavoro come Mundell, sparare agli idraulici toscani. Mario Draghi, capo (non eletto) della Banca Centrale Europea, chiede “riforme strutturali” – un eufemismo per i sistemi di frantumazione dei lavoratori. Cita la teoria nebulosa che questa “svalutazione interna” di ogni nazione li renderà tutti più competitivi. Monti e Draghi non possono credibilmente spiegare come, se ogni paese del continente riduce la propria forza lavoro, chiunque può ottenere un vantaggio competitivo. Ma non devono spiegare le proprie politiche; devono solo lasciare che i mercati agiscano sui titoli di Stato di ogni nazione. Quindi, l’unione monetaria è la guerra di classe con altri mezzi.La crisi in Europa e le fiamme della Grecia hanno prodotto il bagliore di ciò che il sommo filosofo Joseph Schumpeter ha chiamato “distruzione creativa”. L’apologeta del libero mercato Thomas Friedman, seguace di Schumpeter, volò ad Atene per visitare il “tempio improvvisato” della banca bruciata dove tre persone erano morte dopo esser state bombardate dai manifestanti anarchici, e ha usato l’occasione per condurre un’omelia sulla globalizzazione e l’“irresponsabilità” greca. Le fiamme, la disoccupazione di massa, la svendita delle risorse nazionali porterebbero ciò che Friedman definiva “rigenerazione” della Grecia e, in ultima analisi, di tutta l’Eurozona. Così che Mundell e gli altri con ville possono ben mettere i loro bagni ovunque vogliono. Lungi dall’essere un fallimento, l’euro, che era il figlio di Mundell, è riuscito probabilmente ad andare al di là dei sogni più selvaggi del suo progenitore.(Greg Palast, “Robert Mundell, il genio malvagio dell’euro”, dal “Guardian” del 26 giugno 2012).L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.
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Brucio, dunque esisto. Muoia la valle di Susa, Italia minore
Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.I padrini politici della Torino-Lione, prontamente definiti “sciacalli” dai NoTav, nei giorni del grande fuoco si sono subito fatti avanti, offrendo soldi come compensazione per i danni degli incendi. «No, grazie», rispondono i sindaci. «La prevenzione dagli incendi, come dalle alluvioni e dal dissesto geologico – scrive Sandro Plano, di Susa – dev’essere affrontata con specifici capitoli di spesa, indipendenti dal discorso relativo alla nuova linea ferroviaria». Vale per lo sviluppo economico, dalle strade alle infrastrutture culturali come i teatri: «Tutto ciò che nel resto d’Italia è definito “contributo pubblico”, qui è definito “compensazione”». In realtà, sottolinea Claudio Giorno, storico esponente del movimento NoTav, sarebbe incalcolabile il costo della compensazione per la valle di Susa, storicamente sacrificata sull’altare delle grandi opere che l’hanno sventrata, impoverita e anche prosciugata, alterandone l’habitat e il clima: e così oggi bastano tre mesi senza pioggia per innescare una catastrofe. «Di telecamere siamo invasi – scrive, sul suo blog – ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi, prima che qualcuno desse fuoco ai boschi, ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante».Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale idroelettrica in caverna, a Venaus, da parte dell’Enel e dei francesi di Edf, «che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del Duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando una montagna trasformata in cava di inerti». Un tempo la traversata del verdissimo valico del Moncenisio era chiamata “la Carrier du Paradis”, ma forse oggi «dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”», perché la “grande muraglia” della maxi-diga per il bacino dal quale oggi pescano l’acqua i Canadair è stata «la “nonna” di tutte le grandi opere in val di Susa». Un’inarrestabile brama di territorio e di acqua, fino al più recente, gigantesco impianto dell’Iren che, per alimentare Torino, ha svuotato la Dora Riparia da Oulx a Susa, riducendo il fiume a un rigagnolo. «Una follia costruire una diga alle spalle del centro di Susa tra versanti franosi, c’è il rischio-Vajont», disse inutilmente l’ingegner Floriano Villa, allora presidente dell’ordine dei geologi. Detto fatto: oggi quella diga incombe sull’abitato, ricordando ai valsusini che, da quelle parti, le decisioni del potere sembrano sempre surreali e imposte dall’alto, come nel feudalesimo.Il grande impianto “in caverna”, ricorda Claudio Giorno, ha mezzo disseccato anche il principale tributario della Dora, il torrente Cenischia, trasformando il paesaggio in un deserto asciutto, facile preda degli incendi, lungo un versante «che era già stato impoverito dagli anni ‘70 con lo scavo delle gallerie per il raddoppio delle ferrovia», e poi ancora fino agli anni ‘90 dallo scavo degli innumerevoli tunnel dell’autostrada del Fréjus, la A32. A quest’emorragia ora si aggiunge la mini-galleria di Chiomonte, teatro di aspre “battaglie” tra polizia e NoTav. Lungo 7 chilometri, quel “cunicolo” esplorativo «di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato», scrive Giorno, ricordando che nella peggiore delle ipotesi – l’eventuale tunnel Tav vero e proprio, lungo 57 chilometri – sarebbe impressionante (a detta degli stessi progettisti) la dispersione di acqua, «pari al fabbisogno di una città di un milione di abitanti». Intanto sono già centinaia le sorgenti disseccate: lo rivela uno studio del naturalista Paolo Ferrero, «che mostra la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dei cantieri delle grandi opere», attraverso delle slide «comprensibili persino da un politico di professione».L’Italia dell’euro-crisi avrebbe un disperato bisogno di opere pubbliche utili, per rilanciare l’economia, e invece continua a gettare soldi nel pozzo senza fondo di una maxi-opera completamente inutile e dannosa, pericolosa per l’ambiente, devastante sul piano della vivibilità urbanistica e addirittura letale sotto l’aspetto idrogeologico. Se mai quella sciagurata linea Tav si facesse davvero, scrive Luca Rastello di “Repubblica” nel saggio “Binario Morto”, la ferrovia dovrebbe bypassare Torino per allacciarsi alla rete nazionale Tav correndo in galleria a 30 metri di profondità, tagliando la falda idropotabile che alimenta la metropoli. Ma nulla sembra poter arrestare il sistema-Italia delle grandi opere inutili: la rete Tav è stata realizzata con largo impiego di aziende della mafia e della camorra, dice Ferdinando Imposimato, magistrato di lungo corso. Le grandi opere – spiega lo scrittore Massimo Carlotto – sono una macchina perfetta per riciclare denaro sporco: lo sa la mafia ma lo sanno anche le banche, in cui i soldi vengono depositati, e lo sanno i politici collegati alle banche.Il potere torinese della filiera Tav non trova di meglio che offrire soldi alla valle di Susa in fiamme, mentre l’Italia affonda nella crisi? Non un partito che s’impunti sulla scandalosa follia della Torino-Lione. «Se ne sento ancora parlare – si permise di scrivere il grande Giorgio Bocca – tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato nell’aprile del ‘45». Era il 2005, e lo scandalo era solo all’inizio. Sei anni dopo, si spinse in valle di Susa l’anziano Guido Ceronetti: visitò i cantieri, vide lo scempio di Chiomonte. Scrisse un memorabile reportage per “La Stampa” e, la sera, tenne una lettura di poesie, a Bussoleno, per i NoTav. In pagine altrettanto memorabili, Ceronetti ha svelato cosa c’è nella testa di un piromane: non solo l’isitinto perverso per la distruzione e l’inconfessabile piacere sadico di fronte all’estetica dell’apocalisse. C’è anche il senso del sacrilegio, della profanazione, dato che i boschi – dagli albori dell’umanità – sono sempre stati ritenuti sacri, vera e propria dimora degli déi. Ma se il piromane è una specie di psicopatico isolato, che dire di una politica specializzata in devastazioni su larga scala, freddamente progettate a dispetto di chiunque ne contesti il senso, la pericolosità e l’inevitabile eredità di morte?Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.
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Di Maio e i vaccini obbligatori: aprite gli occhi, amici 5 Stelle
Di Maio & company? Non abbiamo ancora visto niente: se vanno al potere i 5 Stelle (non la base: i dirigenti), «ci terremo intatto lo strapotere delle multinazionali del farmaco, della chimica, dell’alimentazione devitalizzata, dei megamedia del potere». E soprattutto «il dominio della finanza, i livelli di inquinamento, l’ossequienza al Vaticano e alle massonerie varie, alla Trilateral, a Goldman Sachs». Parola di Fausto Carotenuto, promotore del network “Coscienze in Rete” e già analista internazionale per l’intelligence: un uomo esperto, che conosce a fondo – dall’interno – le dinamiche del vero potere, quello che indossa diverse maschere per compiacere e illudere i cittadini-elettori. Ma perché tanto allarme per Di Maio? durante una visita all’ateneo di Harvard, «una delle università dove oramai i candidati premier vanno a prendere la benedizione», lo scorso maggio il beniamimo di Beppe Grillo ha dichiarato che i vaccini «in Italia sono obbligatori per legge», e quindi, ha aggiunto, «noi non abbiamo intenzione di eliminarla», quella legge. «E lo dice quello che poi verrà “unto” con un plebiscito di finta “democrazia diretta” come capo politico del 5 Stelle e candidato alla presidenza del Consiglio», protesta Carotenuto.Domanda che sorge spontanea: «Per chi lavora questo signore? Per chi lavorano i vertici manifesti e occulti del 5 Stelle? Non certo per la gente e per la nostra libertà», scrive Carotenuto su “Coscienze in Rete”. «E’ chiaro che chi è contro l’obbligatorietà dei vaccini non potrà mai votare per questo signore», Di Maio, che appare «al servizio di chi vuole vaccinare obbligatoriamente i nostri bambini». Per l’analista, semplicemente «occorre svegliarsi», perché «con questa gente al governo – e non parliamo dei militanti, ma di chi li dirige in modo del tutto privo di vera democrazia – si verificheranno anche altri fatti, che i votanti grillini pieni di ingenuo entusiasmo non immaginano nemmeno: rimarremo saldissimamente in Europa, ci terremo l’euro, l’appartenenza alla Nato e gli interventi militari “umanitari”». Peggio: Big Pharma non ha nulla da temere dai grillini, e nemmeno Wall Street, la super-oligarchia, i ras della devastazione agroalimentare, gli scienziati del cibo-killer, cancerogeno. Nessuno trema, di fronte a Di Maio: né i media mainstream, professionisti della disinformazione, né le multinazionali onnivore e globaliste, né i santuari supermassonici dell’élite finanziaria.«Stiamone certi», aggiunge Carotenuto: «Se vogliamo che nulla di importante cambi nel sistema di potere che ci manipola, votiamo tranquillamente per questo signore». Non che Di Maio sia il peggiore il campo, sia chiaro: «Certo, anche se voteremo per gli altri partiti ora in Parlamento, nulla cambierà di tutto questo». Ma almeno, evitando di votare 5 Stelle, «non avremo sprecato le nostre migliori energie e le nostre scelte facendoci abbindolare da questa ennesima trappola per le coscienze in risveglio». La tesi di Carotenuto: il potere lavora per rendere eterno il nostro “letargo”, ben sapendo che – statistiche alla mano – un cittadino su tre ha ormai fiutato l’imbroglio e non crede più a nessuno, né ai politici né ai media. «Il nostro vero terreno di operazioni – sottolinea il fondatore di “Coscienze in Rete” – non è delegare a comici o a giovanottini legati a “nonsisachi”, comunque dipendenti dalla finanza internazionale, come minimo. E nemmeno delegare agli altri partiti, che dipendono dagli stessi poteri di controllo».Carotenuto propende per il rifiuto del potere istituzionale che viene dall’alto, frutto di “piramidi” irrimediabilmente compromesse e inattendibili, a prescindere dai personaggi dietro i quali si nascondono: meglio la solidarietà circolare dei territori, dal basso. «Utilizziamo le nostre energie e la nostra voglia di bene senza delegare, facendo il bene là dove siamo, nel locale, orizzontamente, intorno a noi», sapendo che un giorno «da questa crescita orizzontale, quando sarà ampia e solida, verranno fuori istituzioni nuove». Ma non oggi, non ancora: «Ora è il momento della maturazione delle coscienze attraverso l’impegno diretto là dove siamo e possiamo verificare che le nostre forze alimentano veramente il bene di tutti». Poù in alto, la nostra possibilità di controllo è pari a zero: restiamo in balia delle solite manipolazioni. L’ultima, in ordine di tempo, sarebbe proprio quella del Movimento 5 Stelle: pura illusione ottica, certificata dal Di Maio “pro-vax”, di fronte alla potentissima platea di Harvard. «Non dimentichiamo…».Di Maio & company? Non abbiamo ancora visto niente: se vanno al potere i 5 Stelle (non la base: i dirigenti), «ci terremo intatto lo strapotere delle multinazionali del farmaco, della chimica, dell’alimentazione devitalizzata, dei megamedia del potere». E soprattutto «il dominio della finanza, i livelli di inquinamento, l’ossequienza al Vaticano e alle massonerie varie, alla Trilateral, a Goldman Sachs». Parola di Fausto Carotenuto, promotore del network “Coscienze in Rete” e già analista internazionale per l’intelligence: un uomo esperto, che conosce a fondo – dall’interno – le dinamiche del vero potere, quello che indossa diverse maschere per compiacere e illudere i cittadini-elettori. Ma perché tanto allarme per Di Maio? durante una visita all’ateneo di Harvard, «una delle università dove oramai i candidati premier vanno a prendere la benedizione», lo scorso maggio il beniamimo di Beppe Grillo ha dichiarato che i vaccini «in Italia sono obbligatori per legge», e quindi, ha aggiunto, «noi non abbiamo intenzione di eliminarla», quella legge. «E lo dice quello che poi verrà “unto” con un plebiscito di finta “democrazia diretta” come capo politico del 5 Stelle e candidato alla presidenza del Consiglio», protesta Carotenuto.
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Potere subdolo e mostruoso, ci truffa cambiando maschera
Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.Attraverso tale accentramento nel corso dei secoli il sapere è stato, ed è tuttora, monopolio di una cerchia ristretta di intellettuali e scienziati, che si sono arrogati il diritto – e ancora oggi lo fanno – di stabilire ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è cultura e ciò che non lo è. Si possono fare in realtà innumerevoli esempi delle modalità attraverso le quali agisce il potere, è sufficiente uscire dagli steccati ideologici per contemplare con distacco e disincanto la sua machiavellica capacità di mimetizzarsi in regimi politici e sistemi economici molto diversi tra loro. Perché la vera natura del potere consiste nella sua capacità di assumere di volta in volta la forma che meglio conviene per nascondere la sua brutalità e per farsi accettare benvolmente da una società, un popolo, un insieme di nazioni. Anche qui è conveniente fare un esempio. L’altro giorno Eugenio Scalfari, il trombone d’Italia, in un articolo ha spiegato, dall’alto della sua cattedra, che la costituzione degli Stati Uniti d’Europa è un qualcosa di ineluttabile.Ineluttabile significa dire che i popoli europei non possono avere alcuna voce in capitolo su tale processo. Anzi, Il giornalista sosteneva che tale processo non può essere lasciato alla mercé del capriccio dei popoli, ma deve essere attuato dalle élites economiche-politiche europee. Ecco, in poche righe Scalfari ha spiegato molto bene come il potere agisce, presentando le decisioni che prende e che fa attuare a una pletora di docili esecutori come necessarie e improcrastinabili. Per poter agire impunemente il potere ha poi bisogno di una casta di encomiastici elogiatori, ruffiani appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo e della scienza. A questo scopo vengono piazzati in questi campi dei fedeli servitori, che hanno la missione, dietro lauto stipendio, di veicolare la visione totalitaria di cui il potere è di volta in volta espressione. A questo servono i vari Piero Angela, Roberto Saviano ed Eugenio Scalfari.Un’altra modalità tipica attraverso cui il potere preserva se stesso è l’ideologizzazione della politica: si fa credere, in un determinato periodo storico, che la destra o la sinistra o un movimento bipartisan o al di sopra delle parti sia il candidato ideale ad attuare dei cambiamenti essenziali per una nazione e la sua società civile, e il gioco è fatto. In realtà tali cambiamenti non solo non vengono attuati, ma la parte politica appoggiata dal potere è funzionale al mantenimento dello statu quo, e ciò accade sempre, in maniera più o meno accentuata secondo il periodo storico. Il motto a cui si rifà il potere è “cambiare tutto per non cambiare niente”. Cambiare le facce, i metodi, le istituzioni ma conservare l’esistente, con tutte le sue brutture e anomalie, questa è la funzione di chi viene scelto dal potere per ricoprire ruoli di comando. Lo abbiamo visto con la sinistra negli anni ’90, con la destra berlusconiana e forse vedremo agire lo stesso meccanismo con il Movimento 5 Stelle, se riuscirà ad andare al potere.Non si illudano i militanti del M5S: il potere non lascerà mai che la base possa entrare nei processi decisionali, avendo esso anzitempo individuato ad hoc precise figure interne al movimento e che rivestono ruoli di comando, che hanno il compito di bypassare le istanze della base. Ecco spiegata l’ambiguità e l’evanescenza del programma del M5S, che può essere definito “un non programma”, poiché non definisce chiaramente qual è, per esempio, la linea di politica economica e di politica estera che il movimento intende sposare. E questa evanescenza è determinata da una ragione ben precisa: evitare che il movimento possa compromettersi ed esporsi con posizioni troppo nette. Il potere, infatti, potrebbe dispiacersene. Per concludere, vorrei fare un accorato invito a chi mi segue ad uscire da una ristretta visuale ideologica della realtà, da qualsiasi angolazione la si guardi. Occorre comprendere che il potere è è un’Idra a cento teste. Al potere non interessa la giacca che di volta in volta gli esecutori delle sue decisioni indossano. Esso può allearsi tanto con la destra, con la sinistra e con movimenti neutrali, a seconda della convenienza del momento. In tal senso il potere non é né di destra né di sinistra, ma al di sopra di tali categorie, che sviano i fessacchiotti ammalati di ideologismo.Oggi il potere è alleato con le sinistre, per il semplice fatto che esse, meglio di altre parti politiche, da circa 20 anni si prostituiscono volentieri alle sue logiche perverse. Non esiste – e forse non è mai esistita – una sinistra antisistema, essendo destra e sinistra le maschere intercambiabili dietro le quali si cela il potere. Ingenuo (o in malafede) è chi pretende di identificare il potere unicamente con le destre. Questa identificazione è oggettivamente un’aberrazione, veicolata dai media, che portano avanti tale identificazione con uno scopo preciso: sviare dai partiti di sinistra il sospetto di connivenza col potere. Connivenza che è sotto gli occhi di tutti, meno che per gli allocchi ideologizzati e per i fanatici di questo o quell’altro movimento politico civetta. Cercate di ragionare con la vostra testa e non secondo le categorie deviate che il Pensiero unico, strumento ideologico del potere, propina generosamente attraverso i suoi indefessi araldi. Non saranno né la destra né la sinistra a salvare l’Italia e il mondo interno, ma la vostra capacità di smascherare impietosamente le mimetizzazioni del potere e le sue infiltrazioni in tutti i gangli della società.(Federica Francesconi, “Sulla natura mostruosa del potere e sulle sue subdole dinamiche”, dal blog della Francesconi del 26 settembre 2017).Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.
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Cangiani: odiano la democrazia, e la chiamano socialismo
Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».Solo in seguito, continua Cangiani nell’anticipazione del suo saggio, pubblicata su “Sbilanciamoci”, si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico”, denunciato dallo scrittore spagnolo Ignacio Ramonet nel 1995, aveva tolto l’ossigeno vitale all’interesse pubblico, alle nostre comunità nazionali. La finanza, privata e pubblica («dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà») ha continuato a «provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria». Anziché un metodo efficiente di finanziamento delle imprese, Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali, fino a denunciare il dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Caffè «sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito». Le rendite – che a suo parere, ricalcando Keynes, sono la prova di una «inefficienza sociale» – gli appaiono connaturate con «la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario».Spiega Cangiani: «I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza precedenti, come effetto delle misure di “aggiustamento strutturale” imposte dal Fmi negli anni Ottanta e, in generale, di un’economia “usuraia”». La stessa politica, cioè «la cosiddetta austerità e le cosiddette riforme strutturali», è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli Usa, con il presidente Clinton, continuavano a indicare la stessa rotta, «riducendo la spesa per il welfare e portando a termine la deregolamentazione delle attività finanziarie». Il piano per salvare il Messico dal fallimento alla fine del 1994, ricorda Cangiani, fu elaborato da Fmi e Usa «per proteggere gli investitori stranieri, in maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio». I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione, mentre la pressione del debito estero (insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro) portarono alla rovina l’economia dell’Argentina, «predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle attività possedute dallo Stato».Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete, aggiunge Cangiani, erano stati fattori decisivi nel processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra – e per la ex Ddr ebbero conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina. «Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea e in particolare sulla moneta unica», osserva Cangiani. In un articolo del 1985, Federico Caffè aveva indicato alcuni punti critici, fondamentali e sottovalutati. A suo avviso, l’integrazione europea avrebbe dovuto adottare «idonee e coordinate misure di politica economica» contro la disoccupazione e la disuguaglianza. La futura Ue avrebbe dovuto controllare la domanda globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, aggiungeva Caffè, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli Stati membri sugli altri. Il problema, diceva, è se si realizzerà «un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette». Ora, rileva Cangiani, «sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al prevalere della seconda fra queste due ipotesi».Caffè denunciava la tendenza verso un’Europa «strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture differenziali dei paesi membri», contraria al permanere di «settori pubblici dell’economia», soggetta al modello neoliberista e incapace di assumere «un atteggiamento coerente rispetto alle società multinazionali», le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai governi. La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata, scrive Cangiani. La sinergia tra le imposizioni Ue e la trasformazione neoliberista si è fatta profonda ed efficace, e la moneta è stata resa autonoma dallo Stato. Ecco «una conferma delle antiche radici dell’odierno neoliberismo», commentava Caffè, segnalando l’impronta “ottocentesca” del pensiero economico neo-feudale dell’ultraliberista austriaco Friedrich Von Hayek. Un analista come Claus Thomasberger oggi dimostra che la situazione attuale corrisponde a quella disegnata dal reazionario Hayek nel 1937, «che prevedeva un’unione monetaria e dunque una moneta immune da interferenze dei governi nazionali». Secondo quel progetto, ricorda Cangiani, «i governi avrebbero dovuto ridurre drasticamente gl’interventi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente naturale, le politiche sociali, le barriere doganali, i controlli sui movimenti dei capitali e sui prezzi».Il libero mercato e la concorrenza fra paesi sarebbero stati sia l’effetto sia la causa di tale riduzione. Per Hajek, infatti, le istituzioni democratiche devono avere semplicemente la funzione di mettere in pratica i principi liberisti, e l’Unione Europea quella di impedire l’interferenza dei singoli Stati nell’attività economica. Le idee di Hayek e quelle dell’inglese Lionel Robbins hanno avuto infine successo. L’ideologia liberista si spiega con il vincolo del profitto, «caratteristica essenziale dell’organizzazione della società moderna e fattore che determina la sua dinamica», e la sua persistenza secolare deriva da «fattori storici, quali le difficoltà periodiche dell’accumulazione capitalistica, le diverse forme da essa assunte e i rapporti di forza tra le classi sociali». Inoltre, continua Cangiani, il neoliberismo rappresenta «un successo paradossale», perché predica «l’autoregolazione di un mercato che si suppone concorrenziale, e una più ampia e robusta libertà degli individui», i quali invece «restano esclusi, anzi rovesciati nel contrario».Ne è uno specchio l’Ue, dove è stata imposta la libera circolazione di merci, attività finanziarie e movimenti dei capitali, mentre «le politiche dei singoli Stati rimangono non solo frammentate, ma concorrenziali riguardo al livello dei salari, alle norme sul lavoro, all’occupazione, all’imposizione fiscale, alle strategie industriali e alla spesa sociale». Anzi: «Si consente che singoli paesi pratichino il dumping fiscale, normativo e salariale per attirare capitali e addirittura fungano da “paradisi fiscali”». Capita che persino la stesura di rapporti sui “beni comuni” sia affidata a grandi società private, «per la buona ragione che se ne intendono, essendo stakeholders – cioè interessate al business». In Europa oggi «viene raccomandata la privatizzazione delle aziende statali, attuata con zelo in Italia specialmente negli anni Novanta, e tuttora in corso». La privatizzazione investe anche attività vitali: acqua e altri beni comuni, le “public utilities”, la formazione, la sanità e l’assistenza sociale. Si tagliano le pensioni, crescono tasse e imposte mentre cala la loro progressività rispetto ai redditi delle famiglie. «Il principio dell’universalismo riguardo a servizi come la sanità e l’istruzione, che ovviamente presuppone la loro gestione pubblica, è stato messo in questione».E i numeri parlano da soli: nel 2014, la spesa sanitaria (pubblica) è stata, in Francia, equivalente a 4.950 dollari pro capite, mentre negli Usa (sanità privatizzata) si è speso il doppio, 9.403 dollari. «La spesa totale corrisponde rispettivamente all’11,5% e al 17,1% del Pil dei due paesi», annota Cangiani. «La quota della spesa governativa sul totale è del 78,2% in Francia e del 48,3% negli Stati Uniti. La speranza di vita alla nascita risulta di 82,4 anni in Francia e di 79,3 negli Usa», secondo dati Oms aggiornati al 2016. «Dunque, negli Usa, rispetto alla Francia, profitti e rendite di privati che operano a vario titolo nel settore sanitario assorbono una quota molto maggiore del Pil, mentre l’assistenza sanitaria non è migliore nel suo complesso e, soprattutto, esiste una grande disuguaglianza fra i cittadini ben assicurati e i circa 80 milioni di persone non assicurate o sotto-assicurate. I tre anni di speranza di vita in meno rispetto alla Francia gravano soprattutto su queste ultime, e per loro devono essere ovviamente più di tre».Quanto alla disoccupazione, che è «un problema sistemico» che riguarda «almeno 30 milioni di persone nell’Ue», tende a venir affrontata con politiche di “attivazione” e di “workfare” rivolte ai singoli individui, in concorrenza l’uno con l’altro, osserva Cangiani. «La contrattazione collettiva va scomparendo. La “flessibilizzazione” del mercato del lavoro – che vuol dire precarietà, paghe più basse, dequalificazione, aumento dell’intensità del lavoro più che della sua produttività, diminuzione dei diritti e della sicurezza dei lavoratori – viene presentata, contro ogni evidenza empirica, come la soluzione per aumentare gli occupati e uscire dalla crisi». Tutto ciò, aggiunge l’analista, corrisponde al credo neoliberale, «cioè, di fatto, alla convenienza del potere economico e soprattutto delle grandi istituzioni finanziarie in cui esso tende a concentrarsi». L’esito è sotto i nostri occhi: tendenza depressiva e aumento delle disuguaglianze, smantellamento delle riforme sociali conquistate dai lavoratori e crescita della struttura gerarchica sia del mercato sia fra gli Stati membri dell’Unione. «Le politiche neoliberali finiscono per erodere i diritti di cittadinanza, non solo quelli economici e sociali, ma anche quelli politici e civili: e con i diritti, la libertà degli individui».La sovranità popolare attraverso il Parlamento, conquistata dalle rivoluzioni borghesi, «viene seriamente compromessa, sia dai governi “tecnici” e di “grande coalizione” sia dalle burocrazie nazionali e internazionali, che rispondono ai grandi interessi economici e finanziari piuttosto che agli elettori, denuncia Cangiani. «Il Fiscal Compact concordato il 30 gennaio 2012, e in particolare l’inserimento nella Costituzione dell’obbligo del bilancio in pareggio, riducono la sovranità popolare, oltre allo spazio di manovra della politica economica, che i paesi esterni all’area dell’euro mantengono». Di fatto, questa dinamica (spacciata per tecnico-ecomomica) è invece squisitamente ideologica, politica, egemonica: di fronte alla crisi iniziata negli anni Settanta, «il neoliberismo è stato il modo in cui la classe dominante ha cercato una soluzione corrispondente ai propri interessi», scrive Cangiani. «Ha riconquistato tutto il potere, a scapito della democrazia», e poi «ha risolto, per un’élite ristretta, le difficoltà dovute alla sovra-accumulazione, le quali, però, tendono di per sé a ripresentarsi, e ad aggravarsi a causa delle politiche adottate». La nuova economia imposta all’Occidente, specie in Europa, «si basa sulla svalutazione della forza lavoro e l’intensificazione del suo sfruttamento, e su costi sociali crescenti a carico dell’ambiente naturale e umano».A questo si aggiunge la ricerca di nuovi campi d’investimento: accanto a quelli storicamente sottratti alla gestione pubblica ci sono «l’immane sviluppo dell’attività finanziaria e l’accaparramento di territori e di risorse naturali». Investimenti di questo tipo consentono a una frazione del capitale di mantenere un livello soddisfacente di accumulazione, ma contrastano la sovra-accumulazione solo in parte o provvisoriamente, «dato che producono piuttosto rendita che profitto, nella misura in cui occupano posizioni di monopolio o si limitano a prendere possesso di risorse esistenti o, come la speculazione finanziaria, si appropriano di valore che è prodotto da altre attività». Come scrive David Harvey, il principale risultato del neoliberismo è stato di «trasferire, più che creare reddito e ricchezza». In altre parole, è stata «un’accumulazione mediante espropriazione». Rimedi? L’indebitamento (pubblico e privato) serve a sostenere la domanda e un certo livello di attività, «ma questa soluzione si rivela vana o almeno provvisoria», secondo Cangiani, visto che genera «rendita finanziaria ed esigenza di “austerità”, origine a loro volta di sovrabbondanza di capitale».Nel 2015, un economista come Wolfram Elsner ha dimostrato che, inserendo nel computo il “capitale fittizio” – cioè il capitale monetario, spesso creato dal credito, in cerca di interessi e guadagni speculativi piuttosto che di impieghi produttivi – il saggio di profitto resta basso, almeno cinque volte inferiore a quel 20-25% che pretenderebbero le grandi società finanziarie. «Queste ultime, comunque, incamerano la maggior parte dell’aumento della massa del profitto ottenuto con le politiche neoliberali (privatizzazioni delle attività pubbliche e del welfare, saccheggio di risorse, crescente disuguaglianza della distribuzione del reddito e della ricchezza)». Anche per questo, secondo Cangiani, sono politiche «controproducenti rispetto al problema della sovraccumulazione, per risolvere il quale erano state predisposte». Per Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, la crescita patologica dell’attività finanziaria e dell’indebitamento pubblico e privato sono sintomi di una crisi sistemica, che rivela l’obsolescenza del capitalismo. «Quando l’investimento finanziario, cioè il fare denaro direttamente dal denaro, diviene dominante rispetto all’investimento per produrre ricchezza reale, si rivela il rovesciamento paradossale del rapporto tra fini e mezzi», dal momento che, con il capitalismo, le “attività pecuniarie” divengono il “fattore di controllo” del sistema economico.Inoltre, osservano Lohoff e Trenkle, la posta necessaria per sostenere una simile scommessa sul futuro dev’essere sempre aumentata, ma non può esserlo all’infinito: prima o poi «deve avvenire una gigantesca svalutazione del capitale fittizio». James O’Connor ritiene che la crescita del sistema economico venga sostenuta a spese del suo ambiente, nella misura in cui quest’ultimo è sfruttato in modo eccessivo e guastato senza rimedio. «Questo modo di procedere porta all’aumento dei costi per l’attività economica stessa e quindi al tentativo di trasferirli in misura crescente nell’ambiente. Si ha dunque un processo cumulativo, di cui si rischia di perdere il controllo». In effetti, continua Cangiani, questa tendenza a spese dell’ambiente si è rafforzata dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello sviluppo e della diffusione dell’attività industriale. «La questione delle risorse naturali e dei “limiti dello sviluppo” si presenta, in generale, come fattore della crisi strutturale dell’accumulazione». Esiste una via d’uscita? Nel 2013, Colin Crouch ha immaginato una possibile socialdemocrazia, vista come «la forma più alta del liberalismo», mediante la quale il capitalismo verrebbe reso «adatto alla società». Ma c’è un problema politico, che si chiama élite: «La minoranza che trae vantaggio dalla situazione attuale ha il potere di indirizzare il cambiamento economico e politico nel verso opposto a quello auspicato da Crouch».Il sociologo Luciano Gallino la chiamava “lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, e finora è risultata vincente. Per Elsner, lo smantellamento progressivo della democrazia è “necessario”, nell’ambito delle politiche neoliberiste, ai fini dell’aumento del profitto. Il capitalismo ha bisogno di nuove strutture regolative, ha spiegato nel 2014 Wolfgang Streek: bloccando e invertendo la tendenza all’assoluta mercificazione del lavoro, della terra e della moneta, le nuove strutture di controllo consentirebbero di combattere i «cinque disordini sistemici dell’attuale capitalismo avanzato», e cioè «la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio dei beni e delle attività pubbliche, la corruzione e l’anarchia globale». E se la domanda iniziale di Streek è se il capitalismo sia giunto alla fine dei suoi giorni, la sua conclusione è che, comunque, si prospetta «un lungo e doloroso periodo di degrado cumulativo». Il problema, riassume Cangiani, è che riforme tipicamente keynesiane – il finanziamento in deficit di investimenti pubblici e l’aumento della domanda mediante redistribuzione del reddito – sono, attualmente, «non semplicemente invise all’ideologia dominante, ma praticamente irrealizzabili».O meglio, riforme classicamente keynesiane, sociali e proggresiste non sono realizzabili «nel quadro di un capitalismo che riesce a sopravvivere solo aumentando lo sfruttamento del lavoro, risucchiando i risparmi delle classi medie, contenendo al massimo la regolazione pubblica e il welfare state, favorendo i grandi evasori ed elusori fiscali e condannando interi paesi al fallimento». Sono ormai cadute le passate illusioni di un’economia “mista” o di una “terza via”, a metà strada tra capitalismo e socialismo, conclude Cangiani: «Le istituzioni politiche sono occupate dal potere economico, che non solo le indirizza, ma le deforma». E in più, «mancano forze politiche capaci di imporre, oltre che di concepire, riforme incisive». Che direbbe oggi del sistema finanziario il professor Federico Caffè? Di fronte a una situazione «incomparabilmente meno ingombrante, complessa, problematica e fraudolenta», Caffè osservava che «l’ingegnosità giuridica non è ancora riuscita a imbrigliare la complessità destabilizzante delle strutture finanziarie del capitalismo maturo», strutture «spesso favorite in ossequio alla salvaguardia dei diritti proprietari di tipo paleocapitalistico».Paleocapitalismo da età della pietra: neoliberismo. Nelle osservazioni di Caffè traspariva già «l’immagine di una classe dominante che oscilla tra egoismo e panico», con «paesi dominanti che tendono alla prepotenza», in mezzo a «una politica segnata da servilismo e inefficienza». E dagli economisti «una ricerca teorica conformista, orgogliosa della sua pochezza». Secondo Cangiani, servirebbe il coraggio di una ricerca indipendente, insieme a «un titanico lavoro di organizzazione politica», per capire cosa potrebbe «salvare il capitalismo da se stesso e l’umanità da una deriva entropica». Ma poi – era il cruccio di Caffè – il riformista autentico viene lasciato in solitudine, per quanto le sue proposte possano essere fattibili e convenienti anche per migliorare e allungare la vita del capitalismo. Benché sia chiaro che ci troviamo «a un punto di svolta globale», come scrivono John Bellamy Foster e Fred Magdoff, riforme efficaci risultano, almeno in pratica, inagibili. La dura realtà è che «un’organizzazione sociale più razionale» implicherebbe «una vera democrazia politica ed economica: ciò che gli attuali padroni del mondo chiamano “socialismo” e massimamente temono e denigrano».(Il libro: Michele Cangiani, “Stato sociale, politica economica e democrazia. Riflessioni sullo spazio e il ruolo dell’intervento pubblico oggi”, Asterios editore, 288 pagine, 29 euro).Un italiano vide prima di ogni altro, in Europa, il pericolo del neoliberismo: si chiamava Federico Caffè, e scomparve nel nulla – come un altro grande connazionale, Ettore Majorana. Il professor Caffè, insigne economista keynesiano, sparì di colpo la mattina del 15 aprile 1987. L’ultimo a vederlo fu l’edicolante sotto casa, da cui era passato a prendere i quotidiani. Tra gli allevi di Caffè si segnalano l’economista progressista Nino Galloni, il professor Bruno Amoroso (a lungo impegnato in Danimarca) e un certo Mario Draghi, laureatosi con una tesi sorprendente: titolo, “l’insostenibilità di una moneta unica per l’Europa”. Poi, come sappiamo – e non solo per Draghi – le cose sono andate in modo diverso. Chi però aveva intuito su quale pericolosa china si stesse sporgendo, la nostra società occidentale, fu proprio Federico Caffè, scrive l’economista e sociologo Michele Cangiani, docente universitario a Bologna e Venezia, nel volume “Stato sociale, politica economica, democrazia”, appena uscito per Asterios. Trent’anni fa, riconosce Cangiani, proprio Caffè «individuò le tendenze della trasformazione neoliberale», anche se allora «non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata».
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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
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Bagnai: il grillismo è una religione, funzionale al potere Ue
Elaborare il lutto, dopo aver scoperto di aver votato ancora una volta per il partito sbagliato? Impossibile, purtroppo: non ce la faranno, ad ammettere l’errore. Lo sostiene l’economista Alberto Bagnai, a proposito della delusione che starebbe invadendo milioni di elettori del Movimento 5 Stelle, inizialmente entusiasti del giustizialismo moralista grillino. «Quella dei 5 Stelle è una religione», dichiara Bagnai, a colloquio con Claudio Messora su “ByoBlu”. Ammette Bagnai: «Io stesso scelsi i 5 Stelle, nel 2013, ma in modo strumentale: volevo votare contro Bersani, specie dopo l’appello pubblico di Eugenio Scalfari che chiedeva di boicottare Grillo». Autocritico, l’economista di “Goofynomics”, anche sul sistema elettorale maggioritario: «All’epoca votai a favore, ma oggi me ne pento e anzi me ne vergogno: anziché l’alternanza destra-sinistra, il maggioritario ci ha offerto solo una scelta tra due destre, e soprattutto ci costringe a poter votare solo “contro”», cioè a scegliere il (presunto) meno peggio, come appunto il Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013, quelle “non vinte” dal Pd bersaniano. Salvo poi verificare che i grillini non hanno fatto assolutamente nulla, a parte canalizzare il dissenso, addormentandolo su binari innocui per il grande potere finanziario.«Intendiamoci, so benissimo che tra i 5 Stelle esistono persone ottime, e anche politici che hanno cercato onestamente di darsi da fare», puntualizza Bagnai, che è tra gli economisti italiani che guidano con decisione il fronte anti-euro. Ma la sua analisi politica è netta: scagliandosi contro un bersaglio apparente ed economicamente irrilevante, “la casta”, cioè la politica tout-court e quindi lo Stato, i grillini – secondo Bagnai, docente universitario di economia della globalizzazione – non hanno fatto altro che assecondare i dogmi-cardine del neoliberismo oligarchico, il cui avversario potenziale è appunto lo Stato, se “impugnato” come strumento democratico contro i poteri forti. I 5 Stelle (in altri tempi molto vociferi su temi come la medicina alternativa) non hanno battuto ciglio di fronte alla mostruosa campagna sui vaccini obbligatori promossa dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin. Ma Bagnai sottolinea soprattutto la farsa tragicomica dei 5 Stelle a Strasburgo, con il tentativo (poi anche pateticamente abortito) di traslocare tra i “falchi” pro-euro dell’Alde, il gruppo centrista ultra-europeista in cui è rappresentato Mario Monti.Grillo ha gettato la maschera? Quand’anche, il popolo dei VaffaDay non lo ammetterà facilmente, sostiene Bagnai. «In realtà – dichiara il professore – il grillismo è una religione, che predica l’odio contro lo Stato». E da una religione non è facile smarcarsi, con l’abiura. «Stessa musica per gli esponenti di Sinistra Italiana: capiscono perfettamente che razza di trappola sia l’euro, ma – avendo sostenuto per anni l’euro-sistema, non hanno il coraggio di ammettere apertamente il loro errore». La riflessione offerta su “ByoBlu”, peraltro datata, fotografa comunque in modo mestissimo lo scenario politico italiano: di fatto (forse, con la sola eccezione della Lega di Salvini) l’offerta non offre nessuna vera alternativa alla completa sudditanza rispetto al potere di Bruxelles, che ha creato deliberatamente la crisi nella quale l’Italia si sta dibattendo da anni. I grillini? Da dividere in due: una base quasi fanatizzata “religiosamente”, disponibile a migliorare l’Italia ma frenata da un vertice che ha rivelato la vera natura di “gatekeeper” del movimento, semplice camera di sfogo della rabbia sociale, ben attento a non disturbare mai il manovratore, sulle cose che contano. Ma la disillusione – l’amara ammissione dell’equivoco – costerà dolore e richiederà tempo, dice Bagnai: per questo, ancora per un po’, l’inutile Movimento 5 Stelle ingombrerà la scena politica italiana.Elaborare il lutto, dopo aver scoperto di aver votato ancora una volta per il partito sbagliato? Impossibile, purtroppo: non ce la faranno, ad ammettere l’errore. Lo sostiene l’economista Alberto Bagnai, a proposito della delusione che starebbe invadendo milioni di elettori del Movimento 5 Stelle, inizialmente entusiasti del giustizialismo moralista grillino. «Quella dei 5 Stelle è una religione», dichiara Bagnai, a colloquio con Claudio Messora su “ByoBlu”. Ammette Bagnai: «Io stesso scelsi i 5 Stelle, nel 2013, ma in modo strumentale: volevo votare contro Bersani, specie dopo l’appello pubblico di Eugenio Scalfari che chiedeva di boicottare Grillo». Autocritico, l’economista di “Goofynomics”, anche sul sistema elettorale maggioritario: «All’epoca votai a favore, ma oggi me ne pento e anzi me ne vergogno: anziché l’alternanza destra-sinistra, il maggioritario ci ha offerto solo una scelta tra due destre, e soprattutto ci costringe a poter votare solo “contro”», cioè a scegliere il (presunto) meno peggio, come appunto il Movimento 5 Stelle alle politiche del 2013, quelle “non vinte” dal Pd bersaniano. Salvo poi verificare che i grillini non hanno fatto assolutamente nulla, a parte canalizzare il dissenso, addormentandolo su binari innocui per il grande potere finanziario.
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Il fisico Rovelli: non fidatevi del tempo, è solo un’illusione
A livello fondamentale il tempo non c’è. Ci sono processi elementari in cui quanti di spazio e materia interagiscono tra loro in continuazione. L’illusione dello spazio e del tempo continui intorno a noi è la visione sfocata di questo fitto pullulare di processi. Come possiamo accettare l’idea che il tempo non sia reale? Quello del tempo è un problema con cui ci si è scontrati lavorando sulle equazioni fondamentali. Dobbiamo farci i conti, ma forse è più semplice di quanto sembri a prima vista. In fondo noi viviamo in un mondo in cui c’è l’alto e il basso, ma sappiamo bene che si tratta di una distinzione locale e che non vale per tutto l’universo. Anche il tempo probabilmente è così: utile per descrivere fenomeni alla nostra scala, imprescindibile nella nostra esperienza quotidiana, ma che non vale per tutto l’universo. Abbiamo certezze al riguardo? No, ma la scienza non dà mai risposte certe, dà solo le migliori risposte del momento. Non è un male: possiamo vivere anche senza certezze assolute. Il che non vuol dire che non possiamo fidarci.In fisica fondamentale, ovvero la fisica che si occupa della descrizione delle cose più elementari, oggi ci sono vari problemi aperti, ma ce n’è uno più bello degli altri: quello della gravità quantistica. Lungo tutto il Novecento abbiamo scoperto molte cose, sul mondo, grazie alla meccanica quantistica e alla relatività generale. Ma le immagini dell’universo fornite da queste due teorie sono difficili da mettere insieme, non si conciliano. La gravità quantistica tenta di farlo, ma per riuscirci dobbiamo cambiare l’idea che abbiamo di spazio e di tempo. E’ come se, dopo un periodo in cui la scienza è andata sempre più verso una dimensione specialistica, si volesse tornare ai grandi sistemi filosofici. Nei primi anni del secolo scorso abbiamo fatto passi da gigante nella comprensione del mondo: era l’epoca di Einstein, di Bohr, di Fermi. Poi c’è stato il nazismo e molti fisici si sono spostati dall’Europa agli Stati Uniti. Lì la fisica è rinata, ma non era più la stessa: era una scienza imbevuta di pragmatismo americano, finanziata anche dall’esercito.Con la Seconda Guerra Mondiale, che ha coinvolto molto i fisici, il fenomeno si è acuito. Questo ha creato una generazione di scienziati il cui interesse principale era fare i calcoli e far funzionare le cose. Del resto, la meccanica quantistica permetteva di fare moltissime cose: laser, conduttori, computer. E la relatività di Einstein si poteva impiegare per spiegare molti fenomeni in astrofisica, dai buchi neri alle stelle di neutroni. Così si è andati avanti senza chiedersi se ci fosse qualcosa da cambiare. Generazioni di fisici hanno lavorato seguendo il principio: calcola e non fare domande. Ora però è passato quasi un secolo, i nodi lasciati irrisolti vengono al pettine e la fisica sta tornando a un modo di pensare più approfondito per cercare di rispondere alle domande ancora aperte. Ma forse c’è anche qualcos’altro. Un paio d’anni fa è uscito un libro intitolato “Come gli hippie hanno salvato la fisica”; l’autore (David Kaiser) sostiene che molti fisici teorici contemporanei fanno parte di quella generazione che pensava in termini universali e che, probabilmente, hanno conservato quel “vizio”.E’ passato un secolo da quando la relatività generale ha cambiato la natura dello spazio e del tempo, ma a noi sembra ancora strano immaginare il mondo secondo la fisica di Einstein. Aveva ragione Kant nel dire che spazio e tempo sono le forme a priori entro le quali solamente è possibile la nostra esperienza? Kant aveva ragione su quasi tutto. In particolare, oggi sappiamo che aveva ragione nel dire che quello che vediamo è il mondo esperito da un soggetto fatto così come è fatto. Ma la nozione di spazio che Kant considera naturale in realtà è quella nata nel 1670 con i Principia di Newton: lo spazio di Dante o quello di Aristotele non sono così. Bisogna allora prendere in considerazione la storia. La relatività ha cento anni, ma le sue basi sperimentali sono di oggi: quando andavo a scuola già mi insegnavano che, secondo la teoria di Einstein, un orologio su un tavolo corre più velocemente di uno a terra, ma solo recentemente sono stati creati orologi così precisi da provarlo. Cento anni sono pochi: in fondo Copernico è vissuto nel Cinquecento, ma nel Seicento solo alcuni visionari come Galilei pensavano di prendere sul serio le sue teorie. Arte e filosofia: c’è un collegamento intimo tra i campi del sapere. L’idea delle due culture è una sciocchezza contemporanea. Letteratura, scienze, arte, filosofia sono gli strumenti concettuali migliori che la nostra cultura ha prodotto e approfondiscono la comprensione del mondo. La spaccatura è disastrosa perché crea due gruppi di persone più ignoranti e più stupide.(Carlo Rovelli, “Spazio e tempo? Solo un’illusione”, dichiarazioni rilasciate a “Unità.it” per una recente intervista, ripresa dal blog “La Crepa nel Muro” il 4 settembre 2017. Rovelli, fisico teorico che insegna all’università di Aix-Marsiglia, ha firmato il saggio “La realtà non è come ci appare”, Raffaello Cortina editore, 240 pagine, 22 euro).A livello fondamentale il tempo non c’è. Ci sono processi elementari in cui quanti di spazio e materia interagiscono tra loro in continuazione. L’illusione dello spazio e del tempo continui intorno a noi è la visione sfocata di questo fitto pullulare di processi. Come possiamo accettare l’idea che il tempo non sia reale? Quello del tempo è un problema con cui ci si è scontrati lavorando sulle equazioni fondamentali. Dobbiamo farci i conti, ma forse è più semplice di quanto sembri a prima vista. In fondo noi viviamo in un mondo in cui c’è l’alto e il basso, ma sappiamo bene che si tratta di una distinzione locale e che non vale per tutto l’universo. Anche il tempo probabilmente è così: utile per descrivere fenomeni alla nostra scala, imprescindibile nella nostra esperienza quotidiana, ma che non vale per tutto l’universo. Abbiamo certezze al riguardo? No, ma la scienza non dà mai risposte certe, dà solo le migliori risposte del momento. Non è un male: possiamo vivere anche senza certezze assolute. Il che non vuol dire che non possiamo fidarci.