Archivio del Tag ‘Unione Europea’
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Autostrade: ma perché cedere ai privati tutti quei miliardi?
Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.Ed è inspiegabile l’ostinazione con cui negli ultimi anni, sotto la gestione dei precedenti governi, il ministero delle infrastrutture abbia autorizzato aumenti delle tariffe a volte davvero esorbitanti, a tutto vantaggio dei privati, e insieme il prolungamento delle concessioni, anche a fronte di investimenti – da parte dei concessionari – inferiori a quelli previsti dal piano economico e finanziario. Perché permettere di aumentare le tariffe e insieme prolungare la durata della concessione, se il concessionario non fa tutto quello che deve? In alcuni casi (si veda per esempio quello che è successo sulla Livorno-Civitavecchia) il ministero ha sfidato l’Europa, incappando in un deferimento alla Corte di giustizia per violazione del diritto Ue, pur di prolungare, ostinatamente, la concessione al gruppo dei Benetton… Come si è arrivati ad affidare la gestione di questo monopolio a privati come le imprese dei Benetton? Che risultati ha prodotto questa scelta compiuta negli anni Novanta? E’ stato nel 1999, all’epoca delle privatizzazioni, volute dal governo Prodi.Secondo alcuni esperti, per altro, la privatizzazione delle autostrade (la “gallina delle uova d’oro”) fu fatta quando non erano più necessarie dismissioni frettolose per tappare le falle dei conti pubblici, e a condizioni a tutti gli effetti assurde per lo Stato. A guidare le operazioni, come presidente dell’Iri, c’era il professor Gian Maria Gros-Pietro, il quale poi, subito dopo la privatizzazione, è stato assoldato dai Benetton come presidente della loro società di gestione delle Autostrade. Il risultato complessivo di questa operazione è che lo Stato ha ceduto un proprio asset importante senza riuscire a strappare condizioni particolarmente vantaggiose per sé (si poteva imporre un prezzo più alto? O almeno canone più oneroso?) e nemmeno per gli utenti-automobilisti (si potevano imporre condizioni più stringenti per i concessionari? O almeno aumenti limitati?). Di fatto si è permesso che una ricchezza pubblica transitasse nelle tasche di alcuni privati.Che giudizio dare di un sistema in cui i concessionari si arricchiscono con i soldi dei cittadini, gestendo un servizio regolato da un contratto secretato e finanziando giornali e politica che dovrebbero controllarne e regolarne l’operato? Dico non da ora che è un sistema folle, che va completamente scardinato. Spiace che ci siano volute decine e decine di vittime perché il paese si accorgesse di questa assurda anomalia. Ma se vogliamo dare un senso alla tragedia, occorre che il sistema delle concessioni sia profondamente rivisto e modificato, in primo luogo per quanto riguarda i concessionari privati (Benetton, Gavio, Toto) ma anche per i concessionari pubblici (si veda il caso Autobrennero). Ovviamente, mentre si procede alla revisione totale del sistema, sarebbe importante fin da subito procedere con il blocco degli aumenti tariffari (che meraviglia se il prossimo Capodanno fosse il primo della storia “No Aumento Pedaggio”) e dei prolungamenti delle concessioni.(“Autostrade: così una ricchezza pubblica è finita nelle tasche di alcuni privati”, intervista di Mario Giordano sul “Blog delle Stelle” del 19 agosto 2018).Lo Stato italiano incassa il 2,4 per cento netto dei pedaggi autostradali, che peraltro sono in costante aumento e da tempo i più cari d’Europa. Come vengono utilizzati quei soldi di automobilisti e autotrasportatori? La maggior parte dei ricavi al casello, come è noto, vanno a finanziare i guadagni delle società concessionarie (per la maggior parte gruppi privati). Non è un caso che i due principali concessionari (i Benetton e i Gavio) figurino regolarmente tra i Paperoni della Borsa e che stiano facendo, proprio in questi mesi, shopping di società all’estero. Semplificando, potremmo dire che i pedaggi (che ormai sono diventata una vera e proprio tassa occulta e salatissima a carico degli automobilisti) finiscono per finanziare l’espansione dei gruppi privati, le loro acquisizioni, oltre che l’arricchimento personale dei principali azionisti attraverso la distribuzione dei dividendi. Chi deve stabilire se un concessionario come Autostrade per l’Italia, che fa acquisizioni all’estero e distribuisce dividendi molto elevati, gestisce in maniera corretta i soldi dei pedaggi e investe abbastanza per la manutenzione? Spetta al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. E’ quest’ultimo, infatti, che gestisce le concessioni dello Stato.
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Fascismo? Ci vuole orecchio, per smontare chi odia Salvini
«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?Dal Quirinale a Confindustria, dalla magistratura a Bankitalia, da Macron a Juncker: ha solo nemici, quello che Montanari definisce il “ministro della paura”. Nemici così potenti da riuscire a impedire – in modo rocambolesco, grazie al solito Berlusconi alleatosi col Pd – l’elezione di un giornalista di razza come Marcello Foa alla presidenza della Rai, bloccata (secondo il massone Gianfranco Carpeoro) da una triangolazione telefonica tra il francese Jacques Attali (mentore di Macron), Giorgio Napolitano (membro della stessa superloggia, la “Three Eyes”, secondo Gioele Magaldi) e Antonio Tajani, massone anche lui. Dov’è il monopolio della forza di cui parla Montanari? Abbagli colossali, sia pure da un eminente intellettuale innamorato del patrimonio artistico italiano? «Ho indicato proprio in Saviano – scrive sempre Montanari su “Micromega” – uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi». Salviano chi? L’autore di “Gomorra”, condannato a vita a recitare la parte della vittima sotto scorta, per la gioia del suo marketing editoriale? Allude, Montanari, allo stesso Saviano che in Italia spara a man salva sul leader della Lega ma, appena si volge verso il Medio Oriente, si schiera con Israele senza mai una parola sulle brutalità che lo Stato ebraico guidato da Netanyahu infligge ai “negri” della situazione, cioè ipalestinesi?Affacciandosi sul Paese delle Meraviglie, Tomaso Montanari è comunque capace di stupirsi: evidentemente, per lui, il “ministro della paura” non è l’unico imputato. «Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati – scrive – di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte a un Sergio Marchionne?». Già. Ma dov’era, Montanari, quando Mattarella faceva il ministro nel governo D’Alema, l’esecutivo che “regalava” la rete autostradale italiana ai Benetton? Se ne riparla oggi, dopo l’immane tragedia del crollo a Genova del viadotto Morandi, con il governo Conte deciso a imporre ad Autostrade per l’Italia la revoca della concessione. Non vede come stanno realmente le cose, il professor Montanari? «Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio?». Le domande di Montanari, che appare sinceramente disorientato, sembrano rivolte all’interlocutore sbagliato. Cosa si aspetta, Montanari, da un potere-ombra così ipocrita e marcio da usare all’occorrenza le bandiere della sinstra per varare, in Italia, il neoliberismo più selvaggio?Equivoci, probabilmente figli della “santa alleanza” contro il falso bersaglio – Berlusconi – che ha permesso ai veri dominus di agire indisturbati per vent’anni, graniticamente supportati (senza chiasso, né olgettine) dal centrosinistra dei Prodi e dei D’Alema, degli Amato e dei Padoa Schioppa. L’impegno civile di Tomaso Montanari è cristallino: nel marzo 2017 è diventato presidente del cartello “Libertà e Giustizia”, succedendo a Nadia Urbinati. Nel giugno 2017, con Anna Falcone, è stato fra i promotori di “Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza”, giornalisticamente ribattezzata come “percorso del Brancaccio”, dal nome dell’omonimo teatro romano dove si riunirono le prime 1.500 persone. Obiettivo: creare una lista civica nazionale della sinistra. Progetto poi naufragato a meno di sei mesi dalle elezioni, visto anche lo stato confusionale della sinistra stessa, reduce da due decenni di antiberlusconismo militante spacciato per progressismo. Si tratta della stessa sinistra che preferì sparare sul Cavaliere piuttosto che sul pareggio di bilancio inserito da Monti nella Costituzione con l’appoggio di Bersani, così come oggi – pur con i suoi dubbi – Montanari preferisce colpire Salvini, piuttosto che un establishment che aveva ridotto l’Italia a Cenerentola politica d’Europa, prona a qualsiasi diktat, incluso quello di tenersi i migranti salvati nel Mediterraneo dalla marina tricolore.Montanari è uno di quegli intellettuali italiani che non esitano a utilizzare la parola “fascismo” per connotare l’azione di Salvini, cioè del leader più rappresentativo del primo e unico governo – dopo tanti anni – formatosi a furor di popolo, sotto la spinta squisitamente democratica degli elettori, ansiosi di metter fine a una lunga sequela di “governi dell’orrore”, pronti a precipitare il paese (loro sì) nella paura: la paura di perdere tutto e di sprofondare in un’Italia senza futuro. «Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini – riconosce Montanari – è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori». Quando Salvini dice “prima gli italiani”, per il professore «nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece “tra gli italiani”», ovvero tra i poveri e i ricchi, che notoriamente «non vogliono le stesse cose», per citare lo storico britannico Tony Judt. Quand’anche: perché Montanari spara su Salvini, che non ha alcuna responsabilità nella catastrofe della Seconda Repubblica, evitando di usare il termine “fascismo” per i decisivi collaborazionisti del “nazismo tecnocratico”, ai cui “successi” si deve, oggi, la vasta popolarità del leader della Lega?«Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di “austerità” e “responsabilità” – aggiunge Montanari – è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla». Sempre secondo il professore, «Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero». C’è un che di vertiginoso, nel ricorrente abuso dei termini: il fascismo si impose in modo strisciante con le violenze delle camicie nere, incoraggiato dall’élite e ignobilmente tollerato dallo Stato liberale, monarchia in primis. Crede davvero, il professor Montanari, che l’ex anarchico ed ex socialista Mussolini abbia potuto marciare su Roma in solitudine, senza l’appoggio dei poteri forti attraverso il network discreto della massoneria? Crede che abbia potuto guidare svariati governi senza il sostegno decisivo del Vaticano, accanto a quello dei latifondisti e della grande industria?E perché mai spendere ancora, impunemente, nel 2018, la parola “fascismo”? Non vede, Montanari, da quale pulpito democratico vengono le lezioncine impartite all’Italia sui diritti umani? Non sa, Montanari, da quale scuola proviene l’illustre burattino francese Macron? Non vede quali onori gli sono stati tributati, in Vaticano, dall’uomo che la dottrina cattolica considera il vicario di Dio in terra? Conosce un altro fascismo, Montanari, che oggi sia più feroce di quello con cui la Germania e la Bce hanno ridotto la Grecia come un paese del terzo mondo? «Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo paese anche “grazie” a ciò che chiamavamo “sinistra”», sostiene Montanari. Ma, anziché attaccare a testa bassa il tumore, lo storico dell’arte si accanisce su quello che considera il sintomo, come se i buoi non fossero già scappati dalla stalla. E questa incredibile miopia, probabilmente, mette fuori gioco molta parte dell’intellettualità italiana: se Salvini sarà sempre di più il nuovo leader del paese, con i suoi toni spesso così indigesti, lo si dovrà anche e soprattutto a chi vede l’autoritarismo dove non c’è, senza averlo visto – in tempo utile – là dove c’era, e dove sta tuttora, esercitando il suo immenso potere, ogni giorno, contro l’Italia e l’avvenire degli italiani.«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?
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Prodi, Draghi & C: chi ha regalato l’Italia, autostrade incluse
Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.E’ l’anno in cui in soli 7 giorni cambiano il sistema monetario italiano, che viene sottratto dal controllo del governo e messo nelle mani della finanza speculativa. Per farlo vengono privatizzati gli istituti di credito e gli enti pubblici, compresi quelli azionisti della Banca d’Italia; è l’anno in cui viene impedito al ministero del Tesoro di concordare con la Banca d’Italia il tasso ufficiale di sconto (costo del denaro alla sua emissione), che viene quindi ceduto a privati. E’ l’anno della firma del Trattato di Maastricht e l’adesione ai vincoli europei. In pratica è l’anno in cui un manipolo di uomini palesemente al servizio del cartello finanziario internazionale ha ceduto ogni nostra sovranità. Bisognava passare alle aziende di Stato: l’attacco speculativo di Soros che aveva deprezzato la lira di quasi il 30% permetteva l’acquisto dei nostri gioielli di Stato a prezzi di saldo, e così arrivarono gli avvoltoi. La maggior parte delle nostre aziende statali strategiche passò in mano straniera o comunque fu privatizzata. Ma la cosa più eclatante fu che l’Iri (istituto di ricostruzione industriale) che nella pancia alla fine degli anni ’80 aveva circa 1.000 società, fiore all’occhiello del nostro paese, fu smembrato e svenduto, sotto la presidenza di Prodi (dal 1982 al 1989 e durante un periodo tra il 1993 ed il 1994), poi premiato dal cartello che favorì la sua ascesa alla presidenza del Consiglio in Italia e poi alla Commissione Europea.A sostituirlo come presidente del Consiglio in Italia e a continuare il suo lavoro di smembramento delle aziende di Stato ci penserà Massimo D’Alema, che nel 1999 favorirà la cessione, tra le altre, di Autostrade per l’Italia e Autogrill alla famiglia Benetton, che di fatto hanno, così, assunto il monopolio assoluto nel settore del pedaggio e della ristorazione autostradale. Un’operazione che farà perdere allo Stato italiano miliardi di fatturato ogni anno. Le carte ci dicono che in quegli anni il presidente dell’Iri era tale Gian Maria Gros-Pietro. Lo conoscevate? Io credo di no. Invece il cartello finanziario speculativo lo conosceva bene, e nel 2001 lo convocò alla riunione del Bilderberg in Svezia, indovinate insieme a chi? Insieme a Mario Draghi e ad un certo Mario Monti. Entrambi saranno ampiamente ripagati dal cartello stesso, che in futuro riuscì a piazzare Draghi alla Banca d’Italia e poi alla Bce, e Mario Monti dalla Goldman Sachs alla Commissione Europea e poi a capo del governo (non eletto) in Italia. E che cosa ne è stato di Gian Maria Gros Pietro? Qui viene il bello. E arriviamo al tema di questo post.Gian Maria Gros-Pietro, che già nel fatidico 1992 era presidente della commissione per le strategie industriali nelle privatizzazioni del ministero dell’industria, nel 1994 diviene membro della commissione per le privatizzazioni – istituita indovinate da chi? Da Mario Draghi. Ora capite come lavora il cartello finanziario-speculativo per mettere tentacoli ovunque e per far sì che ci sia sempre un proprio esponente nei ruoli-chiave. Ma non finisce qui. Come abbiamo visto, nel 1997 Gros-Pietro è presidente dell’Iri mentre viene organizzata la cessione a prezzi di saldo di Autostrade per l’Italia, che avverrà nel 1999 col passaggio al Gruppo Atlantia Spa, controllato da Edizione srl, la holding di famiglia dei Benetton. Gros-Pietro firma la cessione, la famiglia Benetton gli strizza l’occhio. Cosa voleva dire metaforicamente quella strizzatina d’occhio? Ora immaginate l’inimmaginabile.Cosa accade nel 2002? Gian Maria Gros-Pietro, dopo aver gestito la privatizzazione dell’Eni, andrà a presiedere per quasi 10 anni indovinate che cosa?… proprio la Atlantia Spa, la società alla quale solo tre anni prima, come dipendente pubblico, aveva svenduto la gestione dei servizi autostradali italiani. Le jeux sont fait.A questo punto proviamo a leggere i termini del contratto di concessione della rete autostradale. Mi dispiace, cari amici. Non si può. Sono stati coperti da segreto di Stato, manco si trattasse di una riservatissima operazione militare. Ma com’è stato svolto in questi anni il servizio di manutenzione ordinaria da parte dei concessionari di Autostrade per l’Italia? La macabra risposta è descritta nei tragici eventi di Genova, e non solo. Leggendo quanto emerge dalla relazione annuale (2017) sull’attività del settore autostradale in concessione pubblicata sul sito del ministero dei trasporti, si evince una crescita esponenziale del fatturato (quasi 7 miliardi) e dei pedaggi. In calo solo gli investimenti (calati addirittura del 20%) e la spesa per manutenzioni in controtendenza, rispetto alla logica che dovrebbe prevedere un aumento dei costi della manutenzione contestualmente all’aumento del traffico. Ma la sicurezza degli automobilisti è stata messa in secondo piano rispetto alla massimizzazione dei profitti, già di per sé abnormi.E com’è andata invece con gli interventi straordinari ad opera dei ministeri preposti? Non c’erano soldi da destinare ad interventi straordinari, seppur richiesti dagli esperti, a causa dei vincoli di bilancio da rispettare e imposti dal pareggio di bilancio. Quali vincoli? Quelli europei. E da chi sono stati imposti questi vincoli? dal Trattato di Maastricht del 1992, da quello di Lisbona del 2007 e dal pareggio di bilancio in Costituzione del 2011. E chi li ha voluti? Indovinate? Nell’ordine: Romano Prodi, Massimo D’Alema e Mario Monti, con l’appoggio esterno di Mario Draghi. Ma non erano quelli che insieme partecipavano alle organizzazioni del cartello finanziario speculativo che voleva far crollare il nostro paese Esattamente. Il cerchio si chiude. Solidarietà alle vittime di Genova, per il crollo del ponte autostradale. Solidarietà agli italiani per il crollo annunciato e pianificato del loro paese.(“Giornalista d’inchiesta svela importanti retroscena su Autostrade per l’Italia”, dal blog di Marco Della Luna del 18 agosto 2018. Parte del testo è tratta dal libro-inchiesta “La Matrix Europea”, di Francesco Amodeo. Avvocato e saggista, Della Luna attribuisce il testo della ricostruzione giornalistica a Maurizio Blondet, per anni inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”).Partiamo dall’inizio. Perché una società strategica per gli italiani, con un fatturato annuo di oltre 6 miliardi di euro e introiti certi – che sono aumentati vertiginosamente negli anni com’era prevedibile – è stata ceduta a imprenditori privati? Facciamo un passo indietro: è il 1992; il cartello finanziario internazionale mette gli occhi e le mani sul nostro paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito è quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani. E’ l’anno della riunione sul Britannia, quando il Gotha della finanza internazionale attracca a Civitavecchia con lo yacht della Corona inglese. Sono venuti a ridisegnare il capitalismo in Italia a danno degli italiani, a fare incetta delle nostre migliori aziende e ad arruolare quelli che saranno i loro fedeli servitori al governo del paese, a cui garantiranno incarichi di prestigio: il maggior beneficiario sarà Mario Draghi ma tra i più benemeriti sono Prodi, Andreatta, Ciampi, Amato, D’Alema. I primi tre erano già entrati a pieno titolo nel Club Bilderberg, nella Commissione Trilaterale e in altre organizzazioni del capitalismo speculativo angloamericano, che aveva deciso di attaccare e conquistare il nostro paese con l’appoggio di banche d’affari come la Goldman Sachs, che favorirà gli incredibili scatti di carriera dei suoi ex dipendenti: Prodi e Draghi prima, Mario Monti dopo.
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Vedrete che i Benetton (Three Eyes) si terranno Autostrade
«Lasciate perdere i complotti basati sui lampi che si vedono durante il crollo del viadotto Morandi: quelle ciance sul web servono solo a non vedere l’unico vero complotto all’origine del disastro di Genova». E cioè: una sciagurata sottovalutazione del rischio, grazie una concessione-omaggio, imbarazzante e piena di parti segrete. Una profezia? «Vedrete che arriverà una telefonata dall’America, e alla fine la concessione ad Autostrade per l’Italia non verrà revocata. Oppure: verrà bandita una nuova gara d’appalto, che sarà facilmente vinta dagli stessi azionisti di Atlantia, Benetton e soci». Affermazioni che, all’indomani della catastrofe di Genova, Gianfranco Carpeoro – avvocato e saggista – affida alla diretta web-streaming condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in tandem con Massimo Mazzucco. Ecco il complotto: «Lo sono, nei fatti, tutte le privatizzazioni fatte in Italia negli ultimi 50 anni. Oggi non sapremmo neppure più come gestirle, le autostrade. Dove trovare i soldi per i cantieri urgenti? L’Ue ci impedirebbe di usarli, con la scusa che sforeremmo il budget». I Benetton? «Hanno fatto ben poco, a livello di manutenzione. E non hanno fatto niente per soccorrere i senzatetto, che avevano bisogno di aiuti immediati. Sono avviliti, per l’accaduto? La sera dopo la tragedia erano a una festa, da loro organizzata a Cortina: mangiavano, bevevano e cantavano». Potevano permetterserlo? Eccome: i Benetton, scandisce Carpeoro, sono un ingranaggio del sistema messo in piedi dalla più potente massoneria sovrazionale, vicina ai Clinton e ai Bush.Altro che maglioncini: tra i soci della concessionaria delle autostrade italiane, oltre agli industriali di Treviso, figurano presenze ingombranti come la londinese Hsbc, uno dei maggiori gruppi bancari del mondo, nonché un fondo di Singapore (Gic Private Limited) e la fondazione bancaria della torinese Crt. Ma soprattutto il primo fondo d’investimenti del pianeta, lo statunitense Blackrock di Larry Fink, che – ricorda Carpeoro – Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni” collega direttamente alla Ur-Lodge “Hathor Pentalpha”, sinistra superloggia massonica internazionale fondata dai Bush e sospettata di aver ideato la strategia della tensione, prima in Europa e poi nel mondo, reclutando Bin Laden e ispirando la strage dell’11 Settembre a Manhattan. Di che stiamo parlando? «I Benetton fanno parte di quel mondo: vicinissimi a Obama, a Hillary Clinton, alla superloggia “Three Eyes”». In Atlantia, aggiunge Carpeoro, vi sarebbero quote intestate a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Si dice Benetton, ma in realtà i padroni delle nostre autostrade sono tantissimi, e per lo più non italiani, «confermando lo schema delle privatizzazioni italiche». Tra parentesi: «Avete notato che i politici che le promossero – Prodi, D’Alema, Amato – aprirono simultaneamente fior di fondazioni miliardarie? Coincidenze, ovvio».Potrebbe la magistratura congelare i beni dei Benetton? «Certamente, ma anche i giudici tengono famiglia», taglia corto Carpeoro, poco convinto anche della possibilità che il governo Conte possa davvero mantenere la promessa di togliere un osso così ricco alla complessa struttura di potere che – attraverso i Benetton – ha avuto in regalo le austostrade costruite coi soldi degli italiani. Troppo potente, il club, e troppo debole la politica: «Ormai, in Italia, chi è al governo non può decidere quasi niente». La bomba esplosa in Veneto in una sede della Lega vicino a Treviso e l’effrazione domestica suibita dai genitori di Salvini? «Può essere uno strumento di pressione: a Craxi, quando stava per vuotare il sacco sul sistema del finanziamento illegale di cui beneficiavano tutti i partiti, violarono le abitazioni dei figli per indurlo a tacere». Questo, per Carpeoro (e Mazzucco) è il vero “complotto” di Genova: un maxi-regalo ai privati, senza vincoli per gli oneri di manutenzione, a scapito – come si è visto – della sicurezza. Oliviero Toscani rimprovera gli italiani di eccessiva severità verso i Benetton? «Ovvio, è sul loro libro paga: ha mostrato che tutti, in Italia, hanno un prezzo», dichiara Carpeoro. «E ha mostrato che quello è il suo prezzo: per essere inaffidabile, inattendibile e inaccettabile».«Lasciate perdere i complotti basati sui lampi che si vedono durante il crollo del viadotto Morandi: quelle ciance sul web servono solo a non vedere l’unico vero complotto all’origine del disastro di Genova». E cioè: una sciagurata sottovalutazione del rischio, grazie a una concessione-omaggio, imbarazzante e piena di parti segrete. Una profezia? «Vedrete che arriverà una telefonata dall’America, e alla fine la concessione ad Autostrade per l’Italia non verrà revocata. Oppure: verrà bandita una nuova gara, che sarà facilmente vinta dagli stessi azionisti di Atlantia, Benetton e soci». Affermazioni che, all’indomani della catastrofe di Genova, Gianfranco Carpeoro – avvocato e saggista – affida alla diretta web-streaming condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”, in tandem con Massimo Mazzucco. Ecco il complotto: «Lo sono, nei fatti, tutte le privatizzazioni fatte in Italia negli ultimi 50 anni. Oggi non sapremmo neppure più come gestirle, le autostrade. Dove trovare i soldi per i cantieri urgenti? L’Ue ci impedirebbe di usarli, con la scusa che sforeremmo il budget». I Benetton? «Hanno speso ben poco, a livello di manutenzione. E non hanno fatto niente per soccorrere i senzatetto, che avevano bisogno di aiuti immediati. Sono avviliti, per l’accaduto? La sera dopo la tragedia erano a una festa, da loro organizzata a Cortina: mangiavano, bevevano e cantavano». Potevano permetterselo? Eccome: i Benetton, scandisce Carpeoro, sono un ingranaggio del sistema messo in piedi dalla più potente massoneria sovranazionale, vicina ai Clinton e ai Bush.
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Barnard: strage evitabile, Toninelli indaghi sul suo ministero
Dove sta l’origine della colpa maggiore l’ho già scritto qui, ma – caro ministro Toninelli – lei deve indagare dentro al ‘carrozzone’ ministeriale che (incolpevolmente) presiede, e che aveva tutte le competenze per almeno avvisare del pericolo e forse evitare la catastrofe, come dimostrato sotto (anche se non i fondi, per il noto problema dei tagli Ue). Ma dove diavolo era il Mit? Perché non si è almeno sentito prima dei morti a Genova? O scopriremo che i suoi tecnici erano distratti? O, peggio, che sono stati ignorati per anni? Ai lettori: date un’occhiata qui di seguito, si parla del Mit e concessionarie autostrade. Direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture stradali (questa è la struttura “ombrello”, da cui si diramano le due direzioni sottostanti, ancor più significative in tema di controlli alle concessionarie. Competenze: b) funzioni di concedente della rete autostradale in concessione; n) approvazione di programmi di adeguamento e messa in sicurezza delle infrastrutture di viabilità di interesse statale e locale; t) vigilanza sulla corretta manutenzione delle infrastrutture di competenza.Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. Competenze: a) vigilanza e controllo sui concessionari autostradali, inclusa la vigilanza sull’esecuzione dei lavori di costruzione delle opere date in concessione e il controllo della gestione delle autostrade il cui esercizio è dato in concessione; d) proposta di programmazione, da formulare alla “direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture stradali”, del progressivo miglioramento ed adeguamento delle autostrade in concessione; g) vigilanza sull’adozione, da parte dei concessionari, dei provvedimenti ritenuti necessari ai fini della sicurezza del traffico autostradale. Nda: i termini usati lasciano al Mit ampio spazio di controllo (soprattutto al punto g) a prescindere dai termini dei singoli contratti, ma poi segue:Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali – Div1 – vigilanza tecnica e operativa della rete autostradale in concessione. Competenze: definizione delle linee di indirizzo e la programmazione delle verifiche ispettive della rete autostradale (in concessione, nda); disposizioni ed analisi in merito al rispetto dei parametri tecnici previsti dalle convenzioni per i piani di manutenzione ordinaria (Pom) e straordinaria; attuazione delle procedure sanzionatorie in caso di inadempimenti per quanto di competenza della divisione (cioè le concessionarie, nda). Di nuovo, ampio potere di controllo (“verifiche ispettive della rete autostradale”) e almeno di segnalare all’interno del Mit e pubblicamente le inadempienze o allarmi percepiti, se non addirittura di sanzionare.Ministro, nel suo palazzo va cercato molto, e non solo nelle (ignobili) ristrettezze Ue o in Atlantia, perché i termini della concessione ai Benetton saranno anche stati segreti, ma nulla impediva al Mit di capire e di denunciare anni prima la situazione, viste le sue chiare competenze di cui sopra. Ne aveva tutti i poteri (anche se purtroppo non quelli di un ministero di Stato sovrano), almeno poteri di stampa come di routine accade in Usa. Ma non risulta che il Mit e queste sue direzioni ad hoc si siano mai sentite, nello specifico della gestione da parte di Atlantia di questa bomba vagante che incombeva su Genova. Quindi, Toninelli, giustissimo puntare il dito, ma questo è un ministero che va scosso da cima a fondo.(Paolo Barnard, “Toninelli, dopo le colpe Ue lei ora indaghi sul ministero che dirige”, dal blog di Barnard del 17 agosto 2018).Dove sta l’origine della colpa maggiore l’ho già scritto qui, ma – caro ministro Toninelli – lei deve indagare dentro al ‘carrozzone’ ministeriale che (incolpevolmente) presiede, e che aveva tutte le competenze per almeno avvisare del pericolo e forse evitare la catastrofe, come dimostrato sotto (anche se non i fondi, per il noto problema dei tagli Ue). Ma dove diavolo era il Mit? Perché non si è almeno sentito prima dei morti a Genova? O scopriremo che i suoi tecnici erano distratti? O, peggio, che sono stati ignorati per anni? Ai lettori: date un’occhiata qui di seguito, si parla del Mit e concessionarie autostrade. Direzione generale per le strade e le autostrade e per la vigilanza e la sicurezza nelle infrastrutture stradali (questa è la struttura “ombrello”, da cui si diramano le due direzioni sottostanti, ancor più significative in tema di controlli alle concessionarie. Competenze: b) funzioni di concedente della rete autostradale in concessione; n) approvazione di programmi di adeguamento e messa in sicurezza delle infrastrutture di viabilità di interesse statale e locale; t) vigilanza sulla corretta manutenzione delle infrastrutture di competenza.
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La Stampa: lampi sul ponte prima del crollo, video oscurato
Attentato, sì – ma “alla sicurezza dei trasporti”. Niente terrorismo, dunque, ma “solo” negligenza, per quanto criminale. E’ una delle ipotesi di reato che, secondo “Rai News”, la procura di Genova sarebbe pronta a contestare per il drammatico crollo del viadotto Morandi il 14 agosto. Attentato alla sicurezza dei trasporti, oltre a omicidio colposo plurimo e disastro colposo, per una strage costata 41 morti, 8 feriti e (per ora) una decina di dispersi, insieme a oltre 600 sfollati. «Non è stata una fatalità, ma un errore umano», sottolinea il procuratore genovese Francesco Cozzi, che coordina le indagini con i pm Walter Cotugno e Massimo Terrile. Milioni di italiani hanno visionato, sul web, le drammatiche immagini del crollo, riprese in diretta con lo smartphone da Davide Di Giorgio: mostrano due bagliori che illuminano il ponte un istante prima del rombo che annuncia il collasso della mastodontica infrastruttura autostradale. “La Stampa” pubblica addirittura un video poi rimosso da Autostrade: quei lampi si vedono benissimo. Tanto basta per dare fiato anche agli immancabili sospetti: e se la catastrofe di Genova fosse stata causata da un oscuro attentato terroristico di tipo stragista, come quelli che hanno insanguinato il resto d’Europa a partire dalla mattanza di Charlie Hebdo?Non sono in pochi, nei mesi scorsi, ad aver parlato di massima allerta: come se ci fosse il fondato timore di un “Big One”, un maxi-attentato per colpire finalmente anche l’Italia, finora rimasta al riparo dalle stragi dolose grazie a quello che viene considerato il miglior dispositivo antiterrorismo del mondo. «Al posto di Salvini mi guarderei bene dal sostituire gli attuali vertici dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza che hanno finora sventato decine di attentati, nel nostro paese», ha dichiarato tempo fa l’avvocato Gianfranco Pecoraro, meglio noto con lo pseudonimo di Carpeoro, con il quale ha firmato romanzi e saggi come “Dalla massoneria al terrorismo”. Nel libro, l’autore svela gli inquietanti retroscena degli attentati compiuti in Francia e in Belgio: manovalanza islamista, ma simbologia tipicamente massonica e di ispirazione templare. Più volte, specie dopo l’orrenda strage di Nizza del 14 luglio 2016, lo stesso Carpeoro ha ammonito: c’è il rischio che le stesse “menti raffinatissime” possano colpire anche l’Italia, paese a cui sembra alludere scelta di organizzare proprio a Nizza il massacro compiuto nel giorno dell’anniversario della Presa della Bastiglia, data-simbolo per la massoneria progressista impegnata a contrastare la supermassoneria reazionaria responsabile dell’austerity europea.C’entra qualcosa, tutto questo, anche con la sciagura di Genova? Lo stesso Carpeoro ne parlerà domenica 19 agosto in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” insieme a un altro analista non-allineato come Massimo Mazzucco, autore di documentari che hanno fatto epoca, nei quali si dimostra completamene infondata la verità ufficiale sul maxi-attentato dell’11 Settembre negli Usa. A gettare acqua sul fuoco dei possibili complottismi, per ora, provvedono siti come “Next”, secondo cui i due bagliori ben visibili nel filmato circolato sul web «in tutta evidenza sono lampi, visto che prima del crollo su Genova si era scatenato un nubifragio di grandi dimensioni (c’era l’allerta arancione della protezione civile)». Il primo ad adombrare l’ipotetica presenza di circostanze anomale è stato Valerio Staffelli, uno dei mattatori di “Striscia la notizia”, autore del seguente tweet: «Scusate, ho visto immagini crollo ponte a Genova, per caso avete notato due bagliori prima del crollo? Ero lontano dal monitor ma sembravano una coppia di bagliori». Fa effetto, ovviamente, a neanche due settimane dal disastro sull’A14 a Bologna.Alcuni degli automobilisti che appena dopo il crollo erano corsi al riparo nella vicina galleria, aggiunge “Next”, hanno raccontato di aver visto cedere uno degli “stralli”, i tiranti che reggevano il viadotto. Altri testimoni che si trovavano in auto nelle vicinanze hanno invece visto «un fulmine colpire il ponte». L’ipotesi che il viadotto Morandi sia crollato a causa di un fulmine «non è stata confermata né accertata», spiega Angelo Borrelli, dirigente della protezione civile. “Next” aggiunge che l’ingegner Antonio Brencich, professore associato di costruzioni in cemento armato all’università di Genova, esclude la possibilità che un fulmine abbia causato il crollo del ponte. Per contro, è il quotidiano “La Stampa” a scrivere che un altro video, quello delle telecamere di sicurezza dell’autostrada A10, è stato stranamente rimosso appena dopo il disastro. Il giornale lo ripropone. Ore 11, 36 minuti e 28 secondi: quei lampi, sotto la pioggia battente, sono evidentissimi, proprio al momento del crollo. Inutile affrettare conclusioni, ovviamente, così come sarebbe demenziale scartare pregiudizialmente le ipotesi più scomode.Basti ricordare che la verità su Charlie Hebdo non si saprà mai, avendo la Francia seppellito l’inchiesta col segreto di Stato (segreto militare) dopo che la magistratura di Parigi aveva scoperto un’imbarazzante triangolazione: i Kalashnikov impiegati dal commando dell’Isis erano stati acquistati da un armaiolo belga grazie ai buoni uffici di un funzionario dei servizi segreti francesi, risultato in contatto con la fidanzata di uno degli attentatori. «A volte il complottismo raggiunge l’idiozia pura», avverte Carpeoro: «C’è chi è arrivato a dire che nel teatro Bataclan non sia morto nessuno: e questo genere di “sport” è utilissimo per screditare chiunque si impegni a cercare una verità diversa da quella ufficiale». E’ noto che il terrorismo è un abominevole strumento politico: in Francia, ad esempio, è servito a intimidire Hollande spianando la strada a Macron, già banchiere Rothschild e pupillo dell’oligarchia supermassonica più pericolosamente reazionaria. E’ lo stesso Macron che oggi ha dichiarato guerra all’Italia, definendo “vomitevole” la politica di Salvini e del governo gialloverde, sostenuto da oltre il 60% degli italiani ma fermamente osteggiato dall’élite europeista artefice del rigore (e, secondo Carpeoro, anche della strategia della tensione a colpi di attentati stragistici “false flag”, comodamente targati Isis).Attentato, sì – ma “alla sicurezza dei trasporti”. Niente terrorismo, dunque, ma “solo” negligenza, per quanto criminale. E’ una delle ipotesi di reato che, secondo “Rai News”, la procura di Genova sarebbe pronta a contestare per il drammatico crollo del viadotto Morandi il 14 agosto. Attentato alla sicurezza dei trasporti, oltre a omicidio colposo plurimo e disastro colposo, per una strage costata 41 morti, 8 feriti e (per ora) una decina di dispersi, insieme a oltre 600 sfollati. «Non è stata una fatalità, ma un errore umano», sottolinea il procuratore genovese Francesco Cozzi, che coordina le indagini con i pm Walter Cotugno e Massimo Terrile. E quegli strani lampi? Milioni di italiani hanno visionato, sul web, le drammatiche immagini del crollo, riprese in diretta con lo smartphone da Davide Di Giorgio: mostrano due bagliori che illuminano il ponte un istante prima del rombo che annuncia il collasso della mastodontica infrastruttura autostradale. “La Stampa” pubblica addirittura un video poi rimosso da Autostrade: quei lampi si vedono benissimo. Tanto basta per dare fiato anche agli immancabili sospetti: e se la catastrofe di Genova fosse stata causata da un oscuro attentato terroristico di tipo stragista, come quelli che hanno insanguinato il resto d’Europa a partire dalla mattanza di Charlie Hebdo?
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Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi
Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.(Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.
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Terre rare, la nuova guerra che oppone Cina e Stati Uniti
Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.Tuttavia, queste “terre” non sono affatto rare. La loro rarità si deve principalmente al fatto che, per ricavare questi elementi, è necessaria un’estesa attività di estrazione, con enormi costi sia in termini economici che ambientali dovuti anche alla radioattività degli scarti derivanti della loro lavorazione. L’ampia disponibilità (un terzo degli attuali giacimenti conosciuti), i bassi costi della manodopera e la scarsa protezione ambientale hanno però di fatto consentito alla Cina di sbaragliare qualsiasi concorrenza e di controllare, secondo la United States Geological Survey (Usgs) tra l’85% e il 95% dell’offerta mondiale e il 78% del mercato americano. L’importanza di questi materiali era già stata riconosciuta nel 1992 dall’allora leader cinese Deng Xiaoping il quale sostenne che avrebbero avuto lo stesso valore strategico del petrolio mediorientale. A distanza di quasi trent’anni la sua profezia sembra essersi avverata, anche se si tratta di un’arma che Pechino può utilizzare con molta attenzione e cautela evitando che si tramuti in un’arma “spuntata”.Già nel 2010 infatti le terre rare furono al centro di un’accesa disputa commerciale, determinata dalla decisione cinese di ridurre le sue quote all’esportazione del 40% per motivi di salvaguardia ambientale. Le misure comportarono un aumento immediato dei prezzi internazionali delle terre rare e una crescente preoccupazione da parte dei paesi occidentali; preoccupazione culminata nel 2012 con la presentazione del caso di fronte all’ Organo di Conciliazione (Dispute Settlement Body) dell’Organizzazione Mondiale del Commercio da parte degli Stati Uniti affiancati da Giappone e Unione Europea. La decisione dell’Organo di Conciliazione arrivò nel 2014. Pur riconoscendo la possibilità da parte degli Stati membri di applicare restrizioni determinate da motivi ambientali, si contestò alla Cina la violazione del principio di non discriminazione, visto che l’aumento delle quote all’esportazione garantivano un maggior accesso al mercato e prezzi più favorevoli per le imprese nazionali cinesi.Da parte sua Pechino, pur applicando la sentenza ed eliminando le quote stabilite in precedenza, rinviava con fermezza le accuse al mittente constatando, non solo il fatto di aver superato le quote di estrazione fissate e il crescente impatto ambientale derivante, ma anche l’“ipocrisia” di chi, che senza privarsi delle proprie riserve, vuole continuare a sfruttare in modo economico quelle cinesi. Dietro l’atteggiamento cinese si nasconde però anche una duplice ambizione. In primo luogo Pechino tenta attraverso queste limitazioni di spingere le principali industrie occidentali ad alto contenuto tecnologico a trasferire le loro produzioni in Cina. In secondo luogo, queste misure vengono ritenute funzionali ad aiutare lo sviluppo delle imprese cinesi secondo il piano “Made in China 2025” varato dal premier Li Keqiang nel 2015. Un piano ambizioso volto a far progredire la produzione cinese nella catena del valore, concentrandosi sempre di più nell’industria ad alto valore aggiunto. In particolare, il piano si pone l’obiettivo di riuscire a produrre localmente entro il 2025 il 70% dei materiali definiti strategici per l’industria del futuro, facendo della Cina un paese leader nella produzione di materiali ad alto contenuto tecnologico.Molti commentatori ritengono che le misure commerciali varate dall’amministrazione americana siano una risposta proprio al piano Made in China 2025. Le misure, volte a riequilibrare alcune pratiche sleali portate avanti dal governo di Pechino, dovrebbero infatti, secondo le intenzioni dell’attuale presidenza, favorire il “ritorno” in patria della produzione industriale ritenuta strategica. Tuttavia, nel caso specifico delle recenti limitazioni relative la produzione di terre rare cinesi, si contesta da più parti l’efficacia del provvedimento. Un aumento dei dazi del 10% infatti sarebbe troppo poco per indurre un cambio di fonti di approvvigionamento e troppo poco per spingere le aziende americane a tornare in patria, senza considerare la lunghezza dei tempi in caso di riattivazione di eventuali giacimenti nazionali di terre rare. La sfida si gioca dunque sul filo del rasoio. Se da una parte Pechino può sfruttare il proprio vantaggio competitivo riducendo ulteriormente la capacità di approvvigionamento per le imprese americane, d’altra parte, un rincaro eccessivo dei prezzi spingerebbe alla ricerca di fonti alternative. Il tutto, al netto dell’attuale partita commerciale tra Pechino e Washington i cui scenari incerti continueranno a tenere in tensione i mercati globali.(Alberto Belladonna, “La guerra delle terre rare tra Cina e Stati Uniti”, da “Medium” del 30 luglio 2018, ripreso da “Megachip”. Belladonna è docente di geoeconomia e commercio internazionale presso l’università Francisco Marroquin di Guatemala. Le terre rare comprendono minerali come scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, nodimio, promezio, samario, europio, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio e lutezio).Lo scorso dicembre, alla vigilia delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump firmava un ordine esecutivo per ridurre la dipendenza del paese da fonti estere di “minerali critici” vitali nella produzione di una vasta gamma di beni strategici per l’industria americana. Un ordine palesatosi nell’ultimo round di restrizioni commerciali varate dal governo americano questo 10 luglio con l’imposizione di un aumento del 10% di dazi su una serie di importazioni provenienti dalla Cina, tra le quali figurano appunto anche le “terre rare”. Sconosciute ai più, le terre rare o lantanidi sono un gruppo di diciassette elementi contenuti in diversi minerali diventati fondamentali nella produzione di un’innumerevole quantità di prodotti ad alto contenuto tecnologico grazie alla loro capacità di dar luogo a leghe con elevate proprietà magnetiche. In particolare, tutta la moderna elettronica così come la produzione di semiconduttori, fibre ottiche, sistemi di navigazione, laser e monitor, fino alla produzione di cd, carte di credito e telefoni cellulari sarebbe totalmente irrealizzabile senza questi elementi. A dipendere dalle terre rare cinesi è inoltre la produzione dei più sofisticati strumenti bellici dell’esercito statunitense e quasi tutta l’industria della cosiddetta “green economy”, dai pannelli solari alle batterie ricaricabili per auto elettriche ed ibride.
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Autostrade, l’indecente segreto di Stato sulle concessioni
Quattro o cinque anni fa la neonata Autorità dei trasporti chiese al ministero delle infrastrutture i testi dei contratti di concessione autostradale. Sembrava una richiesta di routine, e invece i funzionari ministeriali fecero muro: i documenti, spiegarono, contengono dati delicati per le aziende coinvolte e quindi non possono essere divulgati. Nemmeno all’organismo di controllo. Affermazione sorprendente ma del tutto in linea con quello che era accaduto al momento stesso della creazione dell’Autorità. L’Aiscat, l’associazione dei gestori, era riuscita a ottenere una sostanziale riduzione dei suoi poteri: contrariamente a quello che accade in altri paesi, l’Autorità deve ancora oggi limitarsi alle nuove concessioni, ma non può mettere becco in quelle già firmate, tutte le più importanti compresa quella di Autostrade. Non meraviglia dunque che “Phastidio”, il sito dell’economista Mario Seminerio, abbia definito le concessioni «un indecente segreto di Stato», più tutelato di quelli militari. In questo caso, però, a essere protetta non è la collettività, ma le società che incassano i pedaggi.Il muro di gomma ha fino ad ora sempre tenuto, sventando ogni pericolo; l’esempio più recente risale all’inizio di quest’anno: mantenendo all’apparenza le ripetute promesse di trasparenza, Graziano Delrio, ministro dei trasporti del governo Gentiloni, ha fatto pubblicare su Internet i testi incriminati. Peccato però che siano state escluse le parti più importanti, quelle davvero utili per farsi un’idea della sensatezza economica degli accordi. Le concessioni, in tutto una ventina o poco più, sono i contratti con cui lo Stato (attraverso il ministero delle infrastrutture) affida a una società la gestione di un tronco autostradale, i rispettivi obblighi e diritti, i ricavi che l’operatore privato ne potrà trarre e gli investimenti a cui si impegna. Nella maggior parte dei casi risalgono alla fine degli anni Novanta, il periodo delle grandi privatizzazioni. Quella di Autostrade per l’Italia, siglata nel 1997, scadeva nel 2038; ma di recente, in cambio dei lavori sulla nuova super-tangenziale di Genova, la cosiddetta Gronda, è stata prorogata al 2042.Proprio le proroghe sono uno dei tasti più delicati. La legge europea prevede che, una volta scadute, le convenzioni vengano messe a gara, nel nome di una sana competizione. Peccato che in Italia non succeda praticamente mai. Il cavallo di Troia sono di solito i nuovi investimenti: il gestore si impegna a costruire un nuovo tronco, una terza (o quarta) corsia, opere considerate indispensabili, e come remunerazione finisce con l’ottenere dal governo un aumento dei pedaggi o una proroga del contratto (talvolta entrambi). Spesso, tra l’altro, l’investimento provoca un aumento del traffico e il gestore ci guadagna due volte. Atlantia dei Benetton (con Autostrade primo gestore italiano) o il gruppo Gavio (secondo) hanno un altro vantaggio: possiedono delle società di costruzioni interne a cui, almeno in parte, affidano i lavori. L’incasso tende così a triplicarsi.Uno dei dominus del sistema è Fabrizio Palenzona, tra i più formidabili uomini di potere dell’Italia degli ultimi decenni. Ai tempi della Prima Repubblica era già un democristiano in carriera (è stato sindaco di Tortona e presidente della provincia di Alessandria). Poi è diventato banchiere (vicepresidente di Unicredit) e proconsole dei Benetton nel settore infrastrutture. In questa veste è presidente di Aiscat (come detto l’associazione dei gestori autostradali) e di Assoaeroporti (i Benetton controllano lo scalo di Fiumicino). La famiglia di Ponzano Veneto, oggi in difficoltà di fronte all’accanita competizione nel settore dei maglioncini (dove da anni perde soldi) è entrata nel più redditizio comparto dei servizi in concessione già dalla prima privatizzazione nel 1998. Più o meno nello stesso periodo sono entrati i Gavio. Le società della famiglia di Tortona sono state coinvolte qualche anno fa in una grottesca vicenda che rende bene la scarsa trasparenza del settore. La cosiddetta legge sblocca-Italia del 2015 prevedeva a loro vantaggio la solita proroga (con relativi incassi) in cambio di lavori per 10 miliardi. Arrivata a Bruxelles la norma fu bocciata tra mille imbarazzi: i «nuovi» lavori, dissero i funzionari Ue, sono gli stessi che ci avete presentato negli anni precedenti. Quante volte volete farveli pagare?(Angelo Allegri, “L’indecente segreto di Stato sui contratti di concessione”, dal “Giornale” del 17 agosto 2018).Quattro o cinque anni fa la neonata Autorità dei trasporti chiese al ministero delle infrastrutture i testi dei contratti di concessione autostradale. Sembrava una richiesta di routine, e invece i funzionari ministeriali fecero muro: i documenti, spiegarono, contengono dati delicati per le aziende coinvolte e quindi non possono essere divulgati. Nemmeno all’organismo di controllo. Affermazione sorprendente ma del tutto in linea con quello che era accaduto al momento stesso della creazione dell’Autorità. L’Aiscat, l’associazione dei gestori, era riuscita a ottenere una sostanziale riduzione dei suoi poteri: contrariamente a quello che accade in altri paesi, l’Autorità deve ancora oggi limitarsi alle nuove concessioni, ma non può mettere becco in quelle già firmate, tutte le più importanti compresa quella di Autostrade. Non meraviglia dunque che “Phastidio”, il sito dell’economista Mario Seminerio, abbia definito le concessioni «un indecente segreto di Stato», più tutelato di quelli militari. In questo caso, però, a essere protetta non è la collettività, ma le società che incassano i pedaggi.
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E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
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Sperano in Mattarella per fabbricare il nuovo Renzusconi?
Insieme al picco dei calori estivi, in questi giorni sembra si sia arrivati anche al picco di confusione politica: dopo l’ondata di entusiasmi in primavera, con l’avvicinarsi dell’autunno pochi ormai scommettono che il governo supererà la soglia delle elezioni europee l’anno prossimo. Lo scrive Lao Xi, dalla Cina, sul “Sussidiario”: sempre più gente crede che il governo si scioglierà e si arriverà a un redde rationem tra le varie forze politiche. Vero, il clima resta volatile e tutto potrebbe sempre cambiare: in questa altalena di tensioni magari il governo durerà per cinque anni, superato il giro di boa della legge di bilancio in autunno. Se non altro, ammette l’analista, oggi «non ci sono alternative vincenti», e quindi «si passerebbe da confusione in confusione». E se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – storico esponente del Pd insediato al Quirinale da Renzi – lavorasse a un partito nuovo, in grado si archiviare il patto tra Salvini e Di Maio? Conclusione ipotetica, a cui Lao Xi perviene esaminando lo scenario attuale, che vede la Lega come primo partito, nettamente in vantaggio: «Potrebbe arrivare alla soglia del 40% dei voti e prendersi quindi più del 51% dei seggi in Parlamento». Prospettiva che inquieta i detentori del potere europeo, gli artefici della sciagurata austerity in nome della quale – evocando il fantasma dello spread – lo stesso Mattarella sbarrò la strada a Paolo Savona come ministro dell’economia.La propaganda di Salvini è efficiente, riconosce Lao Xi: il leader leghista «batte su paure a basso costo: gli emigranti che scombussolano la nostra società e la sicurezza personale e della propria casa». Grandi incertezze, letteralmente esplose «con la decadenza della classe media», insieme all’aumento della povertà e dell’insicurezza «percepita nelle periferie e nelle piccole città». Ma anche con il 40% dei voti e il 51% dei seggi, continua l’analista, nessun paese si governa facilmente con il 60% della gente contro e senza una vera e propria egemonia culturale: «Con la Chiesa contro e i vecchi apparati intellettuali ostili, la Lega ha bisogno di spostarsi al centro e parlare a queste due istituzioni con profondità e spessore, al di là dei tweet». Operazione tutt’altro che facile. Quanto ai 5 Stelle, per loro le difficoltà sono maggiori: il movimento «ha vinto promettendo il bengodi», cioè il reddito di cittadinanza – ma senza spiegare come finanziario, cosa che in questi termini equivale a promettere «la botte piena e la moglie ubriaca, senza avere né la moglie né la botte». Lao Xi paragona i pentastellati addirittura ai giovanissimi dirigenti della disastrosa Rivoluzione Culturale di Mao, che spedì «i contadini all’università e i liceali nei campi». I grillini? «Paiono volenterosi, ma sembrano altrettanto incapaci di capire cosa stiano facendo: da questa confusione probabilmente deriva anche il loro calo nei sondaggi».Parte del Vaticano «sembra voglia adottarli come argine realistico alla brutalità di certi slogan leghisti: in fondo è quello che fece la Chiesa con i barbari». Ma allora, aggiunge Lao Xi, ci vollero secoli per civilizzare germani, slavi e unni: «Oggi non ci sono nemmeno anni, ma solo mesi: riusciranno?», si domanda l’analista, dando per scontato che la “civilizzazione” dei “barbari” sia stata un affare, per l’Europa delle Crociate e delle guerre di religione, delle persecuzioni degli ebrei e dei eretici, del totalitarismo oscurantista che mandò in carcere Galileo e sul rogo Giordano Bruno, prima di cedere Roma alla nuova Italia solo grazie alle cannonate dei bersaglieri, per poi benedire l’ultimo “barbaro” italico proposto dalla storia, Benito Mussolini. Tornando all’oggi e tralasciando i presunti barbari – Salvini sembra un pargoletto, a confronto con gli squali-tigre come Draghi, Monti e Merkel – Lao Xi cita il politologo Claudio Landi, intervistato da “Radio Radicale”: se l’alleanza gialloverde vale il 60% del consenso, l’orrendo Renzusconi (l’inciucio per il quale fu appositamente progettato il Rosatellum) potrebbe non arrivare neppure al 20%. Un’alleanza aperta tra Renzi e Berlusconi migliorerebbe i valori elettorali del Pd e di Forza Italia? «Forse li peggiorerebbe. Due debolezze insieme non fanno una forza, fanno una debolezza ancora maggiore».Questo, aggiunge Lao Xi, a meno che il calcolo non sia un altro: «Ottenere un manipolo di voti in base al quale sedersi al tavolo delle trattative parlamentari. In fondo la bocciatura di Foa presidente della Rai dimostra che il duo conta ancora», almeno oggi. Ma in un nuovo Parlamento come andrebbero le cose? E’ lecito, per loro, sperare in un’inversione di tendenza? Lo stesso Lao Xi invita a non escludere l’ipotesi teorica del “jolly”, ovvero «la fisica, cioè le grandi leggi della politica». Tradotto: «Quando nessun partito gira, qualcosa nascerà: questo sperano gli illuminati romani e certi ambienti che vantano legami con il Quirinale». Obiettivo: un partito “nuovo”, che l’anno prossimo si accaparri quel 20%, puntando anche al 30% di indecisi. Certo, resta «un pensiero da laboratorio», visto che «non si sa che cosa dirà il nuovo partito, dove si inserirà, chi proporrà». In realtà, il bivio è obbligatorio: o ci si piega all’Europa del rigore, o – come si spera farà il governo gialloverde – la si sfiderà, cercando di ampliare il deficit. Non esiste terza via, nella realtà. Quanta parte della popolazione lo comprende? Questo è il punto: c’è grande insoddisfazione, in parte dell’elettorato. Milioni di voti, forse, attendono ancora una proposta convincente: una narrazione efficace. Magari l’ennesima truffa, come quelle rifilate agli italiani prima da Berlusconi e poi da Prodi, e infine da Monti e Letta, Renzi e Gentiloni. Ci cascheranno ancora, gli italiani? L’establishment, intanto – intellettuali in testa – spara ogni giorno sulla Lega, cioè il partito che ha promesso di ribellarsi alla “dittatura” dell’Ue. Non uno di loro fiatò, quando Monti – con Berlusconi e Bersani – impose il pareggio di bilancio in Costituzione, cioè la morte civile del paese per strangolamento finanziario.Insieme al picco dei calori estivi, in questi giorni sembra si sia arrivati anche al picco di confusione politica: dopo l’ondata di entusiasmi in primavera, con l’avvicinarsi dell’autunno pochi ormai scommettono che il governo supererà la soglia delle elezioni europee l’anno prossimo. Lo scrive Lao Xi, dalla Cina, sul “Sussidiario”: sempre più gente crede che il governo si scioglierà e si arriverà a un redde rationem tra le varie forze politiche. Vero, il clima resta volatile e tutto potrebbe sempre cambiare: in questa altalena di tensioni magari il governo durerà per cinque anni, superato il giro di boa della legge di bilancio in autunno. Se non altro, ammette l’analista, oggi «non ci sono alternative vincenti», e quindi «si passerebbe da confusione in confusione». E se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – storico esponente del Pd insediato al Quirinale da Renzi – lavorasse a un partito nuovo, in grado si archiviare il patto tra Salvini e Di Maio? Conclusione ipotetica, a cui Lao Xi perviene esaminando lo scenario attuale, che vede la Lega come primo partito, nettamente in vantaggio: «Potrebbe arrivare alla soglia del 40% dei voti e prendersi quindi più del 51% dei seggi in Parlamento». Prospettiva che inquieta i detentori del potere europeo, gli artefici della sciagurata austerity in nome della quale – evocando il fantasma dello spread – lo stesso Mattarella sbarrò la strada a Paolo Savona come ministro dell’economia.
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Benetton-Spagna grazie ai nostri pedaggi, regalo di D’Alema
«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).Gli imprenditori trevigiani erano partiti molti anni fa con l’abbigliamento a buon mercato, ricorda Fabio Pavesi sul “Fatto Quotidiano”, ma hanno scoperto ben presto che i soldi – quelli veri e tanti – si fanno con i business monopolistici: «Quelli regolati da tariffe e dove la concorrenza sui prezzi, che ha morso sempre di più il tessile-abbigliamento, è del tutto inesistente». Oggi il marchio Benetton è in crisi profonda, mentre i business delle infrastrutture (autostrade e aeroporti, fino alla ristorazione con Autogrill) in cui la famiglia di Ponzano Veneto ha pensato bene di investire alla grande, sfavillano di luce propria. Atlantia, la capofila del gruppo nel settore delle autostrade, ha trovato l’accordo con la Acs di Florentino Perez (patron del Real Madrid) e la sua controllata tedesca Hochtief per “papparsi” la spagnola Abertis, su cui Atlantia aveva lanciato un’Opa da 16 miliardi. Il progetto: una holding in cui proprio Atlantia avrà il 50% del capitale, più un’azione. «Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti».Del resto, aggiunge Pavesi, il business delle autostrade è da sempre un investimento a prova di rischio, e molto remunerativo.Basta scorrere i numeri di Atlantia che possiede Autostrade per l’Italia, la rete da 3 mila chilometri (solo in Italia) oltre agli Aeroporti di Roma, cui si è aggiunto quello di Nizza, insieme ad altri piccoli scali. La holding infrastrutturale – posseduta al 30% da Edizione, la cassaforte dei Benetton – sforna ogni anno numeri in costante crescita. Nel 2017, Atlantia ha visto i ricavi salire e lambire i 6 miliardi, contro i 5,4 di solo un anno prima. «La crisi economica in Atlantia non si è mai vista. Nel 2010 il fatturato valeva poco meno di 4,5 miliardi. Eppure il traffico sulla rete autostradale negli anni bui era anche diminuito. A far salire in continuazione il fatturato c’è sempre la ciambella di salvataggio delle tariffe. Quelle non scendono mai – scrive il “Fatto” – nemmeno quando l’inflazione va a zero, come è accaduto». E’ il bengodi, per i gestori: lo Stato concede loro di rincarare i pedaggi per coprire gli investimenti. «Anche nel 2017 per Autostrade per l’Italia le tariffe hanno corso di più dell’incremento da volumi di traffico. Ed è proprio Autostrade per l’Italia l’asset più redditizio per l’intera Atlantia. La sola Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi sui 6 miliardi di tutta Atlantia. Pagati costi operativi e del lavoro, Autostrade ha una redditività industriale stratosferica: su 3,94 miliardi di fatturato il margine operativo lordo è di ben 2,45 miliardi. Un livello del 62%. Livelli che pochi raggiungono».Dal 2012 al 2016, continua il “Fatto”, Atlantia ha girato dividendi per la bellezza di 1,5 miliardi. «Una vera “cash machine”, una macchina da soldi che spende sì in investimenti per la manutenzione e ha speso molto per la Variante di Valico, ma con una redditività così elevata si permette il lusso di portare a casa quasi un miliardo di utile netto su 6 miliardi di ricavi. Niente male, per la famiglia veneta, che ha capito già 20 anni fa che quel business era l’affare della vita». Basti pensare, come documenta Mediobanca, che a primavera del 2017 Atlantia ha ceduto due pacchetti del 5% di Autostrade con una plusvalenza di ben 732 milioni. «Ricchi, ricchissimi, un vero tesoro Autostrade/Atlantia per i Benetton». Le perdite del marchio dei maglioni? Fanno solo il solletico – conclude Pavesi – al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade italiane, e domani anche di quelle spagnole. Il governo Conte ora annuncia una multa da 150 milioni per il crollo di Genova. Ma la revoca della storica concessione, si apprende, potrebbe costare al paese qualcosa come 20 miliardi. “E’ la privatizzazione, bellezza”. «Durante la grande svendita delle aziende di Stato, costruite con i soldi degli italiani – scrive “VoxNews” – solo comprando e rivendendo dall’Iri la catena Gs, Benetton ha messo a segno una plusvalenza da 4.500 miliardi di vecchie lire. E come nel caso Telecom, di fatto “regalata” all’amico Colaninno, nel 1999 è il governo di Massimo D’Alema a imporre all’Iri di privatizzare le autostrade».Per i Benetton, aggiunge il newsmagazine, si trattava di un grande affare da affiancare a quello di Autogrill, anch’essa acquistata tre anni prima sempre dall’Iri assieme alla catena della grande distribuzione. L’operazione finì nel mirino dell’Antitrust, che chiese ai Benetton di aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Ma, secondo l’Agcom, il diktat dell’autorità guidata da Giuseppe Tesauro non venne osservato, e per questo nel 2004 i Benetton si beccarono una multa da quasi 16 milioni di euro. «Una puntura di spillo», rispetto alla voragine di miliardi nel frattempo incassati ogni anno. La tragedia di Genova è uno specchio: di neoliberismo privatizzatore si muore. Romperemo i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, annuncia Salvini tra le macerie genovesi, pur di mettere in sicurezza la rete nazionale dei trasporti. Ecco il punto: scardinare la consegna del rigore e riconquistare quella sovranità finanziaria che, negli anni della crescita (attraverso il ricorso strategico al debito pubblico) aveva permesso di realizzarle, le infrastrutture che poi il centrosinistra ha svenduto. E’ solo l’inizio di un rivolgimento epocale inevitabile, drammaticamente urgente. D’Alema tace, mentre l’oscuro Orfini accusa Lega e 5 Stelle di ragliare a vanvera. Non una parola di autocritica, dall’ex sinistra che sta assistendo alla sua cancellazione, ingloriosa, dalla storia italiana.«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).