Archivio del Tag ‘Unione Europea’
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A Strasburgo l’attentato salva-Macron, nei guai in Francia
«Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”». Massimo Mazzucco non ha dubbi: è davvero micidiale la “sincronicità” con la quale l’11 dicembre il giovane Cherif Chekatt, lasciato circolare liberamente in Francia nonostante le 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi, avrebbe aperto il fuoco sulla folla a Strasburgo uccidendo 3 persone e ferendone 16, tra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi (gravissimo, in coma forse irreversibile). «Ormai – scrive Mazzucco, su “Luogo Comune” – la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione». Motivo: «La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi proprio in quelle occasioni». Pensate solo alla coincidenza, aggiunge Mazzucco: fino alla sera prima, tutti i telegiornali e le testate giornalistiche francesi parlavano solo di Macron, di come il suo discorso non fosse riuscito a placare i Gilet Gialli, e di come ormai la fine del suo governo apparisse scontata. Ma dall’indomani «tutto questo passa in secondo piano, perché ora ci dobbiamo occupare di Cherif Chekatt, l’uomo sospettato di aver sparato a Strasburgo e prontamente dato in pasto alla stampa mondiale dall’efficientissimo “Site” di Rita Katz, l’ex consulente del Mossad divenuta il megafono dell’Isis. «Davvero dobbiamo aggiungere altro?».Sembra un copione già scritto, aggiunge “Informare per Resistere”, eppure anche questa volta viene recitato come le altre. E una volta di più – come dopo Charlie Hebdo, Bataclan e tutti gli altri attentati firmati Isis in Europa – a reti unificate «sentiamo ripetere il mantra del terrorista islamico che dopo l’attentato si dà alla fuga». Non un terrorista qualunque, peraltro, ma il “solito” giovane islamista “radicalizzatosi” e ovviamente “attenzionato” dalla polizia. «Ci uniamo al dolore delle famiglie», aggiunge “Informare per Resistere”, che però rileva come siano «davvero strane» le tempistiche e la modalità dell’attentato, «che arriva puntualmente quando in Francia i Gilet Gialli incalzano il presidente Macron». I fatti sono sotto gli occhi di tutti: «Lo schema è sempre lo stesso, come quello di molti altri attentati: un presunto estremista islamico che poi sparisce nel nulla». Sul versante anti-complottista, “Fanpage” esibisce sconcerto per lo scetticismo degli stessi Gilet Gialli: «Secondo gli esponenti del movimento che da settimane sta inscenando proteste e manifestazioni in tutta la Francia, dietro all’attentato di Strasburgo ci sarebbe la regia del governo e del presidente Macron per distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica francese dai disordini sociali delle ultime settimane».Su Facebook e Twitter, un saggio di quelle che “Fanpage” definisce «le folli teorie dei Gilet Gialli», di cui il sito pubblica estratti esemplari. Esempio: «Ecco, un piccolo attentato per mettere fine ai Gilet Gialli; molto forte questo Macron». Oppure: «Che caso, appena qualche giorno prima del quinto atto per calmare le pecore». E ancora: «E’ strano, non si sentiva più parlare di attentati, ma solo di noi Gilet Gialli e ora c’è stato un attentato a Strasburgo». Morale: «Non ci facciamo impressionare da questo attentato costruito dai servizi segreti». “Follie” dei Gilet Gialli o esaperazione dei francesi sopravvissuti alle mattanze degli anni scorsi, compiute da terroristi inutilmente “attenzionati dalla polizia” che si premuravano di lasciare sul posto il passaporto, prima di essere regolarmente freddati dai cecchini? Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, il simbologo Gianfranco Carpeoro svela la regia supermassonica – non islamica – del “neoterrorismo” Isis in Europa, puntando il dito contro precisi settori dell’intelligence Nato. Schema classico: strategia della tensione. Tradotto: si “coltivano” potenziali kamikaze, a cui non necessariamente si racconta che fine faranno. Tecniche collaudate di terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, infarcite di “fake news” diffuse dai grandi media per depistare l’opinione pubblica.Di recente, in morte di Bush padre, Gioele Magaldi (autore del bestseller “Massoni”, che illumina il potere occulto di 36 Ur-Lodges sovranazionali) ha ricordato il ruolo nefasto della superloggia “Hathor Pentalpha”, ritenuta coinvolta nell’incubazione dell’11 Settembre. Ipotesi: terrorismo di Stato condotto da frange illegali, le stesse che avrebbero “fabbricato” prima Al-Qaeda e poi l’Isis. Alla “Hathor”, sempre secondo Magaldi, era legato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Lo stesso Magaldi non ha dubbi sulla cifra supermassonica di Macron, già banchiere Rothschild e pupillo del supermassone reazionario Jacques Attali, a suo tempo braccio destro di Mitterrand e ispiratore della conversione anti-progressista dell’Eliseo. Il giorno dell’ultimo attentato – martedì 11 – suona sinistro, nella simbologia massonica (l’11 può essere interpretato come “numero della morte”, come fu per l’11 Settembre a New York, data probabilmente non casuale – l’11 settembre del 1973 il massone Pinochet, in Cile, rovesciò con un golpe il massone progressista Allende). Inquietante la scelta della località dell’attentato – Strasburgo, sede francese del Parlamento Europeo – proprio mentre Macron, nel tentativo di sedare la rivolta dei Gilet Gialli, annuncia un deficit che potrebbe sforare il mitico 3% fissato, come limite invalicabile, dall’Unione Europea.«Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”». Massimo Mazzucco non ha dubbi: è davvero micidiale la “sincronicità” con la quale l’11 dicembre il giovane Cherif Chekatt, lasciato circolare liberamente in Francia nonostante le 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi, avrebbe aperto il fuoco sulla folla a Strasburgo uccidendo 3 persone e ferendone 16, tra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi (gravissimo, in coma forse irreversibile). «Ormai – scrive Mazzucco, su “Luogo Comune” – la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione». Motivo: «La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi proprio in quelle occasioni». Pensate solo alla coincidenza, aggiunge Mazzucco: fino alla sera prima, tutti i telegiornali e le testate giornalistiche francesi parlavano solo di Macron, di come il suo discorso non fosse riuscito a placare i Gilet Gialli, e di come ormai la fine del suo governo apparisse scontata. Ma dall’indomani «tutto questo passa in secondo piano, perché ora ci dobbiamo occupare di Cherif Chekatt, l’uomo sospettato di aver sparato a Strasburgo e prontamente dato in pasto alla stampa mondiale dall’efficientissimo “Site” di Rita Katz», l’ex consulente del Mossad divenuta il megafono dell’Isis. «Davvero dobbiamo aggiungere altro?».
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Blondet: Salvini Ebbasta si è smarrito tra Berlino e Israele
«Chi vuole pace, sostiene il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele». E fin qui tutto bene (o quasi, visto che il binomio “pace” e “Israele” suona estremamente controverso). Ma il condottiero Matteo Salvini, in missione nello Stato ebraico (che ha appena riformato le sue leggi introducendo una norma “razziale” che pone gli ebrei al di sopra di chiunque altro), aggiunge, sul suo profilo Instagram: «Sono appena stato ai confini nord con il Libano, dove i terroristi di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione». I “terroristi” di Hezbollah? Replica Maurizio Blondet: non sa, Salvini, che Hezbollah «ha pagato un alto prezzo di sangue combattendo contro i terroristi veri, quelli dell’Isis, armati e addestrati e protetti da Israele e Usa? Non sa che sono alleati in Libano con i cristiani maroniti, e hanno difeso con le armi in pugno i cristiani d’Oriente, da tutti noi abbandonati? Non hanno spiegato, a Salvini, che proprio Hezbollah – insieme ai russi e agli iraniani – ha sostenuto la Siria, impedendo che cadesse nelle mani dei tagliagole jihadisti messi in campo, sottobanco, dall’intelligence occidentale con l’aiuto di Netanyahu e Erdogan, due notori campioni della democrazia e dalla pace nel mondo?«Non solo vicepremier, non solo ministro dell’interno». Adesso, scrive Blondet, Salvini «scavalca tutti e fa il ministro degli esteri. Insomma, fa tutto lui. E anche di più. Naturalmente raccogliendo enormi successi diplomatici». Blondet lo definisce il classico elefante nella cristalleria, che va a spasso in Israele «ignorando come gli israeliani lo abbiamo insultato sui giornali, dicendo che dovevano dichiararlo “persona non grata” perché neofascista, “populista, separatista, nazionalista”». E questo «lo dicono “loro”, unico stato razziale, a lui». “La visita di Salvini divide Israele”, scriveva l’Agi alla vigilia: «Il vicepremier incontrerà il premier Netanyahu ma non il presidente Rivlin (per motivi di agenda, spiega il portavoce). Il quotidiano di sinistra “Haaretz” lo dichiara “persona non gradita”». Perché la visita di Matteo Salvini in Israele sta facendo tanto discutere? Voci di protesta si alzano anche dai 5 Stelle, che sulla questione israelo-palestinese hanno posizioni ben diverse da quelle del leader della Lega.Già nel comizio di sabato, a Roma, secondo i media, Salvini si era proposto «come ministro per l’Europa e premier» indossando abiti non suoi annunciando di parlare «a nome di 60 milioni italiani», con questo obiettivo: «Datemi mandato per trattare con la Ue». Poi però ha proclamato che intende mettere in piedi «un nuovo asse Roma-Berlino», da opporre al morente asse franco-tedesco. «Se fosse cosciente dell’enormità di quel che dice – scrive Blondet – sarebbe sì fascista», ma invece «lui non sa». Aggiunge Blondet: «Per sua bocca, semplicemente, parla l’Italia di Sfera Ebbasta arrivata al governo. Quindi il commento giusto è quello di Osho: “Stavolta al Giappone non gli diciamo un cazzo”». Ma come, fino a ieri Salvini era per l’uscita dall’Ue e adesso vuole l’alleanza con la Germania, che ha messo ko l’Italia con l’austerity? Scrive l’analista Giovanni Zibordi: se il Piano-A era il 2,4% di deficit, il Piano-B sarebbe il 2%, al minimo accenno di contrarietà da parte di Bruxelles? «C’è caos totale sulla Brexit, le banche europee crollano in Borsa, Francia nel caos che ora sfonda l’austerità, recessione in arrivo… Gente con un minimo di competenza, a Roma, avrebbe dettato le condizioni alla Ue, infischiandosene della spread che è un bluff». Non pago, Salvini fa il messia in Israele. Chiosa Blondet: «Qualcuno è in grado di fermarlo, Sfesso Ebbasta? Sedarlo?».«Chi vuole pace, sostiene il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele». E fin qui tutto bene (o quasi, visto che il binomio “pace” e “Israele” suona estremamente controverso). Ma il condottiero Matteo Salvini, in missione nello Stato ebraico (che ha appena riformato le sue leggi introducendo una norma “razziale” che pone gli ebrei al di sopra di chiunque altro), aggiunge, sul suo profilo Instagram: «Sono appena stato ai confini nord con il Libano, dove i terroristi di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione». I “terroristi” di Hezbollah? Replica Maurizio Blondet: non sa, Salvini, che Hezbollah «ha pagato un alto prezzo di sangue combattendo contro i terroristi veri, quelli dell’Isis, armati e addestrati e protetti da Israele e Usa? Non sa che sono alleati in Libano con i cristiani maroniti, e hanno difeso con le armi in pugno i cristiani d’Oriente, da tutti noi abbandonati? Non hanno spiegato, a Salvini, che proprio Hezbollah – insieme ai russi e agli iraniani – ha sostenuto la Siria, impedendo che cadesse nelle mani dei tagliagole jihadisti messi in campo, sottobanco, dall’intelligence occidentale con l’aiuto di Netanyahu e Erdogan, due notori campioni della democrazia e dalla pace nel mondo?
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Galloni: Gilet Gialli, l’ennesima rivolta senza guida politica
«Può darsi che il percorso del cambiamento storico – ormai evidentemente necessario – non passi per le rivolte di strada (e forse, nemmeno per elezioni democratiche), ma per un mutamento di forme e di formule dell’economia e dei rapporti umani che, pian piano all’inizio e, poi, in modo più dirompente, impongano modelli di comportamento diversi rispetto a quelli cui siamo stati abituati nei trascorsi decenni». Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in una riflessione su “Scenari Economici” innescata dalla rivolta francese dei Gilet Gialli. La buona notizia per i “marxiani”, scrive Galloni, è che la lotta di classe è riapparsa in Europa (sebbene il fantasma del comunismo non vi si aggiri più, almeno apparentemente): la “plebe” si è rivoltata a Macron e ha propugnato i propri interessi in contrapposizione all’establishment rappresentato dal presidente-oligarca e dal suo governo. «Il conflitto di interessi è dappertutto ma, si diceva, mancano consapevolezza di classe (perché le vecchie classi non esistono più) e, soprattutto, un partito “classista”». Secondo Galloni, peraltro, le piccole e piccolissime imprese «hanno abbandonato il capitalismo da tempo, rinunciando al profitto o alla valorizzazione finanziaria per, invece, controllare risorse reali e darsi un ruolo ed una funzione nella società».Tuttavia, aggiunge, le piccole imprese italiane «non hanno trovato mai un partito di riferimento», un po’ per le carenze della nostra politica, e un po’ anche «per i limiti della crescita della loro coscienza», almeno «della grande maggioranza dei piccoli imprenditori». Inoltre, la classe media (che comprende anche «gli eredi dell’antico proletariato che aveva scambiato – dopo gli anni ’60 – la spinta rivoluzionaria col consumismo»), può dividersi in due componenti o classi: da una parte «quelli che possono scaricare le tasse e i maggiori oneri su clienti e pubblico», e dall’altra «quelli che hanno visto un continuo peggioramento delle proprie condizioni di vita per la ragione opposta a fronte di un’inflazione nascosta, dovuta all’aumento vertiginoso di imposte, assicurazioni, obblighi condominiali, costi di mantenimento delle automobili». Anche qui, secondo Galloni, «le forze politiche prevalenti non hanno fatto chiarezza, a parte i proclami e la denuncia di situazioni a dir poco scandalose». La soluzione proposta dai più avveduti critici del sistema – continua Galloni – è la seguente: poiché il mondo è dominato da poche famiglie o gruppi e, comunque, il 99% della gente ha interessi opposti all’1% di ricchissimi, cosa manca ad una rivolta del 99% (ma forse del 99,9%) contro lo 0,1?E qui, purtroppo, viene la brutta notizia per i “marxiani”: «Le classi e la lotta di classe esistono, ma il contrasto di interessi è più forte all’interno di ciascuna classe rispetto a quanto ci sarebbe da aspettarsi fra le classi (per avventura pur contrapposte)». Ne deriva che «l’unica formula rivoluzionaria sarebbe quella interclassista», ma il termine interclassista era usato a proposito della Democrazia Cristiana – ad esempio – per indicare come evitare un esito radicalizzato e rivoluzionario. «Un bel pasticcio. Ecco perché rivolte come quella dei Gilet Gialli (al pari dei nostri Forconi) rischiano di non avere un seguito: la spaccatura interna a ciascun ceto fa sì che, in mancanza di una rappresentanza (guida) ben organizzata, si determini un conflitto insanabile tra l’ala moderata e quella estremista, che viene infiltrata da elementi di cui sarebbe meglio fare a meno». Se invece la guida politica fosse adeguata, «sarebbe coerente con i partiti tradizionali, e quindi destinata ad abbandonare la prospettiva rivoluzionaria». Vie d’uscita? Dal basso: Galloni spera appunto in un cambiamento di «forme e formule dell’economia e dei rapporti umani», che finiscano per imporre «modelli di comportamento diversi», rispetto alla deludente consuetudine degli ultimi decenni, perdente per tutti tranne che il famoso 1%.«Può darsi che il percorso del cambiamento storico – ormai evidentemente necessario – non passi per le rivolte di strada (e forse, nemmeno per elezioni democratiche), ma per un mutamento di forme e di formule dell’economia e dei rapporti umani che, pian piano all’inizio e, poi, in modo più dirompente, impongano modelli di comportamento diversi rispetto a quelli cui siamo stati abituati nei trascorsi decenni». Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in una riflessione su “Scenari Economici” innescata dalla rivolta francese dei Gilet Gialli. La buona notizia per i “marxiani”, scrive Galloni, è che la lotta di classe è riapparsa in Europa (sebbene il fantasma del comunismo non vi si aggiri più, almeno apparentemente): la “plebe” si è rivoltata a Macron e ha propugnato i propri interessi in contrapposizione all’establishment rappresentato dal presidente-oligarca e dal suo governo. «Il conflitto di interessi è dappertutto ma, si diceva, mancano consapevolezza di classe (perché le vecchie classi non esistono più) e, soprattutto, un partito “classista”». Secondo Galloni, peraltro, le piccole e piccolissime imprese «hanno abbandonato il capitalismo da tempo, rinunciando al profitto o alla valorizzazione finanziaria per, invece, controllare risorse reali e darsi un ruolo ed una funzione nella società».
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Noi sfruttati senza pietà, caduto lo spauracchio dell’Urss
Da quando sono scoppiati gli spread e la Germania detta l’agenda politica europea a suon di austerità, lo slogan più battuto è stato: “Siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Tuttavia, da un punto di vista scientifico, nel senso quantitativo del termine e cioè misurabile, la ricchezza in Occidente è di molto aumentata nell’ultimo mezzo secolo, e niente affatto diminuita. Detto diversamente, se per ricchezza intendiamo i beni prodotti e creati manipolando la materia, la ricchezza è aumentata, così come quel fluidificante degli scambi che chiamiamo denaro. Oggi, rispetto a 50 anni fa ci sono più immobili, più infrastrutture, più bicchieri, più vestiti, più occhiali, più scarpe, più libri, più telefoni, più televisori, più automobili, più mutande, più apparecchi per chi vuole raddrizzare i denti e sexy toys per chi si vuole divertire. Per il più banale dei ragionamenti logici, allora, non ha alcun senso sostenere che gli occidentali sono vissuti al di sopra delle loro possibilità. Tramite le loro “possibilità”, europei, americani e australiani hanno moltiplicato in modo esponenziale la ricchezza sul pianeta.C’è un momento chiave nella nostra storia recente che spiega bene il vero motivo per cui il mainstream, gli accademici ed i grandi capitalisti recitano la favoletta del “siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”, ed è il 1989. Che in molte aree del socialismo reale si vivesse male rispetto agli standard occidentali, ma anche rispetto a quelli autoctoni del passato, non c’è alcun dubbio. I protagonisti di quella stagione sono ancora quasi tutti vivi, e dunque per quanto molta letteratura sia stata ammaestrata dalla narrazione anticomunista, è agli atti, ad esempio, che a Bucarest durante la presidenza Ceausescu il cibo fosse razionato. Dunque, non si tratta di spulciare di qua e di là un’area del blocco comunista o di quello capitalista per stabilirne il benessere. Il punto sta nel paradigma plurale che caratterizzava il mondo prima del 1989. E per paradigma plurale si intende la possibilità che un governo in qualsiasi parte del mondo potesse assumere forme comuniste, socialdemocratiche, teocratiche o capitalistiche.Il caso europeo è emblematico. Nel vecchio continente, infatti, c’era un capitalismo molto temperato, perennemente spaventato dalla possibilità che il modello dei vicini paesi del blocco comunista potessero convincerci ad assumere altre forme di governo. Detto diversamente, il capitalismo del dopoguerra ci concesse di tutto, ma senza rinunciare ad accumulare ricchezza. In quella stagione – per paura che arrivasse il comunismo – il capitalismo occidentale rinunciò ad accumulare tutta la ricchezza, come sarebbe nella sua natura, ma ne distribuì una minima parte. Il che, tradotto, significò orari di lavoro ridotti, il tempo indeterminato, il reintegro sul luogo di lavoro a seguito di vittoria ad un processo contro l’azienda, l’accesso gratuito o semigratuito a beni essenziali come la salute, l’istruzione, la casa ed il trasporto. Tutto questo – che passa sotto il nome di welfare State – contenne la ricchezza dei capitalisti senza che questi si impoverissero.Semplicemente, con questa modalità, le ricchezze che si accumulavano vennero ridistribuite, seppur in parti davvero risibili. Le modalità di ridistribuzione furono diverse, ma su tutte i contratti di lavoro e gli investimenti pubblici tramite l’emissione di debito pubblico. Dopo il 1989, finita la paura che i governi potessero assumere forme inclini alla pianificazione economica statale, il capitalismo si tolse la maschera e mostrò il suo vero volto. Il volto di chi non intende distribuire la ricchezza creata, ritenendo di poterlo fare non a seguito di presunti meriti, ma in virtù di rinnovati rapporti di forza. Nemmeno negli anni ’50, ’60, ’70 e ’80 il capitalismo voleva distribuire la ricchezza, ma voleva accumularla perché questo è nella sua natura. Dunque, in quella stagione, noi e chi ci ha preceduto non è vissuto al di sopra delle sue possibilità, ma al di sopra della volontà dei capitalisti.Conti alla mano, tenuto conto della capacità produttiva mondiale, anche allora si visse al di sotto delle proprie possibilità, ma in misura effettivamente meno drastica di quanto avviene oggi. Il motivo per il quale – in Europa – non si accettano revisioni alle regole e non si trova uno sbocco al problema euro non sta dunque in considerazioni tecniche alla Mario Draghi, ma in una precisa volontà lobbystica. Risulta quanto mai ingenuo, o stupido chi, come Varoufakis ieri o Savona/Borghi/Bagnai oggi, pensa di poter convincere i burocrati europei sul deficit. Anche i tecnocrati conoscono le soluzioni, ma non le vogliono applicare perché non vogliono scientemente operare nella direzione di una ridistribuzione di ricchezza.(Massimo Bordin, “Siamo vissuti al di sopra delle loro volontà”, dal blog “Micidial” del 7 dicembre 2018).Da quando sono scoppiati gli spread e la Germania detta l’agenda politica europea a suon di austerità, lo slogan più battuto è stato: “Siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità”. Tuttavia, da un punto di vista scientifico, nel senso quantitativo del termine e cioè misurabile, la ricchezza in Occidente è di molto aumentata nell’ultimo mezzo secolo, e niente affatto diminuita. Detto diversamente, se per ricchezza intendiamo i beni prodotti e creati manipolando la materia, la ricchezza è aumentata, così come quel fluidificante degli scambi che chiamiamo denaro. Oggi, rispetto a 50 anni fa ci sono più immobili, più infrastrutture, più bicchieri, più vestiti, più occhiali, più scarpe, più libri, più telefoni, più televisori, più automobili, più mutande, più apparecchi per chi vuole raddrizzare i denti e sexy toys per chi si vuole divertire. Per il più banale dei ragionamenti logici, allora, non ha alcun senso sostenere che gli occidentali sono vissuti al di sopra delle loro possibilità. Tramite le loro “possibilità”, europei, americani e australiani hanno moltiplicato in modo esponenziale la ricchezza sul pianeta.
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Boccia contro il governo, ma tutela solo il 5% delle imprese
Un governo come quello in carica, che si propone di rilanciare la domanda interna e la produzione industriale, dovrebbe avere il gradimento della Confindustria, cosa che invece non avviene, almeno a giudicare dalle dichiarazioni del suo presidente Boccia. Secondo il leader degli imprenditori italiani, infatti, i provvedimenti contenuti nel Def non aiutano la crescita. Mancherebbero gli investimenti per le grandi opere infrastrutturali e soprattutto le risorse per diminuire il cuneo fiscale, che è la somma delle imposte dirette, indirette e dei contributi previdenziali che pesano sul costo del lavoro, sia per quanto riguarda i datori di lavoro, sia per quanto riguarda i dipendenti. Più semplicemente: il cuneo fiscale è la differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e quanto lo stesso dipendente incassa al netto in busta paga e questa differenza in Italia è molto alta. Rilievi giusti, di fronte ai quali il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle sembrerebbe completamente fuori contesto e prospettiva. Tuttavia, chiedere più investimenti, meno imposte e tasse e nel contempo il rispetto delle assurde norme europee, ancorché accettate dai governi precedenti, diventa un vero e proprio ossimoro economico. E’ come aspettarsi la crescita dalla recessione, la diminuzione delle imposte dall’aumento delle stesse.Dalle dichiarazioni di Boccia assolutamente non si capisce dove voglia andare la classe imprenditoriale italiana, ma forse si capisce fin troppo bene. Valerio Malvezzi ci fornisce una prima chiave di lettura. Infatti nell’industria e nei servizi le imprese italiane sono poco più di quattro milioni. Orbene, su quattro milioni di imprese, le grandi imprese, quelle con oltre duecentocinquanta addetti, sono 3.140 e assorbono il 18% dei lavoratori. Le restanti aziende, pari al 94,9% del totale, hanno una media di 3,8 lavoratori ed impiegano il 48% di tutti gli addetti, praticamente assorbono la metà dell’occupazione italiana. Dette imprese, con meno di 10 operai, giuridicamente sono denominate micro-imprese. In definitiva, il sistema Italia si regge sugli artigiani, sui commercianti, sui piccoli agricoltori, sui piccoli imprenditori. Boccia parla nell’interesse di queste micro-imprese o delle poche aziende che hanno dimensioni tali per potere esportare? La risposta è univoca. La Confindustria è strettamente legata al progetto globalista degli anni ‘90, che assume la forma più compiuta con la creazione dell’Unione Europea, e che può essere così riassunto: stabilità dei prezzi, indipendenza della banca centrale, basso costo del denaro, delocalizzazioni, grande attenzione all’export.Sappiamo anche, però, che questo nel medio-lungo periodo ha comportato la ristrutturazione del sistema-paese, da grande potenza industriale a mera piattaforma logistica di trasformazione e consumo di prodotti non nazionali. Ma perché portare avanti questa visione ottusa, che ormai da anni caratterizza tutto l’ambiente confindustriale, priva di impegno per la stragrande maggioranza degli imprenditori? Per il potere. I vincoli esterni, il giudizio dei mercati, l’arbitraggio fiscale, le strutture sovranazionali non elette hanno marginalizzato il ruolo della politica, ridotto il Parlamento o mero gabelliere di Bruxelles, hanno evirato le organizzazioni sindacali e impedito qualsiasi lotta di classe degna di questo nome conferendo così un grande potere politico e decisionale alle imprese multinazionali. In definitiva, che la politica economica del governo 5 Stelle-Lega possa avere successo e alleviare i problemi del 95% degli imprenditori italiani alla Confindustria interessa poco. In fondo essa rappresenta solamente ed esclusivamente gli interessi delle lobby nostrane, che sono pronte ad immolare l’Italia nel perseguimento del progetto distopico globalista secondo i dettami dei suoi cattivi maestri. Ça va sans dire: cummannari è megghiu ca futtiri.(Raffaele Salomone-Megna, “Cummannari è megghiu ca futtiri”, da “Scenari Economici” del 10 dicembre 2018).Un governo come quello in carica, che si propone di rilanciare la domanda interna e la produzione industriale, dovrebbe avere il gradimento della Confindustria, cosa che invece non avviene, almeno a giudicare dalle dichiarazioni del suo presidente Boccia. Secondo il leader degli imprenditori italiani, infatti, i provvedimenti contenuti nel Def non aiutano la crescita. Mancherebbero gli investimenti per le grandi opere infrastrutturali e soprattutto le risorse per diminuire il cuneo fiscale, che è la somma delle imposte dirette, indirette e dei contributi previdenziali che pesano sul costo del lavoro, sia per quanto riguarda i datori di lavoro, sia per quanto riguarda i dipendenti. Più semplicemente: il cuneo fiscale è la differenza tra quanto un dipendente costa all’azienda e quanto lo stesso dipendente incassa al netto in busta paga e questa differenza in Italia è molto alta. Rilievi giusti, di fronte ai quali il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle sembrerebbe completamente fuori contesto e prospettiva. Tuttavia, chiedere più investimenti, meno imposte e tasse e nel contempo il rispetto delle assurde norme europee, ancorché accettate dai governi precedenti, diventa un vero e proprio ossimoro economico. E’ come aspettarsi la crescita dalla recessione, la diminuzione delle imposte dall’aumento delle stesse.
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Magaldi: altro che Global Compact, serve una rivoluzione
Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si mettono in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».In una conversazione a ruota libera su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” all’indomani della “resa” di Macron alle richieste dei Gilet Gialli, che chiedono che il governo annulli tutte le misure di austerity annunciate, Magaldi parte proprio dalle polemiche sul Global Compact. Un’intesa solo pletorica e fondata su impegni non cogenti, peraltro già boicottata da vari pesi massimi della politica mondiale. Eppure c’è chi la indica come pericoloso cavallo di Troia dell’élite neoliberista, che promuove l’emigrazione di massa per abbassare il costo del lavoro in Occidente a spese dei lavoratori autoctoni. Sdoganare l’emigrazione come fenomeno fisiologico? Mai e poi mai, protesta – sempre in web-streaming con Frabetti – un altro “roosveltiano” come Gianfranco Carpeoro: «Vorrei vedere nelle nostre strade solo studenti africani e turisti africani, non africani che abbiamo costretto a scappare dai loro paesi». Magaldi concorda: il potere che oggi difende l’esodo di massa è il primo responsabile dell’impoverimento di milioni di persone, nel cosiddetto terzo mondo. L’immigrazione va controllata, è ovvio. Ma per scoraggiarla serve una riconversione globale della politica, ad esempio mettendo fine al saccheggio dell’Africa. A patto comunque che non si pretenda di alzare muri: impensabile isolare le popolazioni entro le gabbie nazionali, in un pianeta ormai completamente interconnesso (e spesso felicemente, grazie al contatto tra culture diverse).Il problema semmai è nel manico, insiste Magaldi: è impossibile far applicare un qualsiasi Global Compact, così come gli stessi innumerevoli trattati sul clima, perché manca un potere decisionale democratico mondiale. Manca, per lo spesso motivo per cui finora la mondializzazione non è stata certo democratica: è stata finora condotta da oligarchie private, ricorda Magaldi, a partire dall’inizio degli anni ‘90, subito dopo il crollo dell’Urss e la nascita dell’Ue, e poi con la deregulation finanziaria e l’ingresso del colosso cinese nel Wto. Ad oggi abbiamo visto solo una globalizzazione di merci e capitali. «La libera circolazione delle persone? Si è favorita un’immigrazione incontrollata, creando competizione tra poveri e abbassamento del costo della manodopera». Altri danni, ai sistemi sociali occidentali (leggasi: lavoratori) sono stati provocati dalle delocalizzazioni industriali. Fermare tutto e tornare ai dazi nazionali degli uni contro gli altri? Pessima idea: «In passato, le politiche protezionistiche sono sfociate in guerre sanguinose. E oggi si avrebbero comunque guerre economiche cruente, alla fine non convenienti per nessuno».Per Magaldi, serve «una globalizzazione di diritti, opportunità e democrazia». Facile a dirsi, certo. Ma intanto, chi lo dice, nel mainstream politico dominato da polemiche sempre più accese? «In Italia – aggiunge Magaldi – l’immigrazione rischia di diventare solo un mezzo, strumentale, per creare tensioni sociali (e in questo caos, poi, sappiamo che le solite “manine” si muovono in termini opachi)». Che fare? Semplice, in teoria: dobbiamo «mettere all’ordine del giorno mondiale una rivalutazione della politica, che deve tornare a essere il centro decisionale di ogni cosa che riguardi i livelli locali e globali». E cioè: «Ripensare gli interessi globali, valorizzando gli equilibri e le risorse locali». Sarebbe la migliore risposta a questa globalizzazione, «sorretta dall’ideologia neoliberista e gestita soprattutto da poteri privati». Al contrario, bisogna «puntare una globalizzazione gestita, a livello apicale, da poteri politici globali». Dovevano farlo prima la Società delle Nazioni e poi l’Onu. Due fallimenti storici. Una cosa è certa: così non si andrà lontano. Meglio allora «pensare a una trasformazione dell’Onu, verso una nuova politica democratica che abbia l’ultima parola nei grandi processi decisionali».Sbaglia, chi pensa di poter contrastare poteri sovranazionali e apolidi (cioè incarnati da avventurieri senza patria), rintanandosi «nel fittizio calduccio delle comunità nazionali». Quelle stesse comunità, sostiene Magaldi, le vedremmo «sempre scosse da poteri più ampi, di natura globale: che vanno contrastati e ricollocati nella loro giusta dimensione da poteri politici altrettanto globali». Poteri che – a quel punto – potrebbero anche costruire democraticamente un vero Global Compact, ben diverso da questa aleatoria dichiarazione d’intenti non vincolante («molto rumore per nulla, salvo enunciazioni sottoscrivibili, a favore dell’estensione dei diritti umani, se non sapessimo che sono soltanto parole»). In altri termini: «Se vogliamo essere concreti, bisogna che gli organi preposti ad attuare questi principi abbiano un potere cogente, però democratico e non calato dall’alto». Premessa: «Dobbiamo essere capaci di riflettere sulla natura del mondo che vogliamo». Prima di scrivere qualsiasi Global Compact, cioè, occorrerebbe disporre di una vera Organizzazione Mondiale delle Democrazie, «che sostituisca l’attuale Onu ed escluda anche dal circuito commerciale delle merci e dei capitali i paesi privi di standard democratici, premendo su di essi – anche con sanzioni economiche – perché i loro regimi evolvano verso forme democratiche».La verità, insiste Magaldi, è che questo tipo di globalizzazione – l’unica vista finora – ha deluso molti, perché al primo posto non c’è la diffusione mondiale della democrazia e dei diritti. Ultima cartina di tornasole: i francesi. «Alle elezioni sono stati obnubilati dalla mistificazione mediatica: bastava guardare cos’era Macron, consulente economico di Hollande e poi ministro del governo Valls voluto da Hollande». Appunto: «In che modo poteva rappresentare una soluzione di continuità rispetto a Hollande che, eletto a furor di popolo per rappresentare il campione anti-austerity e anti-Merkel in Europa, aveva tradito tutte le aspettative? Le ha tradite anche Macron». Al primo turno, Macron aveva ottenuto solo pochi decimali più dei concorrenti, «poi al ballottaggio contro Marine Le Pen avrebbe vinto chiunque». Oggi la democrazia francese appare bloccata: «Fintanto che un certo tipo di opposizione si radicalizzerà in gruppi politici infecondi, l’altro candidato avrà sempre la meglio». Vincerà sempre il più “moderato”, si sarebbe detto un tempo. Non è più vero: «In Francia come altrove, oggi la parola “moderazione” non significa più nulla», se è vero che Macron – dietro l’apparenza – era il candidato dell’élite economica più pericolosamente estremista, come dimostra l’esasperazione di massa dei Gilet Gialli.Insurrezione, la loro – non proprio rivoluzione, «che però ha un enorme valore per lo spirito messo in evidenza», sottolinea Magaldi: «Qui c’è un popolo, un’avanguardia popolare largamente sostenuta dal paese, che dice basta: denuncia l’insostenibilità di salari che, al netto delle tasse, non consentono di arrivare alla fine del mese. Ed è la fotografia, appunto, di una cattiva globalizzazione, dove i ricchi sono sempre più ricchi, mentre per la gran parte della popolazione la fetta da spartire si è ridotta, e la classe media è stata compressa persino nella ricca e opulenta Francia». Qualunque economista, oggi, ammette che è cresciuta enormemente la disuguaglianza: si è fatto enorme il divario tra ricchi e poveri, in questa «iniqua e stupida modalità di gestire la globalizzazione». Stupida ma, beninteso, «figlia di un’impostazione raffinata, perversa e intelligente nel produrre i suoi effetti, che spero – dice Magadi – saranno l’occasione per produrre una grande rivoluzione democratica».La stupidità di questi globalizzatori, spiega il presidente del Movimento Roosevelt, sta «nel pensare che si poteva impunemente gestire la globalizzazione in questi termini, e che in Francia – dopo il bluff e la delusione di Hollande – si poteva impunemente imporre al popolo francese un damerino, un cicisbeo inconsistente come il fratello massone Macron, fintamente progressista e fintamente europeista». Un personaggio che invece di proporsi come presidente della Francia, «propinando ricette economiche analoghe a quelle del suo più modesto alter ego italiano Matteo Renzi», avrebbe fatto meglio a «rimanere nella sua vita privata di collaboratore bancario», uomo di fiducia della filiera Rothschild. «Oggi più che mai – aggiunge Magaldi – gestire il futuro dell’Europa è un compito che richiede persone con uno spessore molto diverso. Purtroppo invece abbiamo una classe dirigente europea che è fatta di cialtroni e di mediocri. E infatti, «da bravo cialtrone», dopo aver sbagliato «adesso Macron fa atto di contrizione e torna sui suoi passi», rimangiandosi i provvedimenti che hanno provocato la rivolta dei Gilet Gialli.«Io credo che Macron dovrebbe invece dimettersi», taglia corto Magaldi. E già che c’è, all’ex enfant prodige dell’Eliseo converrebbe «confessare che stessa costruzione della sua presidenza è figlia di una visione sbagliata dei rapporti sociali ed economici». Lo stesso Magaldi ne approfitta per citare il filosofo statunitense John Rawls, massone progressista come i Roosevelt, i Kennedy e lo stesso Keynes, tutti sostenitori del libero mercato integrato nel welfare: «Non c’è niente di male nell’arricchirsi, purché non si tolga agli altri l’essenziale per una vita dignitosa e felice. Invece, la pretesa perversa che ha guidato sin qui la globalizzazione e la stessa Europa, sia a livello di tecnocrazie continentali che di singoli governi, è che i ricchi possano arricchirsi a dismisura, mentre masse di diseredati si debbono contendere le periferie e la stessa classe media, ormai scomparsa, vede ridotta sempre di più la propria capacità di spesa, in un mondo occidentale che peraltro è ricco di opulenza – altro che penuria di risorse! – ma sono sempre di meno quelli che possono approfittarne in modo adeguato». Questa, aggiunge Magaldi, «è la pretesa, la hybris, l’arroganza infingarda» dell’attuale élite neoliberista.Quanto ai Gilet Gialli, «sebbene questa non credo sia una rivoluzione ma un’insurrezione ancora scomposta», il clima generale – francese, ma anche europeo e mondiale (senza contare l’Italia, dove si gioca una partita importante) – secondo Magaldi «è quello che in qualche modo precede una rivoluzione, spero pacifica e democratica». Il governo italiano, fra l’altro, «ha il dovere di guardare a quello che accade in Francia, e di capire che – così come ha deluso le aspettative Macron – rischia di deludere le aspettative del popolo italiano (e anche di altri popoli, che guardano all’Italia come a una possibile avanguardia)». Stiano attenti, i gialloverdi: «Con una spallata potrebbero abbattere questo Mago di Oz collettivo, di cui Macron era parte». O meglio: “potevano”, con una spallata, «tener davvero fede a quell’atteggiamento muscolare che Salvini realizza soltanto a chiacchiere». E invece l’Italia «sta come uno scolaretto che si fa prendere per le orecchie e si fa riscrivere la manovra per restare dentro quegli stessi parametri astratti che adesso Macron, campione di quei parametri e di quella cattiva Europa, si appresta a violare in modo netto». Ora è “pentito” e “contrito”, Macron: ma se farà quello che oggi promette, cioè quello che chiedono i Gilet Gialli, andrà ben oltre i limiti imposti dall’Europa all’Italia. In altre parole: ne vedremo delle belle. Insiste Magaldi: fidatevi, tutto è in rapida evoluzione. E clima lascia presagire esiti rivoluzionari.Global Compact? “Ma mi faccia il piacere”, avrebbe detto Totò. Chi dovrebbe globalizzarli, i diritti? L’élite neoliberista che ha imbrogliato i francesi imponendo loro un ducetto come Macron, al quale infatti oggi la Francia si ribella? Non è più tempo di buonismi pelosi, o di dichiarazioni di principio altisonanti e destinate a restare lettera morta. Secondo Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, c’è poco da scherzare: l’Italia gialloverde traballa ingloriosamente sotto la scure dell’Ue, proprio mentre i Gilet Gialli paralizzano Parigi e almeno 7 francesi su 10 parteggiano per la rivolta di strada. E’ lo specchio perfetto, dice Magaldi, del vero volto della globalizzazione-canaglia, a senso unico, messa in piedi a esclusivo beneficio delle multinazionali finanziarie. La stessa élite vorrebbe imporre l’accoglienza illimitata dei migranti col patrocinio dell’Onu? Ridicolo, anche perché le Nazioni Unite non sono più una cosa seria. «Hanno fallito, come prima di loro la Società delle Nazioni». Che fare? «Per esempio creare una Organizzazione Mondiale delle Democrazie, capace di gestire il mondo rimettendo al centro la politica». Sogni? Sì e no: dipende da quali meccanismi si metteranno in moto. «E la situazione, oggi, per molti aspetti è pre-rivoluzionaria, non solo nella Francia di Macron».
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Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: basta frottole Ue
Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici: «La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno, secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa, con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura dall’impatto sicuramente devastante.Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso. Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio “Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia – il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana di Torino.Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano – ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa, i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli circuiti industriali della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante della politica.Gilet Gialli a Torino ed77eDietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti) che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di euro.Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8 dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa: da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno sottolineato una vicinanza civile e politica con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa, intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte, sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra, che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.(Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.
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Bifarini: agonia Ue, elettori traditi. Unica chance, l’Italexit
Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.Siamo di fronte a un bivio: è giunto il momento di scelte coraggiose. Continuare a sottostare a regole e parametri infondati, assurti a dogmi, significa rinunciare per sempre alla propria sovranità economica e politica. Una perdita di democrazia inaccettabile per i cittadini, che alle urne hanno espresso la loro volontà di cambiamento. C’è uno scollamento troppo forte ormai tra le istanze delle popolazioni e quelle dei tecnocrati di Bruxelles, che non le rappresentano. Attraverso l’imposizione di parametri contabili si è creata una dittatura dei mercati che sta generando solo povertà e disoccupazione. L’unica possibile via d’uscita è recuperare la propria sovranità monetaria. Continuare a ‘trattare’ con l’Ue che ci somministra la pillola mortifera dell’austerity significa condannarsi a una lenta e dolorosa agonia. Nonostante il terrorismo creato dal mainstream, tornare a una nostra moneta – che si chiami lira o qualsiasi altro nome – non rappresenterebbe nulla di trascendentale. Al mondo, a parte l’Eurozona e le ex colonie francesi che adottano il franco Cfa, ogni paese ha la propria moneta. Non si verificherebbe nessuna delle catastrofi prospettate da chi fa volutamente terrorismo.Lo spauracchio dell’inflazione, ad esempio, è infondato, perché attualmente ci troviamo in una situazione di deflazione con crisi della domanda e alta disoccupazione. Così come la corsa agli sportelli, essendo nell’epoca delle transazioni elettroniche. Insomma, niente cavallette. Il ministro Paolo Savona dice che bisogna cambiare anche il governo, non soltanto la manovra? Pare che le dichiarazioni siano state smentite, o comunque ridimensionate. Sicuramente c’è nervosismo, vista la situazione di forte scontro con l’Ue. D’altra parte c’è una stampa e un apparato di comunicazione che tifa contro il governo e fa di tutto per ridicolizzarlo e delegittimarlo. Neanche ai tempi di Berlusconi c’era tanto accanimento. Questo tende a esacerbare lo scontro e a radicalizzare le posizioni, creando un clima per nulla favorevole.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate ad Americo Mascarucci per l’Intervista “Vi spiego perchè è il momento dell’Italexit”, pubblicata su “Lo Speciale” il 23 novembre 2018 e ripresa sul blog della Bifarini).Dopo la bocciatura definitiva della manovra da parte della Commissione Europea con la prospettiva dell’apertura della procedura d’infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo, da più parti ci si chiede quale strada percorrere. Scendere a patti con Bruxelles, come sembrerebbe chiedere il ministro degli affari europei Paolo Savona, o andare avanti con il muro contro muro come chiedono invece Salvini e Di Maio? Ha senso cercare ancora un accordo con l’Unione Europea sulla manovra? Credo a questo punto che non ci siano più le condizioni. C’è un accanimento da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’Italia che è motivato più da ragioni ideologiche e politiche che da questioni economiche. La spesa a deficit prevista da questa manovra è assolutamente in linea con quanto attuato dai governi precedenti, anzi anche inferiore. Il debito pubblico, dovuto al pagamento degli interessi sul debito stesso, è cresciuto con lo stesso Monti, a riprova che le misure di austerity non funzionano, così come con Letta, Gentiloni e Renzi. Ma mai come con la coalizione giallo-verde c’era stato un attacco così duro e ostinato da parte sia di Bruxelles che dei media e di tutta la potente macchina della propaganda.
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Barnard: torniamo Italia, via da questa chemio-Eurozona
L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.L’Italia deve, prima di tutto, raccontare ai suoi cittadini cosa devono e dovranno pagare per tornare italiani, proprio i prezzi uno dopo l’altro, con precisione di somme e di tempi, e chiedersi: siamo disposti a pagarli per pochi anni, o forse solo mesi, per poi però tornare italiani? Rispondete sì o no. L’Italia deve allo stesso tempo raccontare ai suoi cittadini, anzi, ricordargli, quali sono i premi che dopo la burrasca gli pioveranno addosso se molliamo la moneta tedesca della Chemioeconomia. E che premi. Questo è un paese che solo-solo accettasse i prezzi della sfida all’abominio della moneta tedesca, poi diventa il Paradiso, e allora sì che andranno fatti i muri alle frontiere, ma non contro i Rom e i neri, contro australiani, tedeschi, olandesi, americani, belgi, russi…Non ci vuole molto. Basta stare compatti e stretti gli uni agli altri per il poco tempo della tempesta. Poi, mentre ci piovono addosso quei premi, ricordarsi sempre di questa regola al ministero del Tesoro: con moneta sovrana italiana, la spesa pubblica sarà maggiore delle tasse, e si scrive deficit senza nessun riguardo per le %, per tutto il tempo necessario fino a che l’ultimo disoccupato sarà stato assunto, fino a che i pensionati poveri saranno solo un brutto ricordo, fino a che le parole malattia e liste d’attesa saranno introvabili su Google Italia. L’Italia deve tornare Italia, e questa è la via. L’Italia deve.(Paolo Barnard, “L’Italia deve”, dal blog di Barnard del 6 dicembre 2018).L’Italia deve uscire dall’Eurozona. L’Italia si deve ricordare come stavamo – sì, certo, con le nostre mafie, le mazzette, i politucoli puzzoni, le parrocchiette industriali – quello che volete, ma come stavamo prima di diventare un intero popolo di straccioni che spendono una moneta tedesca. Ma vi ricordate? Si lavorava, si compravano case e si risparmiava per i figli più di chiunque altro al mondo. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di un gruppo di ragazzetti stellati che vogliono farci tutti più onesti e corretti, ma che concordano in pieno col mantenere 60 milioni d’italiani annichiliti sotto la Chemioeconomia della moneta tedesca. L’Italia deve capire che non ce ne facciamo un cazzo di non vedere più Rom e neri per strada, ma che invece ce ne faremmo tantissimo di avere un ‘duro con l’Europa’ che lo fosse davvero, e non un falsario cagasotto bulletto che ci ha ingannati perché tira proprio lui a diventare un Vip proprio in quell’Europa.
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Bush senior, il massone terrorista che ha sfigurato il mondo
E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partortito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.Lo spiega dettagliatamente Gioele Magaldi nel suo bestseller “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere: una clamorosa rilettura della storia del ‘900 illuminata da 6.000 pagine di documenti riservati. La tesi esposta: da decenni, il pianeta è condizionato dall’attività occulta di 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali che dettano le loro condizioni alle strutture “paramassoniche” sottostanti – Ue e Fmi, Banca Mondiale e Wto, Commissione Trilaterale, Bilderberg, Chatam House, Coucil on Foreign Relations – le quali poi, a loro volta, con i più noti strumenti di pressione finanziaria, supportano governi “amici” e silurano politici scomodi. Lo stesso Magaldi, massone, è stato iniziato nella “Thomas Paine”, capostipite delle superlogge progressiste: un mondo che ha prodotto personaggi come Roosevelt e Allende, Martin Luther King e Nelson Mandela, Gandhi e Giovanni XXIII, Olof Palme e Yitzhak Rabin. Fino agli anni Settanta, sostiene Magaldi, l’ambiente supermassonico progressista ha gestito in Occidente lo sviluppo industriale sul modello keynesiano, basato sulla spesa pubblica strategica per diffondere benessere in modo orizzontale. Erano i decenni del boom basato sul welfare, sui diritti sindacali e sulla mobilità sociale. Poi è arrivato il grande freddo, annunciato dal manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Trilaterale. Quindi gli anni ‘80: Reagan e la Thatcher, l’ordoliberismo di Kohl e la svolta reazionaria di Mitterrand, grande padrino dell’attuale Ue.Tutto l’Occidente aveva sterzato “a destra”. Ma quella retromarcia epocale, spiega Magaldi, era stata abilmente incubata da “menti raffinatissime” come quelle della “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller, abili a nascondere la propria identità supermassonica oligarchica e neo-feudale. Ad aggravare il quadro, è comparsa come un tumore maligno la “Hathor Pentalpha”, fondata proprio da Bush padre dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane del 1980. Era in corso una guerra inframassonica tra due superlogge neo-conservatrici, la “White Eagle” e la “Three Eyes”, divise su Reagan e Bush. Seguirono attentati: a quello contro Reagan, gli sponsor del neopresidente “risposero” con l’attentato a Wojtyla, che era stato eletto Papa con l’appoggio determinante di Zbigniew Brzezinski, lo stratega geopolitico della “Three Eyes” noto per aver reclutato Osama Bin Laden come combattente antisovietico in Afghanistan. Da quel momento, Bush padre fondò la propria Ur-Lodge, la “Hathor”, poi passata alla storia come “superloggia del sangue e del terrore”. Tra i suoi affiliati il francese Nicolas Sarkozy (la guerra in Libia), il violento autocrate turco Ergogan e l’inglese Tony Blair, che inventò le “armi di distruzione di massa” di Saddam.Se il mondo oggi è ridotto così, col Medio Oriente in fiamme e la nuova guerra fredda contro la Russia, il “merito” è di supermassoni come l’appena scomparso George Herbert Bush. «Così come altri personaggi, che aborro dal punto di vista dello stile umano e massonico, Bush senior è stato un grande contro-iniziato: non gli si può non riconoscere questa grandezza», dichiara Magaldi, in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, vicepresidente di quel Movimento Roosevelt che lo stesso Magaldi ha fondato, con l’obiettivo di rigenerare in senso democratico la politica italiana, sottraendola all’influsso dei circuiti finanziari supermassonici oligarchici. Magaldi si dichiara «impegnato a ricostruire un tessuto planetario egemone della massoneria progressista». Ma di fronte alla morte, sottolinea, «si deve rispetto anche al peggiore degli antagonisti». Con questo spirito, aggiunge, «il mondo potrebbe evolvere in termini più rapidi verso quei valori che proprio personaggi come Bush senior hanno cercato di conculcare: occorre sempre essere migliori dei propri nemici, senza perdonarli in modo banale, ma avendo quantomeno rispetto per il dolore dei loro cari». Detto questo, George Herbert Bush resta «un grande protagonista del Novecento e anche dell’apertura del nuovo secolo», inaugurata – “grazie” a lui – con la spaventosa strage dell’11 Settembre.Sul tema, Magaldi è esplicito: Bush padre è stato «coinvolto, con altri, nella creazione della “Hathor”, che è stata la protagonista della costruzione di quella grande narrativa inaugurata dall’abbattimento delle Torri Gemelle – o “colonne gemelle”, come le colonne del tempio massonico». Era di lunga data, l’ascendenza massonica della famiglia Bush: lo stesso George senior aveva militato «nei circuiti neo-aristocratici classici», quelli delle superlogge “Three Eyes” e “Edmund Burke”. Poi, a un certo punto, s’è trovato in mezzo alla lotta che opponeva la “White Eagle” alla “Three Eyes”, attorno all’elezione di Reagan. Da qui la scelta di mettersi in proprio, con la “Hathor Pentalpha”, degradando ulteriormente il panorama supermassonico neo-conservatore: fino al mostruoso attentato dell’11 Settembre. «Con quell’evento del 2001 – afferma Magaldi – George Herbert Bush inaugurò di fatto il XXI secolo. Aveva alla Casa Bianca il figlio, ma Bush junior era sotto la tutela di Dick Cheney, amico “fraterno” del padre, che l’aveva messo lì a guidare di fatto quella presidenza». Magaldi riflette sulla “mutazione” di George H. Bush, un personaggio che fino ad allora «era stato davvero il più classico e bonario dei massoni neo-aristocratici moderati».Certo, il vecchio Bush era pur sempre «un uomo che dietro l’apparenza bonaria aveva di fatto gestito le questioni americane in Cina per alcuni anni cruciali, era stato il capo della Cia e aveva percorso tutte le tappe dell’establishment». Poi, il cambiamento: dietro un’apparenza da classico massone del New England, George senior «ha traghettato la stessa famiglia Bush (e anche gli interessi massonici della “famiglia allargata”) verso altri lidi, spianando la strada alla mutazione genetica di un certo contesto massonico, che diventa assolutamente spregiudicato e quasi incontrollabile». Un gruppo di potere particolarmente violento, «inviso agli stessi cenacoli neo-aristocratici classici, che si trovarono spiazzati da ciò che veniva fatto dal 2001 in avanti». Secondo Magaldi, la grande tradizione della massoneria è progressista e democratica, «quindi l’iniziazione massonica è veicolo di costruzione e diffusione di libertà, democrazia e diritti, e non certo di terrore sanguinario (per di più subdolo)». Per questo, aggiunge, «George Herbert Bush è stato un contro-iniziato, avendo pervertito la specifica cifra massonica». Beninteso, «l’hanno fatto anche altri», ma lui «forse l’ha fatto in modo ancora più forte».Ecco perché sono inaccettabili le parole burgiarde di Barack Obama, che ora ha salutato Bush padre come “un grande patriota”. Magaldi definisce «il “fratello” Barack Obama» in modo poco lusinghiero: «Sedicente massone progressista ma in realtà personaggio mediocre, insipido e ipocrita, eletto presidente Usa grazie a una tregua massonica fra gruppi progressisti e gruppi neo-aristocratici classici, moderati, avversi a quel filone inaugurato da Bush senior con la “Hathor Pentalpha”». Tant’è vero che la superloggia “Maat”, nella quale fu iniziato Obama, «fu costruita da un altro grande protagonista della massoneria neo-aristocratica come Zbigniew Brzezinski, e da Ted Kennedy della massoneria progressista». Obama? «Era visto come un presidente che doveva realizzare una soluzione di continuità rispetto agli anni, molto bui, in cui Bush senior e Bush junior imperversavano dalla Casa Bianca sul resto del mondo, costruendo una narrativa del terrore di cui l’Isis era il portavoce visibile. Quindi – aggiunge Magaldi – che proprio Obama parli di Bush senior come di un “grande patriota” e di un “civil servant” è un atto di ipocrisia: un conto è rendere l’onore delle armi a chi se ne va, e un conto è avere questo atteggiamento inconsistente, che cancella tutte le verità storiche e sparge una melassa inodore e insapore che non fa più capire nulla», stendendo una coltre di nebbia sull’accaduto.Essendo malato, il “fratello” Bush senior era ormai ininfluente, in quell’ambito: «Veniva al massimo consultato». Ora, prosegue Magaldi, c’è grande confusione, in quell’ambiente, dopo l’elezione del “Maverick” Donald Trump, il “cavallo pazzo” della Casa Bianca: «Parecchi digrignarono i denti, per il suo insediamento, e Bush senior è stato tra i più fieri avversari dell’elezione di Trump, che andava a rompere le uova nel paniere di chi voleva – con Jeb Bush, l’altro suo figlio, o con altri candidati – reimpostare, dopo la doppia presidenza Obama, una nuova stagione di terrorismo globale». E così, “Hathor Pentalpha”, “Geburah” e altre superlogge oligarchiche del filone «malignamente eretico, cioè votate ad atti clamorosi e spregiudicati, davvero di sangue e di terrore, sono in grande difficoltà». Motivo: «Non controllando la Casa Bianca, in questo momento, le loro armi sono alquanto spuntate». Nonostante tutto, sottolinea Magaldi, Donald Trump è un “tappo”, rispetto a questi ambienti: lo odiano, perché non risponde alle loro indicazioni. Certo, Trump «è parimenti odiato dai progressisti all’acqua di rose, quelli che vanno a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui e non vedono la trave che sta nella loro testa».Il neopresidente poi è detestato dagli stessi gruppi neo-aristocratici, «sia quelli classici che quelli eversivi», perché Trump resta «un massone inclassificabile, svolge un suo copione narcisistico e rappresenta un problema anche per gli assetti dell’attuale globalizzazione». Tutto sommato, conclude Magaldi, Trump si è rivelato «una buona carta, da giocarsi in una visione di eterogenesi dei fini, da parte della massoneria progressista», che l’ha appoggiato sottobanco per stoppare prima Jeb Bush e poi Hillary Clinton. «Naturalmente bisogna andare oltre Trump: anzi, la presidenza Trump dev’essere uno stimolo per costruire un tessuto narrativo e operativo progressista che sia sostanziale, non formalistico o oleografico». Detto questo, dice ancora Magaldi, dalle parti della “Htahor Pentalpha” c’è grande confusione e parecchio nervosismo, oltre che un po’ di scoramento. «Noi speriamo che quell’anomalia rientri del tutto: vorremmo che quella specifica superloggia fosse proprio sciolta», chiarisce Magaldi. Lui e i suoi preferirebbero che la “guerra” per le sorti della globalizzazione si giocasse a viso aperto, tra circuiti progressisti e ambienti classicamente neo-aristocratici, magari reazionali ma «capaci di fermarsi davanti ad azioni turpi come quelle messe in opera dal 2001 in avanti fino ad anni recenti».La posta in gioco è sotto gli occhi di tutti: una battaglia sotterranea si sta combattendo tra sostenitori della sovranità democratica e propugnatori della post-democrazia, tecnocratica e finanziaria, di cui l’Unione Europea è probabilmente il peggior esempio mondiale. «C’è modo e modo di scontrarsi su presupposti ideologici diversi», dice ancora Magaldi. «La buona novella è che quei segmenti», protagonisti del terriorismo globale, ora «sono in grande difficoltà». Naturalmente nulla è mai definitivo, quindi «bisogna tenere gli occhi ben aperti», visto che «colpi di coda non sono da escludere». Ma Magaldi vede soprattutto segnali di stanchezza. «E oggi – dice – la morte di un campione di quel mondo, di quella mutazione genetica imprevedibile ed efferata, dovrebbe insegnare qualcosa: quando un ciclo finisce, bisogna anche accettarlo». Quel che c’è sapere, comunque, è che la stagione nera inauguarata dal crollo delle Torri Gemelle – cui seguirono a cascata le guerre in Iraq e in Afghanistan, le rivoluzioni colorate e le primavere arabe fino alla guerra civile in Libia e all’orrore scatenato dall’Isis, prima in Siria e poi in Europa – non è stata una sorta di fisiologia maligna del pianeta, ma un cancro sapientemente coltivato da uomini spietati come George Herbert Bush. Lui e i suoi complici sono stati protagonisti della recente strategia della tensione internazionale che ha colpito milioni di persone con una sistematica sequenza di menzogne e di morte: prima le “fake news”, poi le stragi “false flag”.E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partorito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.
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Galloni: folle tagliare il deficit, se è in arrivo la recessione
Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.A quel punto la Commissione cambia toni (ma è costretta a farlo pure l’Italia) e chiede più Pil. Se si fosse in presenza di gente seria, l’affacciarsi della recessione avrebbe dovuto imporre un maggiore deficit per stimolare investimenti e spese capaci di contrastare la caduta del Pil: certo, con un maggior deficit, l’Italia dovrà spendere di più anche di interessi sui nuovi titoli. In realtà, obiettivo Pil e vincolo di bilancio significherà che, per mantenere un deficit del 2% di Pil, se il Pil non cresce come programmato, bisognerà tagliare la spesa della differenza tra le previsioni della manovra e l’andamento effettivo. E saremmo punto e daccapo: lacrime e sangue, vale a dire la bella ricetta che ci porta in recessione. Ci sarebbero, almeno, tre considerazioni da fare. Primo, il Pil non può aumentare se, nei comparti ad alta redditività, la domanda di lavoro decresce più rapidamente dei risultati economico-finanziari; e se, nei comparti dove l’occupazione potrebbe crescere (cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), il costo – in gran parte il lavoro necessario – supera, salvo una minoranza di eccezioni, il fatturato. Quindi, o si interviene sul paradigma economico sociale o il Pil non crescerà o non crescerà abbastanza.Secondo, non si dovrebbe insistere sul parametro debito pubblico/Pil che era già sfavorevole all’Italia dalla fine degli anni ’80 ed è poco peggiorato in seguito; infatti, per valutare solidità e sostenibilità del debito di un paese, bisognerebbe aggiungere – al numeratore – il debito delle famiglie e quello delle imprese non finanziarie. Così si scoprirebbe che i paesi hanno debiti complessivi che vanno da poco più del 300% a meno del 500%, considerata dalle banche e dall’esperienza il limite da non valicare: non è forse vero che si ottiene un mutuo pari fino a 5 volte il reddito annuale del mutuatario? Non guasterebbe nemmeno la istituzione di un’agenzia di rating che impedisse la trasformazione in titoli spazzatura di effetti che, invece, il mercato chiede e sa apprezzare. Terzo, in funzione delle difficoltà di una crescita responsabile ed in rapporto alla esistenza di risorse inoccupate o sotto-utilizzate, perché non esercitare un po’ di sovranità monetaria degli Stati?L’euro resterebbe come unità di conto e come moneta avente corso legale in tutta l’Eurolandia (articolo 128 del Trattato di Lisbona), mentre una moneta parallela avente corso legale solo nazionale servirebbe per affrontare le maggiori spese per l’ambiente, la cura delle persone, il fabbisogno di giovani laureati nelle pubbliche amministrazioni. Non piace la parola moneta? Draghi dice che una moneta parallela sarebbe illegale? Ma quale legge la rende illegale? Essa, tuttalpiù, non è disciplinata perché il Trattato di Lisbona si occupa di altro. Ma niente paura! Lo Stato può emettere buoni spesa che poi accetterà in pagamento delle tasse: 200 euro per ogni occupato, disoccupato e pensionato per otto mesi genererà alla fine dell’anno un aumento di Pil di 48 miliardi e non si determinerà maggior deficit.(Nino Galloni, “Involuzione nel rapporto Ue-Italia, come uscirne?”, da “Scenari Economici” del 5 dicembre 2018).Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.
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Pelanda: il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue
Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.Non sarà facile, perché ciò implica un’inversione imbarazzante dei leader della maggioranza dai loro linguaggi che disprezzano i “numerini” e antagonizzano l’Ue. Ma il Quirinale sembra aiutarli, guidando Conte e Tria nel negoziato con la Commissione, ad arrendersi senza perdere la faccia. Bene che vada, comunque, la politica economica risultante comporterà stagnazione. Pertanto l’inversione della tendenza recessiva nel 2019 dipende dalla ripresa della domanda globale, cioè dell’export. La tregua nella guerra dei dazi concordata tra America e Cina sabato sera fa tornare un certo ottimismo che, se produttiva di un accordo pur nel confronto geopolitico duraturo tra le due potenze, stimolerà nuovamente gli investimenti. Altrettanto importante per l’industria italiana è l’accordo tra America e Germania, di cui è fornitrice, per evitare dazi sull’export europeo. Trump vuole un trattato di libero scambio simmetrico e bilaterale con l’Ue che, però, mette in grave difficoltà il modello protezionista europeo. Questo è un motivo in più di riconvergenza rapida dell’Italia con l’Ue allo scopo di contribuire a un compromesso con l’America, interesse vitale per Roma e Berlino, ma che Parigi non vuole.(Carlo Pelanda, “Così il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue”, da “Il Sussidiario” del 2 dicembre 2018. Politico ed economista, Pelanda è specializzato in studi strategici e scenari internazionali ed economici. Insegna scienze politiche e relazioni internazionali alla University of Georgia di Athens, ed è co-direttore di Globis (Centro per gli studi globali) presso la medesima università. In Italia è editorialista de “Il Foglio”, “Libero”, “La Verità”, “L’Arena” e “Il Sussidiario”. Fa parte della Fondazione Italia-Usa. In campo politico, si legge nel suo profilo su Wikipedia, Pelanda è portatore dell’ideologia liberista, «ma con la consapevolezza che la libertà è conseguenza di un investimento di qualificazione della società e va organizzata entro istituzioni che la difendano». In generale, propugna l’idea di “nuovo progresso” basato sulla fiducia che tecnologia e conoscenza siano i risolutori più potenti dei problemi della condizione umana. Fin dal 2007, con il saggio “La grande alleanza”, ha avvertito che è ormai in via di esaurimento il sistema di governo mondiale centrato sul predominio degli Stati Uniti, sul dollaro e sui criteri occidentali nelle istituzioni internazionali. Pelanda propone «un nuovo soggetto di governance globale che non sia il G-20, o analogo tavolo di potenze troppo diluito, ma un’alleanza tra le democrazie fondata sulla convergenza euroamericana»).Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.