Archivio del Tag ‘Unione Europea’
-
Debito, la Bce grazia l’Irlanda: fine del regime del rigore?
«Per risolvere il problema del debito pubblico, è stato iniziato da Dublino un esperimento monetario sotto l’egida della Bce: l’Irlanda emette buoni del tesoro a scadenza centennale, al tasso fisso lordo del 2,5%, e la Bce li compera sul mercato primario». Le conferme si trovano nel web, scrive Marco Della Luna, attento osservatore dei dispositivi di dominio per via finanziaria, autore di saggi come “Cimiteuro, uscirne e risorgere”. «Dato che calcoli a 100 anni sono al di fuori di qualsiasi ragionevole prevedibilità economica – afferma Della Luna nel suo blog – l’acquisto e la gestione di tali titoli è palesemente pensata per soggetti che non si limitano a cercare di prevedere o indovinare, come è il caso dei risparmiatori, ma che hanno la forza di prendere e imporre decisioni di lungo termine, come è il caso del cartello bancario-monetario Bri-Imf-Fed-Bce & C», ovvero le massime “istituzioni” finanziarie occidentali, che da trent’anni hanno imposto il regime dell’austerity agli Stati, costretti a tagliare spese e investimenti.«Se l’esperimento avrà successo, e se Berlino non avrà la forza di bloccare tutto», continua della Luna, si potrà estendere l’esperimento irlandese «a tutti i paesi europei aventi un grave indebitamento pubblico, per rimetterli in grado di eseguire investimenti pubblici in funzione di rilanciare quelli privati, i redditi e l’occupazione». E forse, aggiunge, questa inedita “innovazione” «si potrà applicare anche per la risoluzione delle crisi bancarie da deterioramento dei crediti». Sarebbe in ogni caso una svolta epocale: la “monetizzazione del debito” permetterebbe agli Stati di uscire dal tunnel della crisi, innescata dall’irruzione della finanza speculativa nella finanza pubblica – i titoli di Stato affidati ai “mercati” – e aggravata in modo fatale, in Europa, dall’avvento dell’euro, che ha tolto definitivamente ai governi la possibilità di gestire il proprio debito: non più denominato in moneta sovrana, da leva strategica fondamentale (investimenti, salari e infrastrutture, con ricadute positive sull’economia privata) il debito si trasforma in un onere insostenibile.Secondo Della Luna, il test irandese – se non verrà stoppato dalla Germania – potrebbe creare un precedente per una clamorosa inversione di rotta, dopo decenni di dominio assoluto da parte del super-potere finanziario e neoliberista internazionale, interpretato dal Fmi e dalla Fed, nonché da potenze come la Bank for International Settlements (Bri, banca dei regolamenti internazionali) e fino a ieri anche dal Wto. La missione: disabilitare la capacità di spesa degli Stati, per accelerare la maxi-privatizzazione globale di aziende e servizi. Ruolo in Europa affidato all’Ue e alla Bce, fino ai negoziati segretissimi per la stipula del Ttip, il Trattato Transatlantico che consegnerebbe il potere, anche giuridico, alle multinazionali. Che senso ha, allora, la contromossa che si starebbe giocando in Irlanda, dove – di fatto – si restituirebbe il potere finanziario allo Stato? Un estremo tentativo di tenere in piedi l’Europa dell’euro a guida tedesca, il cui crollo è dato da più parti per imminente, o l’implicita ammissione del fallimento del sistema globalizzato, privatizzatore e neoliberista?«Per risolvere il problema del debito pubblico, è stato iniziato da Dublino un esperimento monetario sotto l’egida della Bce: l’Irlanda emette buoni del tesoro a scadenza centennale, al tasso fisso lordo del 2,5%, e la Bce li compera sul mercato primario». Le conferme si trovano nel web, scrive Marco Della Luna, attento osservatore dei dispositivi di dominio per via finanziaria, autore di saggi come “Cimiteuro, uscirne e risorgere”. «Dato che calcoli a 100 anni sono al di fuori di qualsiasi ragionevole prevedibilità economica – afferma Della Luna nel suo blog – l’acquisto e la gestione di tali titoli è palesemente pensata per soggetti che non si limitano a cercare di prevedere o indovinare, come è il caso dei risparmiatori, ma che hanno la forza di prendere e imporre decisioni di lungo termine, come è il caso del cartello bancario-monetario Bri-Imf-Fed-Bce & C», ovvero le massime “istituzioni” finanziarie occidentali, che da trent’anni hanno imposto il regime dell’austerity agli Stati, costretti a tagliare spese e investimenti.
-
Il terrore, per farci ingoiare l’Ue che fabbrica crisi e guerre
Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l’Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell’Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell’Europa. Le stragi terroriste sono contro l’Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l’Europa minaccia un ministro britannico. La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea.L’escalation delle proposte europeiste va in una sola direzione, quella del ferro e del fuoco. Non c’è un solo accento autocritico verso tutte le guerre terroristiche che l’Europa ha scatenato nel mondo. Non c’è una sola richiesta di maggiore democrazia e giustizia sociale. Anzi l’europeismo guerrafondaio spiega ai popoli del continente che per avere sicurezza a qualche diritto bisognerà pure rinunciare, qualche altro intervento militare lo si dovrà pure fare. L’europeismo vuole bruciare le tappe per diventare come gli Stati Uniti, ma di quel paese pare invidiare soprattutto Guantanamo e i droni. E naturalmente le multinazionali. Se si dovessero spiegare gli eventi solo con la categoria del “a chi giova” le stragi terroriste di questi due anni avrebbero un solo beneficiario: l’europeismo guerrafondaio. Ma anche se non si volesse leggere lo stragismo europeo con le stesse lenti con cui alla fine abbiamo visto quello italiano. Se anche si considerassero irripetibili su scala europea quei legami tra terroristi fascisti, servizi segreti, poteri occulti che hanno tracciato la via delle stragi italiane, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Se anche davvero non ci fossero mai stati rapporti tra il terrorismo jihadista, L’Isis e le potenze occidentali ed europee, in ogni caso la reazione europeista alle stragi è un aggravamento del male.Le nazioni si forgiano nel sangue, dicevano i nazionalisti dell’800. È certo che questo superstato europeo privo di qualsiasi vera democrazia finora non ha certo scaldato i cuori dei suoi sudditi. Ora le stragi potrebbero cambiare il quadro e finalmente si potrà chiedere di amare la Troika. Non so se ci sia un disegno occulto e se tutte le affermazioni siano in malafede, ma so che il terrorismo jihadista sta stabilizzando la peggiore Europa, quella che sta distruggendo la sua democrazia e il suo stato sociale. Il nazionalismo del passato ha trascinato l’Europa nella catastrofe, ora l’europeismo ripropone la stessa avventura. Non si esce dalla spirale guerra terrorismo senza una rottura, e questa rottura va fatta proprio contro il sistema di potere europeo, che è al centro di quella spirale.(Giorgio Cremaschi, “Il più pericoloso dei nazionalismi è l’europeismo”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l’Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell’Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell’Europa. Le stragi terroriste sono contro l’Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l’Europa minaccia un ministro britannico. La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea.
-
Migranti, patto col diavolo: l’Ue vende l’anima alla Turchia
L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.L’Ue inoltre è pronta a consentire l’esenzione dal visto per 75 milioni di residenti in Turchia. L’Unione Europea non solo ha venduto la sua anima, quel giorno, ma in realtà ha anche concluso un affare piuttosto scadente. Io non sono in grado di giudicare se questo accordo è conforme alla Convenzione di Ginevra e al diritto internazionale. Presumo che il Consiglio Europeo abbia fatto in modo di poter sostenere un’azione in tribunale. Ma anche se può essere considerato legale, ho dei dubbi che possa essere attuato. Sarà interessante vedere se l’Ue si rimangerà le promesse fatte alla Turchia nel caso che Ankara non riuscisse a mantenere l’impegno. Anche se l’operazione fosse pienamente attuata, non alleggerirebbe la pressione di molto. Il numero atteso di rifugiati che si fanno strada verso l’Ue sarà molto superiore ai 72.000 concordati con la Turchia. Un think-tank tedesco ha fatto i conti sui flussi di profughi per quest’anno e ha messo a punto una stima che va da di 1,8 milioni a 6,4 milioni di persone. Quest’ultima cifra corrisponde allo scenario peggiore, che potrebbe includere un gran numero di immigrati dal Nord Africa.La chiusura della rotta dei Balcani occidentali per i rifugiati – dalla Grecia attraverso la Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia e poi in Austria e Germania – ha procurato un sollievo a breve termine per gli europei del nord, ma ci sono numerosi percorsi alternativi che i rifugiati possono prendere. Possono passare attraverso il Caucaso e l’Ucraina, o attraverso il Mediterraneo verso l’Italia e la Spagna. Se i paesi chiudono i loro confini, non riducono il flusso di profughi, ma semplicemente lo deviano. Si tratta di un classico esempio di una politica “beggar-thy-neighbor”. Questo dimostra che una politica dei rifugiati a livello Ue è inevitabile. Uno dei casi più eclatanti di azione unilaterale è la chiusura delle frontiere in Austria. Ora il paese sta ripristinando i controlli alla principale frontiera verso l’Italia – l’autostrada del Brennero. Questa è una delle rotte più trafficate tra Europa meridionale e settentrionale. Una volta che i rifugiati arrivano in Italia, ci si aspetta molto movimento ai confini settentrionali. A quel punto è probabile che Francia, Svizzera e Slovenia decidano di ripristinare i controlli.L’Italia potrebbe essere tagliata fuori dall’area Schengen per i movimenti senza passaporto, di cui ora fa parte, e Schengen diventerebbe un piccolo club di paesi del Nord Europa – forse un modello per il futuro dell’Eurozona. Questo sarebbe il primo passo verso la frammentazione della Ue. L’accordo con la Turchia avrà anche un impatto sul dibattito referendario nel Regno Unito. Il campo a favore di un’uscita dall’Unione Europea non avrebbe forse qualcosa da dire sull’esenzione dal visto per 75 milioni di turchi? Chiunque abbia a cuore la democrazia e i diritti umani odierà questo accordo. Come anche chiunque tema il dominio tedesco dell’Ue, avviato da Angela Merkel. Il cancelliere tedesco non ne aveva certo bisogno, per uscire dalla trappola in cui si era cacciata. E’ stata la sua decisione unilaterale di aprire le frontiere della Germania che ha trasformato una crisi dei rifugiati gestibile in un un disastro ingestibile. Non è facile trattare in modo puramente razionale l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Ma ormai l’Ue ha perduto la sua superiorità morale, non dovremmo essere sorpresi se la gente comincia a mettere in discussione ciò che essa rappresenta, e che sia un’istituzione necessaria.(Wolfgang Münchau, “Firmando l’accordo con la Turchia, l’Ue si è venduta l’anima”, dal “Financial Times” del 20 marzo 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).L’accordo con la Turchia è la cosa più sordida a cui io abbia mai assistito nella moderna politica europea. Il giorno in cui i leader dell’Unione Europea hanno firmato l’accordo, Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco, ha scoperto il proprio gioco: «La democrazia, la libertà e lo Stato di diritto… Per noi, queste parole non hanno assolutamente più alcun valore». A quel punto, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto chiudere la conversazione con Ahmet Davutoglu, il primo ministro turco, e mandarlo a casa. E invece hanno fatto un accordo con lui – denaro e molto altro ancora, in cambio dell’aiuto nella crisi dei rifugiati. La Turchia si occuperà di ritrasferire circa 72.000 rifugiati arrivati nella Ue – uno swap uno-ad-uno per ogni clandestino che i turchi fanno salire sui barconi nel Mar Egeo. In cambio, l’Ue pagherà alla Turchia 6 miliardi di euro e aprirà un nuovo capitolo nei negoziati di adesione all’Ue – questo, con un paese la cui leadership ha appena abrogato la democrazia.
-
Alta finanza massonica, lo strano caso del dottor Di Maio
Quanto sono lontani i tempi in cui Beppe Grillo, in maniera sibillina, spiegava come il governo Letta fosse condizionato fin dalla nascita da “manine straniere”. E come sono lontani i tempi in cui il M5S – da bravo scolaretto – si limitava a recitare il ruolo di “sfogatoio” buono per assorbire e paralizzare il dissenso delle tante vittime di un sistema politico tradizionale violento, nazistoide e perverso. Oggi le cose sono cambiate. E come insegna il manuale dell’ipocrita perfetto si può dire la verità e difendere gli interessi dei poveri e dei deboli solo stando volutamente all’opposizione; quando si entra nella stanza dei bottoni, invece, bisogna assorbire concetti come “responsabilità” e “moderazione”, termini orwelliani che indicano la disponibilità a garantire continuità sostanziale con il passato fingendo di cambiare tutto solo in superficie. L’eterno risorgere del Gattopardo, insomma. Il Movimento 5 Stelle adesso mostra senza pudori il suo vero volto, passando all’incasso dopo avere per anni fatto diligentemente il “lavoro sporco”.Il sistema massonico dominante, quello che controlla giornali come l’“Economist” o il “Financial Times”, comincia guardacaso a tessere le lodi dei “grillini”, finalmente pronti all’ingresso nelle stanze del potere previa avvenuta maturazione, constatata direttamente dai soliti infallibili incappucciati muniti di grembiule (ovvero, manifesta disponibilità nel servire gli interessi dell’Alta Massoneria e dell’Alta Finanza). Da un lato i seguaci del guru Casaleggio negano la tessera ai “massoni paesani” iscritti in qualche innocua loggetta di provincia composta magari perlopiù da tromboni retorici e demodé; dall’altro però non si fanno scrupolo nel vezzeggiare, blandire e baciare l’anello dei massoni che non fanno folklore ma contano per davvero, “iniziati” potenti come quelli che hanno recentemente chiamato a rapporto quel damerino di Luigi Di Maio per istruirlo a dovere e, magari, cominciare a “levigarne la pietra grezza” in vista di una ventilata e prossima ascesa nell’empireo del potere, sorretta dall’occhio benevolo del “Grande Architetto” dall’accento inglese (per cogliere l’invadenza anglosassone nella storia recente italiana leggere “Il Golpe Inglese” e “Colonia Italia”).Questa doppia morale suscita effettivamente schifo e ribrezzo, facendo tornare alla mente esempi del passato non proprio edificanti. Tutti sanno, ad esempio, che in apparenza tanto il fascismo di Mussolini quanto il nazismo di Hitler perseguitarono la massoneria. Pochi sanno invece come tanto il fascismo quanto il nazismo ricevettero cospicui aiuti finanziari da importantissime centrali massoniche sovranazionali, vere levatrici di due fenomeni politici passati alla storia come sublimazione stessa dell’infamia e della vergogna imperitura (vedi, tra gli altri, Antony C. Sutton, “Wall Street and the rise of Hitler”). Oggi il copione si ripropone, validando una volta ancora quella nota profezia di Karl Marx secondo la quale “la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. Duri, puri e intransigenti con i massoni da dopolavoro ferroviario; servizievoli, carini e accorti con i massoni di spessore. Sinceri complimenti.Noi del “Moralista”, a differenza di tanti altri, non possiamo dirci stupiti della parabola assunta dal Movimento 5 Stelle, avendo compreso con discreto anticipo sia il ruolo di Casaleggio che quello di Luigi Di Maio, vero politicante da batteria cresciuto rapidamente con gli estrogeni. La nuova linea del Movimento 5 Stelle prevede quindi la difesa dell’euro e la richiesta di più flessibilità all’Europa, elevando perfino il premier inglese Cameron a modello da imitare. Stiamo parlando dello stesso Cameron che in patria distrugge il welfare dei suoi cittadini e all’estero combina guai ammazzando a piacimento dittatori sgraditi, alla Gheddafi, in compagnia di altri sanguinari personaggi come Hillary Clinton e Nicolas Sarkozy. In conclusione: il Movimento 5 Stelle, a furia di “progredire”, è diventato identico al Pd (manca solo che dicano che “ci vuole rigore ma anche la crescita”). La teoria darwiniana sul miglioramento e sull’evoluzione della specie è quindi oggi definitivamente smentita nei fatti. E anche le teorie “spenceriane”, quelle che innalzano il “progresso” a “signore della Storia”, non si sentono tanto bene.(Francesco Maria Toscano, “A furia di evolversi il M5S è diventato identico al Pd, lo strano caso del dottor Di Maio”, dal blog “Il Moralista” del 24 marzo 2016).Quanto sono lontani i tempi in cui Beppe Grillo, in maniera sibillina, spiegava come il governo Letta fosse condizionato fin dalla nascita da “manine straniere”. E come sono lontani i tempi in cui il M5S – da bravo scolaretto – si limitava a recitare il ruolo di “sfogatoio” buono per assorbire e paralizzare il dissenso delle tante vittime di un sistema politico tradizionale violento, nazistoide e perverso. Oggi le cose sono cambiate. E come insegna il manuale dell’ipocrita perfetto si può dire la verità e difendere gli interessi dei poveri e dei deboli solo stando volutamente all’opposizione; quando si entra nella stanza dei bottoni, invece, bisogna assorbire concetti come “responsabilità” e “moderazione”, termini orwelliani che indicano la disponibilità a garantire continuità sostanziale con il passato fingendo di cambiare tutto solo in superficie. L’eterno risorgere del Gattopardo, insomma. Il Movimento 5 Stelle adesso mostra senza pudori il suo vero volto, passando all’incasso dopo avere per anni fatto diligentemente il “lavoro sporco”.
-
La Danimarca: basta diktat, referendum per uscire dall’Ue
Un dato al 33% rappresenta un importante cambiamento, che indica una crescente ostilità verso l’Unione Europea, se si fa il confronto con il 25% di coloro che volevano uscire nel 2013. La richiesta di indipendenza dai burocrati europei viene dal Movimento Popolare Contro l’Ue, che preme sul governo affinché si tenga un referendum nel paese. La piattaforma del movimento, politicamente trasversale, sostiene che dopo 40 anni di appartenenza al blocco dei 28 paesi, è tempo di dare alla nuova generazione di danesi la possibilità di esprimere un voto. Il movimento ha dunque lanciato una petizione per costringere il governo a discutere la questione. L’eurodeputata Rina Ronja Kari, iscritta al movimento, ha detto: «Se fate il confronto tra l’Europa di oggi e quella a cui i danesi aderirono 40 anni fa, c’è stato un drastico cambiamento. Siamo passati da un’unione per la cooperazione commerciale a una Unione Europea che interferisce in quasi qualsiasi aspetto della nostra società. Pensiamo quindi che sia giusto chiedersi: è davvero questo ciò che volevamo? O vogliamo piuttosto lasciare l’Unione Europea?”.L’ultimo sondaggio mostra che quelli che manifestano una volontà di rimanere sono al 56%, con l’11% di indecisi; c’è dunque ancora una maggioranza, risicata, che intende restare. Ma il professor Kasper Møller Hansen dice: «Per quanto ci sia ancora una maggioranza favorevole alla permanenza nell’Ue, la voce degli euroscettici ha il vento in poppa». Il movimento, che ha visto il suo sostegno crescere dello 0,9% nelle scorse elezioni per il Parlamento Europeo del maggio 2014, ha guadagnato oltre 1.200 nuovi membri e questo fine settimana terrà il suo più importante congresso di partito da vent’anni a questa parte. Il movimento ha anche visto crescere i propri consensi dopo che lo scorso dicembre è riuscito a far prevalere il “no” in un referendum sull’abolizione delle speciali riserve legali verso l’Unione Europea. Il “no” che ha prevalso in quel referendum ha significato che la Danimarca continuerà a partecipare alle riunioni europee per le politiche di cooperazione solo quando ci sarà un ministro danese dotato di diritto di veto.Dice la europarlamentare: «Ci siamo arrampicati sui lampioni e abbiamo distribuito volantini in tutta la Danimarca. Siamo stati nei media e nei social media come non era mai avvenuto prima, e il nostro furgone pubblicitario ha viaggiato da Bornholm a Skagen. Il risultato di dicembre ha mostrato che quando lavoriamo assieme possiamo opporre resistenza all’Ue». Nonostante goda di crescente sostegno, il partito anti-Bruxelles sta trovando opposizione da parte della classe dirigente del paese. Secondo il portavoce europeo Kenneth Kristensen Berth del Partito Popolare Danese, la richiesta di un referendum sulla permanenza nell’Ue arriva al momento sbagliato: «Avremo un referendum in Gran Bretagna tra qualche mese, che determinerà in modo molto importante quale direzione la cooperazione Ue debba prendere. Dobbiamo aspettare e vedere [come va il voto]». Mentre si alzano queste richieste per un voto in Danimarca, un sondaggio ha indicato che se la Turchia dovesse entrare nell’Unione Europea, un terzo dei britannici sarebbe più propenso a votare per l’uscita dall’Unione. Anche tra coloro che dicono di voler votare affinché la Gran Bretagna rimanga parte dell’Ue, più di un quarto (25,6%) dice che l’entrata della Turchia li renderebbe più propensi a cambiare idea e a votare per l’uscita.(Lizzie Stromme, “Politici danesi chiedono un referendum per uscita da Ue, euroscetticismo in crescita”, articolo pubblicato da “Express” il 14 marzo 2016, tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).Un dato al 33% rappresenta un importante cambiamento, che indica una crescente ostilità verso l’Unione Europea, se si fa il confronto con il 25% di coloro che volevano uscire nel 2013. La richiesta di indipendenza dai burocrati europei viene dal Movimento Popolare Contro l’Ue, che preme sul governo affinché si tenga un referendum nel paese. La piattaforma del movimento, politicamente trasversale, sostiene che dopo 40 anni di appartenenza al blocco dei 28 paesi, è tempo di dare alla nuova generazione di danesi la possibilità di esprimere un voto. Il movimento ha dunque lanciato una petizione per costringere il governo a discutere la questione. L’eurodeputata Rina Ronja Kari, iscritta al movimento, ha detto: «Se fate il confronto tra l’Europa di oggi e quella a cui i danesi aderirono 40 anni fa, c’è stato un drastico cambiamento. Siamo passati da un’unione per la cooperazione commerciale a una Unione Europea che interferisce in quasi qualsiasi aspetto della nostra società. Pensiamo quindi che sia giusto chiedersi: è davvero questo ciò che volevamo? O vogliamo piuttosto lasciare l’Unione Europea?”.
-
Cremaschi: l’euro-trappola sgonfia le bolle di Draghi e Renzi
Chi ha la mia età salta sulla sedia quando sente le autorità monetarie ed economiche auspicare il ritorno dell’inflazione. Alla fine degli anni 70 del secolo scorso l’inflazione era diventata il male supremo. Bisognava interrompere la spirale prezzi-salari, affermava perentoriamente il nuovo mantra liberista che si era impadronito dell’economia, della politica e anche dei sindacati. Ricordo Luciano Lama che nei comizi denunciava l’inflazione come il nemico dei lavoratori e come la causa economica del fascismo. Un profondo travisamento del passato, perché era stata la disoccupazione di massa, e non l’aumento dei prezzi, a far crescere l’estrema destra in Germania. Così come avviene oggi. La cattiva storia aiutava una cattiva politica. Il risultato fu che l’inflazione fu stroncata abbattendo salari, diritti e stato sociale. Chi ha la mia età ha vissuto in tutti gli anni 80 del secolo scorso la campagna contro la scala mobile dei salari, un istituto che faceva aumentare automaticamente le retribuzioni a tutti i lavoratori, per compensare l’aumento dei prezzi. La scala mobile è inflazionistica e l’Europa non la vuole, si gridava dai pulpiti del potere, e alla fine essa fu abolita.Poi anche i contratti nazionali furono un po’ alla volta smantellati. Infine dilagarono disoccupazione di massa e precarietà, per spinte del mercato e per volontà delle leggi. Leggi che un po’ alla volta distrussero le tutele dei lavoratori di fronte all’impresa, fino alla libertà di licenziamento garantita dal Jobs Act. Ora Draghi presta danaro a costo zero, perché spera che così ci sia un po’ di aumento dei prezzi, ma i prezzi non crescono. Perché nessuno compra visto che i salari continuano a sprofondare. Se non facesse rabbia ci sarebbe da sorridere nel verificare che i signori del liberismo raccolgono ciò che hanno seminato. Volevano distruggere i salari per accrescere i profitti, ora che avrebbero bisogno di più salari per far ripartire l’economia e gli stessi profitti, devono constatare che la loro distruzione ha creato il deserto. Così continuano a dare soldi alle banche sperando che queste le trasformino in chissà quale sviluppo. Ridicolo.Draghi presta i soldi al sistema bancario ad interesse zero, ma se io voglio un prestito devo pagare interessi del sette per cento. E se ho uno salario, ed è già una fortuna, questo è sostanzialmente bloccato. Come l’economia. Così i soldi che Draghi regala alle banche restano lì e contribuiscono a gonfiare una bolla finanziaria che prima o poi esploderà su una economia reale sempre più in crisi. Le Borse sanno perfettamente tutto questo e così, dopo aver incamerato qualche guadagno, hanno ricominciato a franare verso il basso. Anche Renzi ha costruito la sua bolla. Ha speso undici miliardi di euro per finanziare assunzioni. Le aziende si sono buttate sopra questo improvviso Bengodi, e hanno così concentrato in pochi mesi le assunzioni che intendevano fare in tempi più lunghi. Anche perché gran parte di esse non erano nuovi posti di lavoro, ma trasformazione di contratti già esistenti. E soprattutto perché il Jobs Act garantisce che questi nuovi assunti possano essere licenziati in qualsiasi momento. Così, appena son calati gli incentivi, il mercato del lavoro è crollato a livelli inferiori a quelli del 2014.Era già successo con la rottamazione delle auto. Finiti gli incentivi degli anni 90 del secolo scorso il mercato automobilistico è piombato in una depressione decennale. Anche la rottamazione dei diritti del lavoro ora segue lo stesso ciclo, e la bolla occupazionale voluta da Renzi comincia già a sgonfiarsi. Prendersela con le misure costose e sostanzialmente inutili di Draghi e Renzi è giusto, ma non sufficiente. Le loro bolle sono la conseguenze di scelte che sono scritte nei trattati europei e nella politica economica di tutti i governi del continente. La lotta all’inflazione è nel trattato di Maastricht, mentre quella alla disoccupazione lì non è prevista. Il taglio dei salari e la distruzione dello stato sociale sono prescritti dalla riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. Al resto ci pensa poi il Fiscal Compact. Se non si mettono in discussione l’euro e i trattati europei che impongono le politica di austerità, se si continua con distruzione dei salari e dei diritti del lavoro, tutti soldi immessi nell’economia finiranno in bolle speculative. Renzi e Draghi sono come due amministratori di condominio che di fronte al crollo progressivo della casa continuino a spender soldi per riverniciarla. Sono sicuramente colpevoli, ma non perché usano poca vernice.(Giorgio Cremaschi, “Si sgonfiano le bolle di Renzi e Draghi”, da “Micromega” del 18 marzo 2016).Chi ha la mia età salta sulla sedia quando sente le autorità monetarie ed economiche auspicare il ritorno dell’inflazione. Alla fine degli anni 70 del secolo scorso l’inflazione era diventata il male supremo. Bisognava interrompere la spirale prezzi-salari, affermava perentoriamente il nuovo mantra liberista che si era impadronito dell’economia, della politica e anche dei sindacati. Ricordo Luciano Lama che nei comizi denunciava l’inflazione come il nemico dei lavoratori e come la causa economica del fascismo. Un profondo travisamento del passato, perché era stata la disoccupazione di massa, e non l’aumento dei prezzi, a far crescere l’estrema destra in Germania. Così come avviene oggi. La cattiva storia aiutava una cattiva politica. Il risultato fu che l’inflazione fu stroncata abbattendo salari, diritti e stato sociale. Chi ha la mia età ha vissuto in tutti gli anni 80 del secolo scorso la campagna contro la scala mobile dei salari, un istituto che faceva aumentare automaticamente le retribuzioni a tutti i lavoratori, per compensare l’aumento dei prezzi. La scala mobile è inflazionistica e l’Europa non la vuole, si gridava dai pulpiti del potere, e alla fine essa fu abolita.
-
Lacrime e sangue? Certo, un’altra Europa è impossibile
La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.Spiega la disaffezione come dovuta all’incapacità dei politici di risolvere i problemi, la disoccupazione in primis, mentre tutti si riempiono la bocca del medesimo mantra delle riforme (operando delle feroci contro-riforme). Spiega la sostanziale somiglianza fra destra e sinistra che agli occhi del comune cittadino è giustamente scomparsa. Qual’è la differenza fra Berlusconi e Prodi? Fra Monti e Bersani? Fra Renzi e Tsipras? La politica è (nei tratti di fondo) la medesima ed è quella dettata da Bruxelles, Francoforte o Berlino. E spiega anche il drammatico scadimento della politica, screditata agli occhi delle persone capaci, per cui chi vale fa altro, e monopolio di personaggi che non hanno altro da occuparsi se non di conservare le poltrone per sé e per le proprie consorterie. Detto in termini un poco più nobili, una volta esautorato e reso impotente lo Stato nazionale, che è il terreno primario in cui si svolge il conflitto sulla distribuzione del reddito, viene a mancare il sale della democrazia.Ma in verità il “sogno europeo”, è precisamente questo: un disegno liberista volto a esautorare i popoli nazionali dal potere di incidere sulle scelte dei propri governi nazionali, resi impotenti se non come strumenti d’ordine (vedi le riforme costituzionali in questa direzione). Stati nazionali filiali regionali dell’ordine ordo-liberista che “trasforma le leggi del mercato in leggi dello Stato” (Alessandro Somma), e ben individuato dai tedeschi nel Ministro unico dell’economia. Questa espropriazione dello Stato nazionale perfeziona lo svuotamento del terreno del conflitto sociale, dunque della democrazia, già mortificato dalla globalizzazione del capitale, lasciato libero di collocarsi dove più gli aggrada. E non ci si dica, per favore, che piccoli stati sovrani avrebbero vita dura nell’”economia globalizzata”, come si sente spesso. Polonia e Corea del Sud se la passano meglio dell’Italia, per fare qualche esempio.Ma perché, mi si obietta, non lottare per un’Europa diversa? L’analisi economica – a cui invito a prestar fede non in nome della fiducia in una scienza discutibile, ma in nome del realismo politico a cui ci invitava un grande intellettuale, Danilo Zolo – ha da tempo indicato che un’unione monetaria fra paesi a diverso grado di sviluppo può reggere solo con un cospicuo bilancio federale a scopo perequativo, precisamente la “tax-transfer union” tanto temuta dai tedeschi. Di che parliamo allora? Di utopie da cui Danilo Zolo ci suggeriva di sfuggire come la peste? Hayek lo disse chiaramente in un saggio del 1939: uno Stato federale fra paesi culturalmente ed economicamente diversi e dotato di un cospicuo bilancio perequativo non sarebbe destinato a durare, e si lacererebbe presto sulla destinazione delle risorse (Jugoslavia docet). L’unico Stato federale possibile è quello con uno Stato minimo, uno Stato ordo-liberista che detti le sole regole di mercato.Ma questo è lo Stato europeo che già abbiamo, e che la potenza dominante di cui parliamo oggi intende rafforzare. Quella che abbiamo è la sola Europa possibile, anzi potrebbe andar peggio. La “sinistra” è responsabile di cotanto disastro continentale. In Inghilterra e negli Stati Uniti, la Thatcher e Reagan si sono resi responsabili di sconfiggere Keynesismo e Stato Sociale. In Europa l’ha in gran parte fatto la sinistra, in nome dell’Europa. Le responsabilità dell’Ulivo devono essere ancora conteggiate – ma c’è chi ha cominciato a farlo, come Giulio Sapelli. Ma forse non c’è n’è bisogno. La sinistra italiana sta finendo da sola nella spazzatura del 3%. Abbiamo invece bisogno di una sinistra italiana che della battaglia per il ripristino dell’autonomia della politica economica nazionale faccia il proprio vessillo. Siccome la sinistra è più sensibile all’orecchio della difesa della Costituzione, bene faremmo ad affiancare questa battaglia a quella della difesa dei valori costituzionali.Ma attenzione, se la sinistra ufficiale e intellettuale è sensibile ai valori costituzionali, la gente normale vede questi temi come estranei, lontani. Guarda con favore, per esempio, alla semplificazione dei processi politici. Quindi anche la battaglia per la difesa della Costituzione se ne gioverebbe, se da astratta difesa di principi si mostrasse come strumento di avanzamento sociale su temi concreti come piena occupazione, difesa di salari e Stato Sociale. Un’ultima precisazione. Personalmente non credo che lo slogan “fuori dall’euro” sia oggi popolare. Tuttavia un sentimento anti-Europeo sta montando. L’euro crollerà se e quando diventerà politicamente insostenibile, e quest’esito va perseguito e preparato, progettando il dopo, una nuova Europa di Stati indipendenti e cooperativi. Purtroppo la sinistra italiana, nella sua maggioranza, va nella direzione opposta di coltivare il “sogno europeo”, predisponendosi all’oblio della storia.(Sergio Cesaratto, “Sveglia, un’altra Europa è impossibile”, da “Sollevazione” del 12 marzo 2016).La maggioranza della “sinistra” si crogiola nell’illusione che l’Europa possa mutare pelle sotto la spinta della solidarietà fra i popoli europei. Da dove scaturisca tale speranza non è dato capire. Il problema europeo è legato alla crisi della democrazia, all’anti-politica, alla diffusa disaffezione, se non aperta ostilità di gran parte della popolazione ai meccanismi della rappresentanza e della mediazione politica. In termini più accademici questa è definita la crisi della democrazia. Questa disaffezione si traduce nell’idea che la politica sia tutta uguale, destra e sinistra, e che i politici siano tutti disonesti. Alla base di questa disaffezione, e in fondo anche alla base della pochezza progettuale ed etica dei politici, v’è la sostanziale impotenza della politica nazionale ad affrontare piccoli e grandi problemi, una volta privata delle leve della politica economica, e in particolare della sovranità monetaria, improvvidamente cedute a istanze sovranazionali dominate dalle potenze europee più forti. Questo spiega dunque molte cose.
-
D’Alema: Renzi deve perdere le città e poi il referendum
«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.A ottobre, ricorda Giannuli, c’è il referendum sulle riforme costituzionali: se passa il no, Renzi ha detto che si dimette (ma forse no), nel qual caso potrebbero esserci nuove elezioni: «In fondo, almeno formalmente, il motivo per cui questo incredibile Parlamento è restato in vita nonostante la sua palese illegittimità, è stata la necessità di attuare riforme costituzionali, venute meno le quali, non si capisce perché mai dovrebbe restare in carica». Se invece dovesse vincere il sì, «allora è proprio sicuro che voteremmo dopo pochi mesi», aggiunge il politologo dell’ateneo milanese, «perché un Renzi incoronato da un referendum passerebbe subito all’incasso». In ogni caso, «la squadra renziana (se non lui personalmente) procederebbe alla decimazione dei bersaniani nei gruppi parlamentari». Non solo: anche per il super-potere europeo (la Bce, la Merkel, le grandi banche d’affari) sarebbe più difficile «abbattere un premier fresco di unzione popolare». Quindi, gli anti-renziani «hanno pochi mesi per tentare il colpo», ed ecco spiegato anche l’improvviso attivismo di D’Alema: sa benissimo che, se Renzi supera il referendum, dopo sarà più difficile fermarlo.Scenari possibili, nel frattempo? Tanti. Per esempio, un voto contrario in Parlamento: «Cosa facile da farsi in Senato ma di dubbia efficacia, perché sino a quando resta segretario del partito non si potrebbe fare alcun altro governo e si andrebbe alle elezioni anticipate che probabilmente potrebbero essere vinte da Renzi». Piano-B: un congresso straordinario che lo metta in minoranza: «Cosa possibile solo se c’è una spallata fortissima, tale da mandare in frantumi il blocco dominante». Meno improbabile, forse, «un capitombolo sulla questione libica che produca una tale ondata di protesta popolare da spingere una bella fetta del gruppo dirigente ad offrire la testa di Renzi per salvarsi davanti all’elettorato». Ma Renzi non è certo uno sprovveduto: «Si sta dimostrando tutt’altro che propenso ad imbarcarsi in quella avventura». Il pericolo, per Renzi, cresce davvero solo se proviene da Bruxelles: una nuova tempesta dello spread, con lettere e richiami della Bce? Certo, Renzi è meno vulnerabile di Berlusconi – non ha le sue aziende, che in quei giorni persero il 26% del loro valore in Borsa. «Si può provare, ma la riuscita non è garantita», scrive Giannuli. «Poi, in un momento di grande instabilità finanziaria non sarebbe prudente introdurre un altro elemento di fibrillazione: in fondo, l’Italia rappresenta pur sempre il terzo debito mondiale».Altri frangenti scivolosi? «Un grosso scandalo, magari aiutato dall’intervento di qualche procura: e qui, fra l’Etruria, la Popolare di Vicenza e altro, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta sulla casella su cui fare la puntata. Però occorre che lo scandalo possa investire personalmente il presidente del Consiglio (non basterebbero uno o tre ministri) e dovrebbero esserci prove di qualche consistenza». Ma la prima pietra d’inciampo sono proprio le amministrative di giugno: l’aria non è buona per il Pd, Napoli e Roma sono piazze difficilissime, qualche problema potrebbe esserci a Torino o Bologna, e a decidere potrebbe essere Milano. «Renzi, che è furbo, ha fiutato il vento e ha già detto che non è su quel test che si misurerà, ma sul referendum: uno schema di gioco che può reggere se il risultato è dignitoso anche se sfavorevole». Oggi tutte le cinque maggiori città, eccetto Napoli, sono governate dal Pd: perdere in una delle altre quattro città sarebbe una sconfitta, ma accettabile (specie se si trattasse di Roma, dove la partita è proibitiva). Ma se a Napoli e Roma si aggiungesse un’altra città? E se la terza sconfitta fosse proprio a Milano? «Le cose andrebbero diversamente e si accenderebbe uno scontro interno al partito in cui potrebbe anche accadere che un pezzo della maggioranza si stacchi per dar vita ad una corrente di centro», cosa che inizierebbe a rendere difficile la vita al fiorentino, conclude Giannuli: difficile credere che non stia pensando proprio a questo, il Conte Max.«Vedo più spettatori che votanti a queste primarie». Oppure: «C’era anche Renzi al funerale? Non l’ho visto». A parlare è un Massimo D’Alema che in questi giorni si mostra di insolita giovialità, quasi spensierato. E così, fra una battuta e l’altra, qualche sera fa, in una cena in cui c’era una giornalista, il lìder Massimo si è lasciato sfuggire una battuta «lieve come un’incudine sui piedi», ovvero: «Renzi è un agente del Mossad, bisogna farlo cadere». Il Mossad, nientemeno! Vero, Renzi «si è sempre mostrato assai comprensivo verso le ragioni di Israele», ammette Aldo Giannuli, che da tempo segnala grandi manovre per far fuori il Rottamatore, che peraltro ha come consigliere economico Yoram Gutgeld, già tenente colonnello dell’esercito israeliano. «Forse, quella del Conte Max era solo una battuta di spirito», aggiunge Giannuli, sarcastico, proprio mentre – da Napoli a Roma – il Pd renziano sta per andare incontro a un possibile disastro, alle amministrative. Il momento è delicato? Ed ecco che interviene D’Alema – un uomo che, per inciso, vanta relazioni europee di altissimo livello, come quelle con pesi massimi del super-potere, del calibro di Jacques Attali, già uomo-ombra di Mitterrand e da sempre presente nel vertice supremo, anche massonico, che pilota le istituzioni europee.
-
Italiani buoni a nulla, così l’Ulivo ci ha svenduto ai tedeschi
Si chiama “foreign dominance”, dominio esterno: a partire dal Trattato di Maastricht, attraverso l’adesione all’euro e la direzione politica dell’Ulivo di Romano Prodi, ha decretato il declino dell’Italia, come nel Seicento. Il paese è nelle mani di potentati stranieri, in questo caso tedeschi, che stanno letteralmente deindustrializzando il paese, gettandolo in una crisi senza uscita. E’ la tesi di un economista di prestigio come il professor Giulio Sapelli: «La politica economico-monetaria dell’Ulivo ha disarmato le menti e, nel mentre, ha armato nuove classi economico-politiche cosmopolite (i Padoa Schioppa ne sono l’esempio più sconcertante), a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con i Monti, costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo-teutonici e anti-Usa, che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli e parlando del “cosmopolitismo”, ossia del servilismo internazionale degli intellettuali italiani». Abbiamo a che fare con «ragionieri del mondo, affascinati dal mito umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno, per bene agire, di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto, mito che in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo interlocutore di sostenere tale tesi».Si dovrà fare la storia dell’Ulivo che ne affronti la teoria economica prevalente, scrive Sapelli in un’analisi su “Il Sussidiario”. La politica monetaria intrapresa con Maastricht? «Va inserita nella specificità della vicenda monetaria italiana che è sempre stata – come sappiamo – determinata da un’oscillazione e da un intreccio continuo tra “fiscal dominance” e “foreign dominance”». Sapelli sgombra il campo da un presupposto “mitologico” come quello dell’indipendenza delle banche centrali dal Tesoro («per dipendere da chi, se non dalle burocrazie o dalle euroburocrazie spartite in basi a criteri di potenza nazionale?»). Problema che «non incide sui temi della “foreign dominance”», non è determinante. «Ciò che è e fu determinante a partire dai tempi dell’Ulivo (sino a oggi) è il fatto che l’indipendenza delle banche centrali europee dell’Eurozona e quindi dell’Italia fu lo strumento più idoneo allorché si ritenne di potere e voler fare la volontà della nazione accettando, anzi, invocando, il dominio estero sulle nostre scelte di politica monetaria ed economica non in una condizione di condivisione ma, invece, di crescente sottrazione di sovranità».La tesi di Sapelli è che proprio l’Ulivo «ha rappresentato l’acme della “foreign dominance” e l’ha reso pressoché irreversibile – almeno nel breve periodo – con l’entrata nell’euro e quindi con la definitiva perdita della sovranità monetaria». Ciò che è stata una delle fasi della “foreign dominance”, ossia l’egemonia tedesca sul sistema economico e su quello monetario in primis italiano grazie all’Europa a dominazione germanica, è ormai divenuta una delle caratteristiche della stessa nazione italiana, continua Sapelli. Non ne ucsiremo, «se l’Europa non muterà volto», ossia se non si riscriverà il Trattato di Maastricht e non cadranno tutti i suoi presupposti: «Essi hanno condannato alla decadenza l’Italia, come fu nella crisi del Seicento. I mezzi furono diversi, gli esiti saranno e già sono assai simili: de-industrializzazione, depauperamento del capitale umano con la sua emigrazione da un lato e la sua emasculazione emotiva dall’altro».In parallelo, scontiamo anche la “fiscal dominance”, cioè il ruolo del Tesoro nella creazione monetaria. «Determinare la quantità di moneta e dei tassi d’interesse – scrive Sapelli – è un compito che rimane nelle mani della politica e delle istituzioni finanziarie: oppongono il principio di gerarchia a quello di mercato e allocano le risorse in questo con sistematica prevalenza». In questo senso, «il ruolo del mercato è subalterno e sottoposto al controllo politico anche in un contesto internazionale che può renderlo difficile. Ma questa è stata fondamentalmente la condizione in cui l’Italia si è trovata a operare per la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro durante tutta la sua storia sino ai primi anni Novanta del Novecento. Proprio gli anni in cui inizia l’esperienza dell’Ulivo». Una storia «contrassegnata da una diversità della “foreign dominance” anche in condizioni ben precedenti l’Ulivo», cioè sin dai tempi di Cavour, «passando per il predominio inglese e francese e poi quello tedesco che fu decisivo per la creazione del sistema bancario italiano e per inverare poi durante il fascismo paradossalmente il predomino nordamericano, con un ruolo decisivo esercitato dalla banca Morgan». Oggi, l’attuale assetto è presentato come non riformabile: dall’Ulivo in poi comanda “l’Europa”, e l’Italia affonda.Si chiama “foreign dominance”, dominio esterno: a partire dal Trattato di Maastricht, attraverso l’adesione all’euro e la direzione politica dell’Ulivo di Romano Prodi, ha decretato il declino dell’Italia, come nel Seicento. Il paese è nelle mani di potentati stranieri, in questo caso tedeschi, che stanno letteralmente deindustrializzando il paese, gettandolo in una crisi senza uscita. E’ la tesi di un economista di prestigio come il professor Giulio Sapelli: «La politica economico-monetaria dell’Ulivo ha disarmato le menti e, nel mentre, ha armato nuove classi economico-politiche cosmopolite (i Padoa Schioppa ne sono l’esempio più sconcertante), a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con i Monti, costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo-teutonici e anti-Usa, che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli e parlando del “cosmopolitismo”, ossia del servilismo internazionale degli intellettuali italiani». Abbiamo a che fare con «ragionieri del mondo, affascinati dal mito umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno, per bene agire, di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto, mito che in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo interlocutore di sostenere tale tesi».
-
Stampa-Repubblica, pensiero unico in guerra contro di noi
La sinistra comprata all’asta per smantellare i suoi valori e correre fra le braccia del business euro-atlantico. Pensiero unico, ora anche grazie al futuro super-giornale unico, la fabbrica centralizzata di “notizie” che usciranno dal matrimonio tra Fiat e De Benedetti, “Stampa” e “Gruppo Espresso”: con 5,8 milioni di lettori, 2,5 milioni di affezionati utenti del web e 750 milioni di ricavi annuali, «il nuovo colosso potrà assicurarsi il controllo essenziale sulle menti di una decisiva fetta di “decision makers”, assicurandosi inoltre una fetta assolutamente maggioritaria degli afflussi pubblicitari», sostiene Giulietto Chiesa. La posta in palio? Cementare ancora di più il consenso, che è sempre di più «la componente essenziale del grande business di convincere le grandi masse ad essere spennate dal potere». In controluce, si vede «una riformattazione dell’élite dirigente del paese», che archivi in soffitta le frange “superate dagli eventi”, quelle che “si attardano” sulla sovranità nazionale, sugli interessi dell’Italia, e che dunque «non vogliono il conflitto con la Russia».In una nota su “Sputink News”, Chiesa ricorda un recente passaggio dell’ex direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro che evoca la “logica della Fiat”, ovvero «perdere quote di sovranità pur di acquisire quella forza e quella superficie che è la miglior difesa del business e del lavoro in tempi di crisi». Dove la “superficie” metaforica di cui si parla «non è solo quella della dimensione di scala italiana, ma è quella dell’Alleanza Atlantica nel suo insieme». Torino e Roma contro Milano e il Nord-est (e anche contro il Sud del paese). «Qui c’è una parte della verità che sta sotto il tappeto. Di cui la vittima cartacea è il povero Corriere della Sera (con la moribonda Rcs abbandonata dalla Fiat, che la lascia nelle mani di Diego della Valle). Ma questi sono dettagli secondari. Come dettagli secondari sono la permanenza dei giornali della destra più o meno berlusconiana, e del solitario “Il Fatto Quotidiano”. Non è con queste forze che si potrà contrastare la marcia trionfale dei corifei unici del pensiero unico».Conclude Chiesa: «Sale in cattedra, con le sue falangi, e con il coro dei canali Rai al completo, la squadra comunicativa che tirerà la voltata di Matteo Renzi per il referendum decisivo che deciderà l’abbandono (se gli riesce, e non è ancora detto) della Costituzione Repubblicana nel corso del 2016». È la stessa squadra che in questi ultimi trent’anni ha in sostanza imposto al paese la «mappa dei valori liberal-democratici» (ancora Ezio Mauro), «stimolando la sinistra a evolversi in questa direzione». Qui, sottolinea Chiesa, “Repubblica” ha giocato il ruolo decisivo, prendendo in mano l’ex Pci «per traghettarlo, armi e bagagli, da sinistra a destra e per mettere i suoi rimasugli, mescolati a quelli della Democrazia Cristiana, nelle mani di Matteo Renzi». Unica “pecca”, di questa parabola, «il non piccolo dettaglio che, lungo la strada discendente, i valori liberaldemocratici sono stati abbandonati da qualche parte sul ciglio. Per essere sostituiti dal business e dalla guerra (che di questo gruppo editoriale nascente sarà senza alcun dubbio la doppia bandiera)».Il maxi-accordo editoriale tra i grandi giornali è perfettamente in linea con la situazione editoriale degli Usa, dove secondo Paul Craig Roberts i maggiori network mediatici della superpotenza sono ormai nelle mani di 5-6 soggetti. Idem, in Italia, il risvolto librario, con l’analogo matrimonio fra Mondadori e Rizzoli, che aumenta l’isolamento (e la debolezza, sul mercato) delle voci indipendenti. In compenso, rilevano diversi analisti, una quota sempre più importante di opinione pubblica ha smesso di fidarsi dei media mainstream, televisivi e cartacei: nessuna persona avveduta e consapevole, secondo lo stesso Craig Roberts, è più disposta a prendere sul serio la narrazione mainstream, preferendo informarsi sui blog. Per Fausto Carotenuto, già operatore strategico dei servizi segreti italiani ora militante nel network “Coscienze in Rete” che produce controinformazione, il super-potere sa di aver perso irrimediabilmente la fiducia del 20-30% della popolazione. Per questo si concentra sulla parte restante, cercando il consenso per la guerra globale in corso: contro i cittadini (perdita di diritti e quote di sovranità) e contro il resto del mondo, devastato da crisi, conflitti e terrorismi pilotati.La sinistra comprata all’asta per smantellare i suoi valori e correre fra le braccia del business euro-atlantico. Pensiero unico, ora anche grazie al futuro super-giornale unico, la fabbrica centralizzata di “notizie” che usciranno dal matrimonio tra Fiat e De Benedetti, “Stampa” e “Gruppo Espresso”: con 5,8 milioni di lettori, 2,5 milioni di affezionati utenti del web e 750 milioni di ricavi annuali, «il nuovo colosso potrà assicurarsi il controllo essenziale sulle menti di una decisiva fetta di “decision makers”, assicurandosi inoltre una fetta assolutamente maggioritaria degli afflussi pubblicitari», sostiene Giulietto Chiesa. La posta in palio? Cementare ancora di più il consenso, che è sempre di più «la componente essenziale del grande business di convincere le grandi masse ad essere spennate dal potere». In controluce, si vede «una riformattazione dell’élite dirigente del paese», che archivi in soffitta le frange “superate dagli eventi”, quelle che “si attardano” sulla sovranità nazionale, sugli interessi dell’Italia, e che dunque «non vogliono il conflitto con la Russia».
-
Tagli alla sanità, e in Italia sta aumentando la mortalità
Come al solito le veline liberiste che guidano il sistema dell’informazione (?) in Italia hanno censurato il dato più importante dell’annuale relazione della Corte dei Conti. Tutti i mass media hanno presentato la relazione come moderatamente critica verso l’ottimismo renziano. Così in fondo non si è dato fastidio a nessuno, neanche al presidente del consiglio. Luci e ombre è la formulazione che si usa nel linguaggio sindacale per convincere i lavoratori ad accettare un accordo che fa schifo. Soprattutto all’informazione di regime è piaciuto enfatizzare le critiche della Corte alla gestione governativa della spending review. In questo modo si è potuto accreditare l’idea che il governo in fondo sia uno spendaccione e che ci sarebbero ancora un bel po’ di tagli da operare, nella spesa pubblica e nello stato sociale. Così si è lavorato a due obiettivi: non approfondire troppo la critica a Renzi che vive un chiaro momento di difficoltà, e indicargli la via di uscita. Cioè quella di proseguire sulla strada indicata da Draghi, da Monti, dalla Troika, quella delle controriforme liberiste che hanno distrutto la Grecia.Non sappiamo se i giudici della Corte dei Conti abbiano anch’essi accettato questa interpretazione della loro relazione per amore di quieto vivere. Ma sta il fatto che quella relazione non dice le banalità dei titoli dei giornali, ma in realtà presenta un dato terribile. I tagli lineari fatti alla spesa pubblica da questo governo, che si sommano a quelli precedenti, hanno compromesso, la Corte usa proprio questa parola, la funzionalità e la stessa fruizione di prestazioni e servizi fondamentali. In particolare la Corte sottolinea che questa compromissione è avvenuta nella sanità, con un danno irreversibile, aggiungiamo noi, alla salute e alle aspettative di vita della parte più povera e più debole della popolazione. Anni fa il Pd criticava ferocemente la politica dei tagli lineari del ministro del tesoro Tremonti perché non si potevano tagliare allo stesso modo le spese militari e quelle per la sanità e la scuola. Ora il Pd al governo pratica assiduamente quella scelta che criticava, anzi fa peggio perché mentre taglia la sanità aumenta le spese militari. Così la salute viene compromessa per chi non può permettersi di ricorrere alla sanità privata e a pagamento. Che ovviamente prospera e distribuisce regali ai politici compiacenti, come Lombardia insegna.Intanto le statistiche ci segnalano un inspiegabile (?) improvviso aumento della mortalità, da 50 a 60.000 persone all’anno a seconda di come si leggono i dati. E anche l’allungamento dell’aspettativa di vita, usato per giustificare tutti tagli alle pensioni, pare essersi fermato. Certo in questo modo, con l’aumento della mortalità tra gli anziani, il sistema pensionistico pubblico potrà godere di bilanci migliori. Ma non mi sembra un bel risultato. Se il sistema informativo non fosse in mano a banchieri e industriali, forse la notizia che i tagli di bilancio hanno compromesso la salute degli italiani sarebbe nei titoli di testa. Siccome così non è, lo affermiamo noi nel nostro piccolo e con il nostro linguaggio: i tagli alla sanità sono atti criminali impuniti che fanno decine di migliaia di vittime.(Giorgio Cremaschi, “La notizia censurata: compromessa la salute degli italiani”, da “Micromega” del 20 febbraio 2016).Come al solito le veline liberiste che guidano il sistema dell’informazione (?) in Italia hanno censurato il dato più importante dell’annuale relazione della Corte dei Conti. Tutti i mass media hanno presentato la relazione come moderatamente critica verso l’ottimismo renziano. Così in fondo non si è dato fastidio a nessuno, neanche al presidente del consiglio. Luci e ombre è la formulazione che si usa nel linguaggio sindacale per convincere i lavoratori ad accettare un accordo che fa schifo. Soprattutto all’informazione di regime è piaciuto enfatizzare le critiche della Corte alla gestione governativa della spending review. In questo modo si è potuto accreditare l’idea che il governo in fondo sia uno spendaccione e che ci sarebbero ancora un bel po’ di tagli da operare, nella spesa pubblica e nello stato sociale. Così si è lavorato a due obiettivi: non approfondire troppo la critica a Renzi che vive un chiaro momento di difficoltà, e indicargli la via di uscita. Cioè quella di proseguire sulla strada indicata da Draghi, da Monti, dalla Troika, quella delle controriforme liberiste che hanno distrutto la Grecia.
-
Il mondo sta crollando, ma niente ferma il Tav in val Susa
Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.Il progetto Torino-Lione sembra uscito da un romanzo di Dino Buzzati: si misura essenzialmente con l’assurdo, in una dilatazione spazio-temporale che rasenta la metafisica, archiviate l’economia e l’ingegneria, la scienza dei trasporti, le cifre del mondo reale. Come se un oscuro potere imperiale, quello che assiepa soldati alla Fortezza Bastiani nell’attesa eterna nel Nemico, avesse provveduto con incrollabile fede a istruire minuziose, inarrestabili procedure per l’avanzata della Grande Opera: una ferrovia-doppione, costosissima e devastante. Una strada ferrata che resterà senza treni, per mancanza di passeggeri e di merci, e ridurrà a deserto pericoloso e tossico il territorio attraversato. Ma non hanno orecchie, i grandi decisori, per ascoltare le argomentate proteste gridate e scritte, in tonnellate di carta, da ingegneri e geologi, ambientalisti, trasportisti italiani ed europei, criminologi antimafia, sentinelle mobilitate contro la finanza-canaglia che mette insieme partiti e banche, malaffare, alta burocrazia europea, élite industriale e finanziaria. Quella talpa cieca, semplicemente, deve continuare a scavare nel debito pubblico italiano, trasformato in tragedia dalla perdita di sovranità monetaria.Resiste a tutto, il progetto Tav Torino-Lione. Era nato alla fine degli anni ‘80, in previsione del collasso dell’Urss, per collegare via terra tutta l’Europa, da Lisbona a Kiev, proseguendo la sua corsa (largamente onirica) fino a Pechino. Erano gli anni della Perestrojka, della caduta del Muro. Poi vennero gli anni ‘90, la sciagura invisibile di Maastricht, Berlusconi e l’Ulivo di Prodi, Mario Draghi e il Britannia, Padoa Schioppa, Ciampi. La crisi in Somalia, la guerra in Cecenia, la devastazione della Jugoslavia, il Kosovo. Bill Clinton, la pace tra Rabin e Arafat, l’omicidio di Rabin e quello di Arafat, la fine del Glass-Steagall Act decretata da Clinton e quindi l’avvento della super-finanza onnivora senza più freni, fino all’apocalisse della Lehman Brothers. Era in corso una guerra invisibile, ma in Italia e in Europa di respirava ancora un clima di pace sostanziale, di economia non ancora in lacrime. Poi, nel 2011, la catastrofe. La Troika, Monti, la legge Fornero, la mannaia dell’austerity, il collasso di decine di migliaia di aziende, l’esplosione della disoccupazione. Nulla, comunque, che potesse fermare gli uomini d’acciaio decisi ad azzannare le rocce di Chiomonte, sgomberando a forza gli ultimi ostinati manifestanti, insieme alle loro insopportabili ragioni, tristemente verificabili come odiose verità matematiche.Da lì in poi, l’Italia non ha fatto che sprofondare in un incubo, smarrite tutte le certezze sociali ed economiche dei decenni precedenti, tra negozi sprangati e cervelli in fuga, giovani di quarant’anni mantenuti da genitori e nonni, aziende chiuse, suicidi a catena, licenziamenti in massa. Un terremoto senza precedenti, dal 1945. Spazzate via tutte le coordinate convenzionali della vita repubblicana, le tutele del lavoro rottamate insieme alla Costituzione e al sogno di una legge elettorale democratica. E attorno, un assedio livido e minaccioso, dall’Ucraina alla Siria fino alla Libia e al massacro della Grecia, vivisezionata senza anestesia a mo’ avvertimento, per tutti. Strategia della tensione, a livello internazionale: bombe e stragi “false flag”, i finanziamenti occulti e l’esodo biblico dei profughi, il terrorismo sporco dell’Isis e gli attentati opachi di Parigi. Prospettive, zero: un giovane su due è senza lavoro. Ma, naturalmente, la talpa di Chiomonte non si ferma: scava un buco, nel futuro più cieco di tutti i tempi.La storica battaglia dei NoTav era nata e cresciuta in tempo di pace, reclamando diritti a portata di mano, fino all’altro ieri. L’ambiente, il territorio, la salute, la giustizia, la trasparenza, l’economia reale. Era un mondo dove sembrava esserci ancora spazio per discussioni ragionevoli, seduti allo stesso tavolo. Ora, non c’è più neppure il tavolo: niente intermediazioni né dialogo, nessuna possibile trattativa. Siamo al diktat del 3%, imposto del super-potere bancario per tagliare la spesa sociale, anche a costo di far crollare, di conseguenza, l’economia privata, l’occupazione e il gettito fiscale, con ripercussioni fatali sul debito. Ma non importa, stiamo entrando nell’era del Ttip. Lo Stato senza più moneta, che deve farsi approvare il bilancio a Bruxelles, non conta più niente e conterà ancora meno, quando a dettare legge saranno direttamente le multinazionali, coi tribunali speciali istituiti dal trattato Usa-Ue che sbaraccherà ogni residua sovranità nazionale e locale. Fine dei microcosmi che abbiamo abitato, per decenni, confidando nella possibilità di migliorare la situazione. I NoTav sono ancora là, in valle di Susa, con le loro bandiere. Ma tutt’intorno, l’Italia sembra non esserci più – a parte quel buco ostinato e sempre più surreale, in quest’Europa desolata dagli oligarchi.Tutto va male, anzi malissimo, e noi che facciamo? Scaviamo un buco, dal 2011, tra le montagne che separano la valle di Susa dalla Savoia. Un altro buco, molto ipotetico e molto più lungo e più grande, oltre 50 chilometri, potrebbe un giorno attraversarle, quelle montagne, grazie alla altrettanto ipotetica ferrovia Torino-Lione, ieri definita Tav, treno ad alta velocità per passeggeri, poi convertita in linea Tac (alta capacità, per le merci) dopo l’estinzione dei passeggeri, che da vent’anni ormai preferiscono i voli low-cost. Nel frattempo si sono estinte anche le merci: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa per collegare Italia e Francia è stata appena riammodernata, ma è deserta. Niente merci, niente treni. Eppure, la talpa che scava il buco – l’unico, finora, quello minuscolo, la breve galleria esplorativa di Chiomonte – non demorde, continua il suo lavoro sotterraneo tra rocce di amianto e vene radioattive di uranio. Scava il buco, la talpa, mentre l’Italia continua ad affondare, insieme a quel che resta dell’Europa, sempre più in bilico tra una pace precaria e l’assedio di una guerra deflagrante, con la certezza – ormai cronica – della cosiddetta “stagnazione secolare”, che condanna le economie del Pil alla non-crescita. Ma tutto questo, la talpa di Chiomonte non lo sa.