Archivio del Tag ‘Unione Europea’
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Soros con Renzi: Sì al referendum, cioè al diktat della Bce
Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.La legge Boschi sistematizza processi di riduzione dei poteri e dei diritti popolari e del lavoro, di centralizzazione del potere, iniziati negli anni ‘80 del secolo scorso con i governi di Bettino Craxi. Non a caso è in quegli anni che si comincia a parlare di governabilità e decisionismo. Allora si lanciò il progetto di una “grande riforma” che superasse il sistema costituzionale uscito dalla sconfitta del fascismo e rafforzasse il potere di decidere del governo e del suo capo. Craxi accompagnò questo suo disegno con il taglio per decreto legge del salario determinato dalla scala mobile. Questo per chiarire quale fosse il segno sociale ed economico del decisionismo rivendicato. Nel mondo della globalizzazione dei mercati e della speculazione finanziaria dominante sarebbe stato necessario un nuovo tipo di governo, più simile all’amministrazione di una grande impresa che al governo democratico della società.Contemporaneamente allo smantellamento di quei lacci e lacciuoli, per usare la definizione di Guido Carli, che limitavano mercato e potere d’impresa, negli anni ‘80 si diede il via alla piena affermazione del potere della finanza sul bilancio pubblico. Nel 1982 venne decisa la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, per cui da quel momento l’amministrazione pubblica per i suoi bisogni avrebbe dovuto indebitarsi con le banche e la finanza internazionale a prezzi di mercato, invece che ricorrere alla Banca d’Italia come nei decenni di crescita precedenti. Insomma negli anni 80 si misero in campo tutte le basi delle politiche liberiste contro il lavoro e i diritti sociali, poi sviluppatesi nei trenta anni successivi. Ora Renzi riprende e porta a conclusione tutti i progetti di riforma autoritaria della democrazia nati oltre trenta anni fa, contemporaneamente ed assieme all’affermazione delle politiche economiche e sociali liberiste. Il suo quindi non è un cambiamento, ma il compimento sul piano istituzionale delle politiche che da trenta anni colpiscono il lavoro.Roberto Benigni e altri sostengono però che la legge Boschi possa essere accettata proprio perché inerisce alla organizzazione del potere e non ai suoi fini, che resterebbero ancora quelli definiti nella prima parte, che non viene toccata. La Costituzione più bella del mondo resterà, dicono costoro, sarà solo più efficiente. Ma come si può sostenere che la completa riscrittura di 47 articoli della Costituzione in una volta sola lasci inalterata la nostra Carta? Se in una automobile conservo un po’ della carrozzeria esterna e cambio motore e parti meccaniche io ho un’altra vettura e anche la carrozzeria ne risentirà, sempre che non si vada a sbattere. La prima parte della Costituzione, cioè i principi sul lavoro, sulla salute, sul rapporto pubblico privato, sull’ambiente, da tempo viene devastata dalle normali leggi dei governi. Forse che acquistare un operaio come un pacchetto di sigarette dal tabaccaio, con i voucher, ha qualcosa a che vedere con il concetto costituzionale di lavoro? E la distruzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e tutte le forme di precarietà previste per legge, non espellono forse i diritti costituzionali dai luoghi di lavoro?Di Vittorio chiedeva di far entrare la Costituzione nelle fabbriche per realizzarla davvero, oggi la si estromette dal rapporto di lavoro ridotto a merce, per poi renderla vuota e inutile ovunque. E lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, i tagli alla sanità che costringono milioni di poveri a non curarsi, quelli alle pensioni, le privatizzazioni non devastano ogni principio della prima parte della Costituzione? E la guerra in violazione plateale dell’articolo 11? Da tempo la politica quotidiana dei governi vìola i principi della prima parte della Carta, la controriforma della sua seconda parte istituzionalizza e rende permanente il pratico smantellamento della prima. La nostra non è una Costituzione liberale che stabilisca semplicemente le regole del gioco per l’accesso al potere politico. Quello era lo Statuto Albertino, che permise venti anni di dittatura fascista nel rispetto delle sue regole. La nostra è una Costituzione democratica a forte caratterizzazione sociale, è una costituzione sociale.Voglio ricordare quello che secondo me è l’articolo che meglio caratterizza il senso e lo scopo della nostra Carta, l’articolo 3. All’inizio quell’articolo afferma semplicemente il principio dell’eguaglianza formale: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, fin qui siamo nel solco delle costituzioni liberali e borghesi. Ma poi nel secondo comma cambia tutto, leggiamolo: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ecco, qui la nostra Costituzione afferma che senza eguaglianza sociale non c’è davvero neppure quella formale. Marchionne che guadagna 50 milioni di euro all’anno ed un operaio Fiat che ne prende 25000 non sono eguali. L’uno ha infinitamente più potere dell’altro. Per questo il diritto del lavoro non è eguale a quello commerciale, perché la compravendita della prestazione di lavoro non avviene tra contraenti con pari forza contrattuale.Il diritto del lavoro parte dal presupposto che i rapporti di forza tra impresa e lavoratore vadano riequilibrati a favore di quest’ultimo; ed è proprio per questo che le riforme liberiste degli ultimi trenta anni smantellano il diritto del lavoro e lo sostituiscono con il diritto commerciale. Secondo la controriforma liberista il lavoro va trattato come qualsiasi altra merce e non deve essere sostenuto da leggi e tutele speciali, altrimenti verrebbero violate le sacre leggi del mercato. L’articolo 3 riconosce la disparità sociale delle classi come limite assoluto della democrazia e affida alla Repubblica il compito di “rimuovere”, apprezziamo bene la forza di questa parola, gli ostacoli economici all’eguaglianza. Chi sono i soggetti a cui la Repubblica deve offrire la sua tutela particolare, i cittadini svantaggiati genericamente intesi? No,sono proprio i lavoratori perché evidentemente per la nostra Costituzione il grado di libertà reale del paese si misura innanzitutto con quello del lavoro. Una Costituzione classista? No, democratica nel senso ampio assunto da questa parola dopo la sconfitta del fascismo.Si noti bene poi che il compito di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza non è affidato al governo o al suo capo, ma alla Repubblica. Cioè al governo, al Parlamento, alla magistratura, agli enti locali, a tutte le istituzioni politiche che compongono la Repubblica, comprese le organizzazioni che la Costituzione riconosce come fondamentali, sindacati, partiti, libere associazioni. Tutto questo è la Repubblica, che si dà il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la reale eguaglianza. La repubblica prefigurata ed organizzata dalla controriforma di Renzi è invece tutta un’altra cosa. Prima di tutto nella Costituzione renziana c’è un uomo solo al comando. Il Parlamento è composto di nominati, direttamente il Senato, indirettamente ma egualmente la Camera. Che viene eletta con una legge elettorale che concede il potere assoluto alla migliore minoranza, che potrà decidere quello che vuole, o meglio quello che vuole il suo capo, contro la maggioranza del paese che non l’ha scelta per governare. Un colpo di Stato permanente, frutto del golpe bianco che ha prodotto la stessa legge di riforma.Non dimentichiamo infatti che un Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con una maggioranza che rappresenta poco più del 20% del paese reale, ha smontato un Costituzione votata nel 1947 da oltre il 90% di una Assemblea eletta dal 90% dei cittadini. Il potere autoritario che scaturisce dai 47 nuovi articoli della Costituzione renziana distrugge l’autonomia di tutte le istituzioni della Repubblica, dal parlamento, alla magistratura, agli enti locali. I sindaci diventano impiegati del governo, visti i vincoli nazionali ed europei cui sono sottoposti secondo il nuovo articolo 119. I sindacati, anche per le complicità di Cgil, Cisl e Uil, vengono anch’essi soggiogati al sistema di potere. Che a sua volta deve obbedire a vincoli e ordini superiori, quelli dettati dal vincolo europeo. In sintesi, la controriforma della Costituzione è un tavolo a tre gambe. Quella centrale, su cui siamo chiamati ad esprimerci con il referendum, organizza il sistema di potere attorno al capo. Un’altra gamba è l’Italicum, la legge elettorale truffa che determina chi sarà il capo.La terza gamba è il nuovo articolo 81, che impone anche al capo un vincolo superiore: quello del Fiscal Compact europeo, il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente. Una repubblica autoritaria a sovranità limitata, questo è ciò che sta sul tavolo della controriforma costituzionale. Altro che rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e la partecipazione dei lavoratori, la nuova repubblica si dà un altro mandato, quello di rimuovere gli ostacoli alla libertà d’impresa. Nel nome del mercato e della austerità europea, il capo supremo deve fare sì che la repubblica sia sempre più appetibile per gli investimenti della finanza e delle multinazionali, che devono essere attirati come dice la propaganda liberista dominante. È la repubblica del Ttip, il trattato internazionale che vorrebbe concedere il diritto alla extraterritorialità giudiziaria alle multinazionali, prima di tutto sui diritti del lavoro e sulla tutela della salute e dell’ambiente.Le fonti ispiratrici di questa Costituzione di mercato sono chiaramente rintracciabili nei centri del potere finanziario europeo e multinazionale. Basta rileggersi la lettera del 5 agosto 2011, indirizzata al governo italiano da Draghi e Trichet, cioè dalla Banca Centrale Europea. Quel testo definiva un preciso programma di governo e di riforma costituzionale, realizzati poi in gran parte dagli esecutivi che si sono succeduti da allora alla guida del paese. E poi bisogna ricordare il documento del 28 maggio 2013 stilato dalla Banca Morgan, una delle grandi istituzioni della finanza speculativa mondiale. Quella banca allora scrisse in un suo documento che le riforme liberiste nei paesi europei periferici, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non si erano potute realizzare pienamente a causa degli ostacoli frapposti dalle relative costituzioni nazionali. Quelle Costituzioni, ricordava sempre la banca, figlie della sconfitta del fascismo e della parte rilevante avuta in essa dalle forze di sinistra socialiste e comuniste.Per questa ragione storica le Costituzioni antifasciste tutelano troppo il lavoro, danno troppo potere alle opposizioni così come alle regioni e ai comuni, garantiscono i sindacati e in definitiva danno potere di veto a chiunque scenda in piazza per difendere i propri interessi. Le riforme liberiste della economia e della società non avrebbero mai potuto dispiegarsi con tutta la loro efficacia senza cambiare quelle costituzioni, concludeva infine la banca. Non può esservi dubbio che la legge Boschi corrisponda meticolosamente agli indirizzi di riforma costituzionale rivendicati dalla Banca Morgan e che la sua messa in opera cancellerebbe la sostanza della Costituzione antifascista. Bisogna votare No alla controriforma, affinché l’Italia sia ancora una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sulle banche.(Giorgio Cremaschi, “Il referendum costituzionale è popolo contro banche”, da “Micromega” del 31 luglio 2016).Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.
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Monti fa ancora danni: 3 miliardi regalati a Morgan Stanley
Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.Simili operazioni, infatti, erano state stipulate anche con Deutsche Bank, Bnp Paribas, Dexia, Unicredit e Intesa Sanpaolo, che contribuì a limitare l’esborso nel 2012 subentrando tramite Banca Imi a Morgan Stanley. A tutte sarebbe stata concessa la clausola di estinzione anticipata. «La controparte non aveva mai esercitato questa clausola, poi, arrivati alla fine del 2011, in quel periodo particolarmente turbolento, fecero presente che dovevano farla valere», spiegò il direttore del debito pubblico Maria Cannata ai magistrati di Trani che indagano sulle agenzie di rating. Mario Monti ha sempre spiegato che l’Italia, in una fase di difficoltà come quella del 2011-12, non avrebbe potuto non onorare i contratti pena la perdita di credibilità. In ogni caso, Morgan Stanley riuscì a liquidare la posizione proprio mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s (di cui detiene una piccolissima quota tramite un fondo di investimento) declassava doppiamente il nostro paese. La tesi di Monti fu accolta anche dalla Procura di Roma con i pm Pignatone e Rossi, che archiviarono la posizione del senatore a vita in un’indagine conclusa senza esito l’anno scorso.La mossa della Corte dei Conti apre, però, uno scenario nuovo: quei contratti derivati hanno prodotto un danno erariale tanto all’apertura quanto alla chiusura. Questo vuol dire che allo stesso modo in cui le grandi banche hanno consentito a Prodi e D’Alema di portare l’Italia nell’euro così hanno avuto un ruolo determinante nella deposizione dell’ultimo premier legittimamente eletto. Basti ricordare il pessimo segnale per i mercati rappresentato nel giugno 2011 dalla vendita di tutti i Btp detenuti da Deutsche Bank. E basti ricordare che i primi due atti politici di Monti furono appunto la riforma delle pensioni chiesta dalla Germania e l’esborso verso Morgan Stanley come prova di affidabilità. Un meccanismo che aveva stritolato Silvio Berlusconi con la crisi da spread e con le pressioni di Francia e Germania al G20 di Cannes affinché l’Italia si mettesse sotto tutela della Troika. Un apparato di potere non estraneo al premier insediato a fine 2011 dall’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.(Gian Maria De Francesco, “Monti fa ancora danni: ci è costato altri 3 miliardi. Lo Stato li rivuole indietro”, da “Il Giornale” del 5 agosto 2016).Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.
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Craig Roberts: sembra Ue, ma è Cia. Il suo veleno? L’euro
“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.I paesi che hanno aderito all’euro devono fare affidamento su banche private per finanziare i loro deficit. Il risultato è che i paesi indebitati non possono più pagare i loro debiti con la creazione di denaro o sperare che questi debiti vengano abbassati a livelli che possono tenere sotto controllo. Invece, Grecia, Portogallo, Lettonia e Irlanda sono state saccheggiate dalle banche private. L’Ue ha costretto gli pseudo-governi di questi paesi a pagare le banche private del Nord Europa soffocando il tenore di vita delle loro popolazioni e privatizzando i beni pubblici svendendoli per due soldi rispetto al loro valore originale. Così le pensioni di anzianità, il pubblico impiego, l’istruzione e la sanità sono stati tagliati e il denaro reindirizzato alle banche private. Le aziende idriche municipali sono state privatizzate con il risultato che le bollette dell’acqua sono più elevate. E così via. Poiché non vi è alcuna ricompensa, solo punizioni, per essere un membro della Ue, perché i governi, nonostante i desideri espressi dei loro popoli, si uniscono?La risposta è che Washington ha voluto che non vi fossero altre possibilità. I fondatori europei della Ue sono creature mitiche. Washington ha utilizzato i politici pilotandoli nella creazione dell’Unione Europea. Alcuni anni fa sono stati rilasciati dei documenti della Cia che dimostrano che l’Ue è stata un’iniziativa della Cia stessa. Nel 1970 il presidente per la discussione della tesi del mio dottorato di ricerca, divenuto poi un funzionario di alto rango a Washington addetto al controllo degli affari di sicurezza internazionale, mi ha chiesto di intraprendere una missione delicata all’estero. Ho rifiutato. Tuttavia, egli ha risposto alla mia domanda: «Come fa Washington a fare in modo che i paesi stranieri facciano ciò che Washington vuole?». «Soldi», ha detto. «Diamo ai loro leader borse piene di soldi. Appartengono a noi». E’ chiaro che l’Ue serve gli interessi di Washington, non gli interessi dell’Europa. Ad esempio, il popolo francese e il governo sono contrari agli Ogm, ma l’Ue consente una “autorizzazione di mercato precauzionale” di introduzione degli Ogm, contando forse sulle “scoperte scientifiche” degli scienziati sul libro paga della Monsanto.Quando lo Stato americano del Vermont ha approvato una legge che impone l’etichettatura degli alimenti Ogm, la Monsanto gli ha fatto causa. Una volta che i funzionari dell’Ue, pagati di nascosto, firmeranno l’accordo Ttip scritto dalle multinazionali degli Stati Uniti, la Monsanto si impadronirà dell’agricoltura europea. Ma il pericolo per l’Europa va ben oltre la salute dei popoli europei, che saranno costretti a nutrirsi di cibi velenosi. Washington sta usando l’Ue per costringere gli europei a entrare in conflitto con la Russia, una potenza nucleare in grado di distruggere tutta l’Europa e tutti gli Stati Uniti in pochi minuti. Ciò sta accadendo perché i “leader” europei, pagati di nascosto con “borse piene di denaro”, hanno preferito avere il denaro di Washington nel breve periodo piuttosto che garantire la vita degli europei nel lungo periodo. Non è possibile che qualsiasi politico europeo sia sufficientemente idiota da credere che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina, che la Russia da un momento all’altro invaderà la Polonia e gli Stati baltici, o che Putin sia un “nuovo Hitler” che progetta di ricostruire l’impero sovietico. Queste accuse assurde non sono altro che propaganda di Washington priva di qualsiasi verità. Tutto ciò è evidente. Nemmeno un idiota potrebbe crederci. Eppure l’Unione Europea va di pari passo con la propaganda, come fa la Nato. Perché?La risposta è il denaro di Washington. L’Ue e la Nato sono assolutamente corrotte. Sono le puttane ben pagate di Washington. L’unico modo che gli europei hanno per impedire una Terza Guerra Mondiale nucleare, e continuare a vivere e godere di ciò che resta della loro cultura (che gli americani non sono riusciti a distruggere con la loro cultura di sesso, violenza e avidità) è, per i governi europei, quello di seguire l’esempio del governo inglese e uscire dall’Unione Europea creata dalla Cia. E l’uscita dalla Nato, il cui scopo è evaporato con il crollo dell’Unione Sovietica, e che ora viene usata come uno strumento di egemonia mondiale da parte di Washington. Perché gli europei vogliono morire per favorire l’egemonia mondiale di Washington? Ciò significa che gli europei stessi stanno morendo a causa di questa egemonia (esercitata allo stesso modo sull’Europa). Perché gli europei vogliono sostenere Washington, i cui alti funzionari, come Victoria Nuland, dicono “l’Unione Europea si fotta”? Gli europei stanno già soffrendo a causa delle sanzioni economiche che il loro signore a Washington li ha costretti ad applicare nei confronti della Russia e dell’Iran. Perché gli europei desiderano essere distrutti da una guerra contro la Russia? Gli europei vogliono forse morire?Sono stati americanizzati e non apprezzano più l’enorme quantità di bellezze artistiche e architettoniche, letterarie e musicali di cui i loro paesi sono custodi? La risposta è che non fa alcuna differenza che cosa pensino gli europei, perché Washington ha istituito per loro un governo che è totalmente indipendente dalla loro volontà. Il governo dell’Ue è tenuto a rispondere solo per il denaro di Washington. Alcune persone capaci di emettere editti sono sul libro paga di Washington. Gli interi popoli d’Europa sono servi di Washington. Pertanto, se gli europei rimangono i popoli creduloni, indifferenti e stupidi che attualmente sono, verranno condannati, assieme al resto di noi. D’altra parte, se i popoli europei saranno in grado di rinsavire, di liberarsi dalla Matrix che Washington ha imposto su di loro, e di rivoltarsi contro gli agenti di Washington che li controllano, i popoli europei potranno salvare la propria vita e la vita di tutti noi.(Paul Craig Roberts, “L’Ue è condannata al vassallaggio nei confronti di Washington”, dal blog di Craig Roberts del 27 luglio 2016, tradotto da “Desastrado” per “Come Don Chisciotte”. Eminente analista ed economista statunitense, Roberts è stato viceministro del Tesoro con Ronald Reagan).“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.
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La crisi dei rifugiati, miniera d’oro per l’industria delle armi
Lo rivela il rapporto “Border Wars: The Arms Dealers profiting from Europe’s Refugee Tragedy” (Frontiera di guerra. Come i produttori di armamenti traggono profitto dalla tragedia dei rifugiati in Europa) promosso dalla Ong olandese Stop Wapenhandel e pubblicato dal Transnational Institute con rilancio italiano da parte della Rete Italiana per il Disarmo. Ciò conferma il sentimento diffuso, e reso palese dal recente voto di protesta nel Regno Unito riguardo alla permanenza nell’Ue (Brexit), che a Bruxelles il potere corporativo delle aziende sta pervertendo le politiche dell’Ue. Per riconquistare la fiducia dei cittadini l’Ue deve mettere in campo una risposta seria alla crisi dei rifugiati invece di continuare a promuovere i profitti delle industrie del settore militare. Il rapporto analizza il fiorente mercato della sicurezza delle frontiere che ha saputo sfruttare gli annunci del programma di “contrasto all’immigrazione clandestina”. Annunci che sono andati crescendo con l’arrivo di migliaia di profughi dalla Siria dilaniata dalla guerra. Stimato in circa 15 miliardi di euro nel 2015, questo mercato si prevede supererà i 29 miliardi di euro nel 2022.Tra i big player del settore della sicurezza dei confini dell’Europa figurano aziende che producono sistemi militari come Airbus, Finmeccanica (che di recente ha assunto il nome Leonardo), Thales e Safran ed il gigante del settore tecnologico Indra. Tre di queste imprese (cioè Airbus, Finmeccanica e Thales) sono anche tra le prime quattro aziende europee esportatrici di sistemi militari: tutte sono attive nel vendere i propri sistemi ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, alimentando i conflitti che sono all’origine della fuga di intere popolazioni in cerca di rifugio. Tra il 2005 e il 2014, gli Stati membri dell’Ue hanno autorizzato a queste ed altre aziende oltre 82 miliardi di euro di licenze per esportazioni verso Medio Oriente e Nord Africa. La risposta delle politiche dell’Ue per i rifugiati, che si è concentrata sul contrasto ai trafficanti e nel rafforzare le frontiere esterne (anche in paesi al di fuori dell’Unione Europea), ha portato a consistenti aumenti di bilancio a tutto vantaggio dell’industria degli armamenti.Il finanziamento complessivo dell’Ue per le misure di sicurezza dei confini degli Stati membri attraverso i principali programmi di finanziamento nel periodo tra il 2004 e il 2020 è di 4,5 miliardi di euro. Frontex, la principale agenzia di controllo delle frontiere, ha visto accrescere il proprio bilancio del 3.688% tra il 2005 e il 2016 portandolo da 6,3 milioni a 238,7 milioni di euro. L’industria degli armamenti e della sicurezza ha ottenuto anche gran parte dei finanziamenti di 316 milioni di euro forniti dall’Ue per la ricerca in materia di sicurezza. «E’ perverso e immorale – commenta Mark Akkerman, autore del rapporto e membro di Stop Wapenhandel – che le aziende che hanno contribuito ad alimentare la crisi traggano adesso profitto dal difendere i confini dell’Europa. Questo certamente garantisce la sicurezza degli amministratori delegati e degli azionisti delle imprese di armamenti, ma sta di fatto accrescendo l’insicurezza collettiva e la sofferenza per i rifugiati».«Purtroppo non è stupefacente vedere anche Finmeccanica-Leonardo tra i principali destinatari di questa enorme massa di fondi – aggiunge Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo – grazie ai quali l’azienda controllata dallo Stato italiano può accrescere il proprio fatturato. Mentre, al contrario, sarebbero necessari investimenti di tutt’altra natura per ottenere soluzioni vere alle dinamiche migratorie attuali. Fin da subito la nostra Rete ha commentato negativamente la crescita dei fondi per una risposta meramente muscolare e di controllo (comunque impossibile) delle frontiere. Una scelta che è ancora più miope ed insensata se si va a considerare l’enorme numero di profughi che stanno scappando dalle guerre alimentate dalle armi prodotte e vendute da queste stesse industrie militari». Oltre a rivelare le aziende che traggono profitti dalla crisi dei rifugiati, il rapporto mostra anche come l’industria della sicurezza e degli armamenti abbia contribuito a determinare la politica europea di sicurezza delle frontiere con attività di lobby e per mezzo delle regolari interazioni con le istituzioni dell’Ue per le frontiere e anche delineando le politiche di ricerca.L’Organizzazione europea per la Sicurezza (Eos), che comprende Thales, Finmecannica e Airbus, ha fatto pressioni per una maggiore sicurezza delle frontiere. Inoltre, molte delle sue proposte, come ad esempio la spinta ad istituire un’agenzia europea per la sicurezza delle frontiere, sono diventate politiche europee: è il caso, ad esempio, della trasformazione di Frontex in “Guardia costiera e di frontiera europea” (European Border and Coast Guard – Ebcg). «Mentre l’Ue chiude l’ingresso a persone disperate che fuggono dalla guerra, spalanca le porte ai produttori di armamenti che commerciano morte e che ora presidiano i nostri confini», commenta Nick Buxton del Transnational Institute, co-editore del rapporto. «Per affrontare davvero la crisi dei rifugiati, dobbiamo innanzitutto smettere di alimentare i conflitti e investire il denaro speso a favore delle aziende della sicurezza e della difesa per fornire un passaggio sicuro e un equo trattamento dei rifugiati».Lo rivela il rapporto “Border Wars: The Arms Dealers profiting from Europe’s Refugee Tragedy” (Frontiera di guerra. Come i produttori di armamenti traggono profitto dalla tragedia dei rifugiati in Europa) promosso dalla Ong olandese Stop Wapenhandel e pubblicato dal Transnational Institute con rilancio italiano da parte della Rete Italiana per il Disarmo. Ciò conferma il sentimento diffuso, e reso palese dal recente voto di protesta nel Regno Unito riguardo alla permanenza nell’Ue (Brexit), che a Bruxelles il potere corporativo delle aziende sta pervertendo le politiche dell’Ue. Per riconquistare la fiducia dei cittadini l’Ue deve mettere in campo una risposta seria alla crisi dei rifugiati invece di continuare a promuovere i profitti delle industrie del settore militare. Il rapporto analizza il fiorente mercato della sicurezza delle frontiere che ha saputo sfruttare gli annunci del programma di “contrasto all’immigrazione clandestina”. Annunci che sono andati crescendo con l’arrivo di migliaia di profughi dalla Siria dilaniata dalla guerra. Stimato in circa 15 miliardi di euro nel 2015, questo mercato si prevede supererà i 29 miliardi di euro nel 2022.
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L’auto-golpe del boia Erdogan, ladrone e super-terrorista
“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia. Ci possono essere dissapori, tra il maniaco criminale di Ankara e quelli di Washington. Che so, sui curdi, sulla gestione del califfo, su pace o guerra con Mosca o Iran, ma mettere in discussione un pilastro Nato piantato in mezzo a Medioriente e Asia, ai confini della Russia che delenda est, una forza militare che è la seconda dell’Occidente dopo gli Usa, un regime che tiene appesa al gancio del collasso da migrazioni l’Unione Europea, ecchè, vogliamo metterlo in discussione?E allora tutti, da Obama al “Manifesto”, lungo l’intero arco atlantico da destra a sinistra, a inneggiare alla preservazione delle istituzioni, dei diritti civili e del governo democraticamente (sic!) eletto, con qualcuno dal sottofondo che flauteggia l’auspicio che Erdogan si ravveda e non ne combini più delle sue. Non se ne preoccupa più di tanto Tommaso De Francesco, del quotidiano cripto-Nato, ma con etichetta comunista, il quale non fa che inanellare scemenze e insipienze da quando attribuì a Milosevic despotismo e pulizie etniche e in questo caso, con una Turchia chiaramente spaccata a metà tra affascinati dalla Sharìa e resistenti umani, individua un “Erdogan ferito”, ma anche un “popolo turco”, tutto intero, sdraiatosi davanti ai carri armati come a Tien An Men, in difesa del suo presidente, “democraticamente eletto”. Già gli erano svaporati dalle malferme sinapsi i milioni che negli anni si sono ritrovati nelle piazze, da Dyiarbakir a Istanbul, per farsi sparare addosso dagli sgherri del democraticamente eletto.Divertente poi la linea a balzelloni del giornaletto restituito a malavita (lo ha annunciato l’altro giorno) e alla sua cooperativa più che da lettori fedeli, dai paginoni dei compagni di Eni, Enrel, Telecom, Enav, Coop. Come quando con il suo responsabile esteri sentenzia un Erdogan fragile e indebolito dall’emergere di un elemento di contrasto capace di tenerlo sulla corda per ben tre ore di golpe, nientemeno, mentre l’altro redattore si piega alla realtà di un presidente tornato in grande spolvero e ora in grado spazzare via ogni residuo di opposizione. Ma che riunioni di redazione fanno? Torniamo al “golpe”, auto. Quello sul cui fallimento il “Manifesto” e tanta stampa (un po’ meno lo scaltro “Il Fatto”) si azzarda a ricostruire la «centralità del Parlamento e del ruolo fondamentale dei partiti politici nel gioco democratico» (sic!): esattamente, ed è naturale, i termini in cui hanno salutato il salvataggio della democrazia da parte del più turpe energumeno nazista dell’area gli zii della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Pentagono e, scendendo molto in basso per li rami, pure Matteo Renzi e – qui ci scappelliamo – l’eurodama Mogherini.Ebbene qualcuno si ricorda dei colpi di Stato effettuati dai militari turchi ogni qualvolta sospettavano che l’eredità nazionale e laica di Ataturk fosse posta a repentaglio da destra o sinistra? E qualcuno gli ha messo a confronto quiell’aborto di colpetto di Stato della notte tra il 15 e il 16 luglio 2016? Hanno occupato la tv di Stato, ma non le tv private, tutte infeudate a Erdogan, non la Cnn turca (braccio mediatico Nato e Usa) dalla quale è difatti ripartito il controgolpe, cioè il colpo di Stato vero, con la trasmissione da smartphone dell’appello di Erdogan al pogrom antimilitare. Non hanno fatto nessuna delle cose che potevano assicurare il successo di una liberazione militare del popolo turco dalla Vergine di Norimberga in cui progressivamente lo ha rinchiuso il suo Torquemada. Non hanno spento i ripetitori delle telecomunicazioni, i cellulari, internet, non hanno ordinato il coprifuoco e proclamato la legge marziale, non hanno occupato i ministeri, appena qualche tank sui ponti sul Bosforo, di grande visibilità e dove sarebbero potuti arrivare in poco tempo e in tanti a “difendere la democrazia”.Non hanno occupato alcuna via di comunicazione strategica nel paese e tra il paese e i vicini, non hanno occupato le prefetture, presidiato i nodi ferroviari, bloccato gli aeroporti (solo per finta quello di Istanbul dove Erdogan è potuto subito arrivare dal suo luogo di vacanze, a Marmaris, che nessuno si è sognato di bombardare o occupare). Nel tempo delle immagini e dei leaderismi che ne scaturiscono non hanno saputo produrre un nome e una figura carismatica di riferimento, non hanno usato i social network. Dilettantismo di quattro sprovveduti, per quanto bene intenzionati, che non hanno neanche ricordato che i colpi di Stato si fanno a notte fonda, prima dell’alba, quando non si corre l’inconveniente di gente sveglia e per strada. E così le Cnn e le tv associate al disegno del despota hanno potuto riprendere strade e piazze con qualche centinaio di persone, emerse da discoteche e trattorie e poi moltiplicati dagli accorsi agli appelli di Erdogan liberamente trasmessi, simulando una rivolta di massa contro i carri.Poi è finito tutto. Salvo per i 300 morti, per ora, i 6000 arrestati, per ora, i 3000 magistrati dimessi e poi incarcerati, la campagna di linciaggi lanciata contro i soldati “traviati”, piazza pulita di tutti i critici e irriverenti, l’immaginabilissima ulteriore stretta sui diritti politici, civili, operai, la continuità del doppio forno antisiriano (alleanza con Isis, finto guerra all’Isis), lo sprofondare del paese in un abisso di regressione politica e culturale. Una Turchia degna dell’ingresso nell’Ue,vero modello avanzato di quanto si ha in mente a Bruxelles, Washington e tra coloro che brandiscono Nato e Ttip, tanto per assicurarci sulla «centralità del Parlamento turco e dei partiti come attori fondamentali del gioco democratico», come titola il foglio cripto-Nato su un pezzo davvero turco di tale Mariano Giustino. Cosa può essere successo?Che gli attentati finalizzati, come in Francia, come ovunque, ad accelerare la marcia verso lo Stato con gli stivali chiodati e a passo dell’oca non erano riusciti a far ingranare la quarta. Che nell’esercito, per quanto epurato, sopravvivevano fermenti laici, nazionalisti, in disaccordo con le catastrofiche imprese esterne e interne di un regime che andava isolandosi da tutti. Che si è lasciato che i portatori di questi fermenti, nei gradi medio-alti, congiurassero, che magari con agenti provocatori li si incoraggiasse, che addirittura gli si facesse balenare un appoggio euro-atlantico, che poi li si inducesse a commettere le ingenuità, gli errori clamorosi che si sono visti, nell’illusione, loro, che si sarebbero tirati dietro popolo e armate.Tutti a sottolineare il silenzio delle cancellerie occidentali, Obama, Merkel, Juncker, May, Hollande e Renzi (per quel che conta), nelle tre ore del golpe, interpretato e biasimato come un barcamenarsi in attesa di sapere chi avrebbe vinto. Balle! Sapevano benissimo chi avrebbe vinto, ma, davanti all’immagine del golem turco insediatasi ormai nella percezione della gente pensante in tutta la sua orripilante identità di padrino del terrorismo jihadista, massacratore del suo e di altri popoli, corrotto ladrone e capo di un clan di malfattori senza scrupoli, conveniva mostrare qualche disponibilità a chi aveva proclamato nel suo comunicato il «ritorno alla democrazia e al rispetto dei dirtti umani e la pace e amicizia con tutti i popoli vicini». Ovviamente anatema per la Nato e per un’Europa che si muove, per ora con mocassini e tacchi a spillo, nella stessa direzione.Pensate se avesse vinto il colpo di Stato. Via i Fratelli Musulmani, quelli tanto cari al “Manifesto”, ormai nettamene minoritari nella regione (Tunisia, Qatar e Turchia). Cioè via la forza sociale, militare e culturale ideata e nutrita dai colonialismi vecchi e nuovi a garanzia dei propri modelli di sviluppo e di sfruttamento, del proprio ordine mondiale. Al suo posto una realtà imprevedibile e incalcolabile, con rigurgiti nazionalisti e statalisti suscettibili di guardare oltre il soffocante perimetro delle alleanze e dipendenze occidentali, sicuramente laica e, dunque, ostica ai processi di decerebramento religioso che servono a neutralizzare nostalgie di autodeterminazione popolare e nazionale. Quelle che hanno animato alla rivolta alcune decine di milioni di egiziani, dopo aver assaporato la medicina dei Fratelli Musulmani e dei loro surrogati terroristici, sotto un presidente eletto “democraticamente” dal 17% della popolazione in un voto boicottato dalla maggioranza, che aveva imposto la sharìa, sparato sui manifestanti, incarcerato gli oppositori, bruciato le chiese cristiane, trasferito tagliagole in Siria e i cui seguaci ora assassinano civili, funzionari e poliziotti in una guerra terroristica che tutti preferiscono nascondere sotto le presunte infamie di Abdelfatah Al Sisi.Avessero vinto in Turchia i militari, ontologicamente fascisti secondo un’aporia di sinistra, a dispetto di dimostrazioni storiche contrarie, ci saremmo giocati «la centralità del Parlamento turco e dei partiti nel loro ruolo di attori fondamentali del gioco democratico», come temeva il “Manifesto” e tutto il cucuzzaro destro-sinistro dell’atlantismo? Chi lo sa. Di sicuro c’è che, come Al Sisi è meglio di Morsi per gli egiziani, gli arabi, il Medioriente, il movimento delle cellule cerebrali dell’essere umano, difficilmente qualcuno di quelli che si sono agitati l’altra notte a Istanbul avrebbe potuto essere peggio di Erdogan, il padrino degli squartatori del popolo iracheno, libico e siriano. Certo che la Nato, John Negroponte, l’Mi6, la Cia, Oxford Analytica e il “manifesto”, a questo qualcuno non avrebbero esitato un attimo a spedigli un Giulio Regeni, poveretto.(Fulvio Grimaldi, “Turchia, fanno tutto da soli e sono capaci di tutto”, da “Mondocane” del 17 luglio 2016).“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre” (Frank Zappa). “Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali” (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880). Partiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2011, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.
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Magaldi: da Nizza ad Ankara, nessuno vi racconta la verità
Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.Primo capitolo, la Francia: il paese è chiaramente sotto attacco a partire dalla strage della redazione di Charlie Hebdo, le cui indagini sono state fermate dal governo Hollande con l’apposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura parigina, della triangolazione che ha coinvolto la Dgse, cioè i servizi segreti francesi, nella fornitura di armi al commando-killer (armi slovacche, acquistate in Belgio sotto la copertura dell’intelligence). Il grande spauracchio dell’ultimo scorcio si chiama Isis? Si tratta di un paravento, sostiene Magaldi, nonché di una “firma”: Isis è anche il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor, e Hathor Pentalpha è il nome della “loggia del sangue e della vendetta” fondata nel 1980 da Bush padre quando fu battuto da Reagan alle primarie repubblicane. A quella cupola di potere, sempre secondo Magaldi, è ascrivibile la regia dell’11 Settembre, con annessa “fabbricazione del nemico”, da Al-Qaeda a Saddam Hussein: della Hathor Pentalpha, scrive Magaldi, hanno fatte parte sia Tony Blair, “l’inventore” delle armi di distruzione di massa irachene, sia Nicolas Sarkozy, il demolitore del regime di Gheddafi. E inoltre lo stesso Erdogan, il massimo padrino dell’Isis.«Da fonti riservate – racconta Magaldi a “Colors Radio” – sapevo con certezza che in Turchia si stesse preparando un golpe: non il maldestro tentativo cui abbiamo appena assistito, facilmente controllato da Erdogan, ma un golpe autentico, programmato per l’autunno». Niente di più facile che il “sultano” l’abbia semplicemente anticipato, in modo farsesco, provando a disinnescare la minaccia. Ma attenzione: «Erdogan sa benissimo che i suoi veri, potenti nemici non sono toccabili: la sua repressione, feroce e molto rumorosa, non li sfiorerà neppure. Nel caso di un golpe a tutti gli effetti, quindi con il coinvolgimento dei massimi vertici dell’esercito, della marina e dell’aviazione, oltre che con la partecipazione degli Usa e di Israele, Erdogan verrebbe liquidato in poche ore, arrestato o ucciso». Cosa manca, al puzzle? Il piatto forte: le elezioni Usa. Solo allora, cioè dopo novembre, è plausibile che il quadro geopolitico possa chiarirsi. A cominciare da Ankara: al di là del chiasso organizzato in queste ore da Erdogan, dice Magaldi, la Turchia non ha ancora deciso “cosa fare da grande”. E soprattutto: come chiudere la pratica Isis, di cui resta la principale azionista.Quanto alla strage di Nizza, si tratta della «ripetizione ormai stanca» di un copione già invecchiato, quello dei tagliatori di teste che hanno seminato il terrore – con sapiente regia hollywoodiana – tra Iraq e Siria. La dominante, oggi, si chiama caos. E nessuno – tantomeno Erdogan – sa esattamente cosa accadrà domani, ovvero: su quale configurazione di forze si baseranno i poteri forti, anche super-massonici, che finora hanno assegnato precisi spazi agli attori sul terreno, da Obama a Putin, dalla Merkel a Erdogan. Sempre secondo Magaldi, il network trasversale della super-massoneria progressista si è impegnato con successo nelle primarie Usa, da un lato lanciando Bernie Sanders per spostare a sinistra la politica della Clinton, e dall’altro utilizzando Donald Trump come cavallo di Troia per eliminare dalla corsa il pericolo numero uno, Jeb Bush, ultimo esemplare della filiera Hathor Pentalpha. Comunque vada a novembre, conclude Magaldi, gli “architetti del terrore” dovrebbero finalmente perdere terreno: la stessa Clinton si starebbe smarcando da certi legami pericolosi con i settori più opachi del potere di Washington, e Trump non sarebbe certo disponibile a coprire azioni di macelleria internazionale come quelle a cui stiamo assistendo.Una grande retromarcia, dopo 15 anni di orrori? Qualche segnale lo stiamo già avendo, dice un altro analista dal solido retroterra massonica come Gianfranco Carpeoro: a inquietare i gestori del massimo potere è proprio la recente “diserzione” di una parte del vertice planetario, non più disposto ad avallare la strategia della tensione (da Bin Laden al Califfato) promossa dall’élite neo-aristocratica, quella che ha cinicamente ideato e gestito l’austerity europea incarnata da Draghi e Merkel. Se cresce il bilancio di sangue, anche in Europa – questa la tesi – è perché il potere oligarchico si sta indebolendo e teme di perdere la sua presa. E’ di ieri lo strappo del Brexit, e la Francia resta sotto tiro anche per via del suo ruolo-cardine in una struttura antidemocratica come l’attuale Unione Europea. I tempi stanno per cambiare? Se sì, a quanto pare, non sarà una passeggiata: è saggio aspettarsi di tutto, in questa fase di incertissima transizione. Certo, dice ancora Magaldi, bisogna tenere gli occhi aperti: è impensabile che la sicurezza francese abbia potuto “dimenticarsi” di quel camion-killer, parcheggiato da giorni sul lungomare di Nizza. E forse il primo a cadere sarà proprio il capo della “democratura” turca: «Erdogan sembra forte, ma in realtà è fragilissimo». Un consiglio? Allacciare le cinture, in attesa delle elezioni Usa.Toglietevi dalla testa l’idea che un pazzo solitario abbia compiuto la strage sul lungomare di Nizza, non casualmente programmata il 14 luglio, data simbolo della principale rivoluzione europea attuata dalla massoneria progressista. Di qui l’automatismo che collega il massacro francese alla “risposta” andata in scena poche ore dopo in Turchia, paese amministrato dall’oligarca Erdogan, esponente del vertice internazionale della super-massoneria di destra. E’ la lettura fornita da Gioele Magaldi, massone a sua volta, già gran maestro della loggia romana Monte Sion, poi fondatore del Grande Oriente Democratico e transitato nella superloggia Thomas Paine. A fine 2014, col dirompente saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” edito da Chiarelettere, Magaldi ha svelato inquietanti retroscena del massimo potere mondiale, spiegando il ruolo di 36 Ur-Lodges (logge madri, a carattere cosmopolita) nella genesi delle principali decisioni politiche, militari, economiche e finanziarie dell’ultimo mezzo secolo: rivoluzioni e colpi di Stato, terrorismo e strategia della tensione, welfare democratico e involuzioni autoritarie, fino all’avvento della globalizzazione a mano armata e della “guerra infinita” inaugurata dalla tragedia dell’11 Settembre.
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Il massone Erdogan, Hathor-Pentalpha e i ragazzi dell’Isis
Si è auto-organizzato un golpe-farsa per liquidare l’opposizione residua? Lo sospettano in molti. Ma Recep Tayyp Erdogan, leader di un paese che è il bastione della Nato in Medio Oriente nonché la principale “diga” dell’Unione Europea contro l’esodo dei migranti in fuga dalla guerra in Siria, è anche il principale fiancheggiatore dell’Isis: nei mesi scorsi, la Russia ha dimostrato che la Turchia acquistava il petrolio contrabbandato dallo Stato Islamico, dopo aver allestito – di concerto con gli Usa – le retrovie logistiche dei jihadisti impegnati nel tentativo di rovesciare sanguinosamente il regime di Bashar Assad. Ma c’è altro, che i media non raccontano. Secondo Gioele Magaldi, autore di “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Erdogan milita da anni nella superloggia internazionale “Hathor Pentalpha”, ritenuta responsabile della strategia della tensione globale innescata dall’11 Settembre. Una “guerra infinita” che ha travolto Afghanistan e Iraq, Yemen, Egitto, Libia, Siria.La “Hathor Pentalpha”, scrive Magaldi, fu fondata da Bush padre all’indomani della sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane all’inizio degli anni ‘80. Definita “loggia del sangue e della vendetta”, avrebbe annoverato trai suoi membri Bush junior e la sua cerchia di potere, gli uomini del Pnac, e poi leader europei come Nicolas Sarkozy e Tony Blair, oggi sotto accusa per la montatura delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam. E tra gli esponenti di quel circolo ultra-esclusivo figurerebbe lo stesso Erdogan: il leader più vicino all’Isis, al punto da far abbattere un jet russo Sukhoi-24 impegnato nei bombardamenti contro le truppe del Califfo (e le colonne di autocisterne col petrolio jihadista diretto in Turchia). Sempre Magaldi spiega che Isis, acronimo di “Stato Islamico della Siria e del Levante”, è anche – e soprattutto – un chiaro riferimento alla dea egizia Iside, il cui secondo nome è Hathor. Un modo per “firmare”, simbolicamente, la nascita dell’armata di tagliagole messa in piedi dall’Occidente con l’aiuto della Turchia.Analisti geopolitici come Aldo Giannuli sostengono che siamo di fronte a un inizio di terremoto, con clamorosi rivolgimenti in tutta l’area. Si ipotizza ad esempio che Erdogan, incassato il sostegno popolare e avviato uno spietato giro di vite contro i dissidenti, incluso un vero e proprio bagno di sangue, possa “divorziare” improvvisamente dall’Isis, presentandosi al mondo come garante del nuovo ordine, o al contrario mettersi ufficialmente alla testa del Califfato, riportato però sotto il pieno controllo turco. Sui media rimbalzano i titoli che raccontano la crisi dei rapporti fra Ankara e Washington, ma è impossibile reperire notizie sulla militanza di Erdogan nella super-massoneria internazionale neo-aristocratica e ultra-conservatrice, quella che lavora per imporre, anche e sopprattutto con il sangue e il terrorismo, la fine della democrazia. Se il leader turco è ancora inserito in quel circuito, è difficile immaginare che le sue mosse non siano concertate con il vertice-ombra dei grandi architetti del terrore.Si è auto-organizzato un golpe-farsa per liquidare l’opposizione residua? Lo sospettano in molti. Ma Recep Tayyp Erdogan, leader di un paese che è il bastione della Nato in Medio Oriente nonché la principale “diga” dell’Unione Europea contro l’esodo dei migranti in fuga dalla guerra in Siria, è anche il principale fiancheggiatore dell’Isis: nei mesi scorsi, la Russia ha dimostrato che la Turchia acquistava il petrolio contrabbandato dallo Stato Islamico, dopo aver allestito – di concerto con gli Usa – le retrovie logistiche dei jihadisti impegnati nel tentativo di rovesciare sanguinosamente il regime di Bashar Assad. Ma c’è altro, che i media non raccontano. Secondo Gioele Magaldi, autore di “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Erdogan milita da anni nella superloggia internazionale “Hathor Pentalpha”, ritenuta responsabile della strategia della tensione globale innescata dall’11 Settembre. Una “guerra infinita” che ha travolto Afghanistan e Iraq, Yemen, Egitto, Libia, Siria.
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I 5 Stelle: basta terrore, l’Italia si smarchi da Ue e Nato
Dopo la strage di Nizza del 14 luglio e il fallito golpe in Turchia, il Movimento 5 Stelle batte un colpo e chiede apertamente che l’Italia si smarchi dal guinzaglio Usa-Ue. «Gli ultimi eventi europei impongono a tutti i cittadini una profonda riflessione a proposito della politica estera italiana», spiegano i 5 Stelle in una nota sul blog di Grillo, accompagnata da un video-editoriale del deputato Manlio Di Stefano. «Il governo è totalmente in preda agli eventi, elargisce solidarietà a destra e a manca ma non agisce in alcun modo, anche perché tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra», è la premessa. L’esecutivo «nicchia, non prende posizione, si accoda alle grandi cordate e non si guarda dentro». Tocca quindi al Parlamento provare a fare «quello che il governo non ha il coraggio di fare», ovvero: «Discutere di un cambio nella nostra politica estera». Tema decisivo e urgentissimo, dal momento che «tutt’intorno una Terza Guerra Mondiale a pezzetti prende sempre più piede».Dai 5 Stelle, dunque, anche una lettera ai presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Piero Grasso. «Ci troviamo in una fase cruciale e la paura è il denominatore comune che ci sta accompagnando in questi mesi convulsi, segnale dell’impotenza e dello stato confusionale in cui versa l’establishment euro-atlantico», scrivono i grillini. L’Unione Europea «appare come un ‘contenitore geopolitico’ incapace di adeguarsi ai mutamenti in atto e dare risposte in termini di sicurezza e lotta al terrorismo». Attenzione: «L’intera impalcatura su cui è costruito il potere del sistema euro-atlantico sembra essere ormai vicina al collasso». Consci della gravità del problema, i 5 Stelle questo chiedono «una svolta nella politica estera e una reale volontà politica nel farlo». In altre parole, «l’Italia ha l’obbligo di tornare ad esprimere una politica estera sempre più autonoma e che abbia come principale interesse la sicurezza nazionale. Una politica estera non più schiava di decisioni altrui che negli ultimi anni si sono rivelate drammatici fallimenti».Come forza principale di opposizione, i 5 Stelle chiedono di inserire nell’agenda parlamentare un dibattitto su temi strategici, a cominciare dalla «ridiscussione del ruolo e degli accordi con la Turchia, come principale alleato nella gestione dell’immigrazione, alla luce degli ultimi eventi». I grillini vogliono anche ridiscutere la decisione emersa nell’ultimo vertice Nato di proseguire la missione militare in Afghanistan, per la quale si chiede all’Italia un impegno più consistente. Altra proposta: «Non destinare più nostri finanziamenti a paesi come l’Arabia Saudita, il Qatar e i paesi del Golfo a causa della loro ambiguità con il terrorismo internazionale», oggi targato Isis, introducendo anche una moratoria sulle armi da fuoco. Infine, i parlamentari grillini chiedono al governo Renzi di instaurare «una collaborazione senza precedenti tra le forze di intelligence dei paesi Ue, Nato e della Federazione russa».Dopo la strage di Nizza del 14 luglio e il fallito golpe in Turchia, il Movimento 5 Stelle batte un colpo e chiede apertamente che l’Italia si smarchi dal guinzaglio Usa-Ue. «Gli ultimi eventi europei impongono a tutti i cittadini una profonda riflessione a proposito della politica estera italiana», spiegano i 5 Stelle in una nota sul blog di Grillo, accompagnata da un video-editoriale del deputato Manlio Di Stefano. «Il governo è totalmente in preda agli eventi, elargisce solidarietà a destra e a manca ma non agisce in alcun modo, anche perché tirato per la giacchetta da una parte e dall’altra», è la premessa. L’esecutivo «nicchia, non prende posizione, si accoda alle grandi cordate e non si guarda dentro». Tocca quindi al Parlamento provare a fare «quello che il governo non ha il coraggio di fare», ovvero: «Discutere di un cambio nella nostra politica estera». Tema decisivo e urgentissimo, dal momento che «tutt’intorno una Terza Guerra Mondiale a pezzetti prende sempre più piede».
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Galloni: economia per noi, non contro. Politici, dove siete?
Il baratro: le banche, i mercati e la finanza. Sempre lì siamo. E’ il conto che tutti paghiamo al dominio del pensiero unico di matrice neoconservatrice, quello che dagli anni Ottanta ha imposto un modello capitalistico irresponsabile che oggi non è più nemmeno di mercato ma guidato da algoritmi matematici. Il suo obiettivo è massimizzare l’emissione di titoli e i debitori – Stati compresi – perché siano deboli, poco solvibili e sottomessi. Questo costringe a far aumentare la circolazione di derivati e swap (scommesse su tutto). Così si fanno milioni di miliardi di dollari di titoli tossici. Il punto è come uscirne, perché è ormai chiaro che il soccorso che trasferisce Pil a copertura dei debiti delle banche non potrà durare per sempre. I titoli tossici e fasulli in circolazione, a livello planetario, rappresentano 54 volte il Pil mondiale. Stiamo salvando il peggio. Oggi si finanzia solo ciò che porta profitto ma siamo fuori dall’età della scarsità delle risorse e lo sviluppo responsabile potrebbe essere limitato solo dalla disponibilità del fattore umano, se solo si annoverassero tra le attività necessarie per un paese i servizi alla persona, la cura dell’ambiente, l’innovazione tecnologica e tutti quei fattori che sono alla base dello sviluppo.Perché non lo si fa? Perché significherebbe avere piena occupazione e aumento dei salari, la gente non sarebbe più asservita e dunque un mondo rispetto al quale il vecchio modo di governare, basato sulla soggezione della gente, non funziona più e salta. Le soluzioni all’attuale crisi economica ci sono ma comportano un’emancipazione delle popolazioni, un aumento alla partecipazione democratica, il ripristino della classe media al posto della categoria dei cittadini-sudditi. Oggi la gente è disperata: non trova lavoro, non riesce a pagare il mutuo, ha paura di quello che può accadere al primo imprevisto. E sta buona. Senza questa sottomissione economica le classi dirigenti andrebbero in crisi: e come facciamo noi a sopravvivere?, si chiedono i parassiti. I poteri forti esistono e dominano perché non c’è una classe politica degna di questo nome. Quando ci sono i Roosevelt, i Kennedy, i Moro, i Mattei, è chiaro che questi poteri occulti hanno meno peso e importanza. Attraverso gli squilibri finanziari, monetari e bancari mantengono il controllo sulla formazione delle stese classi dirigenti che poi vanno formalmente a governare i paesi.Si potrebbe ancora rovesciare il tavolo delle regole, forse. Ad esempio autorizzando i disavanzi dei paesi in funzione del tasso di disoccupazione e non di parametri finanziari decisi chissà dove e come. Ma certo non lo può fare questa Unione Europea e le istituzioni che sono parte del problema. Perché sono lontanissime e tendenzialmente ostili a favorire la consapevolezza delle masse che un certo meccanismo si è rotto. E tendono a tamponare le situazioni per mantenere lo status quo. Le democrazie che guidano sono in crisi perché non sono riuscite a stabilire la differenza tra cittadino e suddito. Per ristabilirla, serve recuperare sovranità e capire quale è il modello economico oggi sostenibile. Ritengo che sia arrivato il momento di infrangere dei tabù e di tentare politiche opposte, di aumento dei salari e della spesa pubblica in disavanzo, di riconoscere la sostenibilità dei rendimenti negativi una volta si sia capito che credito e moneta sono a costo zero non hanno bisogno di copertura ma solo di stimolare la produzione di quei servizi necessari alla comunità di cui si dice erroneamente che mancano i soldi.Abbiamo il debito pubblico alle stelle? E’ vero. Ma su questo si deve fare un ragionamento finalmente vero e più onesto. Quando andiamo in banca ad accendere un mutuo ci viene concessa una somma fino a cinque volte il nostro reddito annuale. Il reddito di un paese è il prodotto interno lordo, ma il debito va paragonato al patrimonio che è di gran lunga superiore. Questa idea per cui siamo appesi ai conti economici delle entrate e delle uscite è una mistificazione che comprime le possibilità di sviluppo e di piena occupazione. Il 5 Stelle? Oggi coltiva l’ambizione del governo e questo sdoppia la sua matrice. Da una parte continua la deriva positiva degli anti-sistema al grido “onestà-onestà”, dall’altra una crescente propensione ad accreditarsi come referenti affidabili, anche presso i consessi internazionali. Ecco, se prevalesse la logica del “vedete, siamo bravi ragazzi” temo che anche mettendo a disposizione le mie ricette non cambierebbe nulla.(Nino Galloni, sintesi delle dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora per l’intervista “Possiamo farcela senza l’Europa”, pubblicata su “Byoblu” l’8 luglio 2016).Il baratro: le banche, i mercati e la finanza. Sempre lì siamo. E’ il conto che tutti paghiamo al dominio del pensiero unico di matrice neoconservatrice, quello che dagli anni Ottanta ha imposto un modello capitalistico irresponsabile che oggi non è più nemmeno di mercato ma guidato da algoritmi matematici. Il suo obiettivo è massimizzare l’emissione di titoli e i debitori – Stati compresi – perché siano deboli, poco solvibili e sottomessi. Questo costringe a far aumentare la circolazione di derivati e swap (scommesse su tutto). Così si fanno milioni di miliardi di dollari di titoli tossici. Il punto è come uscirne, perché è ormai chiaro che il soccorso che trasferisce Pil a copertura dei debiti delle banche non potrà durare per sempre. I titoli tossici e fasulli in circolazione, a livello planetario, rappresentano 54 volte il Pil mondiale. Stiamo salvando il peggio. Oggi si finanzia solo ciò che porta profitto ma siamo fuori dall’età della scarsità delle risorse e lo sviluppo responsabile potrebbe essere limitato solo dalla disponibilità del fattore umano, se solo si annoverassero tra le attività necessarie per un paese i servizi alla persona, la cura dell’ambiente, l’innovazione tecnologica e tutti quei fattori che sono alla base dello sviluppo.
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Euro, chi tocca muore: Finlandia ko, salve Svezia e Norvegia
Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai. Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale. Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.In Finlandia, le misure di austerità non saranno in grado né di ridurre il deficit né di far ripartire l’economia, scrive Coppola. «Al contrario, provocheranno un’ulteriore riduzione dell’economia e, di conseguenza – è una questione di semplice aritmetica – provocheranno un aumento del deficit in percentuale sul Pil». La Finlandia è stata in recessione per quasi tutti gli ultimi quattro anni: «Quello di cui ha bisogno è una politica fiscale espansiva, non di salassi». L’austerità? «E’ una strategia del tutto controproducente per un’economia che ha avuto danni sul fronte dell’offerta a causa di shock esogeni». L’unica cosa che sta impedendo all’economia finlandese di crollare è la politica monetaria espansiva della Bce: «Tassi negativi e “quantitative easing” possono essere uno stimolo debole, ma sono meglio di niente». Ma la verità è che la Finlandia, fatta passare per un paese prospero, «è molto più simile agli Stati deboli del sud Europa». E se la Finlandia sta male, neppure la Danimarca si sente molto bene.La Danimarca ha subito una profonda recessione dopo la crisi finanziaria, toccando il fondo nel secondo trimestre del 2010. Ma, a differenza della Svezia, non ha recuperato: il modello dell’andamento del suo Pil è molto più simile a quello della Finlandia, anche se non ha avuto gli shock sull’offerta subiti da Helsinki. Perché è rimasta stagnante per gran parte degli ultimi sette anni? Molte spiegazioni tendono a incolpare il welfare danese, “troppo generoso” e costoso: una tassazione elevata soffocherebbe le imprese, mentre lo stato sociale scoraggerebbe il lavoro produttivo. Tagliare il welfare, quindi? Ma no: «Anche la Svezia ha un generoso stato sociale e una tassazione relativamente elevata. E anche la Norvegia. E in effetti anche la Finlandia. Tutti gli stati nordici sono così. E tutti, negli ultimi anni, hanno fatto seri sforzi per migliorare l’efficienza dei loro sistemi di welfare e ridurne il costo». La Danimarca è addirittura in testa alla classifica dell’Ocse tra i paesi scandinavi per lo sforzo nell’azione riformatrice. Eppure i suoi risultati economici differiscono enormemente da quelli di Svezia e Norvegia.La vera ragione di questa profonda differenza non è difficile da trovare, scrive Frances Coppola: la Finlandia, quella che tra questi paesi ha le peggiori prestazioni, è un membro dell’euro. «Questo non solo le impedisce di gestire la propria politica monetaria, compresa la possibilità di svalutare per proteggere la sua economia dagli shock esogeni, ma anche incatena la sua politica fiscale alle regole del Patto di Stabilità e Crescita. La Finlandia è soggetta alla procedura prevista in caso di deficit eccessivo e, in quanto membro dell’euro, questo significa che deve conformarsi alle azioni richieste o affrontare le sanzioni – anche se le azioni previste sono direttamente nocive per la sua economia». A Parte la Finlandia, nessuno degli altri paesi scandinavi ha l’euro, ma la Danimarca è un membro del meccanismo di cambio Erm II, che è un precursore dell’euro: «E’ obbligata a mantenere il valore della propria moneta entro fasce stabilite rispetto al valore all’euro».Anche la politica monetaria danese è quindi determinata in larga misura non dalle condizioni locali, ma dalle decisioni della Bce – siano o meno appropriate per l’economia danese. «La Danimarca ha anche accettato di essere vincolata dalla forma più rigorosa del Patto di Stabilità e Crescita, il Fiscal Compact, il che significa che è soggetta alle stesse regole fiscali e alle stesse sanzioni di un membro della zona euro». Al contrario, la Svezia non è un membro dell’Erm II. «Avrebbe dovuto aderire all’euro, a un certo punto, ma – misteriosamente – persiste nel non soddisfare i criteri di convergenza. La corona svedese fluttua rispetto alle valute di tutto il mondo, tra cui l’euro, consentendo alla Svezia un controllo molto maggiore della propria politica monetaria rispetto alla Danimarca o alla Finlandia». Sul versante fiscale, «anche se la Svezia ha ratificato il Fiscal Compact, ha rifiutato di lasciarsi vincolare dalle disposizioni previste finché rimane al di fuori dell’euro. Quindi, anche se dovrebbe mantenersi entro i parametri di Maastricht, non incorre in sanzioni se non lo fa».Quanto alla Norvegia, notoriamente, non è neppure un membro dell’Ue. Dal momento che il paese è un esportatore di petrolio, la corona norvegese è una “petrovaluta”. «La Norvegia ha usato efficacemente il suo fondo sovrano per assorbire le entrate derivanti dalla produzione di petrolio e impedire che la sua moneta si apprezzasse eccessivamente», spiega Coppola. Il recente crollo del prezzo del petrolio l’ha colpita duramente? Certo: la crescita del Pil di gennaio è stata negativa. Ma attualmente la Norvegia sta attingendo al suo fondo sovrano per mantenere i programmi di bilancio. Le difficoltà momentanee sono dovute alla congiuntura globale, «non a legami con un’Eurozona depressa e ossessionata dall’austerità». Attenzione: «La capacità di gestire la propria politica monetaria e di bilancio è preziosa. Le banche centrali dell’Eurozona, bloccate in una politica monetaria uguale per tutti, hanno scarsa capacità di proteggere le loro economie dagli shock locali; con la centralizzazione della vigilanza bancaria, hanno anche in gran parte perso il controllo delle politiche di vigilanza a livello sistemico».Le autorità fiscali dell’Eurozona, a loro volta, hanno poca autonomia se un paese è entrato nella procedura per disavanzo eccessivo; mentre per quelli che ne sono rimasti fuori, evitare la supervisione di Bruxelles può diventare la preoccupazione principale. Per i paesi della zona euro, il vero obiettivo di politica monetaria non è l’inflazione, ma il rapporto deficit-Pil. «La Bce sta combattendo una battaglia persa per alzare l’inflazione, contro la determinazione della burocrazia di Bruxelles nel forzare 19 autorità fiscali a deprimere la domanda in nome dei conti in regola. E così il disastro economico della Finlandia è, almeno in parte, una conseguenza della sua appartenenza all’euro». La Danimarca, invece, «soffre per la perdita dell’autonomia monetaria a causa della sua appartenenza all’Erm II, e della perdita dell’autonomia di bilancio perché ha scelto di essere vincolata al Fiscal Compact». Al contrario, la Svezia «ha il controllo sia della politica monetaria sia di bilancio», mentre la Norvegia «non solo ha il controllo della sua politica monetaria e fiscale, ma è ulteriormente ammortizzata dal suo ampio fondo sovrano». Altro che iper-welfare: «La Grande Divergenza scandinava è principalmente causata dall’euro».Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai. Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale. Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.
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5 Stelle e zero idee: l’Italia non ha alternative al peggio
C’è qualcosa di sconcertante nel tempismo con cui, all’indomani del voto sul Brexit, il Movimento 5 Stelle si è precipitato a dichiarare la propria assoluta contrarietà all’uscita dall’Unione Europea e dalla tenaglia suicida dell’euro. Il partito fondato da Grillo e Casaleggio, che ha costruito la sua narrazione propagandistica sulla riappropriazione della sovranità da parte dei cittadini, è come se gettasse la maschera: fa sapere infatti che non muoverà un dito contro la colossale macchina europea edificata per abolire ogni sovranità democratica utilizzando proprio la leva finanziaria per impedire agli Stati di investire in occupazione. A quanto pare, tutto quello che faranno, i 5 Stelle, sarà – al massimo – sostituire il Pd, magari ripulendo il volto del personale politico, ma senza disturbare il manovratore. Non una parola, dai grillini, su come costruire un piano-B per restituire salute economica al paese. E silenzio assoluto anche sul vasto e assordante background della geopolitica, fra terrorismo opaco, fiumi di profughi e guerre alle porte. Nessuna vera indicazione: né sulla politica economica, né sulla politica estera.Era tutto previsto fin dall’inizio, sostegono alcuni critici come Gianfranco Carpeoro, secondo cui i 5 Stelle sono stati, da sempre, la carta di riserva degli Stati Uniti per contenere la protesta e impedire all’Italia di esprimere una politica autonoma. In altre parole: se cade Renzi arriva Di Maio, ma non cambia assolutamente nulla. Un ex pentastellato come Bartolomeo Pepe, ai microfoni di “Forme d’Onda”, mette la parte il risentimento dell’ex per lasciare spazio all’amarezza e alla preoccupazione: denuncia la manipolazione verticistica di cui la stragrande maggioranza degli stessi 5 Stelle (elettori ed eletti) sarebbe vittima, e su Di Maio esprime un giudizio ben poco lusinghiero: il super-canditato grillino sarebbe «un bravo attore, una scatola senza contenuti», reduce da svariate ricognizioni nei centri di potere – politici, diplomatici, finanziari – per rassicurare i padroni del vapore e spiegare loro che, coi 5 Stelle a Palazzo Chigi, non avranno nulla da temere.Se il senatore Pepe – un coraggioso attivista antimafia – racconta il profondo travaglio personale col quale ha vissuto la disillusione e quindi lo strappo dal gruppo Grillo-Casaleggio, al pubblico resta un senso di desolazione: si sta avvicinando il momento delle grandi decisioni, e l’Italia non ha una squadra da schierare in campo. La meteora Renzi sta evaporando, il centrodestra non esiste più, i 5 Stelle non esprimono un’alternativa di governo. Tra i loro più fermi detrattori, il profetico Paolo Barnard: già all’indomani delle politiche 2013 si era affrettato a proporre ai grillini un piano di piena occupazione messo a punto da un team di economisti guidato da Warren Mosler. Valore: 2 milioni di posti di lavoro. Bellissimo, risposero, ma Grillo e Casaleggio non ne vogliono sapere. Dopo tre anni di piccolo cabotaggio e conquiste di Comuni e città, con l’Europa in frantumi e l’Italia sempre più in bilico, dai 5 Stelle non è finora pervenuta nessuna soluzione strutturale per riconvertire il declino italiano strappando il paese allo strapotere dell’élite finanziaria internazionale. “There is no alternative”, diceva Margaret Thatcher.C’è qualcosa di sconcertante nel tempismo con cui, all’indomani del voto sul Brexit, il Movimento 5 Stelle si è precipitato a dichiarare la propria assoluta contrarietà all’uscita dall’Unione Europea e dalla tenaglia suicida dell’euro. Il partito fondato da Grillo e Casaleggio, che ha costruito la sua narrazione propagandistica sulla riappropriazione della sovranità da parte dei cittadini, è come se gettasse la maschera: fa sapere infatti che non muoverà un dito contro la colossale macchina europea edificata per abolire ogni sovranità democratica utilizzando proprio la leva finanziaria per impedire agli Stati di investire in occupazione. A quanto pare, tutto quello che faranno, i 5 Stelle, sarà – al massimo – sostituire il Pd, magari ripulendo il volto del personale politico, ma senza disturbare il manovratore. Non una parola, dai grillini, su come costruire un piano-B per restituire salute economica al paese. E silenzio assoluto anche sul vasto e assordante background della geopolitica, fra terrorismo opaco, fiumi di profughi e guerre alle porte. Nessuna vera indicazione: né sulla politica economica, né sulla politica estera.
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I tedeschi: fuori dall’euro la Germania crolla (e l’Italia vola)
Theo Waigel è stato per dieci anni Ministro delle Finanze di Helmut Kohl. Il 21 giugno scorso ha rilasciato un’intervista a “T-Online”. Questo è un frammento delle sue dichiarazioni. Intervistatore: «I sondaggi sull’uscita dalla Ue mostrano che se si chiedesse ai francesi e ad altri, vincerebbe chi vuole uscire, con uno scarto minimo. Secondo lei da dove viene questa disaffezione per l’Ue?». Theo Waigel: «Al grado di sviluppo della globalizzazione e dei mercati aperti cui siamo arrivati – che non è più reversibile – ci sono forze che si oppongono, sostenendo la necessità di ritornare ai confini e alle regolamentazioni nazionali, che prima funzionavano bene, per tornare ad appropriarsi delle proprie capacità decisionali». E cosa gli si può rispondere? Waigel: «Gli si può rispondere in modo del tutto chiaro quali svantaggi ne scaturirebbero. Se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20% e il 30% del marco tedesco – che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale».L’euro conviene alla Germania, ecco perché ci restiamo dentro. Va da sè che se il marco diventasse sconveniente, la lira diventerebbe conveniente per i mercati, per gli investitori e per i consumatori. Queste cose i commentatori nazionali non ve lo dicono. Queste notizie ai telegiornali non passano. Per chi lavora la stampa italiana? Per chi lavora la politica italiana? Per l’Italia o per Berlino? Se lavorasse per gli italiani, interviste come queste sarebbero in prima pagina su tutti i quotidiani, in luogo dello spettro dell’inflazione, e la gente inizierebbe a trarne le conclusioni. In Germania, invece, non si fanno problemi a dirlo con chiarezza. Anche perché hanno interessi opposti. Ci fu anche un pezzo dello “Spiegel Online”, che io riportai puntualmente sul blog, datato 13 giugno 2012 (ben 4 anni fa), che lo disse con altrettanta chiarezza:«Con un’uscita dall’euro e un taglio netto dei debiti la crisi interna italiana finirebbe di colpo. La nostra invece inizierebbe proprio allora. Una gran parte del settore bancario europeo si troverebbe a collassare immediatamente. Il debito pubblico tedesco aumenterebbe massicciamente perché si dovrebbe ricapitalizzare il settore bancario e investire ancora centinaia di miliardi per le perdite dovute al sistema dei pagamenti target 2 intraeuropei. E chi crede che non vi saranno allora dei rifiuti tra i paesi europei, non s’immagina neanche cosa possa accadere durante una crisi economica così profonda. Un’uscita dall’euro da parte dell’Italia danneggerebbe probabilmente molto più noi che non l’Italia stessa e questo indebolisce indubbiamente la posizione della Germania nelle trattative. Non riesco ad immaginarmi che in Germania a parte alcuni professori di economia statali e in pensione qualcuno possa avere un Interesse a un crollo dell’euro».(“Ministro delle finanze tedesco: se uscite dall’euro la Germania crollerà”, dal blog “Byoblu” di Claudio Messora del 9 luglio 2016).Theo Waigel è stato per dieci anni ministro delle finanze di Helmut Kohl. Il 21 giugno scorso ha rilasciato un’intervista a “T-Online”. Questo è un frammento delle sue dichiarazioni. Intervistatore: «I sondaggi sull’uscita dalla Ue mostrano che se si chiedesse ai francesi e ad altri, vincerebbe chi vuole uscire, con uno scarto minimo. Secondo lei da dove viene questa disaffezione per l’Ue?». Theo Waigel: «Al grado di sviluppo della globalizzazione e dei mercati aperti cui siamo arrivati – che non è più reversibile – ci sono forze che si oppongono, sostenendo la necessità di ritornare ai confini e alle regolamentazioni nazionali, che prima funzionavano bene, per tornare ad appropriarsi delle proprie capacità decisionali». E cosa gli si può rispondere? Waigel: «Gli si può rispondere in modo del tutto chiaro quali svantaggi ne scaturirebbero. Se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20% e il 30% del marco tedesco – che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale».