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5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi
Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.«Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).«Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?«Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?«Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».«Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».«Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
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Derby tra Mélenchon e Le Pen: un incubo, per i bankster Ue
«Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».Tra parentesi, il “centrista” Macron proviene dalla filiale francese della banca dei Rothschild, mentre l’altro candidato “istituzionale”, l’ex premier François Fillon, propone un supplemento di austerity con altri tagli al spesa pubblica e al welfare. Ancora qualcuno si stupisce se “la Francia” ha tutto, meno che “paura”, di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, entrambi ultra-critici sull’euro, la Nato e le sanzioni alla Russia? «Davanti a questo scenario – continua il “Post” – il presidente francese, Francois Hollande, ha rotto il silenzio: secondo il quotidiano “Le Monde” moltiplicherà gli appelli contro il pericolo “populista”». Ballottaggio tra il candidato della sinistra alternativa e la candidata del Front National? Uno scenario che secondo i media mainstream intimorisce i “mercati”, con l’innalzamento dei tassi sul debito pubblico francese. Senza spingersi fino a chiedere un voto per il candidato di “En Marche”, cioè Macron, l’incolore Hollande sembra invece scaricare in modo definitivo il candidato socialista (almeno sulla carta compagno di partito) Benoit Hamon. «L’emotività sta prevalendo sulla ragione», sentenzia Hollande, rivelatosi il presidente meno stimato di tutta la storia repubblicana francese.Anziché per il suo disastroso bilancio politico ed economico, l’Eliseo è preoccupato per la spettacolare impennata, nei sondaggi, del candidato della “France Insoumise”, che allarmerebbe i “bankster”, gli squali della finanza, al pari della Le Pen. Hollande però si guarda bene, per ora, dallo schierarsi con Macron: sa perfettamente che la mossa «potrebbe rivelarsi controproducente», dato il vasto discredito di cui gode il presidente uscente. Nel frattempo, al finto indipendente Macron e al gollista Fillon non resta che giocare di sponda per arginare Mélenchon. A Besançon, racconta l’“Huffington Post”, Macron si è scagliato contro «il rivoluzionario comunista che era giù senatore socialista quando io ancora andavo al college». Fillon, che sinora ha sempre avuto come bersaglio Macron e – seppur in minor misura – la Le Pen, ha inserito tra i suoi nemici anche Mélenchon. Ma il candidato della sinistra radicale ha contro “Le Figaro”, che lo definisce «il Chavez francese», mentre su “France Inter” si denuncia il “pericolo comunista”, fino al ridicolo: per il giornalista Patrick Cohen, «non siamo lontani dallo spauracchio dei carri armati russi del 1981».«Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».
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Cremaschi: il precariato è schiavismo, un inferno mafioso
A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c’è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia. Immaginiamo poi quando la precarietà dura all’infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l’esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico. Pochi giorni fa la Usb ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti dalla polizia. Qui ho saputo da un lavoratore disperato che, nella pubblica amministrazione, ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a ben 580 euro lordi.Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali, che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l’umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime. Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita dell’azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro. La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent’anni l’hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell’800 disciplinavano l’Asiento.Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la merce lavoro non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c’è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani. Negli anni ‘70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l’articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del Fiscal Compact e ai conseguenti tagli al personale stabile, sostituito dall’appalto e dal lavoro precario.Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell’Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni, con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al Jobs Act i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel Trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi securitarie, anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi-gratuito in fabbrica.È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I devastatori del diritto però non hanno fallito, perché alla fine hanno realizzato esattamente ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi. Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale dello sfruttamento e della schiavizzazione delle persone. Non è più tempo di combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l’Unione Europea, i suoi governi e le loro regole di mercato vadano all’inferno.(Giorgio Cremaschi, “Oggi lo schiavismo si chiama precarietà”, da “Micromega” del 4 aprile 2017).A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.
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Magaldi: riusciranno i 5 Stelle a dirci cosa vogliono fare?
Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.Se le primarie del Pd sembrano annunciare una scontata vittoria di Renzi, Magaldi si permette «un piccolo endorsement» in favore di Michele Emiliano: «Quantomeno, sembra cogliere alcune istanze di denuncia della inefficacia assoluta sul piano del rapporto tra l’Italia e l’Europa, che è il vero tema fondante». Tralasciando l’incolore Andrea Orlando, già ministro renziano, continua «la pantomima» di Renzi, che «si continua a proporre come uno che risolverà il rapporto con l’austerity». La verità è tristemente un’altra: «Ha avuto due anni, per farlo: non l’ha fatto. C’è anzi una continuità sostanziale del governo Renzi rispetto a quelli di Letta e Monti, cioè una subalternità di questo grande paese, l’Italia, rispetto ai trattati europei e a un’egemonia, svolta attraverso alcune cancellerie, da parte di gruppi sovranazionali che rendono sempre più insopportabile la camicia di forza imposta al vecchio continente». Pensando sempre agli elettori Pd, Magaldi ipotizza che «forse, un voto a Emiliano testimonierebbe meglio l’esistenza di un malessere necessario e giusto, rispetto alle figure di Orlando e Renzi, che rappresentano la continuità». Ma se il Pd piange, di sicuro i 5 Stelle non ridono: o meglio, non hanno ancora spiegato con quali misure attuerebbero una politica davvero alternativa.«Mi fa piacere che ci stato un bell’evento, a Ivrea», premette Magaldi, riferendosi alla convention tematica guidata da Davide Casaleggio. «Ma il Movimento 5 Stelle ha bisogno di evolvere», insiste il presidente del Movimento Roosevelt. «Lo ripeto, e voglio essere noioso come un moscone socratico: il giorno in cui, giustamente, non votando né il centrodestra né il centrosinistra (legge elettorale permettendo), il Movimento 5 Stelle andasse al governo, non staremmo meglio – dopo qualche mese, o anno, di questo governo – se dovessimo scoprire che le cose vanno esattamente come vanno nel governo della città di Roma». Quindi, per favore, «si diano una svegliata, i 5 Stelle: qui non si tratta di autocelebrarsi. E’ passata la fase politica dell’auto-compiacimento per la novità – e del piagnisteo (giusto, perché gli altri ti delegittimano)». Peraltro, «saranno brutte, le parole di Renzi verso il Movimento 5 Stelle, ma non sono nemmeno tenere quelle dei 5 Stelle verso Renzi». Ma stiamo parlano di quisiquilie: «Il problema è che c’è un’età per tutto». Magaldi cita Jean-Paul Sartre e il suo saggio “L’età della ragione” per dire che è venuta “l’età della ragione”, della maturità, anche per il Movimento 5 Stelle. «Non può continuare così: è come votarsi al fallimento».«Le linee-guida su cui il Movimento 5 Stelle chiede il consenso sono ormai fragili», osserva Magaldi. «Ha bisogno, il Movimento 5 Stelle, di una iniezione di idee forti». Per esempio: «Cosa pensa, il Movimento 5 Stelle, e cosa ha detto, a proposito dell’eliminazione del Fiscal Compact, e del pareggio di bilancio dalla Costituzione?». Per ora, silenzio. «E’ inutile invocare il referendum sull’euro», se poi non si dice chiaramente che il futuro governo pentastellato – come prima mossa – andrebbe a Strasburgo, a Bruxelles, «a dire: o noi riscriviamo i trattati, oppure in Italia ne sospendiamo la vigenza». Domande ancora senza risposta: «Che programma c’è? Esiste un piano per una moneta complementare, per alimentare una ripresa economica anche con questi trattati? E poi: quale paradigma per la spesa pubblica e per gli investimenti? Queste – ribadisce Magaldi – sono le cose che possono sostanziare un governo sano e giusto per il paese, non i discorsi sui vitalizi o le fumosità sulla democrazia diretta». Dai 5 Stelle, finora, nessun segnale in questa direzione: «Se vincessero le prossime elezioni, non sappiamo ancora come si comportebbero, rispetto alle questioni più cruciali per il futuro del paese».Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.
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Praga si sgancia dall’euro, nuovo schiaffo all’Unione Europea
Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.Finora, scrive Tarquini, il cambio minimo era stato adottato per impedire che rimesse e investimenti dei cittadini cèchi all´estero divenissero troppo cari e che il tasso d´inflazione, attualmente attestato al 2,5% annuo (cioè ben oltre il tetto del 2% fissato come obiettivo dall’istituto d´emissione di Praga) aumentasse ancora. Adesso, la banca centrale cèca ha scelto come male minore lo sganciamento totale dall´euro. «La decisione ha un doppio sfondo», secondo “Repubblica”. «Primo, le elezioni del prossimo autunno, il cui esito si annuncia incerto, e a cui il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka vuole arrivare da posizioni della minor debolezza possibile. Secondo, negli ultimi tempi la corona cèca era nel mirino degli speculatori internazionali. I fondi hedge, in genere di carattere speculativo, hanno scommesso 65 miliardi di dollari su una rivalutazione della divisa cèca, costringendo la banca nazionale di Praga a interventi sui mercati. Turbolenze sul bilancio pubblico e sulle riserve in valuta cèche hanno spinto l’istituto alla misura estrema».La decisione, aggiunge Tarquini, ricorda agli operatori dei mercati la scelta fatta nel gennaio 2015 dalla Svizzera (non membro della Ue) di sganciare il franco dall´euro, «scelta che provocò un terremoto finanziario internazionale colpendo l´euro con il piú massiccio deprezzamento da quando esiste». Un ´Czexit´ limitato allo sgancio della corona dall’euro avrebbe conseguenze più limitate. «Al momento, l´euro si è deprezzato a fronte della divisa cèca, restando però stabile sul dollaro. Ma gli esperti si dividono sul grande interrogativo, se ciò potrà allontanare la piccola ma decisiva democrazia industriale centroeuropea dall’Unione in generale, a medio termine anche a livello politico». A fronte del recente apprezzamento della corona verso l´euro, e quindi della perdita di valore delle riserve cèche in valute forti, Praga non ha visto altra scelta. Uniche alternative? Massicce vendite delle riserve o un ingresso accelerato nell´euro. Ma la moneta unica europea, specie nel gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) appare sempre meno attraente. E a Praga come altrove, all´Est, «la stessa Ue è vista da non pochi politici ed elettori come una lontana e inefficiente entità burocratica che può costituire una minaccia potenziale alla sovranità nazionale», che Praga ha riconquistato dopo mezzo secolo di dominazione dell’Urss.Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.
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Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano
«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?«In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.“Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?«Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.«I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.«Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
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Stalin risorto a Bruxelles per ‘raddrizzare’ paesi come l’Italia
Perché non modellare un sistema finanziario e monetario sulle esigenze strutturali del paese, anziché cercare di rimodellare il paese per adattarlo a un sistema finanziario e monetario preconcetto? Fanfare, incensi e fervorini: l’Unione Europea celebra se stessa nella Roma che sappiamo. Emblematico. L’insuccesso e i danni della costruzione europea calata dall’alto, soprattutto in termini di crescente divergenza delle economie e degli interessi dei vari paesi, erano prevedibili perché sono quelli tipici di tutti i modelli ideali imposti ideologicamente dall’alto alla realtà dell’uomo e della società. Sono quelli tipici di tutti i modelli che vogliono correggere l’esistente per produrre l’uomo nuovo o la nuova società. Il loro errore di metodo è che partono da un progetto astratto e non considerano la naturale e organica resistenza della società reale o ogni cambiamento comandato. Si chiama utopia. Quanto sopra vale anche e visibilmente per l’imposizione dall’alto sulla realtà italiana del modello finanziario e monetario detto europeo, con la sua difesa del potere d’acquisto del singolo euro anziché dei redditi e dell’occupazione, con i suoi vincoli ai pubblici e investimenti, con la sua tassazione. Un modello adatto e concepito per sistemi paese molto diversi dall’Italia.Per contro, un approccio non velleitario ma realistico si dovrebbe basare sull’individuazione oggettiva di quali sono le caratteristiche storiche, costanti e di fatto non modificabili di ciascun sistema paese concreto, e dovrebbe disegnare un sistema finanziario e monetario adatto a queste sue caratteristiche. Se L’Italia ha la gobba, allora è meglio farle una giacca con la forma della gobba, in modo che si possa abbottonare, e non una col di dietro diritto, bella ma che non si chiude e ostacola i movimenti, perché la gobba di un adulto non si può raddrizzare. Le caratteristiche costanti dell’Italia, dalla sua unificazione in poi, non modificate, anzi consolidate dall’imposizione dall’alto del modello finanziario e monetario europeo, le conosciamo bene, e sono: le due velocità, cioè l’arretratezza permanente e rigida del Meridione e la conseguente necessità di un’altra spesa pubblica di sostegno al Meridione per mantenere la coesione del paese – e questo è il costo dell’utopia dell’unità politica italiana; da qui l’esigenza di poter fare spesa pubblica a deficit finanziandola a bassi tassi di interesse ed escludendo la possibilità che i titoli del debito pubblico non siano accettati dalla banca centrale per erogare credito allo Stato, così da garantire i loro detentori che non ci sarà default, e tenere quindi bassi i rendimenti.Una fortissima propensione, specie al nord, a fare piccola impresa, quindi l’esigenza di assicurarne la disponibilità di credito a tassi moderati e che non erodano il margine operativo aziendale. Una fortissima propensione al risparmio e in particolare all’investimento immobiliare, con uso degli immobili, sia da parte delle imprese che da parte dei cittadini, per ottenere credito, quindi l’esigenza di tutelare il valore degli immobili e il mercato immobiliare. Un alto livello di corruzione e illegalità nel settore pubblico, peggiorato dopo le campagne giudiziarie contro la corruzione, congiunto a una scarsa efficienza della spesa pubblica, che viene in grande parte intercettata da una classe politica e burocratica scarsamente competente, e usata per produrre consenso clientelare; ciò richiede vieppiù che la spesa pubblica sia finanziabile a basso tasso di interesse. Una bassa produttività conseguente da quanto sopra, che richiede periodici ribassi del cambio valutario onde mantenere la competitività e l’occupazione.L’euro e le regole finanziarie europee sono pertanto direttamente opposte e incompatibili con le suddette esigenze, e lo dimostrano i fatti. Non sono un prezzo da pagare per diventare migliori, perché non fanno diventare migliori. E’ avvenuto il contrario. E’ ovvio che alcune di queste caratteristiche dell’Italia sono deteriori e sarebbe meglio poterle correggere, ma ciò non è avvenuto in molti decenni e nonostante molti interventi energici e costosissimi, di tutti i tipi. Anzi, il divario è aumentato. Insistendo negli sforzi di cambiare la fisiologia dell’organismo Italia, sia per integrare il Sud col Nord, sia per integrare l’intero paese con l’Europa efficiente, si è solo peggiorato il suo funzionamento e le condizioni di vita dei suoi abitanti e le prospettive per il suo futuro. L’unità politica italiana è un’utopia molto onerosa da sostenere, e se le aggiungiamo i costi del mantenimento dell’utopia dell’unità politica europea, le due utopie si uniscono in una distopia.I detentori del potere hanno l’opzione di usare la forza per raddrizzare la “gobba”, cioè spezzare l’organismo sociale esistente e costringere la gente a seguire il nuovo modello. Questa è la via che è stata percorsa, nel secolo scorso, da personaggi storici come Stalin e Ceausescu (in forma estrema e mostruosa, da Pol Pot), che, per riuscire a imporre i loro modelli di società ideale eliminando le caratteristiche consolidate e la mentalità delle popolazioni che governavano, sono ricorsi ai trasferimenti forzati di intere popolazioni, alla distruzione dell’economia di altre popolazioni, alla censura e alla propaganda sistematiche, alla proibizione della religione, e ad altre forme di violenza. Sostanzialmente, nonostante queste potenti misure, non sono riusciti nel loro intento, hanno solo danneggiato e degradato la società, anziché realizzare il loro modello ideale.Oggi, per imporre i modelli ideali di Europa e di euro, seguire la suddetta via può tradursi nell’imporre ai popoli “con la gobba”, per fargli perdere le loro abitudini e mentalità indesiderate, una permanente povertà e precarizzazione assieme alla dissoluzione dell’identità storica e nazionale attraverso l’uso mirato dell’informazione e soprattutto mediante l’immigrazione di massa di genti portatrici di culture molto diverse, così da sfibrare il tessuto sociale storico, la volontà di azione politica e la capacità di resistenza dal basso. Ma credo che l’esito sarà solo la degradazione,non rieducazione, esattamente come nei precedenti esperimenti di questo tipo.(Marco Della Luna, “La fiera delle velleità”, dal blog di Della Luna del 3 aprile 2017).Perché non modellare un sistema finanziario e monetario sulle esigenze strutturali del paese, anziché cercare di rimodellare il paese per adattarlo a un sistema finanziario e monetario preconcetto? Fanfare, incensi e fervorini: l’Unione Europea celebra se stessa nella Roma che sappiamo. Emblematico. L’insuccesso e i danni della costruzione europea calata dall’alto, soprattutto in termini di crescente divergenza delle economie e degli interessi dei vari paesi, erano prevedibili perché sono quelli tipici di tutti i modelli ideali imposti ideologicamente dall’alto alla realtà dell’uomo e della società. Sono quelli tipici di tutti i modelli che vogliono correggere l’esistente per produrre l’uomo nuovo o la nuova società. Il loro errore di metodo è che partono da un progetto astratto e non considerano la naturale e organica resistenza della società reale o ogni cambiamento comandato. Si chiama utopia. Quanto sopra vale anche e visibilmente per l’imposizione dall’alto sulla realtà italiana del modello finanziario e monetario detto europeo, con la sua difesa del potere d’acquisto del singolo euro anziché dei redditi e dell’occupazione, con i suoi vincoli ai pubblici e investimenti, con la sua tassazione. Un modello adatto e concepito per sistemi paese molto diversi dall’Italia.
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Fake news e missili, l’impero colpisce ancora: con Trump
Ora che bombarda e uccide come tutti gli altri presidenti Usa, Trump riesce finalmente “simpatico” all’Unione Europea e alla Nato. Bella consolazione, no? «Ho ancora in mente l’immagine del segretario di Stato degli Usa, Colin Powell, che all’Onu nel 2003 mentiva sapendo di mentire mentre mostrava la fiala con la falsa prova degli inesistenti gas di Saddam». Grazie a quella falsa prova, «Bush, la Ue e la Nato scatenarono la seconda guerra in Iraq e grazie ad essa ora abbiamo l’Isis», ricorda Giorgio Cremaschi su “Micromega”, segnalando il fatto che Trump «ha fatto il suo esordio da bombardiere, adeguandosi così alla tradizione dei presidenti Usa, nessuno dei quali si è mai sottratto alla necessità imperiale di lanciare ordigni ed uccidere: Clinton, Bush, Obama non avrebbero saputo fare di meglio». E così, i governi Ue e Nato tirano un sospiro di sollievo: «Alla fine Trump non è la Brexit, è solo uno dei tanti modi di mascherarsi che ha il palazzo economico-finanziario e militare. Peggio per gli sprovveduti che ci hanno creduto».Il neopresidente, scrive Cremaschi su “Micromega”, «è solo culturalmente un po’ più fascista e razzista dei predecessori». Ma alla fine, «quando si tratta di difendere gli interessi dell’impero, si normalizza». Contenti, i signori del super-potere? Eccome: «Bentornato tra noi, dicono governi occidentali e stampa, finanza e industria militare: in fondo non avevamo dubbi». Del resto, aggiunge Cremaschi, «come può un miliardario evasore fiscale non difendere il suo e il potere delle élites di cui solo ambisce di far parte?». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’aveva detto subito: «Trump si è candidato solo per ottenere appalti, non c’è molto altro nel suo orizzonte: inutile aspettarsi chissà cosa, al netto delle retoriche». Carpeoro ha anche ricostruito l’origine storica della filiera terroristica, fabbricata dall’Occidente già a Yalta con la negazione di uno Stato ai palestinesi, così da garantire al Medio Oriente un futuro da polveriera (petrolifera), interpretato da svariati attori, tutti telecomandati: raìs, dittatori, emiri e terroristi guidati dall’intelligence occitentale, da Al-Qaeda all’Isis.Oggi, annota Cremaschi, si apre un nuovo capitolo della “guerra mondiale a pezzi” che stiamo vivendo, con l’aggravante che i “pezzi” «diventano sempre più attaccati fra loro». Il bombardamento missilistico del 7 aprile sulla base aerea siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbe partito il raid chimico su Idlib, è «un capitolo che stupisce per la velocità con cui una notizia priva di alcuna dimostrazione (l’esercito di Assad che avrebbe usato i gas) è diventata la fonte di legittimazione del lancio dei missili». Questo, chiarisce Cremaschi, senza sconti per i regimi finiti nella bufera: «Tranquillizzo gli ipocriti: sono contro Assad, come lo ero verso Gheddafi, Saddam, Milosevic. Ma sono atterrito dalle guerre scatenate dal potere occidentale sulla base delle proprie fake news». Domanda angosciosa: «Che frutti marci e velenosi daranno ora i bombardamenti di Trump? Ancora non lo sappiamo, ci sarà tempo per accorgersene e per analisi e conclusioni approfondite». Intanto, conclude Cremaschi, «lasciatemi esprimere il disgusto e la rabbia per quanto sta accadendo».Ora che bombarda e uccide come tutti gli altri presidenti Usa, Trump riesce finalmente “simpatico” all’Unione Europea e alla Nato. Bella consolazione, no? «Ho ancora in mente l’immagine del segretario di Stato degli Usa, Colin Powell, che all’Onu nel 2003 mentiva sapendo di mentire mentre mostrava la fiala con la falsa prova degli inesistenti gas di Saddam». Grazie a quella falsa prova, «Bush, la Ue e la Nato scatenarono la seconda guerra in Iraq e grazie ad essa ora abbiamo l’Isis», ricorda Giorgio Cremaschi su “Micromega”, segnalando il fatto che Trump «ha fatto il suo esordio da bombardiere, adeguandosi così alla tradizione dei presidenti Usa, nessuno dei quali si è mai sottratto alla necessità imperiale di lanciare ordigni ed uccidere: Clinton, Bush, Obama non avrebbero saputo fare di meglio». E così, i governi Ue e Nato tirano un sospiro di sollievo: «Alla fine Trump non è la Brexit, è solo uno dei tanti modi di mascherarsi che ha il palazzo economico-finanziario e militare. Peggio per gli sprovveduti che ci hanno creduto».
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Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro
L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.(Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.
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Magaldi: chi spegne verità e democrazia se la vedrà con noi
Esplodono bombe, interi paesi sprofondano nella crisi, i missili di Trump piovono sulla Siria. E i media non raccontano la verità: tacciono, mentono, restano reticenti. C’è un piano mondiale, in atto da trent’anni: finanziare guerre, terremotare le economie e silenziare l’informazione. «Ebbene, vi dico: non prevarranno. I manovratori saranno pubblicamente denunciati e fermati». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” nonché autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che denuncia per la prima volta, con impressionante precisione, le trame occulte di 36 superlogge internazionali, vero e proprio “back office” del potere, al lavoro da decenni per svuotare la democrazia a vantaggio dell’élite mondialista. In collegamento con Claudio Messora su “ByoBlu”, canale web finito di recente sotto attacco (boicottaggio pubblicitario da parte di Google), Magaldi raccoglie la sfida e prepara l’affondo a Roma, l’8-9 aprile, con un forum sul futuro della democrazia con ospiti come l’economista Nino Galloni, il magistrato Ferdinando Imposimato e un giornalista come Giulietto Chiesa, bandiera storica dell’informazione indipedente. Obiettivo: costringere il sistema a dire la verità, anche con la creazione di un nuovo partito, che si impegni a stracciare i trattati europei che stanno piegando l’Eurozona.L’emergenza, oggi, colpisce in primo luogo l’informazione: gli Usa sparano missili sulla Siria per abbattere Assad, e non l’Isis, senza che la grande stampa si premuri di ricordare che è stato proprio l’Occidente a “fabbricare” lo jihadismo, come cavallo di Troia geopolitico in Medio Oriente e come alibi, in Europa, per la politica securitaria motivata dal dilagare del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, secondo la peggiore logica della strategia della tensione. A dare fastidio sono le verità che emergono dal web, le sole rimaste? Così parrebbe, visto l’attivismo «dell’ineffabile Laura Boldrini, proconsole di una filiale internazionale, che ha iniziato anche qui in Italia a preoccuparsi di imbavagliare la libera informazione». Magaldi non ha dubbi: «Negli ultimi anni, nel mondo, chi ha prodotto “fake news” non sono tanto i blogger, i siti indipendenti, quelli che cercano – come navi corsare, benemerite – di aprire degli spiragli nel pensiero unico del mainstream». Al contrario: «Il problema è stato spesso di chi ha fabbricato notizie false, e su questo ha anche costruito guerre, speculazioni finanziarie ai danni dei popoli, verso una destrutturazione di quello che sarebbe stato un processo virtuoso di globalizzazione della democrazia».Siamo all’eterna riedizione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam, inventate di sana piana come pretesto per invare l’Iraq? Di suo, Magaldi aggiunge una lettura di taglio massonico: quanto di peggio è avvenuto, nel mondo, negli ultimi tre decenni, è stato progettato a tavolino da un’élite super-massonica apolide, decisa a mettere in atto una globalizzazione a mano armata e senza diritti, tantomeno quello all’informazione, su cui si fonda il pensiero democratico. Tutto si tiene, anche la «grottesca celebrazione dei Trattati di Roma affidata ai sedicenti europeisti che in realtà lavorano dal mattino alla sera per distruggere il progetto europeo, soffocato dall’economicismo dei tecnocrati: una camicia di forza che esaspera i nazionalismi, tra manine occulte e cancellerie asservite a interessi apolidi». Come se ne esce? «Noi – insiste Magaldi – abbiamo bisogno di un governo che abbia il coraggio di andare ai tavoli europei e dire: siamo tra i grandi contraenti del progetto europeo, vogliamo riscrivere i trattati, lavorare per un processo costituente per un’unione politica. Se ci state, bene. Altrimenti, se non si apre un dibattito, noi sospendiamo la vigenza dei trattati in Italia, accantonando tutte le retoriche europeiste o antieuropeiste».Gioele Magaldi pensa al Pdp, Partito Democratico Progressista, di cui è appena stato registrato il marchio, in vista delle prossime elezioni politiche. «Sarà un cantiere – spiega – al quale invitiamo tutti quelli che ne hanno abbastanza di sentir parlare di falsi democratici e falsi progressisti, come Bersani che ha votato il pareggio di bilancio in Costituzione, trasformando il Parlamento in una caserma per imporre il sì al Fiscal Compact. Misure-capestro, suicide per l’economia italiana, imposte «da uno dei governi più nefasti della storia, guidato dal massone reazionario Mario Monti, insediato dal massone ancora più reazionario Giorgio Napolitano». In Italia Monti, Letta e Renzi. E in Francia Hollande: «Doveva essere il campione anti-merkeliano e anti-austerity. Invece, tra blandizie e minacce, si è ridoto a un ruolo ornamentale, senza una sola proposta per un vero cambio di paradigma, in Europa». Renzi? «E’ stato poco furbo: se al referendum del 4 dicembre avesse inserito l’abolizione del pareggio di bilancio, avrebbe vinto».Peggio ancora dell’ex premier, forse, «gli avventurieri che vorrebbero appropriarsi delle parole “democratico” e “progressista”, dopo aver sorretto il governo Monti». Nella visione di Magaldi, non resta che ripartire dall’Italia per tentare di invertire il corso della storia, riaccendendo la luce sulla democrazia. A questo serve il “Master Roosevelt in scienze della polis”, che offre formazione per «conoscere le reti private sovranazionali che asservono ai propri interessi i governi eletti». Un’azione «di pedagogia e consapevolezza», fino a ieri limitata alla dimensione meta-partitica. Domani estesa anche all’agone elettorale? Magaldi appare deciso. Vede la necessità di «un partito “pesante”, novecentesco, democratico e ideologico, improntato al “socialismo liberale” di Carlo Rosselli, l’antifascista che diceva: è inutile parlare di libertà politiche e civili se non si offre ai cittadini anche una dignità economica per potersi occupare della res publica». Socialismo e liberalismo: «Keynes e Beveridge, il padre del welfare europeo, erano esponenti del Liberal Party». L’ipotetico nuovo soggetto politico punterebbe sull’elettorato in fuga dal Pd, su quello del centrodestra in pieno caos (e senz’ombra di primarie), rivolgendosi anche ai 5 Stelle: «Rappresentano una speranza, per l’Italia, a patto che si rivelino all’altezza della situazione, offrendo cioè uno spettacolo diverso da quello mostrato a Roma».Un nuovo partito, dunque? Sì, sembra dire Magaldi, se l’offerta politica italiana non offre alternative serie: e cioè un cambio radicale di paradigma. Stop al dogma neoliberista, senza mezzi termini. Come? «Dicendo quello che nessuno dice chiaramente: primo punto del programma, la revisione dei trattati europei. Tutti cianciano, parlano di uscire dall’euro, ma nessuno chiede apertamente, formalmente, di farla finita con questa Ue». Insiste Magaldi: «Propongo una riforma costituzionale per eliminare il pareggio di bilancio. Ho sentito che tutti i partiti che l’hanno votata se ne lamentano, si dicono pentiti. Bene, sfidiamoli: mettiamoli alla prova». Con un nuovo partito? Non ci lasciano altra scelta, sembra concludere Magaldi, che pensa alla discesa in campo. E, citando le «reti massoniche progressiste» a cui fa riferimento, si spende per «rassicurare tutti gli operatori dell’informazione libera e tutti i cittadini», per dire che il bavaglio al web non passerà. «Questi tentativi odiosi saranno sventati. Saranno anche denunciati. E tutti coloro che oggi si stanno impegnando in questa campagna liberticida, oltre a fallire, verranno sottoposti al giudizio severissimo della pubblica opinione», che ha imparato che giornali e televisioni non spiegheranno mai che, dietro ai missili di Trump, ci sono i “padrini” dell’Isis, di cui Magaldi – nel suo libro – fa nomi e cognomi.Esplodono bombe, interi paesi sprofondano nella crisi, i missili di Trump piovono sulla Siria. E i media non raccontano la verità: tacciono, mentono, restano reticenti. C’è un piano mondiale, in atto da trent’anni: finanziare guerre, terremotare le economie e silenziare l’informazione. «Ebbene, vi dico: non prevarranno. I manovratori saranno pubblicamente denunciati e fermati». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” e presidente del metapartitico Movimento Roosevelt nonché autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che denuncia per la prima volta, con impressionante precisione, le trame occulte di 36 superlogge internazionali, vero e proprio “back office” del potere, al lavoro da decenni per svuotare la democrazia a vantaggio dell’élite mondialista. In collegamento con Claudio Messora su “ByoBlu”, canale web finito di recente sotto attacco (boicottaggio pubblicitario da parte di Google), Magaldi raccoglie la sfida e prepara l’affondo a Roma, l’8-9 aprile, con un forum sul futuro della democrazia con speaker come l’economista Nino Galloni, il magistrato Ferdinando Imposimato e un giornalista come Giulietto Chiesa, bandiera storica dell’informazione indipendente. Obiettivo: costringere il sistema a dire la verità, anche con la creazione di un nuovo partito, che si impegni a stracciare i trattati europei che stanno piegando l’Eurozona.
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Proteste e bombe: Putin va abbattuto, con ogni mezzo
Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.Prendiamo gli Stati Uniti del dopo Obama. Qui la grande macchina d’intelligence e media si muove ancora lungo le linee guida definite negli ultimi due quadrienni presidenziali. In quelle “linee guida” vanno contestualizzate le dimostrazioni “anticorruzione” di Mosca guidate da Alexander Navalny. Quelle dimostrazioni sono, probabilmente, la punta d’iceberg degli investimenti messi in campo dalla passata amministrazione per rinverdire il mito delle “rivoluzioni colorate” utilizzate a suo tempo per allentare il controllo russo sulle periferie dell’ex impero sovietico. Non a caso l’oppositore Navalny è stato per anni il referente del “National Endowment for Democracy”, l’organizzazione finanziata dal Congresso Usa accusata di aver progettato sia le “rivoluzioni colorate” sia la “rivolta anti-russa” in Ucraina. Accuse costate all’organizzazione la messa al bando dalla Russia fin dal luglio 2015. L’intervento in Siria, di cui le bombe di Pietroburgo sembrano il riflesso, non va visto semplicemente nel contesto della guerra al terrorismo condotta da Putin in Siria, ma in quello ben più ampio dello scontro con Turchia, Qatar e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.Nel momento in cui Mosca si garantisce Damasco, tessera fondamentale del grande risiko, i jihadisti russi, forze d’elite della legione straniera islamista, vengono rimandati a casa per colpire Pietroburgo, ovvero la città natale del nemico Putin. Ma se Pietroburgo e Mosca sono in questo inizio 2017 i contraccolpi più evidenti della guerra condotta in Siria e sull’instabile linea di faglia tra zone d’influenza russe e americane, ancor più preoccupanti rischiano d’essere i contraccolpi delle battaglie condotte sul fronte economico. Su quel fronte zar Putin non ha soltanto disinnescato l’arma del prezzo del petrolio, usata per ridimensionare la potenza russa, ma si è addirittura imposto, come mediatore tra Iran e sauditi, garantendo l’accordo per il rialzo dei prezzi del greggio. E sul fronte asiatico, dove aveva già moltiplicato gli scambi con Pechino, è persino riuscito a metter la sordina al conflitto sulle isole Kurili siglando accordi per due miliardi e mezzo di dollari con un Giappone rimasto per oltre 70 anni partner ed alleato esclusivo degli Stati Uniti. Colpe venute al pettine in questo 2017, dove sono in molti a sognare l’arrivo di un vagone piombato con un novello Lenin pronto a far cadere lo sfrontato zar.(Gian Micalessin, “Le colpe dello zar? Non aver fallito un colpo. E in tanti sognano un Lenin che lo spodesti”, da “Il Giornale” del 4 aprile 2017).Se il regno di Nicola II era senescente, fragile e malvoluto, quello di Putin appare oggi ancora vitale e ricco di consensi. Zar Vladimir incomincia, però, a pagare il prezzo delle proprie ambizioni. Aver arrestato lo scivolamento dell’Ucraina verso Nato e Unione Europea, aver rimesso piede in un Medio Oriente dove l’influenza degli Usa di Obama era al lumicino, aver gettato le basi per la rinascita della potenza russa e aver ipotizzato un’intesa con Donald Trump ha sicuramente un costo. In quest’ottica il sangue di Pietroburgo e le dimostrazioni di Mosca sono i corrispettivi, da una parte, dell’intervento in Siria e dall’altra della battaglia mediatico-propagandistica condotta per inchiodare Putin allo stereotipo di leader autoritario e antidemocratico. Un leader pericoloso per l’ordine mondiale, per la stabilità del suo paese e persino per quella di un’America dove retroguardie obamiane, intelligence e grande stampa lo dipingono come il burattinaio di Donald Trump. Immaginare un grande complotto anti-russo capace di riunire gruppi jihadisti, potenze wahabite, vecchia intelligence obamiana e multinazionali globalizzate sarebbe una follia. Esiste però un’evidente e manifesta politica di potenza del Cremlino. Una politica di potenza sviluppata all’indomani della vittoria di Putin alle presidenziali del 2012. Una politica che fa della Russia il principale ostacolo alle ambizioni di entità diverse ed eterogenee.
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Contro l’Eurasia, agli Usa resta solo una chance: la guerra
Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».Un «mattatoio mediatico», intensificatosi dopo l’elezione di Donald Trump e accompagnato da «pesanti sanzioni, attacchi asimmetrici ai mercati russi e alla valuta», nonché «dall’armamento e addestramento di antagonisti della Russia in Ucraina e Siria», dalla «soppressione calcolata dei prezzi del petrolio greggio» e dal «ripetuto tentativo di sabotare le relazioni commerciali russe in Europa». In breve, riassume Whitney in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, Washington sta facendo qualsiasi cosa in suo potere per prevenire il fatto che Europa e Russia possano «fondersi nella più grande area di libero scambio mondiale, che verrebbe inevitabilmente a rappresentare il centro della crescita e della prosperità mondiale per il prossimo secolo». Ecco il motivo per cui il Dipartimento di Stato si è unito alla Cia per rovesciare il governo ucraino nel 2014: annettendo un ponte terrestre vitale tra Ue e Asia, i manovratori di potere Usa volevano «riuscire a controllare i gasdotti fondamentali che stanno avvicinando sempre di più i due continenti in una alleanza che escluderà gli Stati Uniti».La prospettiva? E’ pessima, vista dall’America, perché «la Russia soddisferà i crescenti bisogni energetici europei, mentre il sistema di ferrovie ad alta velocità cinesi farà arrivare ancora più prodotti a basso costo». Tutto questo suggerisce l’idea che «il centro di gravità dell’economia mondiale si sta spostando rapidamente, e con esso l’irreversibile declino degli Usa». E quando il dollaro «verrà inevitabilmente cestinato come mezzo di scambio primario tra i partner commerciali in una emergente area di libero scambio Ue-Asia», a quel punto «il riciclaggio di ricchezza sotto forma di debito Usa crollerà rapidamente, precipitando i mercati Usa nell’abisso, mentre l’economia intera affonderà in una palude». Sicché, «impedire a Putin di creare una “armoniosa comunità di economie che vada da Lisbona a Vladivostok” non è un compito secondario per gli Usa, è una questione di vita o di morte». Lo diceva già uno stratega del calibro di Paul Wolfowitz: «Il nostro obbiettivo primario è prevenire l’emergere di un nuovo rivale, sia esso sul territorio della fu Unione Sovietica o in altro luogo». Imperativo categorico: «Prevenire che ogni potere ostile possa dominare una regione le cui risorse possano, sotto controllo consolidato, rivelarsi sufficienti a generare dominio globale».«La geografia è destino», scrive Whitney. «E la geografia russa contiene vastissime riserve di petrolio e gas naturale, delle quali l’Europa ha bisogno per riscaldare le sue case e fornire energia alla sua economia». Di più: «La relazione simbiotica tra fornitore e utilizzatore finale porterà a un certo punto all’abbandono delle barriere commerciali, l’abbassamento delle barriere tariffarie e al progressivo integrarsi delle economie nazionali in un mercato comune di tutta la regione. Questo potrebbe rappresentare il peggiore incubo di Washington, ma è anche la massima priorità strategica di Putin», che ha scommesso sui grandi gasdotti – il North Stream sotto il Mar Baltico e il South Stream sotto il Mar Nero – per fornire all’Europa energia pronto uso, a basso costo. «Negli ultimi 70 anni la strategia imperiale ha funzionato senza contrattempi, ma adesso la rinascita russa e l’esplosiva crescita cinese minacciano di liberarsi dal giogo dell’abbraccio costrittivo di Washington», aggiunge Whitney. «Gli alleati asiatici hanno iniziato a puntellare l’Asia e l’Europa con gasdotti e ferrovie ad alta velocità che uniranno insieme i vari staterelli distanti dispersi nelle steppe, attirandoli nell’Unione Economica Euroasiatica, collegandoli a un superstato prospero e in espansione, epicentro del commercio e dell’industria globale».La geografia è destino: il primo a saperlo, e a dirlo, è stato l’uomo della “grande scacchiera”, Zbigniew Brzezinski, che ha riassunto l’importanza dell’Asia centrale nel suo classico del 1997 sostendendo che «l’Eurasia è il maggiore continente del globo e la sua importanza geopolitica è assiale». E’ matematico: «Una potenza che domina l’Eurasia controllerebbe due tra le tre regioni più avanzate ed economicamente produttive. Circa il 75% della popolazione mondiale vive in Eurasia e la maggior parte della ricchezza fisica effettiva si trova anche essa in questa area, sia nelle sue imprese che nel suo suolo». L’Eurasia, scriveba Brzezinski, conta per il 60% del Pil mondiale e per circa tre quarti delle risorse energetiche del globo. «Se l’Europa vuole un socio affidabile in grado di soddisfare i suoi bisogni energetici, la Russia corrisponde alla descrizione», osserva Whitney. «Sfortunatamente, gli Usa hanno tentato ripetutamente di sabotare entrambi i gasdotti allo scopo di mettere a repentaglio i rapporti Europa-Russia. Washington preferirebbe che l’Europa riducesse drammaticamente il suo utilizzo di gas naturale o che si rivolgesse ad altre fonti più costose che non passano per la Russia. In altre parole, i bisogni naturali europei vengono sacrificati agli obiettivi geopolitici Usa, tra i quali il maggiore è prevenire la formazione di una “Più Grande Europa”».Ne vediamo gli effetti: la guerra di Washington contro la Russia è sempre più militarizzata. Di recente il Pentagono ha stanziato più truppe da combattimento in Siria e Kuwait, vuole riarmare milizie jihadiste per rovesciare il governo siriano e ricorrere a un uso più diretto della forza per conquistare l’Est della Siria. Cresce la violenza anche in Ucraina, dal momento che il presidente Trump sembra orientato a un approccio ancora più duro di quello di Obama. Anche la Nato ha stanziato truppe e armamenti sul fianco occidentale russo, mentre gli Usa hanno disseminato basi militari in Asia centrale. La Nato non ha mai smesso di spingere verso est, dal momento in cui il Muro di Berlino cadde, nel novembre 1989. «L’accumulo di mezzi bellici ostili sul perimetro occidentale della Russia è una fonte di crescente preoccupazione a Mosca, e per ottime ragioni», scrive Whitney: «I russi conoscono la loro storia». Al tempo stesso, gli Stati Uniti «stanno costruendo un sistema terrestre di difesa missilistica antiaerea in Romania (Star Wars), che integra l’arsenale missilistico Usa in un luogo a soli 900 km da Mosca. Il sistema missilistico Usa, che è stato “certificato per le operazioni” nel maggio 2016, cancella il deterrente nucleare russo e distrugge l’equilibrio strategico di potere in Europa».Putin ha risposto con appropriate contromisure. E spiega: «Gli americani sono ossessionati dall’idea di “assoluta invulnerabilità” per loro stessi. Ma l’assoluta invulnerabilità di una nazione significa assoluta vulnerabilità per tutti gli altri. Non possiamo assolutamente essere d’accordo». Ora, l’amministrazione Trump ha annunciato che impiegherà il sistema Terminal High Altitude Area Difense (Thaad) in Corea del Sud, citando la necessità di rispondere alle provocazioni da parte della Corea del Nord. «In realtà – obietta Whitney – gli Usa sfruttano il Nord come pretesto per poter minacciare Russia e Cina come “limiti assiali” dell’Heartland Eurasiatico, come mezzo per contenere la vasta massa di terre emerse che Sir Halford Mackinder ha chiamato “l’area fondamentale, che si estende tra il Golfo Persico e il fiume Yang Tze in Cina”. Washington spera che, controllando le rotte marine critiche, circondando la regione con basi militari e inserendosi aggressivamente dove necessario, possa riuscire a prevenire l’emergenza di un colosso economico che possa sminuire l’importanza degli Stati Uniti come superpotenza globale».Il futuro dell’America «dipende dalla sua capacità di far deragliare l’integrazione economica del centro del mondo e riuscire nel “grande gioco” nel quale tutti gli altri hanno fallito». Un estratto da un articolo di Alfred McCoy, “La geopolitica del declino globale americano”, aiuta a illuminare la natura della contesa in corso per il controllo della cosiddetta “Isola-Mondo”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Usa si sono ritrovati «prima potenza nella storia a controllare i punti strategici assiali di entrambe le estremità dell’Eurasia». Con la paura dell’espansione russa e cinese come “catalizzatore della collaborazione”, Washington hanno guadagnato bastioni strategici sia in Europa occidentale che in Giappone. Con questi punti assiali come ancoraggio, ha creato «un arco di basi militari basate sul modello marittimo precedente», quello della Gran Bretagna, «visibilmente concepite per circondare l’“Isola-Mondo”». Spogliata del suo rivestimento ideologico, osserva McCoy, la grande strategia di Washington del contenimento anti-comunista nella guerra fredda «non è stato molto altro che un processo di successione imperiale». Alla fine della guerra fredda, nel 1990, «l’accerchiamento della Cina comunista e della Russia richiedeva 700 basi in territori stranieri, una potenza aerea di 1.763 jet da combattimento, un vasto arsenale nucleare, oltre 1.000 missili balistici e una potenza navale di 600 navi, tra cui 15 portaerei nucleari, tutti unificati dall’unico sistema al mondo di comunicazione globale satellitare».Un nuovo impero globale sta ora gradualmente emergendo, in Asia Centrale. E, mentre l’impatto dell’integrazione economica dell’area non si è ancora realizzato, secondo McCoy «gli sforzi da parte degli Usa per fermare questa possibile alleanza nella sua fase embrionale appaiono sempre più inefficaci e disperati». L’iperbolica propaganda sul presunto “hacking russo” dell’elezione presidenziale Usa ne solo uno tra i numerosi esempi – un altro è l’armamento dei neonazisti a Kiev. «Il punto è che sia la Russia che la Cina si stanno servendo dello sviluppo dei mercati e della semplice ingenuità per avere la meglio su Washington, mentre Washington si basa quasi esclusivamente sull’inganno, attività occulte, forza militare bruta. In parole povere gli ex comunisti stanno stracciando i capitalisti nel loro stesso gioco». Ancora McCoy: «La Cina si sta affermando in modo profondo nell’‘Isola-Mondo’ in un tentativo di dare una forma completamente nuova ai fondamentali geopolitici del dominio globale. Per fare ciò sta usando una fine strategia che fino a questo momento ha eluso la comprensione da parte delle élites al potere in Usa».Il primo passo? E’ consistito «in un sensazionale progetto di creazione di una infrastruttura che assicuri l’integrazione economica del continente». Stendendo un elaborata e complessa rete di ferrovie ad alto volume ed alta velocità, come anche gasdotti ed oleodotti, nelle vaste distese eurasiatiche, «la Cina potrebbe rendere realtà l’intuizione di Mackinder in un modo imprevisto». Ovvero: «Per la prima volta nella storia, il rapido movimento transcontinentale di carichi di materie prime fondamentali – petrolio, minerali, prodotti – sarà possibile su una scala prima impensabile, unificando così potenzialmente la grandissima estensione di terre in questione in una unica zona economica che si estende per 6.500 miglia da Shangai a Madrid». In tal modo, conclude McCoy, «la leadership pechinese spera di spostare il baricentro del potere geopolitico via dalla periferia marittima e fin dentro all’Heartland continentale». Ma Washington, aggiunge Whitney, di certo non lascerà che il piano russo-cinese vada avanti: continuerà a combatterlo. E «se sanzioni economiche, attività occulte e sabotaggio economico non funzioneranno, i manovratori di potere Usa passeranno a strategie più letali». La peggiore delle ipotesi sta già andando in scena: lo dimostrano i recenti stanziamenti di truppe in Medio Oriente. Gli americani «ritengono che un confronto militare diretto possa essere la migliore opzione disponibile», pensando che «una guerra contro la Russia combattuta in Siria o in Ucraina non necessariamente potrebbe degenerare in una guerra nucleare a tutto campo». Ma sarebbe abbastanza per trascinare nel conflitto anche l’Europa, nel tentativo – disperato – di «abbattere definitivamente il piano russo di “integrazione economica” e immobilizzare la Russia in un lungo pantano che ne prosciugherebbe le risorse».Siamo in pericolo, perché l’America sta perdendo terreno: per questo ormai è pronta a tutto, anche alla guerra con la Russia, per impedire che Mosca coinvolga l’Europa nel piano strategico che più converrebbe a entrambe, cioè l’integrazione economica in termini di Eurasia, fino alla Cina. Guai, quindi, se l’Europa mollasse gli Usa. E’ la visione che Mike Whitney disegna su “Counterpunch”, con un finale già scritto – il declino della superpotenza Usa – con la possibile variante, per noi catastrofica, della (inutile) guerra mondiale scatenata dall’élite americana nel tentativo, impossibile, di invertire il corso della storia. Ancora nel 2012, lo stesso Putin parlava della creazione di «uno spazio economico comune che vada dall’Atlantico al Pacifico», chiamato “l’Unione di tutta Europa”, con la Russia come perno di una “Nuova Asia” saldamente collegata all’Europa. «L’inarrestabile demonizzazione di Putin – scrive Whitney – è soltanto una parte della multiforme strategia di Washington per fare arretrare il potere russo in Asia centrale e mettere la parola fine al sogno di Putin di “Una più grande Europa”». Di qui l’incessante sforzo per liquidare il presidente russo come “bandito del Kgb”, o “dittatore”, colpevole addirittura dell’ipotetico hackeraggio per ingerire nelle presidenziali statunitensi, con la Russia presentata dai media come «un pericoloso aggressore seriale che pone una crescente minaccia alla sicurezza della Ue e degli Usa».