Archivio del Tag ‘troika’
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La guerra dell’Ue contro la nostra civiltà democratica
L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.Il dissidio tra democrazia costituzionale italiana e trattati Ue è del tutto evidente, se si analizza il modello sociale ed economico che la Costituzione italiana ha indubbiamente abbracciato nel modello del 1948. Il dovere alla solidarietà, considerato come “base della convivenza democratica”, viene completamente disatteso dall’impianto europeo, in particolar modo in quella che è stata la gestione della crisi economica dal 2008 in poi: comunità nazionali deprivate delle conquiste economico-sociali di oltre un secolo di lotte, con una subdola gradualità che non deve consentirgli di accorgersene in tempo utile (attraverso meccanismi infernali di controllo totalizzante ed anti-democratico come la Troika). La competizione inevitabile e programmatica tra Stati aderenti all’Unione esclude la solidarietà tra i membri: economie di interi Stati si stanno completamente dissolvendo in nome dell’irrazionale equazione Ue = euro, rendendo schiave generazioni di popoli a cui si predicano “i diritti civili”, non consentendo loro di esercitare diritti politici e sociali.Allo sfaldamento della base economica dello Stato democratico italiano corrisponde dunque un’accelerazione della perdita di diritti in toto, che è pericolosamente derivante dall’originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Le “riforme” pretese dal “cammino di convergenza”, che si è ormai trasformato in un campo di macerie da Berlino ad Atene, non sono altro che il mezzo per accelerare irreversibilmente la caduta del modello socio-economico costituzionale per l’instaurazione dell’impianto ordoliberista, che esclude totalmente la solidarietà e la centralità della persona umana.(Martina Carletti, “L’Unione Europea e la distruzione della solidarietà sociale”, da “Appello al Popolo” del 22 settembre 2014).L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.
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Eurogendfor, la Gestapo europea non risponde ai giudici
I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.La nuova super-polizia, scrive Cesare Sacchetti su “L’Antidioplomatico”, non risponderà più neppure al presidente della Repubblica, che è il comandante in capo delle forze armate secondo la Costituzione italiana. Eurogendfor obbedirà solo agli ordini del Cimin, l’alto comando interministeriale composto dai rappresentanti dei ministeri delle parti firmatarie, che ha il compito di governare la gendarmeria europea. «Nelle democrazie costituzionali il controllo delle forze armate deve rispondere a criteri di trasparenza e sono previsti precisi meccanismi di controllo sul loro operato», ricorda Sacchetti. Eurogendfor, invece, «si colloca gerarchicamente al di sopra delle forze di polizia italiane, indirizzandone le attività ordinarie e persino d’intelligence». Potrà infatti «condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico, monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale». Inoltre potrà assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence. «I servizi segreti italiani potranno trovarsi tagliati fuori nella gestione dell’intelligence, con gravi rischi per la sicurezza nazionale».Ma l’aspetto più inquietante, secondo Sacchetti, è l’immunità penale che questo trattato attribuisce ai membri della gendarmeria europea: «I membri del personale di Eurogendfor – recita la normativa – non potranno subire alcun procedimento relativo all’esecuzione di una sentenza emanata nei loro confronti nello Stato ospitante o nello Stato ricevente per un caso collegato all’adempimento del loro servizio». Super-polizia sovrana, al di sopra della magistratura: niente informazioni, controlli, perquisizioni, indagini. «Le autorità delle parti non potranno entrare nei locali e negli edifici senza il preventivo consenso del comandante Egf o, ove possibile, del comandante della Forza Egf», si legge. «Gli archivi di Eurogendfor saranno inviolabili». E l’inviolabilità degli archivi «si estenderà a tutti gli atti, la corrispondenza, i manoscritti, le fotografie, i film, le registrazioni, i documenti, i dati informatici, i file informatici o qualsiasi altro supporto di memorizzazione dati appartenente o detenuto da Eurogendfor, ovunque siano ubicati nel territorio delle parti».In linea teorica, segnala Sacchetti, «Egf potrebbe avere già un archivio (illegale) dove vengono schedati cittadini che per qualche motivo sono sotto osservazione». Archivio ovviamente «precluso l’accesso alle autorità italiane». L’obbligatorietà dell’azione penale, alla quale è tenuta la magistratura italiana? «In questo modo è annullata, e viene meno uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, attraverso il trapianto di una milizia sovranazionale sul territorio italiano con sede a Vicenza, le cui spese sono a carico dello Stato italiano come previsto dall’articolo 10 del trattato». Milizia che «non risponde all’autorità giudiziaria dello Stato, e non è tenuta ad osservare le sentenze emesse dai suoi tribunali». L’inviolabilità delle sedi e l’impossibilità di intercettare le comunicazioni della gendarmeria europea «è una situazione di extra legem, ovvero la completa inefficacia degli atti giuridici nazionali». Per Sacchetti, «il Trattato di Velsen rappresenta una chiara violazione della Carta, poiché le forze armate non debbono e non possono possedere un’immunità penale nell’esercizio delle loro funzioni, né tantomeno sono escluse dalla possibilità di essere intercettate e le loro sedi possono essere perquisite su mandato della magistratura». Di fatto, «la gendarmeria di Velsen non risponde alle leggi italiane e alla sua Costituzione».Chi ha concepito e firmato quel trattato «ha pensato di istituire una forza di polizia che non appartenesse direttamente agli Stati nazionali, da poter utilizzare violando le fondamentali procedure di controllo democratiche». Storia: «Gli esempi di polizie che non rispondono a principi democratici sono da rintracciare nel passato come la Gestapo della Germania nazista, o la Ceka dell’Unione Sovietica, vere e proprie polizie politiche incaricate di perseguire gli avversari dei rispettivi regimi», scrive Sacchetti. «La gendarmeria europea è stata utilizzata ad Atene nel 2010 durante le manifestazioni contro la Troika, e non è da escludersi che possa operare prossimamente sul nostro territorio per reprimere il dissenso montante nei confronti delle politiche di austerità». Col pretesto dei tagli alla spesa, l’Italia di Renzi torna a parlare di riordino delle forze dell’ordine (troppi corpi di polizia) ma definisce fantascienza la sparizione dell’Arma dei carabinieri, assorbita da altre strutture. Sicuri che siano solo fantasie? L’articolo 3 della legge di ratifica di Velsen dice chiaramente che «la forza di polizia italiana a statuto militare per la forza di gendarmeria europea è l’Arma dei carabinieri».I Paesi Bassi sono il luogo dove l’Italia ha cambiato la propria storia negli ultimi 25 anni, non solo legandosi al Trattato di Maastricht, con la cessione della sovranità monetaria e legislativa, ma per poter definitivamente abbandonare la veste di Stato sovrano era necessario rinunciare all’esclusività delle funzioni delle forze armate sul proprio territorio, con l’istituzione di una milizia sovranazionale. Questo passaggio è avvenuto nel 2007 a Velsen, piccola municipalità dei Paesi Bassi, dove è stato firmato un trattato congiuntamente a Francia, Spagna, Paesi Bassi e Portogallo che istituisce la gendarmeria europea, l’Eurogendfor, che andrà ad esautorare le forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico. Uno scenario irrealistico, ma che è stato messo nero su bianco con la legge di ratifica numero 84 del 14 maggio 2010, votata dal Parlamento con 443 voti favorevoli su 444 presenti, solamente un astenuto. L’Eurogendfor sarà la milizia che si incaricherà della gestione delle crisi (scioperi, manifestazioni) sul territorio italiano, e non risponderà più direttamente alle istituzioni parlamentari.
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Frana la fiaba Torino-Lione? Tutt’intorno, intanto, è guerra
Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura galleria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci. Inoltre devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.Giornali e televisioni parlano dei costi dell’opera dando per scontata la sua utilità, assunto dimostratamente falso, e si guardano bene dal citare la recente indagine della magistura antimafia che indica il rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’unico cantiere finora aperto, quello per la piccola galleria esplorativa di Chiomonte. Le uniche indagini degne di cronaca sono invece quelle contro il movimento NoTav, che si fermano all’aspetto dell’ordine pubblico, la cui gestione è entrata in crisi nel momento in cui la politica ha provocatoriamente rifiutato di dare risposte ai sessantamila abitanti della valle di Susa, lasciando sul campo – come unico interlocutore – i reparti antisommossa. Questo ha inevitabilmente trasformato la valle di Susa in una trincea nazionale di protesta, che oppone i cittadini a istituzioni sempre più lontane e anonime, tenocratiche, evidentemente dominate da lobby affaristiche economico-finanziarie. Lobby interessate al business di grandi cantieri affidati all’opaca gestione di “general contractor” che agiscono in piena autonomia, grazie a leggi speciali: un copione che in Italia ha determinato il puntuale “impazzimento” dei costi e il prosperare della filiera dei subappalti a cascata, in cui molto denaro passa di mano in mano, per la felicità delle banche, ma i posti di lavoro restano pochissimi e costosissimi.Sul piano politico, resta da decifrare il significato della cerimonia pubblica dello stupore, esibito per il “sorprendente” lievitare dei costi dell’ipotetico futuro traforo ferroviario italo-francese, già definito l’opera pubblica più costosa della storia italiana, nonché la più inutile della storia europea. Denunciarne il rincaro preventivato significa cominciare a prendere le distanze da un’operazione ormai insostenibile e non più difendibile, dati i tempi di crisi? Agitare il problema dei “nuovi” costi può servire anche a disertare dalla lobby pro-Tav senza dover dare ragione agli oppositori del progetto, che non sono più solo i valsusini: da qualche anno il movimento NoTav ha infatti conquistato l’attenzione di milioni di italiani. I distinguo e le richieste di chiarimento potrebbero essere l’inizio di una ritirata strategica? E’ presto, per dirlo. Ma va ricordato che il progetto fu ritirato già una prima volta, nel 2006, dopo l’insurrezione nonviolenta della popolazione valsusina alla fine del 2005. Non volò una pietra, ma decine di migliaia di manifestanti – guidati dai sindaci in fascia tricolore – pretesero di essere trattati come cittadini e non come sudditi.Problema che dalla valle di Susa si è esteso al resto d’Italia, dal momento in cui è Bruxelles a scrivere il bilancio del governo di Roma, dettando i tagli alla spesa pubblica che condannano l’economia nazionale alla recessione perpetua. Eppure, nonostante lo sfacelo istituzionale di questi anni, simboleggiato dal governo della Troika affidato a Mario Monti, oggi il mainstream se la cava facendo le pulci al peventivo di Rfi sulla Torino-Lione. Come se fossimo ancora in tempo di pace, come se la sorda guerra programmata dall’élite finanziaria non avesse già accerchiato quel che resta delle nazioni sovrane, coi rottami dei loro diritti e le macerie del welfare e del lavoro che fu. Le “riforme” in arrivo mirano a sbaraccare il residuo ingombro di quote di democrazia, cominciando dal potere civico esercitato mediante libere elezioni. La vittoriosa battaglia civile dei NoTav nel 2005 assomiglia sempre più a una pagina da libri di storia, una esemplare protesta – condotta in tempo di pace – in nome dello Stato di diritto e delle prerogative della cittadinanza garantite dalla Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista. Nulla che possa più fare davvero notizia, nell’imperante barbarie euroatlantica che semina guerre ai confini, dall’Est al Medio Oriente al Nordafrica, terremotando nel frattempo la vita dei cittadini europei e cancellando il loro diritto al futuro dignitoso nel quale crebbero i padri, convinti di costruire un avvenire di pace, benessere e giustizia.Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura arteria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci nonostante il costoso ampliamento del traforo del Fréjus, capace di ospitare treni carichi di container. Inoltre l’opera devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.
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Foa: posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi
C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.C’è un vincolo sociale, o se preferite morale, che porta i dirigenti delle imprese a usare con buon senso e nelle giuste proporzioni un diritto in sé molto potente. La cultura prevalente tende a biasimare chi scade nell’abuso o nello sfruttamento e, sebbene ci siano dei casi disdicevoli, pochi violano questa legge non scritta. Inoltre, come noto, la Svizzera primeggia nelle classifiche mondiali sull’imprenditoria. La Svizzera è business friendly: le aziende nascono, crescono, si sviluppano e restano sul territorio. Risultato: la disoccupazione è bassissima e la Confederazione elvetica continua ad assumere lavoratori dall’estero, a riprova di un mercato dinamico. Ma in Italia? Purtroppo in Italia non si può dire lo stesso. La cultura sociale non è basata sul rispetto, ma sulla sfiducia sociale, sull’elusione della legge, sui rapporti di forza con le controparti sociali.A fronte di molti imprenditori seri che hanno un rapporto corretto, spesso esemplare, con i propri dipendenti, ne esistono altri – sovente nei servizi – che scadono nello sfruttamento; quegli imprenditori (ammesso che possano essere considerati tali) che assumono in nero o vanno avanti con contratti a tempo determinato senza mai trasformarli in contratti a tempo indeterminato, insomma che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla loro disperazione sociale. Sono questi figuri che alla fine legittimano e rafforzano il sindacato. E c’è l’Italia di oggi: un’Italia ormai quasi deindustrializzata non per demerito dei suoi imprenditori ma a causa degli effetti delle politiche irresponsabili, vessatorie e ingiuste volute dall’establishment europeo e portate a termine con solerzia da Mario Monti ed Enrico Letta, con la benedizione del pontefice di Francoforte Mario Draghi.Nell’Italia di oggi il problema non è il posto fisso, bensì che il posto non c’è più. Coloro che hanno provocato questa desertificazione economica sono gli stessi che da 15 anni promettono di anno in anno riprese che non arrivano mai, paradisi che non si materializzano mai, vaticinano di economia di mercato e di flessibilità ma promuovono la burocratizzazione dell’economia europea, avallando rigidità strutturali insostenibili. E fino a quando Matteo Renzi non avrà affrontato questo problema, trovando il coraggio di distanziarsi dal pensiero unico dominante e di mettere di nuovo le aziende nelle condizioni di crescere in libertà, nulla verrà risolto. La riforma dell’articolo 18 rischia di non produrre gli effetti virtuosi sperati ma, paradossalmente, di far aumentare la disoccupazione o di comprimere ancor di più verso il basso i salari. Da sola non basta. Ci vorrebbero un progetto, un’idea del paese, fiducia nel genio imprenditoriale degli italiani e il coraggio di liberare le imprese e l’Italia dai vincoli burocratici ed esterni che ne inibiscono la creatività. Ci vorrebbe un leader concreto, coraggioso e lungimirante. Qualcuno di ben diverso da Matteo Renzi.(Marcello Foa, “Posto fisso, perché non possiamo credere a Renzi”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 27 ottobre 2014).C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità. Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro. A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona. Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog, da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale “Corriere del Ticino-Timedia”. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza Tfr, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.
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Sinistra, un popolo di orfani senza un solo leader credibile
Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.«Come giustamente notava De Luna, la parte politica che ancora non ha capito qual è la portata degli eventi in atto è la sinistra», scrive Anna Lami su “Megachip”, nonostante il successo delle mobilitazioni sindacali delle ultime settimane. Notevole lo sciopero generale dell’Emilia Romagna proclamato dalla Cgil regionale, con decine di migliaia di lavoratori in piazza a Bologna e quasi tutte le principali fabbriche della regione ferme, per non parlare della battaglia degli operai della Thyssen di Terni, che «dopo cortei improvvisati, occupazione di Comune e Prefettura, picchetti, è culminata in una giornata di sciopero che ha fermato l’intera città umbra con una manifestazione che ha visto circa trentamila partecipanti e la contestazione dei vertici confederali». Il corteo oceanico della Cgil a Roma? «E’ la conferma che il popolo di sinistra esiste ancora, gode di buona salute ed è pronto a farsi sentire». Purtroppo, però, «non siamo più negli anni in cui una grossa manifestazione poteva bastare a frenare le intenzioni degli alti comandi».La verità è che «la crisi sta portando ad un mutamento di epoca: non basta più far vedere che “volendo si potrebbe”, occorrerebbe proprio rompere gli argini, cosa che esula decisamente dalle intenzioni dei vertici sindacali». Ancora una volta, continua Anna Lami, la base si è dimostrata più avanzata di chi dovrebbe rappresentarla: lo dicono gli slogan, i cartelli e gli striscioni, contro l’esecutivo e non solo contro il Jobs Act, dimostrando «una crescente consapevolezza politica tra il popolo lavoratore», che ormai accusa anche Napolitano, la Confindustria e la Bce. «Qui, però, entra in gioco la differenza principale tra la piazza di Milano della Lega Nord e le manifestazioni dei lavoratori», spiega Lami. «Mentre la prima ha trovato piena espressione politica, con un progetto radicale nettamente definito in senso reazionario-populista, le seconde sono ancora completamente prive di interlocutori politici credibili e adeguati ai tempi».E’ un’anomalia «che sta costando molto cara ai ceti popolari e, soprattutto, non sembra volgere verso la fine». Infatti, «fino a quando sarà possibile, come è accaduto a piazza San Giovanni, che starlettine della sinistra Pd, mezze figure come Cuperlo, Fassina e Civati, pienamente coinvolti e responsabili del disastro sociale in atto, si facciano belli sui media parlando da una manifestazione da cui dovrebbero essere cacciati in un nanosecondo, allora il divario politico che separa la realtà odierna e la rappresentazione della sinistra italiana sarà abisso». Renzi e le classi dominanti «potranno continuare a farsi beffe di ogni mobilitazione popolare», conclude Anna Lami, «fino a quando non sorgerà un soggetto politico coerentemente anticapitalista in grado di organizzare quei settori sociali che subiscono la crisi (e che sono disponibili a mobilitarsi, come anche a Roma si è visto) inserendoli in una prospettiva di conflitto», verso un cambiamento radicale.Renzi può dormire sonni tranquilli: a sinistra lo contestano solo pesi-piuma come Civati e Cuperlo. Nel giorno in cui a Roma centinaia di migliaia di persone rispondevano alla chiamata della Cgil, lo storico Giovanni De Luna indicava significativamente il “deserto” alla sinistra di Renzi, anche se il conflitto tra il governo e Cgil spalancherebbe «intere praterie a sinistra del Pd». Infatti, «il partito a vocazione maggioritaria immaginato da Renzi», se da un lato tende al “grande centro” svuotando di senso il bipolarismo su cui si è fondata la Seconda Repubblica, dall’altro favorisce anche le ali estreme del sistema politico. La crisi in corso, avverte Anna Lami, porta con sé una profonda radicalizzazione del quadro politico, i cui effetti devono ancora pienamente dispiegarsi: «Inevitabile la rottamazione di chi non capisce il mutamento epocale in atto, illudendosi di poter tirare avanti come se nulla fosse, mantenendo una prospettiva di piccolo cabotaggio». L’ha capito perfettamente Matteo Renzi, e nel suo piccolo se n’è reso conto anche Matteo Salvini, trapiantando a Milano il suo lepenismo, in una piazza Duomo gremita di folla.
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Tutti precari? Sembra un affare, invece uccide le imprese
Jobs Act per rilanciare economia e occupazione? Errore: «La definitiva abolizione dell’articolo 18 è destinata a intensificare la recessione», secondo Guglielmo Forges Davanzati. «L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso: dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro». Lo dimostra l’evidenza empirica, che «smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione». Avvertiva Achille Loria nel lontanissimo 1899: «Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari». Come volevasi dimostrare: «Non è l’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione».Non lo è, scrive Davanzati su “Micromega”, perché la sua applicazione interessa una platea ristretta di lavoratori. E perché è già stato, di fatto, superato con la cosiddetta riforma Fornero. Inoltre, «le scelte di assunzione delle imprese non sono motivate da presunte “rigidità” della normativa a tutela dei lavoratori, ma semmai dalle aspettative di profitto», dunque, dalla mancanza di domanda: consumi a picco. Non è “colpa” dell’articolo 18, «soprattutto perché è ormai ampiamente provato che non è la deregolamentazione del mercato del lavoro ad accrescere l’occupazione». Prova del nove, ampiamente dimostrata dalle statistiche: «All’aumentare della flessibilità del lavoro – misurata dall’Epl (Employment protection legislation) – l’occupazione non aumenta». Fatto «ancora più certo», sul piano empirico, è che «la flessibilità riduce i salari».In una fase di intensa e prolungata recessione, scrive Forges Davanzati, è davvero ardua impresa provare ad uscirne sottraendo diritti ai lavoratori. Indebolire ulteriormente il lavoro servirà solo a far crollare, ancora, la domanda interna di consumi. «La sola ratio economica che può motivare questa misura risiede nella convinzione – propria della Commissione Europea – in base alla quale la fuoruscita della crisi si rende possibile solo accrescendo la competitività sui mercati internazionali». Solo export, dunque. E quindi: taglio dei salari, riduzione dei prezzi, aumento delle esportazioni, incremento dei profitti delle imprese esportatrici. In teoria, poi: reinvestimento dei profitti e aumento finale dell’occupazione interna. Peccato che alla teoria non corrisponda la realtà: secondo un recente studio della stessa Commissione Ue, nei paesi come l’Italia «le politiche di deflazione salariale hanno generato il solo effetto di accrescere i margini di profitto, con risultati pressoché insignificanti sull’andamento delle partite correnti». In sostanza, «non vi è alcun automatismo che garantisce che un incremento di esportazioni si traduca in un aumento dell’occupazione interna».Il punto è se la riduzione dei salari implichi la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto fra salario e produttività del lavoro), dal momento che la competitività può aumentare solo a condizione che, a fronte di una riduzione dei salari, la produttività cresca o almeno rimanga costante, a parità di tasso di cambio. Ma, quantomeno nel caso italiano, le cose non stanno così. «Da almeno un decennio – scrive Davanzati – l’economia italiana sperimenta, contestualmente, una rilevante contrazione della quota dei salari sul Pil e un’altrettanto rilevante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro». L’ultimo rapporto Eurostat certifica che, nell’ultimo trimestre del 2013, il costo del lavoro in Italia è ulteriormente aumentato (1,1%), a fronte del fatto che la dinamica delle retribuzioni si è mantenuta al di sotto della media europea (+1,4% in Italia, +1,6% nell’Ue). La dinamica dei salari e quella della produttività sono strettamente connesse, sia per ragioni che attengono all’assetto tecnico con il quale le imprese operano, sia per ragioni che riguardano le reazioni dei lavoratori alla variazione dei salari.La riduzione dei salari «pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività». Se calano i salari crollano i consumi, a danno delle imprese che operano sul mercato interno. Inoltre, la contrazione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e, soprattutto in un contesto di restrizione del credito, le pone nelle condizioni di non poter investire, dunque crescere. Infine, le imprese italiane presenti sui mercati internazionali sono quasi esclusivamente aziende di grandi dimensioni: «Il che evidenzia il fatto che politiche che non favoriscono la crescita dimensionale delle imprese sono destinate a controbilanciare il possibile (e incerto) effetto di aumento delle esportazioni derivante dalla moderazione salariale».Inoltre, «la riduzione dei salari e la compressione dei diritti dei lavoratori tende ad associarsi a una bassa dinamica della produttività del lavoro». L’esperienza italiana «mostra che quanto più si è reso flessibile il mercato del lavoro, tanto più si è registrato un rallentamento del tasso di crescita della produttività», che ha cominciato a calare in modo rilevante con l’approvazione del “pacchetto Treu” e della “legge Biagi”. Le cause: scarsi investimenti e assenza di innovazioni, ma anche «un effetto di ‘scoraggiamento’», a sua volta generato «dalla bassa gratificazione derivante dal lavorare in condizioni precarie e con sottoutilizzazione del capitale umano, e dalla bassa probabilità di trovare impiego in caso di licenziamento». In questo senso, «le politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro (e la connessa maggiore libertà di licenziamento), combinate con il peggioramento delle condizioni di lavoro e la scarsa valorizzazione delle competenze, hanno contribuito a ridurre l’impegno lavorativo e, per conseguenza, la produttività».E attenzione: il fenomeno ha carattere irreversibile, «dal momento che la riduzione dei salari deteriora la qualità della forza lavoro in un orizzonte di lungo periodo». Se si manomette il sistema-lavoro puntando al ribasso, è carto che si avranno risultati negativi per molto tempo, perché saltano gli equilibri consolidati attraverso decenni di sviluppo. «Più bassi salari oggi implicano, infatti, minori possibilità di spese per istruzione, sanità, riduzione del tasso di natalità (e conseguente invecchiamento della popolazione), con effetti di segno negativo sulla produttività futura». In altri termini, conclude Davanzati, «l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, mentre può risultare conveniente per la singola impresa e nel breve periodo, risulta controproducente per la collettività delle imprese, e controproducente nel lungo periodo: non solo per le imprese, ma anche e soprattutto per le prospettive di crescita dell’economia italiana».Jobs Act per rilanciare economia e occupazione? Errore: «La definitiva abolizione dell’articolo 18 è destinata a intensificare la recessione», secondo Guglielmo Forges Davanzati. «L’ulteriore indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, riducendo i salari, accentua il circolo vizioso: dalla compressione della domanda interna alla caduta dell’occupazione e del tasso di crescita della produttività del lavoro». Lo dimostra l’evidenza empirica, che «smentisce la convinzione secondo la quale la moderazione salariale favorisce l’aumento delle esportazioni e, per questa via, l’aumento dell’occupazione». Avvertiva Achille Loria nel lontanissimo 1899: «Quanto più la depressione procede e con essa si accentua il disagio dei capitalisti, tanto più veemente si fa la reazione di questi contro gli operai, la resistenza alle loro pretese, la riduzione violenta dei salari». Come volevasi dimostrare: «Non è l’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori a frenare la crescita economica in Italia e a tenere alto il tasso di disoccupazione».
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Complici del massacro sociale, e ora contestano Renzi?
Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?E’ stato il centrosinistra guidato dai tecnocrati a consegnare gli italiani all’euro-sistema, massima espressione della fine dei diritti, condannando il paese alla crisi: non c’è più “benzina” per le politiche sociali, perché Maastricht – revocando la sovranità monetaria – ha prosciugato le casse dello Stato, costretto a svendere prima i servizi pubblici e poi il sistema-paese, le aziende e le tecnologie, i risparmi, i giovani talenti. Tutto travolto dal taglio della spesa pubblica, che fa crollare anche l’economia privata fondata sui consumi. Dov’èra, Susanna Camusso, mentre tutto questo accadeva? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader della Fiom, di fronte al tardivo soprassalto di orgoglio esibito dalla Cgil dopo la rottamazione forzata della repubblica dei lavoratori, il Jobs Act renziano. «In questi decenni – scrive Cremaschi su “Micromega” – il principale sindacato italiano da un lato è stato l’attore sociale della sinistra, perfettamente collaterale al Pd, dall’altro ha ripetutamente tentato un patto dei produttori con l’impresa, per agire di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo gruppo dirigente non sa letteralmente che fare».Nessuna mobilitazione di piazza, dice Cremaschi, riuscirà a chiarire dove si sta andando, «perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si combatte non solo rompendo con le sue manifestazioni estreme, ma anche con le ragioni e con il percorso che ad essa ci hanno portato». Il governo Renzi? «Lo potremmo chiamare il governo Renzi-Marchionne, almeno per quel che riguarda il lavoro». Rappresenta «l’ultimo e più intelligente tentativo delle classi dirigenti italiane ed europee di imporre da noi le politiche liberiste che hanno distrutto la Grecia». Intelligente, certo, «perché si è capito che la pura brutalità dei diktat della Troika alla lunga non paga: per questo le politiche liberiste oggi devono essere accompagnate o addirittura precedute da cambiamenti politici e culturali che rendano accettabile o persino condivisibile l’accentuazione delle già così esplosive diseguaglianze sociali». Niente di nuovo: «Per fare questo non basta la destra tradizionale, bisogna occupare il campo della sinistra e portare la parte più grande di essa a sostenere politiche più a destra della destra tradizionale». Questo è il renzismo, dice Cremaschi. Ma è anche – alla lettera – l’applicazione della dottrina di Lewis Powell contro i lavoratori.In Italia, secondo Cremaschi, siamo di fronte all’ultima versione «di quel trasformismo politico che nella storia del nostro paese è sempre partito dalla mutazione genetica della sinistra». Ma il fenomeno non è certo un’esclusiva del made in Italy: in Gran Bretagna provvide Tony Blair, il maestro di Renzi, a far piazza pulita di quel po’ di sinistra laburista che era sopravvissuta a Margaret Thatcher. In Germania, la patria della socialdemocrazia europea, la Spd fu suicidata dal cancelliere Gerhard Schroeder, l’uomo che fece storici sconti alla Russia per poi ottenere un ingaggio miliardario dalla Gazprom come super-consulente. Proprio Schroeder varò le micidiali riforme strutturali ispirate dal boss della Volkswagen, Peter Haartz, che comprò – corrompendoli – i leader sindacali dell’azienda, perché tradissero i lavoratori che si fidavano di loro. In Francia, l’eclissi della sinistra raggiunse caratteri mostruosi col monarca finto-socialista Mitterrand: fu lui, il massimo architetto politico dell’euro-regime, a inoculare il virus letale dell’austerity nello Stato europeo, proiettando micidiali tecnocrati – da Jacques Delors a Jacques Attali – al vertice del nuovo super-potere di Bruxelles, da cui impartire le direttive che avrebbero trasformato la fiorente Europa nella “terra desolata” di oggi, ricattata dalle banche e devastata dalla recessione e della disoccupazione.In Italia, con Renzi, siamo agli spiccioli finali: «La cancellazione dell’articolo 18 ha il valore simbolico dell’abbattimento dell’ultima bandiera dell’uguaglianza e serve a rendere accettabili provvedimenti ben più immediatamente sostanziosi, come il via libera ai licenziamenti di massa dato alla ThyssenKrupp, o il regalo alla Confindustria della riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket dei malati», scrive Cremaschi. «Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi, mentre lavoratori e precari vivono nell’incubo». Ma la sceneggiatura è invariabile: la promozione della rovina non può procedere senza il pieno consenso dei leader dell’ex sinistra. «Un governo così sfacciatamente filopadronale – insiste Cremaschi – non poteva che nascere da una operazione culturale e politica che si accampasse e giustificasse nel Pd». Il governo Renzi? «Riassume trenta anni di politiche liberiste contro il lavoro e le conduce al punto estremo», rendendo palese «la doppia contraddizione della Cgil». La prima è la più evidente: «Il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta inscindibile».Il guaio è che la Cgil, con i suoi gruppi dirigenti, ha sinora avuto il Pd come referente istituzionale fondamentale: «Rompere con esso significherebbe praticare un mare aperto nelle relazioni politiche che fa paura». Imbarazzante, quindi, che con la Cgil si schierino esponenti Pd dell’area anti-renziana, come Stefano Fassina, che poi però restano «disciplinati nel votare la legge sul lavoro». Anche qui, nulla di originale: le più importanti manomissioni della legislazione del lavoro in Italia furono introdotte da esponenti del centrosinistra, primo fra tutti Tiziano Treu con l’omonimo “pacchetto” di riforme, poi sviluppato da Massimo D’Antona (governo D’Alema) a aggiornato da Marco Biagi, consulente del governo Berlusconi ma proveniente dalla sinistra socialista, come D’Antona poi barbaramente assassinato dalle “Nuove Br”. La loro “colpa”, agli occhi dei killer? Aver cercato di demolire lo Statuto dei Lavoratori, precarizzando l’impiego. E i sindacati dov’erano? Dalla stessa parte, ovviamente: tacevano, approvando in silenzio le norme padronali che avrebbero sottratto diritti un tempo intangibili.Un’acquiescenza tacita, mai interrotta. La Cgil oggi si oppone al Jobs Act, contesta Cremaschi, ma in questi trent’anni «ha sempre finito per accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso». Ultimi esempi: «La legge Fornero sulle pensioni e il primo attacco all’articolo 18 del governo Monti son passati tranquillamente». E se ora la Camusso si oppone alla legge-delega, «non fa certo altrettanto con quei Job Act diffusi che vengono definiti in accordi che riducono diritti e salario», da ultimi «l’accordo del 10 gennaio con la Confindustria sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti». Lo scatto d’orgoglio contro Renzi? Meglio tardi che mai. Ma non è sufficiente «né a fermare l’offensiva di un governo che le contraddizioni del sindacato ben le conosce ed usa, né tantomeno a invertire la tendenza al degrado delle condizioni di chi lavora». Perché tutto questo cambi, conclude Cremaschi, «è necessaria una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo, al momento, non si vede alcuna traccia».Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?
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Lavoratori all’inferno: grazie a Renzi, ma anche alla Cgil
Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».Da molto tempo, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la propaganda sistemica giustifica lo smantellamento delle difese dei lavoratori e utilizza in modo subdolo i temi della precarietà e della disoccupazione, come se non fosse proprio il sistema ad aver diffuso precari e disoccupati. Oggi, al colmo dell’ipocrisia, con Renzi si arriva a denunciare la “spaccatura” nel mercato del lavoro italiano, «una tripartizione che genera squilibri e ingiustizie sociali, non producendo alcun effetto positivo per la produzione, i redditi e i consumi». Resiste una quota di lavoro ancora “garantito”, tutelato dalla legge e dallo Statuto dei Lavoratori degli anni ‘70, ma «sta diventando sempre di più l’ultima “ridotta”, particolarmente nel pubblico impiego, dei diritti e delle tutele concesse ai lavoratori». Secondo Orso «è destinato progressivamente a scomparire, perché troppo “oneroso”, sia in termini di costi, sia in termini di “privilegi” concessi ai lavoratori protetti, in ossequio agli interessi degli agenti strategici neocapitalistici, ben tutelati dai loro servitori politici locali».Il lavoro stabile è stato il bersaglio di attacchi continui e reiterati (da Sacconi, Brunetta e Renzi), e addirittura di insulti e di criminalizzazione (Ichino e i “nullafacenti” della pubblica amministrazione). L’impiego garantito e a tempo indeterminato «è contrario all’ideologia neoliberista dominante e, per tale motivo, deve essere portato a estinzione». Spiega Orso: «La stabilità del lavoro e le garanzie offerte dal comunismo, dal fascismo e dal keynesismo postbellico non appartengono in alcun modo alla liberaldemocrazia di mercato, espressa dal grande capitale finanziario». Così il lavoro è diventato sempre più «precario, flessibile, interinale», introdotto ufficialmente in Italia nella seconda metà degli anni ‘90 e dilagato progressivamente nei Duemila, «figlio naturale del cosiddetto toyotismo». Dal “just in time”, varato negli anni ‘70 dalla Toyota per razionalizzare le scorte, si è deciso di estendere il “toyotismo” e di pagare i lavoratori esclusivamente per il tempo di lavoro, utilizzando il “servizio lavorativo” quando necessario per esigenze produttive.«Da questo punto di vita, chiaramente economico e di organizzazione della produzione – continua Orso – l’imposizione del lavoro precario mira a razionalizzare l’uso del fattore-lavoro comprimendone all’estremo i costi, come nel caso delle materie prime, dei pezzi da assemblare, delle scorte, dei semilavorati». A questo punto, «è chiaro che il precario non è un cittadino, nel mondo neocapitalistico, ma soltanto l’anonimo prestatore di un servizio lavorativo, che si tende a pagare sempre meno». Quella dell’imposizione di soli contratti a termine e precari, «in un progressivo e rapido evaporare dei diritti», è la strada scelta «dagli agenti strategici neocapitalistici per l’Italia, ed è esattamente la consegna che hanno dato ai lacchè subpolitici, come Matteo Renzi». Infine – terza categoria – resta il lavoro nero, cioè «senza oneri contributivi e prelievi fiscali, senza alcuna garanzia e diritto». Di fatto, «realizza il massimo della flessibilità-precarietà del lavoratore, alimenta l’evasione e garantisce un significativo risparmio di costi». Col declino industriale e la disoccupazione galoppante, però, «anche il lavoro nero entra in crisi, riducendosi il numero degli occupati, non pagando i lavoratori e aumentandone lo sfruttamento».Se questa è la situazione, conclude Orso, ecco invece che Renzi «spergiura di voler rinnovare il mercato del lavoro dalle fondamenta, introducendo un nuovo contratto d’ingresso che partirebbe da una condizione di precarietà per arrivare alle chimeriche tutele». Il Rottamatore «dichiara di voler semplificare e di voler estendere le opportunità di lavoro anche a chi oggi ne è escluso». Ma sono «dichiarazioni chiaramente mendaci», dal momento che «nascondono l’unico esito possibile della riforma: rendere il lavoro precario contrattualizzato assolutamente prevalente». La Cgil, messa con le spalle al muro, non può approvare il “piano lavoro” renziano apertamente: «Deve fingere di attaccarlo, deve contestarlo con enfasi e risonanza mediatica». Per questo «si erge a difesa di quel vecchio simulacro che ormai è diventato lo Statuto dei Lavoratori, che ancora sbarra la strada, con l’articolo 18, ai sogni liberisti, europeisti “alla Benigni”, occidentali, di libertà, cioè, nel concreto, alla realizzazione di una precarietà assoluta e generale».Sicché, quello tra Renzi e Camusso è «uno scontro fra “parenti serpenti”, disposti a coprirsi a vicenda di contumelie, a fronteggiarsi tirandosi piatti e soprammobili ma uniti da vincoli “di sangue” e di appartenenza». Più che altro, è «l’ennesima recita infarcita di imbrogli, finzione e malafede, per truffare gli italiani». Dal canto suo, Renzi la pensa esattamente come i boss dell’élite tecno-finanziaria, da Draghi a Juncker alla Lagarde, «a lui ideologicamente affini», anche se «nega di aver in mente Margaret Thatcher quando si parla del lavoro». Infatti, aggiunge Orso, «possiamo scommettere che non incontrerà una resistenza sanguinosa come quella opposta alla Thatcher dai minatori britannici di Arthur Scargill, dal 1984 al 1985». Al più, sulla strada di Renzi spunteranno «le blande resistenze di maniera della Cgil all’abolizione dell’articolo 18». Il premier dichiara di pensare a “Marta”, piccola fiammiferaia precaria, e a tutti i giovani a quali in questi anni non ha pensato nessuno. Giovani «condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito», peraltro, «preoccupandosi soltanto dei diritti di qualcuno e non dei diritti di tutti».Nuove regole per ciascuno, dice Renzi, per incoraggiare investimenti produttivi stranieri: verranno le multinazionali a dare un lavoro a chi non ce l’ha. Peccato che, a quel punto, «il lavoro sarà debitamente flessibilizzato, offerto a prezzi stracciati e a condizioni di semi-schiavitù». Renzi è felice, come ha dichiarato più volte, se i grandi squali “investono” in Italia, facendo lo shopping di aziende a prezzi di fine stagione, anche se poi chiudono e spostano le produzioni in Estremo Oriente o nell’Europa dell’Est. E ai sindacati che vogliono contestarlo, Camusso e Landini, il Rottamatore dice: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia che ha l’Italia? L’ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario. E soprattutto tra chi non può neanche pensare a costruirsi un progetto di vita, perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente. Sono i diritti di chi non ha diritti che ci interessano, e noi li difenderemo in modo concreto e serio.«Commovente: i diritti di chi non ha diritti», chiosa Orso. «Una frase di sicuro effetto, alla Papa Francesco». Così, “per difendere gli ultimi”, si abolisce la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti “a tutele crescenti”, «in modo tale che l’ingresso nel mondo del lavoro sia sempre e comunque precario». A questo, forse, non aveva pensato neppure Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle “nuove Br”. Da consigliere ministeriale, «ha contribuito a inoculare il virus della precarietà nella società italiana». Renzi sarà altrettanto efficace? «Su una cosa, però, ha ragione l’imbonitore fiorentino, in polemica strumentale con la Cgil», conclude Orso: «Ciò che è accaduto ai lavoratori negli ultimi decenni, tutte le ingiustizie che hanno subito, portano anche la firma dei sindacati, che hanno favorito, in modo più o meno scoperto – scopertamente la Cisl, più subdolamente la Cgil e ancor più nascostamente la Fiom – la “discesa negli inferi” neoliberista del lavoro, siglando contratti-truffa e accordi-capestro, avallando riforme antipopolari, facendo carne di porco persino dei loro iscritti».Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».
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Feltri: nazisti Ue, buttateci fuori così poi ridiamo noi
La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti… Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto? Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti.Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola. P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.(Vittorio Feltri, “Buttateci fuori che poi ridiamo noi”, da “Il Giornale” del 24 ottobre 2014).La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.
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Gallino: dittatura Ue, cosa aspettiamo a denunciarla?
«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa», annunciò José Manuel Barroso a Firenze nel 2010: «Un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi». Gli Stati membri «hanno accettato di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Barroso non parlava a caso, avverte Luciano Gallino: sin dal 2010, la Ue e il Consiglio Europeo avevano avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni comunitarie, che per la sua ampiezza «rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista nemmeno dai trattati Ue, della sovranità degli Stati stessi». Non è solo questione di economia: si prevedeva l’intervento d’autorità, parte di funzionari di Bruxelles, per sanzionare chi uscisse rai ranghi, cioè dagli “indicatori” «elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione». Piano perfettamente eseguito: «Il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Commissione Europea».Il culmine del sequestro della sovranità economica e politica dei nostri paesi da parte della Ue, scrive Gallino su “Repubblica”, è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del Fiscal Compact, che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, “preferibilmente in via costituzionale”. «I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno – la modifica dell’articolo 81 della Costituzione». Sequestri di sovranità e potere: «Non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria». Per Gallino, i tecnocrati dell’Ue, del Fmi e della Bce sembrano «dilettanti allo sbaraglio», visto che i loro diktat hanno fatto esplodere il debito pubblico nell’Eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011. In realtà non è il super-potere “sbagli”. La realtà è ancora peggiore: il super-potere centrale mente, sapendo di mentire. Perché il suo piano è oligarchico: colpire lo Stato fino a smantellarlo, per lasciare senza più difese lavoratori, aziende e cittadini.La Troika, infatti, imputa la crisi economica al «peso eccessivo della spesa sociale» nonché al «costo eccessivo del lavoro». La loro unica ricetta? Tagliare. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insiste sulla necessità di tosare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato, «dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza». Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato, circa 90 miliardi l’anno, «non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri paesi sono a carico della fiscalità generale», precisa Gallino. Il problema è che «dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce». Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia dell’Ue, esigeva riforme dello Stato sociale, sono state eseguite. La “riforma” del lavoro, il Jobs Act di Renzi, «potrebbe essere stata scritta a Bruxelles». Morale: «Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata».Combattere la crisi, aggiunge Gallino, non è nemmeno il loro obiettivo: «Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo». Il vero nemico delle istituzioni Ue? «E’ lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge: è questo che esse sono volte a distruggere». L’Unione Europea sembra ormai diventata «una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti». Si parla di “fine della democrazia” nella Ue, di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico. «Il termine potrà apparire troppo forte», ma basta dare un’occhiata ai fatti: «I poteri degli Stati membri, di cui le istituzioni europee si sono appropriati, sono superiori a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati».Di fatto, continua Gallino, «le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri». Tutti, beninteso, sono «immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale», che dettano loro le nuove regole a cui i cittadini dovranno sottoporsi. «Non esiste alcun organo elettivo – nemmeno il Parlamento Europeo – che possa interferire con quanto tale gruppo decide». Sicché, «pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione – come vari giuristi hanno messo in luce – viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi».Al limite, «la dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici: italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri». Una tragedia politica, prima ancora che economica: la denuncia del “golpe”, forte e chiara, non è mai stata pronunciata da nessun soggetto politico con visibilità istituzionale, ma solo da analisti indipendenti, Paolo Barbard fra i primi. Si domanda Gallino: «Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce – meglio se sono tante – per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?».«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa», annunciò José Manuel Barroso a Firenze nel 2010: «Un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi». Gli Stati membri «hanno accettato di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Barroso non parlava a caso, avverte Luciano Gallino: sin dal 2010, la Ue e il Consiglio Europeo avevano avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni comunitarie, che per la sua ampiezza «rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista nemmeno dai trattati Ue, della sovranità degli Stati stessi». Non è solo questione di economia: si prevedeva l’intervento d’autorità, parte di funzionari di Bruxelles, per sanzionare chi uscisse rai ranghi, cioè dagli “indicatori” «elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione». Piano perfettamente eseguito: «Il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Commissione Europea».
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Renzi trucca le carte, meno rigore solo per Confindustria
Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.Numeri inventati, replica Mazzei: basta sfogliare le tabelle ufficiali del governo, che parlano di 16,1 miliardi in entrata e 13,2 in uscita. Semplici trucchi contabili, sostiene Mazzei su “Sollevazione”, che consentono a Renzi di arrivare «alla fantasiosa cifra di 36 miliardi, sparati a tutto volume per far credere che la sua sia una manovra largamente espansiva, quando invece non c’è una sola voce di incremento degli investimenti pubblici, quando le misure per il rilancio dei consumi sono più che misere, mentre le riduzioni fiscali sono rivolte soprattutto a lorsignori». Ma la finanziaria di Renzi non è fatta solo di annunci e trovate propagandistiche: ha anche una precisa matrice ideologica, è una finanziaria liberista e confindustriale. «Uno dei dogmi del neoliberismo è quello che si fonda sull’equazione: meno spese + meno tasse = crescita. Naturalmente, per i neoliberisti le spese da tagliare sono innanzitutto quelle sociali, mentre le tasse da decurtare sono principalmente quelle dei ricchi. Tradotto in termini “filosofici”, l’idea è che non debbano esserci (Monti docet) “pasti gratis” per nessuno. Viceversa, la tassazione dovrà essere ridotta soprattutto alle aziende e alle fasce più ricche, quelle che possono investire e consumare maggiormente».Renzi esegue: la parte del leone nel capitolo entrate è rappresentato dai tagli alla spesa pubblica, mentre la più importante novità in materia fiscale è costituita dal taglio dell’Irap, una misura di cui beneficeranno soprattutto le aziende più grandi, quelle con molti dipendenti, come ammette esultante il “Sole 24 Ore”. E chi beneficerà della fiscalizzazione degli oneri sociali? «Sempre i soliti noti, dato che le grandi aziende hanno quasi tutte una quota di lavoratori a tempo determinato, una parte dei quali passano via via, per le stesse esigenze aziendali, a tempo indeterminato». Quel passaggio ora frutterà un guadagno di circa 25.000 euro a lavoratore. Un giusto incentivo alla stabilizzazione del rapporto di lavoro? «Peccato che esso avvenga in parallelo all’introduzione del Jobs Act, che di fatto precarizza anche i contratti in teoria più stabili». E in ogni caso i quasi 2 miliardi previsti ricadranno sulla fiscalità generale, dunque sulle tasche dei soliti cittadini, mentre il minor gettito dell’Irap costringerà le Regioni a nuove tasse o a dolorosi tagli alla sanità, cioè «ospedali chiusi, meno infermiere, esami diagnostici rimandati a quando non servono più, ticket più cari».Lo ha ammesso lo stesso Padoan: le Regioni «potranno aumentare le tasse», agendo sull’addizionale Irpef, e i Comuni faranno la stessa cosa rincarando Imu e Tasi. «Qui siamo semplicemente di fronte a uno scaricabarile dal governo centrale a danno delle autonomie locali». Quanto alle “rendite finanziarie”, sale dall’11,5 al 20% la tassazione sulle pensioni integrative: vero, sono servite soprattutto come alibi per demolire quelle pubbliche, ma ad esserne colpiti saranno quei lavoratori rassegnati a pagarsi anche una pensione privata come «unica alternativa a una vecchiaia da fame». Infine c’è il Tfr, l’ultima trovata propagandistica di Renzi: «Qui la truffa fiscale è completa e garantita a 360 gradi», perché l’offerta di disponibilità mensile della quota Tfr in busta paga serve solo a «nascondere il persistente calo del salario reale, al quale il governo (vedi il Jobs act) lavora alacremente». In cosa consiste la truffa? «Semplice, dal 2015 i lavoratori avranno tre possibilità: mantenere il Tfr così com’è, farselo versare in busta paga, versarlo in un fondo pensione integrativo». Nel primo caso avranno una tassazione della rivalutazione annuale aumentata dall’11 al 17%, nel secondo non solo rinunceranno alla rivalutazione ma si ritroveranno con aliquote fiscali (quelle Irpef ordinarie) assai più alte del trattamento previsto per il Tfr, e nel terzo si vedranno applicare una tassazione quasi raddoppiata rispetto all’attuale.Quindi, la riduzione della pressione fiscale per le fasce popolari è sostanzialmente una bufala, solo parzialmente compensata dai famosi “80 euro”, limitata peraltro solo ai lavoratori dipendenti, esclusi pensionati e lavoro autonomo. Ed ecco spiegata l’insolita gioia di Confindustria per la manovra renziana. Ma si tratta, ancora e sempre, di una manovra recessiva, sottolinea Mazzei. Il presupposto è fragile: i “regalini” ai soliti noti dovrebbero spingerli a investire, producendo crescita e occupazione. Facile immaginare che – a fronte del protrarsi della crisi – la pressione fiscale aumenterà ancora, «magari dispersa nelle mille forme delle tassazioni comunali e regionali». Ma se anche i 15 miliardi di tagli previsti corrispondessero a tagli equivalenti delle tasse, «avremmo un effetto negativo sul Pil di quasi un punto percentuale». Secondo il Fmi, infatti, «per ogni miliardo di taglio alle spese si ha una contrazione del Pil di 1,3 miliardi», mentre «la parallela riduzione fiscale di un miliardo dà invece solo una crescita di 0,3 miliardi».Ne consegue, all’ingrosso, che «per ogni miliardo di tagli si abbia una riduzione equivalente (sempre di 1 miliardo) del Pil», dunque «anche nel 2015 avremo un Pil col segno meno». E il governo «lo sa benissimo». Matematico: «Se la spesa pubblica cala, se quella delle famiglie non potrà certo riprendersi, se gli investimenti pubblici e privati rimangono in calo, pensiamo forse che la luce potrà accendersi solo grazie alle esportazioni?». Nell’idea mercantilista – il modello tedesco – le cose potrebbero in teoria funzionare, ma in pratica non è così: perché i venti di crisi spirano anche fuori dall’Europa, e perché l’euro ha imposto all’Italia un deficit di competitività verso il suo principale competitor, la Germania. «Detto in altre parole, nell’euro non c’è posto per due Germanie. C’è posto, semmai, soltanto per alcune appendici purché subordinate all’economia tedesca». Ma allora, in cosa spera l’ipercinetico Renzi?A differenza di Monti e Letta, il nuovo premier «non appare affatto succube della Merkel», interpretando un liberismo non “targato” Berlino. «E’ normale dunque che Renzi non venga percepito come un servo dell’eurocrazia di Bruxelles». Con l’euro e l’Ue, però, si può “rompere” in vari modi, da destra o da sinistra: nell’interesse delle classi popolari o in quello dei pescecani della finanza, in nome dell’uguaglianza e dei diritti sociali o in quello delle virtù del mercato. E’ dunque neoliberista la critica che Renzi oppone all’eurocrazia austeritaria. La sua manovra? «Non è espansiva come si vorrebbe far credere, ma di certo non è neppure quella che avrebbe voluto la Commissione Europea», perché contiene comunque più deficit e «un netto smarcamento rispetto al tradizionale rigorismo europeo in materia di conti pubblici», in linea con la Francia.«La verità è che lo scontro è iniziato», dice Mazzei, e gli interessi tra i principali paesi europei «sono troppo confliggenti per trovare una vera composizione». Al tempo stesso, «manca ai protagonisti la caratura necessaria per affrontare a viso aperto l’indispensabile processo di uscita dalla moneta unica». Sul versante italiano, questa palese contraddizione ha prodotto una finanziaria che non è né carne né pesce: «E’ così che si spiega il parto di un mostriciattolo ancora recessivo, ma non sufficiente a placare il rigorismo del triangolo della morte Berlino-Francoforte-Bruxelles». Il problema per la triade Merkel-Draghi-Juncker è che «le finanziarie italiana e francese mettono in discussione alla radice (e non solo per il 2015) il Fiscal Compact, vero architrave di quella convergenza dei debiti senza la quale non potrà esservi nessuna unione fiscale e di bilancio, decretando in questo modo la manifesta insostenibilità dell’euro».E su questo – aggiunge Mazzei – non solo i tedeschi, ma la suddetta triade al completo, non possono proprio mollare. Tanto più in considerazione della posta in gioco, «uno scontro non esclude momenti di tregua e di pace armata». Ma una eventuale provvisoria “quadratura del cerchio” «sarà solo il preludio ad uno scontro ben più aspro, quello che porterà alla definitiva resa dei conti». Problema: chi giocherà quello scontro? «Sarà solo interno al blocco dominante, o vedrà finalmente il protagonismo delle classi popolari e quello di una soggettività politica in grado di guardare più avanti, ad una prospettiva di sganciamento dal capitalismo-casinò? Questa è la posta in gioco».Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.
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Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro
Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».