Archivio del Tag ‘troika’
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Chi tocca muore: fango su chiunque osi avvicinarsi a Putin
Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.Così fan tutti, ma ai russi sono sempre precluse buona fede e sincerità. Qualità che, invece, vengono concesse automaticamente (a prescindere, direbbe Totò) alle Ong, alle fondazioni o alle banche americane che supportano individui, partiti, organismi e movimenti (anche sediziosi) in ogni angolo del pianeta, Italia compresa. Pecunia non olet, a meno che non sia in rubli. In questi giorni lo schema diabolico, questo sì davvero tale, si è ripetuto contro il Fn guidato da Marine Le Pen, colpevole di aver accettato un prestito di nove milioni di euro dalla First Czech Russian Bank, di proprietà di Roman Yakubovich Popov, il quale, si dice, sia vicino a Putin. Il tesoriere del partito non ha negato e, del resto, il Fn non aveva altra scelta, poiché gli istituti di credito francesi si sono rifiutati di concedere mutui ad una organizzazione che si dichiara apertamente contro l’euro e l’Europa dei potenti ed a favore di un recupero di prerogative sovrane.Il presidente dell’istituto di credito russo è stato prontamente definito dai giornali “l’oligarca dello Zar”. Essendo russo, il citato banchiere non può che essere un oligarca, almeno nella zucca vuota dei nostri scribacchini di regime. Nonostante Putin sia stato il primo vero nemico dell’oligarchia speculatrice nel suo paese, da Eltsin in poi, tanto da averla combattuta in ogni ambito, politico, economico, giudiziario e sociale, egli è e resta, per i nostri pennivendoli, il despota amico dei satrapi del denaro e del furto ai danni dello Stato. Invece, l’oligarca Poroshenko, vicino all’Occidente e arrivato al potere dopo un colpo di stato anticostituzionale, è un sincero democratico e liberale. Il tocco del bene, a regia obamiana.In Italia c’è un altro partito che sta seguendo le orme del Front National, almeno in termini di battaglie politiche e di nuove parole d’ordine che cozzano con quelle dei circuiti politici dominanti, spadroneggianti da destra a sinistra. E’ la Lega di Salvini, alla quale sono state repentinamente impresse le stimmate del partito antinazionale foraggiato da una potenza straniera. Salvini ha negato di aver mai preso soldi dall’estero ma poco importa, la campagna denigratoria è già cominciata e non si fermerà finché il movimento del Nord non sarà ridotto a più miti consigli (quelli che non si possono rifiutare, provenienti da Washington e da Bruxelles) o sprofondato nel fango. Fango che sta già sgorgando copiosamente ad ogni passo di avvicinamento che fanno questi leader per intendersi tra loro e per dare vita ad un fronte internazionale capace di produrre quella massa critica necessaria a combattere l’Europa dei banchieri e dei politici asserviti agli Stati Uniti. I delinquenti della stampa l’hanno già ribattezzata l’internazionale dell’odio o dei fasciocomunisti, perché oggi, anche solo parlare di sovranità nazionale e di mutamento dei rapporti di forza mondiali, ancora troppo sbilanciati a favore di una sola potenza, quella d’oltreatlantico, costituisce un reato di lesa maestà che può costare caro (qui penso alla malasorte di Christophe de Margerie).Salvini e Le Pen si guardino le spalle perché hanno toccato dei pericolosi fili scoperti sfidando i signori della prepotenza occidentale. Inoltre, il segretario del Carroccio si tenga pure a distanza dall’endorsement di Berlusconi perché non ha bisogno dell’imprimatur del Cavaliere per scalare un elettorato ormai stufo di questo gioco degli specchi tra schieramenti opposti ma uniti nel governo. Berlusconi ha consentito all’attuale obbrobrio istituzionale di consolidarsi, a nocumento del sistema-paese e dei suoi cittadini. Fa parte del problema, non delle eventuali soluzioni. Potremo anche capire i normali piccoli tatticismi per catalizzare i voti di Forza Italia, ma non un sodalizio organico con quest’ultima che sarebbe ferale per la Lega e per il notevole lavoro di opposizione, in “solitaria tenzone”, finora svolto. (Ps: oggi il “Fatto Quotidiano” è scatenato contro la Lega. Sono apparsi due o tre articoli di fuoco, ordinati espressamente da qualcuno. I giornalisti che li hanno scritti sono membri del “circolo atlantico”. Uno più uno fa ancora due. Uno di questi pezzi cita anche il nostro sito, “Conflitti e strategie”).(Gianni Petrosillo, “Il tocco del male, chi tocca i russi muore, da Salvini alla Le Pen”, da “Conflitti e Strategie” del 27 novembre 2014).Come nel film il “Tocco del male” del 1998, interpretato da Denzel Washington e Donald Sutherland, chiunque viene sfiorato dai russi viene immediatamente posseduto da un demone che trasforma gli uomini in assassini della democrazia, persecutori di gay, violentatori di donne, violatori dei diritti umani e di tutte le altre amenità del politicamente corretto, tanto in voga nelle nostre culture decadenti. Le simpatie del Cremlino nei confronti di singoli personaggi politici europei o di interi raggruppamenti partitici che vengono incoraggiati o aiutati finanziariamente (si tratta di prestiti e non di regalie a fondo perduto) bastano e avanzano per dare la patente di impresentabili, di autoritari, di nemici della civiltà occidentale a tutti costoro. Poco importa se si tratta di amicizie e di legami che nascono da una comune visione del mondo e dalle riflessioni sulla situazione economico-politica in Europa, continente del quale anche Mosca fa parte.
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Via libera al golpe dell’élite, in Italia non vota più nessuno
Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.«Riuscire a ridurre talmente tanto la percentuale dei votanti», scrive il blogger in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, all’indomani del record di astensionismo registrato alle regionali in Emilia e in Calabria, significa «avere la possibilità di poter effettuare dei veri e propri colpi di Stato senza sparare neppure un colpo, e – ciò che più conta – senza che neppure la gente se ne renda conto: e quando lo capirà, sarà ormai troppo tardi». Se l’obiettivo è riuscire ad arrivare al 65-70% di astensionismo alle politiche, continua Di Cori Modigliani, «su 14 milioni di voti validi, ne saranno sufficienti poco meno di 6 milioni per avere il potere assoluto, con il quale deliberare senza nessun ostacolo». In Emilia gli astenuti sono stati il 63%? «Neppure sanno di aver votato per Mario Monti». E’ il capolavoro della “società del Grande Fratello”, quella che ha vissuto «il più vasto genocidio culturale mai perpetrato in una società colta, evoluta, ricca, com’era un tempo quella italiana». Si affloscia la sfida del M5S? Tutto previsto: «Autostrada preferenziale per l’avanzata della Grande Destra, l’autentico populismo di bassa lega che preannuncia e avverte quale sarà il prossimo e imminente scenario politico internazionale, di qui a pochi mesi, quando esploderà la più grande crisi finanziaria mai esistita in Occidente».Quando l’Italia verrà chiamata alle urne, sarà «travolta e stravolta da nuovi arresti e nuovi scandali, sgomenta e sconcertata dinanzi alle continue denunce di nuove ruberie, di eterni sprechi, di nessuna proposta pragmatica all’orizzonte». La gente «si riverserà avvilita all’interno del proprio bozzolo esistenziale privato, nell’estremo tentativo di salvare il salvabile pur di sopravvivere». Di fatto, gli italiani «non si fideranno più di nessuno, non crederanno più a nessuno, non avranno voglia di seguire più nulla, perché ne avranno tutti le palle strapiene: si saranno arresi dichiarando “fate come vi pare, tanto non cambia mai nulla”». Meno gente va a votare, continua Di Cori Modigliani, e meglio è per «la pattuglia clientelare che gestisce i quotidiani brogli e imbrogli del sistema bancario italiano, ormai giunto al collasso imminente». In mancanza di un’alternativa credibile, «brinda la Destra festeggiando la definitiva dissoluzione della Sinistra italiana, suicidatasi con enfasi». Renzi? Può già incassare in Europa una bella cambiale in bianco: l’Italia è cotta, pronta per essere mangiata.«La fase finale della rivoluzione neo-conservatrice sta iniziando, perché la gente, oltre a non farcela più, davvero non ne può più», scrive Di Cori Modigliani. «Il nuovo presidente dell’Emilia Romagna ha ottenuto il 16,9% dei voti dei residenti nella sua regione: in una realtà come questa, non c’è più bisogno neppure di fantasticare un colpo di Stato». Gli italiani si sono arresi, sono «la carne da cannone della neo-aristocrazia imperiale della società mediatica post-moderna. Ma non lo sanno, neppure se ne accorgono», perché sono stati annientati innanzitutto sul piano della conoscenza, della consapevolezza: «A questo serve il genocidio culturale». Il “caro leader”? «Si lecca i baffi, e ha ragione a farlo. Volevate quest’Italia, quest’Italia avete oggi. Nel 2013 l’indice di lettori in Italia è diminuito del 32% rispetto all’anno precedente. E’ il paese più ignorante d’Europa. Perché mai dovrebbero andare a votare?».Basta un pugno di voti, ormai, per eleggere persino il presidente dell’Emilia Romagna, perché gli italiani non vanno più a votare? Perfetto: è il “loro” piano, che si sta realizzando. Lo annunciò Mario Monti, l’uomo della Troika, «l’esponente italiano – dopo e insieme a Mario Draghi – più importante e rappresentativo del compatto fronte neoconservatore, neo-aristocratico e reazionario, che intende portare fino in fondo il piano strategico delle élite privilegiate della finanza, per il definitivo asservimento dei popoli». Monti? E’ «il vero vincitore» delle regionali 2014. Nel febbraio 2012, ricorda Sergio Di Cori Modigliani, ebbe a dire: «E’ il Parlamento che inceppa la via delle riforme strutturali, bisognerebbe aggirarlo per evitare che frenino lo sviluppo». E in un convegno dell’alta finanza a Milwaukee, negli Usa, nel settembre del 2013, spiegava che «il vero problema dell’Italia consiste nel fatto che si vota troppo spesso e sono ancora troppi ad andare a votare». E’ il sogno di ogni oligarca, osserva Di Cori Modigliani. E ora, con Renzi, si sta avverando: via il Senato, abolizione del Titolo V della Costituzione che ancora protegge i servizi pubblici, e legge elettorale che rende inutili gli elettori.
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Gli italiani non votano più, disertate le urne anche in Emilia
Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».«Prima la disfatta del “modello emiliano” impersonato da Vasco Errani, poi la sceneggiata delle false primarie, con ritiro decretato dall’alto dell’unico vero concorrente di Stefano Bonaccini. Infine – prosegue Lerner nel suo blog – l’arrembaggio al carro del vincitore presunto, Matteo Renzi, da parte di una moltitudine di trasformisti». Tutto ciò, conclude il giornalista, «rende umiliante il risultato elettorale del Partito Democratico in Emilia Romagna, abbandonato dalla maggioranza dei suoi elettori e perfino insidiato nel suo primato da un leghista divenuto emblema della destra». L’Emilia Romagna in cui crolla la percentuale di chi si reca a votare, sostiene Pierluigi Battista, è il regno dei “corpi intermedi”, dalle cooperative al sindacato al partito di stampo tradizionale, che innervano la società, la integrano, le danno coesione politica. «Matteo Renzi gioca tutto il suo appeal sulla “disintermediazione”, sul rapporto diretto tra il leader e gli italiani, saltando la mediazione dei corpi intermedi. Ma il massiccio astensionismo di ieri in Emilia rappresenta la reazione ritorsiva dei corpi intermedi».Se il sindacato viene messo con le spalle al muro, continua l’editorialista del “Corriere”, chi si identifica con la cultura e la politica che si sono insediati nel sindacato decide di disertare le elezioni. Mai la rinuncia alle urne aveva raggiunto livelli tanto allarmanti: «Si dice anche che l’astensionismo è una sindrome molto diffusa già da tempo e che pure il sindaco di Roma l’anno scorso è stato votato da meno della metà dei romani», scrive Battista, «però in Emilia si è assistito a un crollo». Inoltre, «mai avremmo potuto immaginare che l’Emilia si potesse dimostrare più astensionista della Calabria». Per Battista, «si tratta inoltre di un fenomeno privo di un colore sicuro», che coinvolge «l’elettore di destra deluso da Berlusconi», che è sfiduciato e non va a votare, e pure «l’elettore di Grillo, che vede la carica del “Movimento 5 Stelle” spenta e incapace di indicare un’alternativa». Di fatto,la sfiducia si abbatte su tutto il sistema, «percepito come un blocco indistinto, che spreca i soldi dei contribuenti». Un rigetto «disilluso e indiscriminato», un campanello d’allarme «per tutti i partiti, per le Regioni, per il premier e anche per i suoi avversari». Si chiede una politica radicalmente diversa, democratica, equa, che non arriva mai. Così, la rappresaglia degli elettori va avanti. E travolge persino la “rossa” Emilia.Gli italiani ormai non votano più. Dopo il vasto boicottaggio delle europee, in cui nessuno – salvo la Lega Nord – aveva puntato nettamente contro l’euro-regime dell’austerity, ora scende al 40% la partecipazione al voto, nelle regionali in Calabria e addirittura in Emilia. «L’Emila-Romagna non è solo una Regione, è un simbolo», scrive Pierluigi Battista sul “Corriere della Sera”. «È la roccaforte della sinistra lungo l’intero arco della storia repubblicana». Quando meno della metà degli elettori si reca alle urne, aggiunge Battista, è un blocco intero che scricchiola, un modello di consenso che vacilla. Per Gad Lerner, è addirittura l’inizio della fine per Matteo Renzi: «Il crollo della partecipazione dei cittadini al voto nella regione che tradizionalmente garantiva l’affluenza più alta d’Italia suona come un de prufundis per la nostra democrazia», scrive Lerner. «Ricorderemo le regionali dell’Emilia Romagna come il punto di non ritorno di una politica ritornata arrogante col trucco del falso rinnovamento renziano». Da Bologna, aggiunge Lerner, «è probabile che prenda avvio la parabola discendente di Matteo Renzi».
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Contrordine, rinnegare l’euro (da Fitto al club di Bersani)
Raffaele Fitto che organizza un seminario anti-euro con Savona, Rinaldi e Barra Caracciolo? «Non stupisce. In fin dei conti, a chiacchiere il partito di Berlusconi è sempre stato su posizioni variamente euroscettiche», annota il blog “Mainstream”. Stupisce di più, ma anche qui fino a un certo punto, il fatto che a posizioni timidamente anti-euro stiano approdando anche diversi esponenti della sinistra Pd. «Già conosciamo le posizioni di Stefano Fassina, e qualcuno ha anche parlato di un pronunciamento anti-euro di Gianni Cuperlo», ma la vera novità sarebbe rappresentata da quanto viene pubblicato dal sito “Idee Controluce”, «una specie di ripostiglio per nostalgie ex-Pci», da Togliatti a Bersani. Di recente, l’associazione ha pubblicato la seguente monografia: “A quali condizioni può sopravvivere l’euro?”. Un’ipotesi “da esorcizzare”, sostiene Vladimiro Giacché, pensando all’atteggiamento generale verso lo spettro dell’euro-catastrofe. Molto esplicito il saggio di Claudio Sardo, che esorta a rompere finalmente il “tabù” della Bce.«Forse, discutere apertamente della crisi dell’euro è diventato per noi un tabù proprio perché non riusciamo neppure a immaginarci in uno scenario di fallimento. Eppure il tabù va infranto», scrive Sardo. Per togliere ogni dubbio, “Idee Controluce” ha pubblicato un pezzo di Alberto Bagnai. E come se non bastasse, aggiunge “Mainstream”, scende in campo persino Alfredo D’Attorre, «colonnello bersaniano e fiero oppositore di Renzi», che ha concesso al “Foglio” la seguente intervista: «Caro Renzi, occhio, con questa Europa tornerà presto la Lira». Nientemeno: «Perché il problema dell’Italia, inutile prendersi in giro, è più complesso del gioco sui decimali, e coincide con la parola euro». D’Attorre prosegue il suo ragionamento: «Mi stupisco che un presidente del Consiglio che ha fatto del coraggio la sua cifra politica non abbia messo a tema il vero problema dell’Italia e più in generale dell’Europa. L’euro così com’è oggi non è più sostenibile e sono convinto che non possa continuare a esistere una moneta unica senza che dietro questa ci siano un governo politico e uno economico capaci di gestire il bilancio dell’Eurozona».Domanda: uscire dall’euro è una sciocchezza o è diventata una possibilità? «Non credo alla tesi dei due euro», risponde D’Attorre. «Credo ci siano due alternative concrete: o avviare un percorso federale che consenta alla nostra moneta di restare in piedi, oppure si torna indietro alle monete nazionali ripristinando quella sovranità politica che gli attuali meccanismi europei oggettivamente non ci consentono». Inutile negarlo ancora: «La situazione oggi non è sostenibile. E questo deficit democratico è ovviamente alla base delle manifestazioni di dissenso che, in varie forme, stiamo osservando tutti in molti paesi della zona euro». Tutto ciò, detto da chi fino a ieri – con Enrico Letta – si dichiarava pronto a “morire per Maastricht”. E non è tutto, continua “Mainstream”: «Beppe Grillo, il cui movimento ha ormai abbandondato qualsiasi precauzione sulla polemica contro l’euro, ha dimostrato un anno e mezzo fa che le posizioni euroscettiche potevano incontrare un consenso di massa». Oggi, persino Renzi prova a forzare – almeno in modo dimostrativo – la rigidità dell’establishment europeo. «In queste fessure del muro di gomma del sostegno ad euro e Ue – conclude il blog – stanno passando tutti gli esponenti più rilevanti del ceto politico nazionale. E’ ormai finita l’era del “ce lo chiede l’Europa”. E’ iniziata la stagione del trasformismo neo-patriottico».Raffaele Fitto che organizza un seminario anti-euro con Savona, Rinaldi e Barra Caracciolo? «Non stupisce. In fin dei conti, a chiacchiere il partito di Berlusconi è sempre stato su posizioni variamente euroscettiche», annota il blog “Mainstream”. Stupisce di più, ma anche qui fino a un certo punto, il fatto che a posizioni timidamente anti-euro stiano approdando anche diversi esponenti della sinistra Pd. «Già conosciamo le posizioni di Stefano Fassina, e qualcuno ha anche parlato di un pronunciamento anti-euro di Gianni Cuperlo», ma la vera novità sarebbe rappresentata da quanto viene pubblicato dal sito “Idee Controluce”, «una specie di ripostiglio per nostalgie ex-Pci», da Togliatti a Bersani. Di recente, l’associazione ha pubblicato la seguente monografia: “A quali condizioni può sopravvivere l’euro?”. Un’ipotesi “da esorcizzare”, sostiene Vladimiro Giacché, pensando all’atteggiamento generale verso lo spettro dell’euro-catastrofe. Molto esplicito il saggio di Claudio Sardo, che esorta a rompere finalmente il “tabù” della Bce.
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Gaglianone, film: val Susa, la strana guerra contro tutti noi
Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.Travolti dal loro problema – il conflitto fisiologico tra grande opera e benessere del territorio – si sono comportati da cittadini democratici, appellandosi ai diritti previsti dalla Costituzione. Tutto inutile: sono convinti che il potere non abbia lasciato loro altra scelta che vedersela coi reparti della polizia antisommossa. La vertenza NoTav ha origini ormai lontane anni luce dall’attualità odierna, risale infatti a prima del Duemila. Nel documentario di Gaglianone, il primo grande scontro – quello del 2005 – è rievocato dal sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, che fece suonare le campane a distesa per far accorrere la popolazione a sostegno degli inermi manifestanti, manganellati a freddo in piena notte. La rottura istituzionale è già perfettamente leggibile: Durbiano racconta di come, in quanto primo cittadino, fu convocato alle tre di notte alla Prefettura di Torino. Un colloquio gelido, evidentemente per sondare il sindaco alla vigilia del pestaggio destinato a sgomberare i NoTav dall’area di Venaus, dove allora doveva sorgere il cantiere della galleria preliminare esplorativa, oggi trasferito a Chiomonte.Assenza di dialogo: come se fosse già in corso una sorta di guerra, non dichiarata, contro la popolazione. L’unico precedente, all’epoca, era stato il trauma del G8 di Genova, la Diaz e Bolzaneto, che stroncò il movimento no-global, di cui le multinazionali globaliste avevano paura. Subito dopo, l’infarto mondiale dell’11 Settembre e la “guerra infinita” da esso originata: Afghanistan, Iraq, Gaza, Libia, Siria, Ucraina. E poi ancora Iraq, seguendo le eroiche imprese dell’Isis guidato dal “califfo” Al-Baghdadi. Un avventuriero che, secondo varie fonti – ultimo, il massone Gioele Magaldi col suo libro sulle super-logge del potere occulto – fu liberato proprio perché mettesse in piedi l’armata jihadista. Quanto è lontana la valle di Susa dalle “armi chimiche” siriane e dalla manipolazione dello spread per imporre Monti a Palazzo Chigi? Molto meno di quanto si pensi, stando ai resoconti disarmati degli interlocutori di Gaglianone, praticamente smarriti di fronte alla dissoluzione di ogni solido punto di riferimento: la solitudine siderale del cittadino trova parziale conforto solo nella democrazia spontanea che la stessa cittadinanza alimenta, sotto forma di movimento civile.Servono risposte, e non arrivano mai. Così, dopo un po’ ci si arrende all’evidenza. Magari pregando, come fanno gli attivisti cattolici, il gruppo di Gabriella Tittonel che accompagna la troupe lungo i reticolati di Chiomonte, filo spinato di fabbricazione israeliana. O cercando di dialogare coi reparti antisommossa, come fa l’infermiera Cinzia Dalle Pezze, esasperata dall’abuso di lacrimogeni e gas tossici. Il documentario propone la voce di antagonisti come Aurelio Loprevite di “Radio Blackout”, in diretta telefonica con Luca Abbà quando l’attivista precipitò dal traliccio sul quale si era arrampicato per protesta, e militanti dal passato sorprendente come Alessandro Lupi, carabiniere in congedo e convinto NoTav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno. La telecamera raccoglie parole e silenzi di persone finite in carcere, pensionati decisi ad ammanettarsi alle recinzioni militarizzate, famiglie disposte a tutto per difendere la loro casa, minacciata dalla nuova arteria ferroviaria.Sullo sfondo, i fantasmi di ogni realizzazione faraonica – devastazione ambientale, crisi idrogeologica, dissesto urbanistico, impatto insostenibile dei cantieri, rischi concreti per la salute e l’incolumità della popolazione – e in più, in questo caso, la sordità autistica ed esasperante dell’élite di potere di fronte alle più argomentate osservazioni tecniche, sciorinate dai migliori esperti dell’università italiana: la linea Tav Torino-Lione non è solo l’ennesimo attentato alle dissanguate finanze pubbliche del paese, non è solo l’ennesimo invito a nozze per l’imprenditorialità mafiosa, ma è anche e soprattutto uno spreco totalmente folle, visto che l’attuale linea ferroviaria internazionale che già attraversa la valle di Susa è praticamente deserta. Nonostante il recente e costoso ammodernamento del traforo del Fréjus, non esiste più traffico merci tra Italia e Francia: secondo l’osservatorio europeo per i trasporti alpini, affidato alla Svizzera, l’attuale linea valsusina italo-francese potrebbe tranquillamente incrementare del 900% il volume dei transiti. Perché allora incancrenire lo scontro sociale rincorrendo il miraggio di un super-treno miliardario da imporre a mano armata?Perché non siamo più in tempo di pace, e da parecchi anni, sembrano suggerire i valsusini ascoltati da Gaglianone, i primi a constatare sulla loro pelle l’avvento del cambio d’epoca: loro erano già sulle barricate molto prima di Occupy Wall Street, prima degli “attentati” all’articolo 18, prima della guerra di Marchionne contro la Fiom. Erano in campo, i cittadini italiani della valle di Susa, ben prima della riforma Fornero, o delle recenti “rivelazioni” di Geithner sul “golpe dello spread”. La Merkel, Draghi, la “dittatura bancaria” dell’euro, la privatizzazione globale. E poi il Ttip, le torture inflitte alla Grecia, la teologia disonesta dell’austerity, la fine del welfare europeo. Ormai il capolinea lo vedono tutti: l’abisso precario della disoccupazione, la sparizione del futuro. Loro, i valsusini, l’hanno avvistato in anticipo. Se c’è una parola che può riassumerli tutti, probabilmente questa parola è “democrazia”. Se ne avverte la dolorosa assenza, la nostalgia. «Se qualcuno mi parla ancora di Tav», scrisse Giorgio Bocca all’indomani dell’insurrezione popolare della valle del 2005, «tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo seppellito nel ‘45».Vedeva lungo, il giornalista-partigiano. E oggi, la causa NoTav vanta autorevolissimi sostenitori, nel mondo culturale italiano: ormai le istanze democratiche della popolazione hanno trovato piena cittadinanza, nell’Italia tramortita dalla cosiddetta crisi. Malgrado il costante depistaggio dalla disinformazione “mainstream”, ognuno percepisce la minaccia concreta di un declino che pare inesorabile. Finalmente, con Gaglianone, protagonisti e testimoni della remota trincea valsusina ora affiorano in superficie, mostrando le loro voci e i loro volti, in una quotidianità che si sforza di restare ordinaria, benché terremotata dagli eventi. E’ un’umanità che si esprime con gesti semplici e rivela una natura mite, costretta a misurarsi con la violenza dell’imposizione, nel vuoto cosmico della politica. Anni fa, espressioni come “destra” e “sinistra” avevano ancora maschere rappresentative. Puro teatro, ormai, come sperimentato nella valle alpina che unisce Torino alla Francia. Dove però la grande calamità collettiva ha cementato una comunità plurale, di italiani che resistono e sperano. E che, nel film di Gaglianone, parlano una lingua immediatamente riconoscibile e universale.(Il film: “Qui”, di Daniele Gaglianone, Italia 2014, 120′, prodotto da Gianluca Arcopinto e Domenico Procacci – produzione “Axelotil Film”, “Fandango”, in collaborazione con Babydoc Film – distribuito da “Pablo”).Non possiamo non dirci NoTav? E’ la domanda che aleggia attorno all’indagine cinematografica che Daniele Gaglianone conduce in valle di Susa, tra la popolazione che da oltre vent’anni si oppone al progetto di una grande opera come la Torino-Lione, considerata devastante, costosissima e completamente inutile. In due ore, il regista de “I nostri anni”, “Ruggine” e “Rata Nece Biti” interroga l’umanità della “valle che resiste” – ieri al progetto Tav in quanto tale, oggi anche e soprattutto al sistema di potere, percepito come oligarchico e repressivo, post-democratico, che vorrebbe imporre ad ogni costo i maxi-cantieri, ai quali ormai persino l’Ue e la Francia sembrano aver voltato le spalle. Nel documentario “Qui” (Torino Film Festival 2014), emergono le voci di un popolo, fatto di italiani che si sentono abbandonati e traditi dalle istituzioni politiche, dopo anni di vani appelli al dialogo, sempre respinti. In controluce, una tacita rivelazione: siamo ormai in tempo di guerra, e i primi a scoprirlo sono stati proprio loro, i NoTav della valle di Susa.
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Piano segreto Ue, prelievo forzoso dai nostri conti correnti
Un’euro-rapina sui conti correnti? Potrebbe accadere, e i poveri risparmiatori subirebbero una mazzata con pochi precedenti (tra i quali il prelievo forzoso notturno del 1992 effettuato dal governo Amato). E, soprattutto, è quello che teme il focoso europarlamentare leghista, Gianluca Buonanno, che ha presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Ue e alla Bce per chiedere di confermare «l’esistenza di un piano di misure adottato nel luglio 2014» secondo il quale, come già sperimentato a Cipro, «sarebbe prevista l’imposizione di misure d’urgenza che consentirebbero il congelamento dei conti correnti bancari dei cittadini e delle imprese europee e il prelievo forzato delle somme ritenute necessarie a fronteggiare l’esposizione debitoria». Ma la domanda che pone Buonanno è anche un’altra: «La Bce ritiene che il rischio di default sia concreto a tal punto da permettere l’adozione di un tale piano?». La risposta non è semplice: anche se le crisi si presentano sempre in forme diverse, l’opera di prevenzione (anche se l’Ue ha raggiunto soglie maniaco-depressive) può rappresentare un aiuto.Tuttavia, quando si ascoltano le parole del capo economista di Standard & Poor’s, Jean-Michel Six, lo shock è fortissimo: «La ripresa economica ha perso molto slancio e, avvicinandoci al 2015, nell’Eurozona sono aumentati i rischi di una terza recessione dopo il 2009 e il 2011», ha detto. I quesiti aumentano. Perché il presidente della Bce, Mario Draghi, e soprattutto le istituzioni italiane – pubbliche e private – in questi mesi hanno messo l’accento sulla creazione di una bad bank, cioè di un ente che si faccia carico dei crediti deteriorati degli istituti (in Italia hanno superato i 180 miliardi) per ripulire i bilanci e consentire una migliore sopravvivenza del sistema? Perché la principale banca italiana, Intesa Sanpaolo, ha scaricato dal portafoglio 17 miliardi di Btp? Qui rispondere è più facile: hanno ripreso valore e ha guadagnato, la Bce li penalizza e, se la recessione proseguisse, meglio stare leggeri. Perché allora Buonanno lancia questo allarme?«Mi è stato detto da fonti interne alla Commissione che esiste un documento nel quale si specifica che il prelievo sui conti correnti potrebbe arrivare al 10% delle giacenze», racconta, sostenendo che «in ogni caso la Bce e la Commissione devono smentire se si tratta di una notizia falsa oppure confermarla». Vale la pena di raccontare la storia per intero. Sin dall’anno scorso in sede comunitaria è stato approvato un piano d’azione per la “risoluzione ordinata delle crisi bancarie”, contestuale alla nascita dell’Unione Bancaria. I pilastri sono due. Il primo è il “Single supervisory mechanism” (Ssm), ossia la vigilanza unificata della Bce sulle più importanti banche europee. È stato istituito un organismo, sono state scritte delle regole sui requisiti minimi di solidità patrimoniale e sono stati condotti gli stess-test che in Italia hanno bocciato Monte dei Paschi e Banca Carige.Il secondo pilastro è il “Single resolution mechanism” (Srm), ossia il dispositivo per i salvataggi in caso di crisi. La trattativa è stata complicatissima e si è conclusa solo nell’Ecofin di Lussemburgo dello scorso giugno. Come al solito ha vinto la Germania. È, infatti, passato il principio-guida del bail-in , cioè il salvataggio delle banche con mezzi propri. Se le cose vanno male, come accaduto a Cipro, pagano prima gli azionisti (con aumenti di capitale mostruosi) e poi gli obbligazionisti (con una rinegoziazione del debito). Se la situazione non migliorasse, sarebbero i correntisti con depositi oltre i 100.000 euro a rimetterci. È prevista, inoltre, l’istituzione di un fondo unico finanziato dagli Stati membri (che raggiungerà la dotazione di 55 miliardi nel 2024) per tamponare le eventuali carenze di liquidità. È chiaro che i prestiti del fondo andranno comunque restituiti dalle banche con le modalità sopra descritte. I piccoli risparmiatori che volessero chiudere i conti prima che la propria banca fallisca potrebbero dover aspettare almeno 15 giorni fino al 2018. E, comunque, i derivati non si toccano!(Gian Maria De Francesco, “Piano segreto dell’Europa, saccheggiare i nostri risparmi”, da “Il Giornale” del 14 novembre 2014).Un’euro-rapina sui conti correnti? Potrebbe accadere, e i poveri risparmiatori subirebbero una mazzata con pochi precedenti (tra i quali il prelievo forzoso notturno del 1992 effettuato dal governo Amato). E, soprattutto, è quello che teme il focoso europarlamentare leghista, Gianluca Buonanno, che ha presentato un’interrogazione scritta alla Commissione Ue e alla Bce per chiedere di confermare «l’esistenza di un piano di misure adottato nel luglio 2014» secondo il quale, come già sperimentato a Cipro, «sarebbe prevista l’imposizione di misure d’urgenza che consentirebbero il congelamento dei conti correnti bancari dei cittadini e delle imprese europee e il prelievo forzato delle somme ritenute necessarie a fronteggiare l’esposizione debitoria». Ma la domanda che pone Buonanno è anche un’altra: «La Bce ritiene che il rischio di default sia concreto a tal punto da permettere l’adozione di un tale piano?». La risposta non è semplice: anche se le crisi si presentano sempre in forme diverse, l’opera di prevenzione (anche se l’Ue ha raggiunto soglie maniaco-depressive) può rappresentare un aiuto.
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Magaldi: super-fratelli d’Italia, élite occulta del vero potere
Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».Laura Maragnani, giornalista di “Panorama” che ha collaborato con Magaldi e scrivendo anche una lunga prefazione, spiega che il libro è frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali Magaldi ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti, depositati in studi legali in Europa e negli Usa. «Tra le superlogge progressiste – premette il “Fatto” – la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha». Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges. E persino i vertici della fu Unione Sovietica, da Lenin a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. «Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario».In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: «Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi», scrive Magaldi. «E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti». Più tardi, Berlusconi avrebbe poi creato una sua Ur-Lodge, la Loggia del Drago. Altri affiliati eccellenti, sempre secondo Magaldi, sarebbero Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. «C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie», osservano Barbacetto e D’Esposito.La tesi: il vero potere è massone. E, descritto nelle pagine di Magaldi, «spaventa e fa rizzare i capelli in testa». Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici: persino il “papa buono”, Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama Bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. «In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista». Nell’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: «Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi».Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Secondo Magaldi, Draghi sarebbe peraltro in ottima compagnia. Le Ur-Lodges, infatti, sarebbero gremite di italiani importanti. Come l’ex banchiere centrale e poi ministro Fabrizio Saccomanni, l’industriale Gianfelice Rocca (Techint), l’economista e già ministro Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi (Eni, Exor, Confindustria), Marta Dassù (Aspen Institute, già sottosegretario agli esteri). E poi l’attuale governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani (Intesa Sanpaolo), Alfredo Ambrosetti (patron del summit di Cernobbio), l’ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia. E infine il banchiere Matteo Arpe (Lehman Brothers, Capitalia), l’ex ministro Vittorio Grilli (ora Jp Morgan), l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (marina militare) e Federica Guidi, ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. Ma fino a ieri il dominus della vita italiana non era un certo Berlusconi? In attesa di conferme o smentite, se non altro, il libro di Magaldi contribuisce a dare un volto preciso ai componenti dell’élite: un affollatissimo ritratto di famiglia.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».
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Un tedesco (di destra) nuovo presidente della Romania
Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.Ma a vedere i risultati delle recenti elezioni presidenziali in Romania, non si può notare un nuovo salto di qualità nell’intervento dei poteri forti tedeschi nella gestione dell’Unione Europea in quanto polo attivo della competizione globale e dei singoli paesi della periferia.E così, incredibilmente, a vincere il ballottaggio di domenica che vedeva favorito l’esponente di centrosinistra Victor Ponta è stato invece “il tedesco” Klaus Iohannis. Tedesco per due motivi: in quanto esponente della minoranza tedesca che vive nei territori della Transilvania – e su questo nulla da ridire, anzi – ma soprattutto perché di fatto Iohannis è un pupillo di Frau Merkel e un ammiratore delle politiche di rigore e conservatrici della Cdu tedesca. Se prima a Berlino bastava controllare il telecomando, oggi pare proprio che la classe dirigente tedesca si stia adoperando per manovrare direttamente il guinzaglio. Un particolare, l’identità etnica e politica del nuovo presidente romeno, così eclatante che non è sfuggito neanche alla normalmente distratta stampa italiana.L’esponente della minoranza tedesca ha fatto della lotta alla corruzione e dell’apertura del paese agli investitori stranieri (che naturalmente richiedono stabilità, agevolazioni fiscali, basso costo del lavoro e zero conflittualità sindacale) i suoi cavalli di battaglia, sbaragliando al ballottaggio un Victor Ponta che al primo turno lo aveva battutto con ben dieci punti di differenza, 40% contro 30%. Il suo piglio prussiano e la denuncia delle inefficienze del governo socialdemocratico che stavano impedendo a molti emigrati romeni di poter votare all’estero ha mobilitato un gran numero di elettori in patria (l’affluenza è passata dal 53% del primo turno al 63,5% del ballottaggio) permettendogli di ribaltare il risultato della prima tornata delle presidenziali. Ora il fisico 55enne, sindaco di Sibiu e protestante (in un paese in cui il 90% degli abitanti è cristiano ortodosso) dovrà tentare di portare ordine in un paese economicamente allo sbando, governato da un premier socialdemocratico debole, uscito dalla inaspettata sconfitta delle presidenziali e oggetto di forti contestazioni politiche e sociali. Soprattutto, Iohannis dovrà tentare di riportare Bucarest sotto il pieno controllo della Germania e dell’Unione Europea, sottraendo il paese alle fortissime influenze degli Stati Uniti.(Marco Santopadre, “Un tedesco, di destra, presidente della Romania”, da “Contropiano” del 19 novembre 2014).Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.
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Ok, prendete una mazza e spaccate pure la testa ai greci
«Ok, potete schiacciare la testa a quei greci, se è quello che volete fare». Così parlò Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro di Obama, rispondendo agli europei che, nel 2010, volevano “fare a pezzi” la Grecia. Parole che «fanno inorridire», scrive Paolo Barnard, ora che il “Financial Times” ha trascritto le vere interviste a Geithner, all’epoca allarmato dalla volontà “stragistica” della Troika Ue, agli ordini della Germania, contro l’ignaro popolo greco. «Le teste tagliate in video dall’Isis muovono armate internazionali e disgustano il pubblico», scrive Barnard, ma «sono piccolezze di principianti, confronto a quello che hanno fatto i leader europei alla Grecia, e COME LO HANNO DECISO come lo hanno deciso. Non siamo nel 1942, siamo nel terzo millennio e dopo il nazismo abbiamo costruito un intero mondo di democrazie e leggi, trattati, tutele dei diritti umani – inutili a Dio e all’uomo». Infatti, continua Barnard, accade che «per una manciata di soldi» le famose grandi democrazie, nel 2010 siano «tornate alla Gestapo nazista per decimare, torturare, punire, cioè per perpetrare crimini contro l’umanità in Grecia, contro innocenti».Ora lo sappiamo, aggiunge Barnard, citando le trascrizioni delle parole di Geither. Risultato: secondo “Lancet”, la più autorevole rivista medica internazionale, «la Germania e il codazzo che le obbedisce, incluso il governo italiano», hanno di fatto «imposto alla Grecia la “giusta punizione economica”». Impietoso il bilancio tracciato da “Lancet”: 560.000 bambini denutriti, un milione di cittadini senza più accesso alla medicina di base, oltre 2 milioni di greci che devono bruciare i mobili di casa o rubare gasolio per scaldarsi d’inverno. In Grecia è tornata la malaria, le infezioni da Hiv sono aumentate del 3.126% per assenza di siringhe usa e getta e l’assistenza agli ammalati di tumore è calata del 48%, «abbandonati a morire senza neppure l’aspirina». E la mortalità infantile è aumentata del 43%, un tasso doppio di quello del Sudan. «Bambini morti al parto (guarda il tuo piccolo ora, adesso!, mentre leggi). Una strage infame».Questo Olocausto, scrive Barnard, fu deciso a tavolino «con un sadismo da SS» in un incontro del G7 a Iqualuit, un villaggio del Canada, nel febbraio 2010. «Il racconto di Geithner, ovviamente censurato nel suo recente libro, fa accartocciare il sangue». Vi si legge: «Io mi siedo a tavola e guardo il mio Blackberry… cazzo, sta succedendo un macello in Europa, la Borsa francese sta precipitando e tutti si chiedono chi ha messo soldi in Grecia… Gli europei ragliavano “adesso gliela facciamo vedere ai greci… fanno schifo… adesso li stritoliamo”. Questo era l’atteggiamento di tutti i leader europei. E dicevano “adesso davvero tiriamo fuori le mazze, e li macelliamo”, li volevano realmente fare a pezzi». Ma Geithner non è un filantropo: la sua reazione è «ovvia, fredda, disumana». Anche l’ex ministro di Obama, «come tutte queste belve da uccidere a vista per la strada, non considera neppure per un minuto che si sta parlando di donne, figli, persone, ammalati, e di future sofferenze da ghetto di Varsavia».Macché, aggiunge Barnard. Tutto quello che Geithner ha da dire è questo: «Ok, potete schiacciare la testa a quei greci, se è quello che volete fare, ma dovete essere certi che all’Europa e al mondo manderete un segnale opposto, di rassicurazione, per dirgli che saprete gestire la faccenda… Insomma, che saprete proteggere il resto d’Europa. Ok, impartitegli una lezione». Ed eccola, la “lezione”: «Infanticidio, ammalati che muoiono urlando di dolore, un popolo devastato, una nazione tornata al medioevo, generazioni condannate, e TUTTI INNOCENTI tutti innocenti», sottolinea Barnard. «A quell’incontro di Iqualuit in Canada nel febbraio 2010, e c’eravamo anche noi italiani, si decise una GUERRA D’AGGRESSIONE guerra d’aggressione contro un popolo ignaro e innocente».A Norimberga, ricorda Barnard, fu il giudice della Corte Suprema americana, Robert Jackson, a definire la guerra d’aggressione contro inermi come “il crimine internazionale supremo”, i cui responsabili furono infatti impiccati. «Oggi la giustizia non esiste più, esiste un mondo deforme oltre ogni limite dove “hanno reso plausibile l’inimmaginabile”», per citare l’economista statunitense Edward Herman. «E quei leader di quel G7 genocida possono farla franca». Per Barnard, andrebbero «uccisi a vista, senza pietà, come fu a Norimberga», perché, conclude, «io i bambini greci morti non li voglio sulla coscienza».«Ok, potete schiacciare la testa a quei greci, se è quello che volete fare». Così parlò Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro di Obama, rispondendo agli europei che, nel 2010, volevano “fare a pezzi” la Grecia. Parole che «fanno inorridire», scrive Paolo Barnard, ora che il “Financial Times” ha trascritto le vere interviste a Geithner, all’epoca allarmato dalla volontà “stragistica” della Troika Ue, agli ordini della Germania, contro l’ignaro popolo greco. «Le teste tagliate in video dall’Isis muovono armate internazionali e disgustano il pubblico», scrive Barnard, ma «sono piccolezze di principianti, confronto a quello che hanno fatto i leader europei alla Grecia, e come lo hanno deciso. Non siamo nel 1942, siamo nel terzo millennio e dopo il nazismo abbiamo costruito un intero mondo di democrazie e leggi, trattati, tutele dei diritti umani – inutili a Dio e all’uomo». Infatti, continua Barnard, accade che «per una manciata di soldi» le famose grandi democrazie, nel 2010 siano «tornate alla Gestapo nazista per decimare, torturare, punire, cioè per perpetrare crimini contro l’umanità in Grecia, contro innocenti».
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Berlino ci divora barando, come ha fatto con la Germania Est
Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.Ma la riduzione dei redditi ha automaticamente causato il crollo della domanda interna e della capacità della gente di pagare i debiti già contratti, quindi un crollo degli incassi di chi produce per il mercato interno e un’impennata delle insolvenze e dei fallimenti. La riduzione dei salari viene in parte compensata con ammortizzatori sociali finanziati con più tasse e contributi, in parte scaricando i disoccupati e i sottoccupati sui risparmi della famiglia e sulle pensioni dei genitori o dei nonni. Tutto ciò sta consentendo una parziale conservazione dell’industria e dei mercati esteri, ma, abbisognando di drenare risparmi e andando a colpire il settore immobiliare (quello che innesca le fasi di espansione e di contrazione), non può tirare avanti ancora a lungo. Inoltre, i vincoli di bilancio, il limite del 3% al deficit sul Pil, la botta dei trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi), la connessa ascesa della pressione fiscale, fa chiudere o emigrare le aziende. Emigrano anche tecnici, professionisti, capitali. Questi sono i risultati dei “compiti a casa”.Sostanzialmente, la recessione è guidata da una costante sottrazione di liquidità voluta politicamente da Berlino via Draghi, che garantisce di fare tutto ciò che serve per sostenere i debiti pubblici, ma a condizione che si facciano quei compiti a casa, ossia che si demolisca l’economia e la si doni a un capitalismo di conquista, apolide e antisociale. Tutti questi meccanismi operano costantemente, appunto come meccanismi, e giorno dopo giorno demoliscono l’Italia e la rendono dipendente, sottomessa, povera rispetto alla Germania. Un po’ più di flessibilità e un po’ meno di spread o un po’ più di spesa e inflazione in Germania non risolverebbero quanto sopra, non fermerebbero la macchina della deindustrializzazione, anche se Renzi cerca di distogliere da ciò l’attenzione attirandola su di sé con la sua azione frenetica e inconcludente (se non nel male). Non la fermerebbe nemmeno un aumento della domanda interna, perché questo si dirigerebbe verso beni di importazione, avvantaggiati dalla forza dell’euro.E poi ci sono gli utili tromboni dell’europeismo idealista, che evocano le favole moralistiche di Spinelli e soci per coprire una realtà di scontro di interessi oggettivamente contrapposti, di sopraffazioni spietate, di colonizzazione. Sarebbe molto utile, a coloro che cercano di tutelare gli interessi italiani in relazione alle politiche europee e monetarie della Germania attuale, a coloro che trattano questi temi nelle sedi europee e nazionali, conoscere come il grande capitale privato tedesco occidentale, durante il processo di riunificazione della Germania iniziato nel 1989, usò una serie di mezzi, alcuni dei quali terroristici, altri formalmente criminali, per impadronirsi delle aziende, dei beni immobili, delle risorse naturali, dei mercati della Germania Orientale senza pagare o quasi, espropriandone la popolazione che era giuridicamente proprietaria di questi assets, e trasferendo i costi dell’operazione a carico dei conti pubblici, ossia dei contribuenti della Germania Occidentale nonché a carico dei lavoratori della Germania Orientale, di cui persero il posto di lavoro circa 2 milioni e mezzo, su circa 16 milioni di abitanti.E’ tutto descritto nel recentissimo saggio di Vladimiro Giacché “Anschluss”. Queste cose vanno sapute per poterle sbattere sul muso a Merkel, Schäuble, Katainen, smascherando i loro veri fini, quando si mettono a predicare i compiti da fare a casa, mentre dovrebbero finire davanti a una Norimberga finanziaria assieme ai loro mandanti. I metodi usati per depredare la Germania Orientale furono molteplici, iniziando con la creazione di allarme default della Germania Est, nella prima fase, in tutto analogo a quello che i banchieri tedeschi scatenarono nel 2011 contro il Btp per sostituire Berlusconi con un premier che li servisse bene. E anche: l’imposizione di un’unione monetaria con cambio uno a uno tra marco orientale e marco tedesco per le partite correnti, che determinò di punto in bianco la quadruplicazione dei prezzi delle merci della Germania Orientale, con la conseguente perdita dei mercati in favore di aziende concorrenti della Germania Occidentale, e naturalmente la chiusura delle imprese orientali con massicci licenziamenti.Poi il sistematico ricorso al falso in bilancio per far apparire irrecuperabili molte aziende sane della Germania orientale, onde poterle comperare a costo nullo o quasi; quindi la rimozione dei pochi funzionari onesti, che rifiutavano di dichiarare il falso; l’imposizione delle “regole di mercato” – in realtà, della potenza economica e politica – onde occupare i mercati della Germania Orientale con merci di produzione occidentale e così favorire le aziende che producevano queste merci a danno della produzione locale; la costante collaborazione del governo federale (Kohl) con gli avidi criminali del grande capitale – e l’autorevole appoggio di… Jean Claude Juncker! Eh sì, le “integrazioni” sono sempre, nella realtà, business sfrenato e disumano, ora come allora. La Germania fa le integrazioni col disintegratore. L’agenzia fiduciaria incaricata della vendita dei beni del popolo della Germania Orientale, la Treuhandanstalt, un veicolo per realizzare questi fini e, in luogo di concludere la suggestione con un utile netto derivato dalla vendita-privatizzazione dei beni pubblici orientali, produsse un buco di oltre 1 miliardo di marchi, sicché i cittadini orientali, ciascuno dei quali aveva ricevuto l’assegnazione di una quota azionaria nell’agenzia fiduciaria del valore teorico di 40.000 marchi, alla fine dei conti non ricevettero nemmeno un pfennig per l’espropriazione dei beni popolari che avevano subito.Dopo il saccheggio, furono intentati processi penali e civili, indagini formali sull’operato dell’agenzia fiduciaria e su altre vicende relative all’annessione della Germania Orientale, ma, grazie all’opposizione del governo, all’inerzia del Parlamento, agli insabbiamenti giudiziari, al fatto che tutta la gestione della missione era stata impostata e imperniata su tecnocrati a bassa o nulla responsabilità e ad alta opacità, come gli attuali eurocrati, i processi e le indagini finirono nel nulla. Il profitto compera tutti i poteri dello Stato. Per contro, mentre il Pil della Germania Orientale crollava (-40,8% nei primi 2 anni, export -60%), quello della Germania Occidentale, grazie alle acquisizioni sottocosto di cui sopra, fece un balzo all’insù di circa il 7%. A dispetto della vulgata ufficiale, ancora oggi la Germania Orientale rimane un paese, un pezzo di paese, arretrato, che non ha agganciato la parte occidentale, che vive di trasferimenti posti a carico del contribuente occidentale, in quanto il deficit commerciale dell’Est è del 45% mentre quello del Meridione è solo il 12,5%: quindi la Germania orientale è messa molto peggio della cosiddetta Terronia. Ma, ovviamente, non è colpa sua, bensì effetto di una rapina assistita dal governo di Bonn, nell’interesse del capitalismo tedesco occidentale, e con la giustificazione pseudo-scientifica dell’ideologia del mercato e delle sue regole, in cui si nasconde il fatto che il mercato non è libero ma è l’arena di scontri e rapporti di forza e sopraffazione.Qualcosa del genere dell’unificazione tedesca del 1990 era già avvenuto in Italia, con la annessione del Sud, un’area complessivamente meno produttiva del Nord – annessione che aveva portato non a una convergenza delle due parti d’Italia, ma a una maggiore divergenza in termini di efficienza e produttività e competitività, in quanto il Nord attraeva e distoglieva capitali e competenze dal Sud, che quindi si deindustrializzava e si votava a diventare o restare un’area agricola e marginale. Analoga operazione sta avvenendo oggi sotto il pretesto della unificazione europea e della unione monetaria, ossia dell’euro. La Germania entrò nell’euro a condizione che vi entrasse d’Italia, l’altro paese ad alta capacità manifatturiera. Perché? Perché se l’Italia fosse rimasta fuori avrebbe fatto una forte concorrenza alla Germania, mentre per contro l’euro avrebbe alzato il corso della valuta italiana e abbassato il corso della valuta tedesca, in tal modo favorendo le esportazioni tedesche soprattutto entro l’unione monetaria europea e limitando quelle italiane, che diventavano meno competitive.Così è avvenuto: contrariamente alla quasi totalità dei paesi dell’Eurozona, in cui la quota manifatturiera del Pil è calata fortemente, la Germania, con l’euro, ha avuto un aumento di circa il 25% di questa quota, dovuto soprattutto ad esportazioni nei mercati dei paesi partners dell’Eurozona, ossia dovuta a quote di mercato sottratte ad essi. Esportazioni che i banchieri tedeschi hanno sostenuto facendo prestiti e investimenti verso i paesi euro-deboli, Grecia e Spagna in testa, ben sapendo che prima o poi quei paesi non sarebbero riusciti a sostenere le scadenze di pagamento – anche poiché i loro conti erano stati truccati ad hoc – e che, a qual punto, sarebbe scoppiata quella crisi che ha poi in effetti consentito alla Germania di imporre le sue regole, i suoi interessi e i suoi uomini al potere, grazie al suo controllo sulla Bce, e a costringere altri paesi, Italia in testa, a svenarsi per prestare a Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda i soldi necessari a realizzare i loro lucri usurari e fraudolenti.Anche se a molti può venire il pensiero che il vero compitino da fare a casa sia liberarsi della Germania una volta per sempre, quanto sopra descritto non va letto e presentato in chiave nazionalistica, ossia come una colpa della popolazione tedesca – sostanzialmente inconsapevole – bensì in chiave di guerra di classe, perché, sotto mentite spoglie ideologiche, è una campagna di conquista del capitalismo finanziario a spese della popolazione generale. L’Italia ha un’arma negoziale molto potente nei confronti della Germania: minacciare di uscire dall’Eurosistema (cosa che farebbe saltare l’euro e condannerebbe la Germania a una rivalutazione monetaria fortissima, che metterebbe fuori mercato le sue produzioni e in ginocchio la sua economia). Non usare quest’arma e lasciare che il paese sia fatto a pezzi giorno dopo giorno, è un delitto capitale. Ai governanti italiani che, facendo finta di non vedere la realtà, hanno collaborato e collaborano a questo disegno a danno di tutti noi, vorrei chiedere: lo fate perché minacciati, perché ricattati, o perché pagati? Quanto?(Marco Della Luna, “Euro-Anschluss, il fantasma di Morgenthau”, dal blog di Della Luna del 17 ottobre 2014).Verso la fine della II Guerra Mondiale gli Usa avevano un piano, il Piano Morgenthau (poi non eseguito per ovvie ragioni connesse alla guerra fredda), per eliminare dopo la guerra tutte le industrie tedesche, facendo della Germania un paese puramente agricolo. Il mezzo per ottenere ciò era semplice: imporre alla Germania l’unione monetaria con gli Usa, la cui moneta era allora molto forte: il prezzo delle merci tedesche si sarebbe moltiplicato e le aziende avrebbero chiuso, non potendo più esportare, e l’industria yankee avrebbe preso i suoi mercati e i suoi assets migliori gratis o quasi. Gli Stati Uniti non fecero questo alla Germania dopo la sua resa, però la Germania Ovest lo fece poi alla Germania Est negli anni ’90. E ora lo fa all’Italia. Oramai è stato acquisito: essendosi inchiodata a un cambio elevato e fisso – elevato sia rispetto agli altri paesi dell’Eurozona, che rispetto agli altri – e non potendo più svalutare la moneta per mantenersi competitiva sui mercati internazionali, l’Italia, per restare competitiva e limitare la sua deindustrializzazione, ha dovuto svalutare i lavoratori, riducendo i salari/redditi, tassandoli di più, tagliando e differendo le pensioni.
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Orsi: è ufficiale, l’Italia in rottamazione non è più salvabile
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».«Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile». Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che «il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno». Pericoloso al punto che «potrebbe essere superato il punto di non ritorno». L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: «La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico». E un default, naturalmente, «comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica».I tre pezzi, scrive in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” il professor Roberto Orsi (London School of Economics e Università di Tokyo) potrebbero essere considerati come l’inizio di un’offensiva mediatica indirizzata alla Bce per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della Fed, della Bank of Japan e della Bank of England: un intervento che tutti e tre gli autori auspicano, insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo. I tre analisi invocano le famose riforme strutturali? La natura e la portata delle riforme finora proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale) dimostrano che l’Italia «manca delle fondamenta», scrive Orsi, secondo cui «tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione».La tempistica italiana è eterna: nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers, osserva Orsi, è stata portata a termine una sola riforma strutturale, la drammatica riforma Fornero (pensioni) firmata dal governo Monti, anche perché «l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema». E se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficiente a evitare il collasso del sistema-paese? Il mondo è cambiato: prima la super-globalizzazione del 2007 e poi il crack di Wall Street del 2008. «In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione». Quanto alle “riforme” evocate da Renzi e dei poteri forti – Bce, Troika Ue, finanza – restano sfocate. Quando Münchau scrive che «l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico», secondo Orsi offre certamente «consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati?».Riguardo poi al suggerimento di «cambiare l’intero sistema politico», ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento, rileva Orsi. «Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato». L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva e “scientificamente corretta” ai problemi economici «tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche». Al riguardo, aggiunge Orsi, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani sono «prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati». Per lo più derivano da «dottrine neo-liberal ormai superate». Visione del futuro? Non pervenuta. Dell’Italia non resta altro che l’astrazione contabile del Def, puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. «Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno Stato così concepito non ha molto senso». Vere riforme, serie ed eque, ben diverse da quelle finora proposte? «Arriverebbero comunque troppo tardi: il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale». Per Orsi, «le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare».L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro, scrive Orsi, è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. «Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione». Il blogger Stefano Bassi ipotizza un progressivo “smantellamento” del paese, mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. I “mercati” potrebbero cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza, innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della Bce, da cui dipende la sopravvivenza dell’euro. La Germania però resta inflessibile – niente espansione monetaria – e per contro «non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona».Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, dice Orsi, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’Ue e la dirigenza tedesca «abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali». Sicché, «l’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare». Nessuna speranza, all’interno dell’attuale struttura Ue. L’euro? «Non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai». Forse si può sperare nella graduale transizione verso un distema duale, a doppia moneta, che permetta di ridenominare i debiti nazionali. «In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili». Quanto all’Italia, per dirla con Bassi, «non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione».Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».
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Servire il Popolo, anzi il business (e addio alla sinistra)
Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.«L’esistenza di una destra e di una sinistra – premette Caputo – aveva ancora senso qualche decennio fa». A prescindere dalla guerra fredda, quello che separava (e allo stesso tempo univa) i due schieramenti, «era un profondo spirito di appartenenza ideale e una forte identità culturale». Eppure «entrambi, come le subculture degli anni Sessanta e Settanta, sono stati inglobati dal sistema dominante per diventare progressivamente forze antinazionali e conservatrici». Il “tradimento” della sinistra, continua Caputo sul blog “Da dietro il sipario”, è tuttavia anteriore a quello della destra. E affonda le sue radici nell’eccentrica parabola dei trotzkisti italiani. Riuniti sotto diverse sigle (“Gruppo Comunista Rivoluzionario”, “Servire il Popolo”, “Avanguardia Operaia”, “Lotta Continua”, “Potere Operaio”) ed eredi del pensiero di Lev Trockij (internazionalismo e anti-sovietismo), dopo la contestazione studentesca del ‘68 adottarono la strategia dell’“entrismo”, cioè l’infiltrazione nei sindacati, nel Pci di Berlinguer e nei giornali di area.Tutto questo, probabilmente, secondo Caputo è avvenuto anche «con il sostegno economico dei servizi statunitensi, i quali finanziavano tutte le forze anti-sovietiche e di destabilizzazione dell’epoca», indipendentemente dal loro colore politico, «come del resto si è potuto verificare nei decenni successivi: non è un caso che quegli stessi trotzkisti che militavano nelle organizzazioni extra-parlamentari si siano successivamente ritrovati a occupare posizioni di potere in ambienti che spaziano da quello accademico a quello mediatico-giornalistico, passando per quello politico». La lista di quelli che Caputo chiama “i traditori dei principi della sinistra” è pressoché sterminata. Da “Servire il Popolo” provengono il sondaggista Renato Mannheimer, collaboratore del “Corriere della Sera” e docente dell’Università Bicocca di Milano, nonché Antonio Polito, membro dell’Aspen Institute ed editorialista del “Corriere”, e Barbara Pollastrini, ministro delle Pari opportunità del governo Prodi e attualmente deputata del Pd.Sempre da “Servire il Popolo” arrivano Linda Lanzillotta, senatrice di “Scelta Civica” di Mario Monti, e il popolarissimo Michele Santoro, mattatore della Tv-contro. E’ invece “Lotta Continua” la casa-madre di Adriano Sofri, editorialista di “Repubblica” come l’ex compagno Gad Lerner. Sono ex di “Lc” anche Paolo Liguori, giornalista Mediaset e conduttore televisivo, e il sociologo Luigi Manconi, docente universitario e senatore Pd. “Potere Operaio”, di Toni Negri, ha invece allevato Francesco Pardi, detto Pancho, già senatore Idv e promotore del “No Cav Day”. Con lui Ritanna Armeni, conduttrice televisiva di “Otto e Mezzo” con Giuliano Ferrara, e un peso massimo della cultura italiana come Paolo Mieli, storico, già direttore del “Corriere”, ora dirigente di Rcs. Infine, dal “Gruppo Comunista Rivoluzionario” è emerso Paolo Flores D’Arcais, direttore di “Micromega” (Gruppo Espresso), nel quale spicca il direttore di “Repubblica”, Ezio Mauro, che archivia il suo passato di sinistra con editoriali come quello intitolato “L’Occidente da difendere”, in cui «identifica il nemico russo e quello islamico, legittimando di conseguenza l’Occidente capitalista, pseudo-democratico, imperialista e a trazione statunitense». Mala tempora currunt: persino l’ex “zapatista” salottiero Bertinotti arriva a dire: «Abbiamo sbagliato tutto, sono anche un liberale». Poi uno si chiede dov’è finita la sinistra. E si domanda perché nessuno alzi mai la voce, neppure una volta, per difendere gli italiani massacrati dal rigore dell’élite tecno-finanziaria di Bruxelles, braccio armato dell’oligarchia ultraliberista.Ieri il motto era “Servire il Popolo”, e oggi? Tutti ai posti di comando, dall’altra parte della barricata: giornali, televisione, grandi aziende, partiti di governo. Dov’è finita la sinistra, quella che dovrebbe difendere gli italiani, per esempio dagli abusi del regime euro-Ue? Bisognerebbe chiederlo a loro, gli ex trotzkisti, che secondo i numerosi detrattori «stanno alla sinistra esattamente come i “neocon” e i “teocon” stanno alla destra», scrive Sebastiano Caputo, alludendo ai vari Oriana Fallaci, Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti. «Accecati da un anticomunismo in assenza di comunismo, furono Gianfranco Fini e i suoi seguaci a sposare definitivamente il liberismo economico di Silvio Berlusconi». E furono i loro “intellettuali di complemento” a «consegnare le chiavi della biblioteca» agli ultras della destra. E a sinistra? Idem, se si pensa agli ex trotzkisti, da Santoro a Lerner: «Stessi finanziatori, stessi interessi, stessi nemici». Destino speculare: «La la nazione per gli uni, la rivoluzione per gli altri», ma – si sa – la rivoluzione non c’è stata e la nazione sta sparendo, assorbita dall’Eurozona.