Archivio del Tag ‘trasparenza’
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Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd
Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.«Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.«Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
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Israele, uno Stato inventato (a insaputa degli ebrei)
La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.Oltre ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, riunitosi il 22 luglio, l’Onu ha dato la parola ad altri 40 Stati che intendevano esprimere il loro sdegno per il comportamento di Tel Aviv e la sua «cultura dell’impunità». La sessione, anziché durare le solite 2 ore, si è protratta per 9 ore. Simbolicamente, la Bolivia ha dichiarato Israele uno «Stato terrorista» e ha abrogato l’accordo sulla libera circolazione che lo riguardava. Ma in generale, le dichiarazioni di protesta non sono state seguite da un aiuto militare, ad eccezione di quelle dell’Iran e simbolicamente della Siria. Entrambi sostengono la popolazione palestinese attraverso il Jihad islamico, l’ala militare di Hamas (ma non la sua ala politica, membro dei Fratelli Musulmani), e tramite il Fplp-Cg.A differenza dei casi precedenti (operazioni “Piombo fuso” nel 2008 e “Colonna di nuvola” nel 2012), i due Stati che proteggono Israele presso il Consiglio (Stati Uniti e Regno Unito) hanno favorito l’elaborazione di una dichiarazione del presidente del Consiglio di Sicurezza che sottolineava gli obblighi umanitari di Israele. In realtà, al di là della questione di fondo di un conflitto che dura dal 1948, si assiste a un consenso per condannare almeno il ricorso da parte di Israele di un uso sproporzionato della forza. Tuttavia, questo consenso apparente maschera analisi assai diverse: alcuni autori interpretano il conflitto come una guerra di religione tra ebrei e musulmani; altri lo vedono al contrario come una guerra politica secondo uno schema coloniale classico. Che cosa dobbiamo pensarne?SIONISMO Che cos’è il sionismo? A metà del XVII secolo, i calvinisti britannici si riunirono intorno a Oliver Cromwell e rimisero in questione la fede e la gerarchia del regime. Dopo aver rovesciato la monarchia anglicana, il “Lord Protettore” pretese di consentire al popolo inglese di raggiungere la purezza morale necessaria ad attraversare una tribolazione di sette anni, dare il benvenuto al ritorno del Cristo e vivere in pace con lui per mille anni (il “Millennium”). Per far ciò, secondo la sua interpretazione della Bibbia, gli ebrei dovevano essere dispersi fino agli estremi confini della terra, poi raggruppati in Palestina, dove ricostruire il tempio di Salomone. Su questa base, instaurò un regime puritano, levò nel 1656 il divieto che era stato fatto agli ebrei di stabilirsi in Inghilterra e annunciò che il suo paese s’impegnava a creare in Palestina lo Stato di Israele.Poiché la setta di Cromwell fu a sua volta rovesciata alla fine della “Prima Guerra civile inglese”, i suoi sostenitori uccisi o esiliati, e poiché la monarchia anglicana fu restaurata, il sionismo (cioè il progetto della creazione di uno Stato per gli ebrei) fu abbandonato. Riapparve nel XVIII secolo con la “Seconda guerra civile inglese” (secondo il nome dei manuali di storia delle scuole secondarie nel Regno Unito) che il resto del mondo conosce come la “Guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti” (1775-1783). Contrariamente alla credenza popolare, essa non fu intrapresa in nome degli ideali dell’Illuminismo che animarono pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, ma fu finanziata dal re di Francia e condotta per motivi religiosi al grido di «Il nostro re è Gesù!». George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, per citarne alcuni, si sono presentati come i successori dei sostenitori esiliati di Oliver Cromwell. Gli Stati Uniti hanno dunque logicamente ripreso il suo progetto sionista.Nel 1868, in Inghilterra, la regina Victoria nominò primo ministro l’ebreo Benjamin Disraeli. Questi propose di concedere una parte di democrazia ai discendenti dei sostenitori di Cromwell, in modo da poter contare su tutto il popolo per estendere il potere della Corona nel mondo. Soprattutto, propose di allearsi alla diaspora ebraica per condurre una politica imperialista di cui essa sarebbe stata l’avanguardia. Nel 1878, fece iscrivere «la restaurazione di Israele» all’ordine del giorno del Congresso di Berlino sulla nuova spartizione del mondo. È su questa base sionista che il Regno Unito ristabilì i suoi buoni rapporti con le sue ex colonie, divenute nel frattempo gli Stati Uniti alla fine della “Terza guerra civile inglese” – nota negli Stati Uniti come la “guerra civile americana” e nell’Europa continentale come la “guerra di Secessione” (1861-1865) – che vide la vittoria dei successori dei sostenitori del Cromwell, gli Wasp (White Anglo-Saxon Puritans). Anche in questo caso, è del tutto sbagliato che si presenti questo conflitto come una lotta contro la schiavitù, intanto che cinque stati del nord la praticavano ancora.Fino quasi alla fine del XIX secolo, il sionismo è solo un progetto puritano anglo-sassone al quale solo un’élite ebraica aderisce. È fortemente condannato dai rabbini che interpretano la Torah come un’allegoria e non come un piano politico. Tra le conseguenze attuali di questi fatti storici, dobbiamo ammettere che se il sionismo mira alla creazione di uno Stato per gli ebrei, è anche il fondamento degli Stati Uniti. Pertanto, la questione se le decisioni politiche d’insieme siano prese a Washington o a Tel Aviv ha solo interesse relativo. È la stessa ideologia ad essere al potere in entrambi i paesi. Inoltre, poiché il sionismo ha permesso la riconciliazione tra Londra e Washington, il fatto di sfidarlo significa affrontare questa alleanza, la più potente del mondo.POPOLO EBRAICO L’adesione del popolo ebraico al sionismo anglosassone. Nella storia ufficiale attuale, è consuetudine ignorare il periodo dal XVII al XIX secolo e presentare Theodor Herzl come il fondatore del sionismo. Tuttavia, secondo le pubblicazioni interne dell’Organizzazione Sionista Mondiale, anche questo punto è falso. Il vero fondatore del sionismo contemporaneo non era ebreo, bensì cristiano dispenzionalista. Il reverendo William E. Blackstone era un predicatore americano per il quale i veri cristiani non avrebbero dovuto partecipare alle prove della fine del tempo. Basava l’insegnamento su coloro che sarebbero stati elevati al cielo durante la battaglia finale (il “rapimento della Chiesa”, in inglese “the rapture”). Nella sua visione, gli ebrei avrebbero combattuto questa battaglia e ne sarebbero usciti allo stesso tempo convertiti a Cristo e vittoriosi.È la teologia del reverendo Blackstone che è servita da base per il sostegno immancabile di Washington alla creazione di Israele. E questo, molto prima che l’Aipac (la lobby pro-Israele) venisse creata e prendesse il controllo del Congresso. In realtà, il potere della lobby non risiede tanto nel suo denaro e la sua capacità di finanziare le campagne elettorali, quanto in questa ideologia ancora presente negli Stati Uniti. La teologia del rapimento, per quanto stupida possa sembrare, è oggi molto potente negli Stati Uniti. Rappresenta un fenomeno nel mercato dei libri e nel cinema (si veda il film “Left Behind”, con Nicolas Cage, che uscirà ad ottobre). Theodor Herzl era un ammiratore del magnate dei diamanti Cecil Rhodes, teorico dell’imperialismo britannico e fondatore del Sudafrica, della Rhodesia (cui diede il suo nome) e dello Zambia (ex Rhodesia del Nord).Herzl non era israelita praticante né aveva circonciso suo figlio. Ateo come molti borghesi europei del suo tempo, si batté all’inizio per assimilare gli ebrei convertendoli al cristianesimo. Tuttavia, riprendendo la teoria di Benjamin Disraeli, giunse alla conclusione che la soluzione migliore fosse quella di farli partecipare al colonialismo britannico creando uno Stato ebraico, collocato nell’attuale Uganda o in Argentina. Seguì l’esempio di Rhodes nella maniera di acquistare terreni e di costruire l’Agenzia Ebraica. Blackstone riuscì a convincere Herzl a unire le preoccupazioni dei dispenzionalisti a quelle dei colonialisti. Era sufficiente per tutto questo considerare di stabilire Israele in Palestina e di moltiplicare i riferimenti biblici. Grazie a questa idea assai semplice, giunsero a far aderire la maggioranza degli ebrei europei al loro progetto. Oggi Herzl è sepolto in Israele (sul monte Herzl) e lo Stato ha posto nella sua bara la Bibbia annotata che Blackstone gli aveva offerto.Il sionismo non ha dunque mai avuto come obiettivo quello di «salvare il popolo ebraico dandogli una patria», bensì quello di far trionfare l’imperialismo anglosassone associandovi gli ebrei. Inoltre, non solo il sionismo non è un prodotto della cultura ebraica, ma la maggior parte dei sionisti non è mai stata ebrea, mentre la maggioranza dei sionisti ebrei non sono israeliti dal punto di vista religioso. I riferimenti biblici, onnipresenti nel discorso pubblico israeliano, rispecchiano il pensiero solo della parte credente del paese e sono destinati principalmente a convincere la popolazione statunitense.IL PATTO Il patto anglosassone per la creazione di Israele in Palestina. La decisione di creare uno Stato ebraico in Palestina è stata presa congiuntamente dai governi britannico e statunitense. È stata negoziata dal primo giudice ebreo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, sotto gli auspici del reverendo Blackstone, e fu approvata sia dal presidente Woodrow Wilson sia dal primo ministro David Lloyd George, sulla scia degli accordi franco-britannici Sykes-Picot sulla spartizione del “Vicino Oriente”. Questo accordo fu progressivamente reso pubblico. Il futuro Segretario di Stato per le Colonie, Leo Amery, ebbe l’incarico di inquadrare gli anziani del “Corpo dei mulattieri di Sion” per creare, con i due agenti britannici Ze’ev Jabotinsky e Chaim Weizmann, la “Legione ebraica” in seno all’esercito britannico. Il ministro degli esteri Lord Balfour inviò una lettera aperta a Lord Walter Rothschild per impegnarsi a creare un «focolare nazionale ebraico» in Palestina (2 novembre 1917). Il presidente Wilson annoverò tra i suoi obiettivi di guerra ufficiali (il 12° dei 14 punti presentati al Congresso l’8 gennaio 1918) la creazione di Israele.Pertanto, la decisione di creare Israele non ha nulla a che fare con la distruzione degli ebrei d’Europa sopravvenuta due decenni più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal (figlio dello Sharif della Mecca e futuro re dell’Iraq britannico) firmò, in data 3 gennaio 1919, un accordo con l’Organizzazione Sionista, impegnandosi a sostenere la decisione anglosassone. La creazione dello Stato di Israele, realizzata contro la popolazione della Palestina, era quindi fatta anche con l’accordo dei monarchi arabi. Inoltre, all’epoca, lo Sharif della Mecca, Hussein bin Ali, non interpretava il Corano alla maniera di Hamas. Non pensava che «una terra musulmana non può essere governata da non-musulmani»ISRAELE La creazione giuridica dello Stato d’Israele. Nel maggio 1942, le organizzazioni sioniste tennero il loro congresso al Biltmore Hotel di New York. I partecipanti decisero di trasformare il «focolare nazionale ebraico» della Palestina in «Commonwealth ebraico» (riferendosi al Commonwealth con cui Cromwell aveva brevemente sostituito la monarchia britannica) e di autorizzare l’immigrazione di massa degli ebrei verso la Palestina. In un documento segreto, venivano precisati tre obiettivi: «(1) lo Stato ebraico avrebbe abbracciato l’intera Palestina e probabilmente la Transgiordania; (2) il trasferimento delle popolazioni arabe in Iraq; (3) la presa in mano da parte degli ebrei dei settori dello sviluppo e del controllo dell’economia in tutto il Medio Oriente». Quasi tutti i partecipanti ignoravano allora che la «soluzione finale della questione ebraica» (die Endlösung der Judenfrage) aveva appena preso inizio segretamente in Europa.In definitiva, mentre i britannici non sapevano più come soddisfare sia gli ebrei sia gli arabi, le Nazioni Unite (che a quel tempo annoveravano appena 46 Stati membri) proposero un piano per spartire la Palestina a partire dalle indicazioni che gli fornirono i britannici. Uno Stato bi-nazionale doveva essere creato, comprendente uno Stato ebraico, uno Stato arabo e una zona soggetta a un “regime internazionale speciale” per amministrare i luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto fu adottato attraverso la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. Senza attendere il seguito dei negoziati, il presidente dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, proclamò unilateralmente lo Stato di Israele, subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Gli arabi del territorio israeliano furono sottoposti alla legge marziale, i loro movimenti furono limitati, i loro passaporti confiscati. I paesi arabi di recente indipendenza intervennero. Ma senza eserciti ancora costituiti, furono rapidamente sconfitti. Durante questa guerra, Israele procedette a una pulizia etnica e costrinse almeno 700.000 arabi a fuggire.L’Onu inviò un mediatore, il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che aveva salvato migliaia di ebrei durante la guerra. Constatò che i dati demografici trasmessi dalle autorità britanniche erano falsi e pretese la piena attuazione del piano di spartizione della Palestina. Al dunque, la risoluzione 181 implica il ritorno dei 700.000 arabi espulsi, la creazione di uno Stato arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’inviato speciale delle Nazioni Unite fu assassinato, il 17 settembre 1948, su ordine del futuro primo ministro Yitzhak Shamir. Furibonda, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 194, che riafferma i principi della risoluzione 181 e, inoltre, proclama il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare alle loro case e ad essere risarciti per il danno che avevano appena subito. Tuttavia, poiché Israele aveva arrestato gli assassini di Bernadotte, e poi li processò e condannò, fu accolto in seno all’Onu con la promessa di onorare le risoluzioni. Ma erano nient’altro che bugie. Subito dopo gli assassini furono graziati e lo sparatore divenne la guardia del corpo personale del primo ministro David Ben Gurion.Fin dalla sua adesione all’Onu, Israele non ha mai smesso di violare le risoluzioni che si sono accumulate all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. I suoi legami organici con due membri del Consiglio che dispongono del diritto di veto lo hanno collocato di fuori del diritto internazionale. È diventato uno Stato off-shore che permette agli Stati Uniti e al Regno Unito di fingere di rispettare anche loro il diritto internazionale, mentre lo violano dietro questo pseudo-Stato. È assolutamente sbagliato ritenere che il problema posto da Israele riguardi solo il Medio Oriente. Oggi Israele agisce militarmente in tutto il mondo a copertura dell’imperialismo anglosassone. In America Latina, ci furono agenti israeliani che organizzarono la repressione durante il colpo di stato contro Hugo Chávez (2002) o il rovesciamento di Manuel Zelaya (2009). In Africa, erano ovunque presenti durante la guerra dei Grandi Laghi e hanno organizzato l’arresto di Muammar el-Gheddafi. In Asia, hanno condotto l’assalto e il massacro delle Tigri Tamil (2009), ecc. Ogni volta, Londra e Washington giurano che non c’entrano per nulla. Inoltre, Israele controlla numerose istituzioni mediatiche e finanziarie (come la Federal Reserve statunitense).IMPERIALISMO La lotta contro l’imperialismo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, era evidente a tutti che la questione israeliana scaturisse dalla lotta contro l’imperialismo. I palestinesi erano sostenuti da tutti gli anti-imperialisti del mondo – perfino dai membri dell’Armata Rossa giapponese – che venivano a combattere al loro fianco. Oggi, la globalizzazione della società dei consumi e la perdita di valori che ne è seguita hanno fatto perdere coscienza del carattere coloniale dello Stato ebraico. Solo arabi e musulmani si sentono coinvolti. Essi mostrano empatia per la condizione dei palestinesi, ma ignorano i crimini israeliani nel resto del mondo e non reagiscono ad altri crimini imperialisti. Tuttavia, nel 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini spiegò ai suoi fedeli iraniani che Israele era solo una bambola nelle mani degli imperialisti e che l’unico vero nemico era l’alleanza degli Stati Uniti e del Regno Unito. Per il fatto di affermare questa semplice verità, Khomeini fu caricaturizzato in Occidente e gli sciiti furono presentati come eretici in Oriente. Oggi l’Iran è l’unico paese al mondo ad inviare grandi quantità di armi e consiglieri per aiutare la Resistenza palestinese, mentre i regimi sionisti arabi se ne stanno a discutere amabilmente in videoconferenza con il presidente israeliano durante le riunioni del Consiglio di sicurezza del Golfo.(Thierry Meyssan, “Chi è il nemico?”, articolo apparso il 3 agosto 2014 su diversi giornali internazionali e tradotto da “Megachip”).La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare
Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del paese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.(Marco Della Luna, estratti dal post “Dove portano queste riforme”, pubblicato sul blog di Della Luna il 24 luglio 2014).Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
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Comanda solo il business, ecco perché il mondo è nel caos
«Mentre la terza guerra mondiale non è stata formalmente dichiarata, i conflitti di tutto il mondo stanno raggiungendo livelli mai visti dal 1944», anche se per la grande maggioranza di persone in tutto il mondo «le notizie su questi conflitti sono solo parte della cronaca quotidiana». Per Roberto Savio, editore di “Other News” e fondatore dall’agenzia di stampa Ips, Inter Press Service, l’opinione pubblica ha semplicemente rinunciato a tentare di capire quello che sta succedendo, giorno per giorno. Perché il pianeta sta sprofondando in questo pericoloso caos? «La fine della Guerra Fredda ha scongelato il mondo, che era stato tenuto stabile dall’equilibrio tra le due superpotenze». Le alleanze oggi cedono, di fronte agli interessi nazionali: lo dimostra l’Austria, che ha firmato sottobanco con la Russia l’accordo per il gasdotto Southstream che aggirerebbe l’Ucraina, proprio mentre gli Usa pretendono che l’Europa isoli Mosca. «Un mondo multipolare è in divenire, ma resta da capire quanto stabile».Cina e Giappone stanno aumentando i loro investimenti militari, alla pari dei paesi circostanti, scrive Savio in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. E mentre i conflitti locali, come quelli in Siria, in Iraq e in Sudan, non stanno degenerando in un conflitto più allargato, questo rischio è invece molto più vicino in Asia. «In un mondo sempre più diviso da una recrudescenza degli interessi nazionali, l’idea stessa di una governance condivisa sta perdendo forza, e non solo in Europa», continua Savio. Le Nazioni Unite sono ormai diventate marginali come arena in cui raggiungere consenso e legittimità, mentre a dettare l’agenda sono «i due motori della globalizzazione – il commercio e la finanza». Sviluppo, pace, diritti umani, ambiente e istruzione? «Sebbene questi temi siano cruciali per un mondo vivibile, non sono visti come tali da chi è al potere. Conclusione: le Nazioni Unite stanno diventando irrilevanti», così come «valori e idee considerati universali», ad esempio «la cooperazione, l’aiuto reciproco, la giustizia sociale e la pace internazionale».Esempio: «Il presidente francese François Hollande incontra il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, non per discutere di come fermare il genocidio in Sudan o il sequestro di bambini in Nigeria, ma per chiedergli di intervenire con il suo ministro della giustizia per ridurre un’ammenda gigante comminata a una banca francese, la Bnp-Paribas, per attività fraudolente». Altro tema-fantasma, il futuro del pianeta: «L’incombente problema del controllo del clima era in gran parte assente nell’ultima riunione del G7, per non parlare del disarmo nucleare». Dopo il colonialismo, archiviati i regimi totalitari con la fine della Seconda Guerra Mondiale, la frase-chiave fu “l’attuazione della democrazia”. Ma al termine della Guerra Fredda, continua Savio, la democrazia fu data per scontata e ora «sta perdendo il suo fascino», perché il pragmatismo del business «ha portato alla perdita della visione a lungo termine, e la politica è diventata sempre più semplice amministrazione».I cittadini sono estranei ai partiti, e gli affari internazionali sono delegati ai poteri forti, che decidono senza più consultare il popolo. Accade ogni giorno: «Il modo in cui il piano di salvataggio di Cipro dalla crisi finanziaria di qualche anno fa è stato trattato in seno alla Commissione Europea è stato ampiamente riconosciuto come un esempio lampante di mancanza di trasparenza». Altro elemento-chiave per l’aumento del caos, la “nuova economia” prodotta dalla finanza: «Un’economia che contempla la disoccupazione permanente, la mancanza di investimenti sociali, una riduzione delle imposte per i grandi capitali, la marginalizzazione dei sindacati e una riduzione del ruolo dello Stato come regolatore e garante della giustizia sociale». Sicché, «le disuguaglianze stanno raggiungendo livelli senza precedenti», se è vero che «le 85 persone più ricche del mondo possiedono la stessa ricchezza di 2,5 miliardi di persone». Tutto ciò, conclude Savio, accade anche perché gli organizzatori del caos usano i media per manipolare la verità, oscurare le notizie e impedire all’opinione pubblica di “vedere” quello che sta davvero succedendo.«Mentre la terza guerra mondiale non è stata formalmente dichiarata, i conflitti di tutto il mondo stanno raggiungendo livelli mai visti dal 1944», anche se per la grande maggioranza di persone in tutto il mondo «le notizie su questi conflitti sono solo parte della cronaca quotidiana». Per Roberto Savio, editore di “Other News” e fondatore dall’agenzia di stampa Ips, Inter Press Service, l’opinione pubblica ha semplicemente rinunciato a tentare di capire quello che sta succedendo, giorno per giorno. Perché il pianeta sta sprofondando in questo pericoloso caos? «La fine della Guerra Fredda ha scongelato il mondo, che era stato tenuto stabile dall’equilibrio tra le due superpotenze». Le alleanze oggi cedono, di fronte agli interessi nazionali: lo dimostra l’Austria, che ha firmato sottobanco con la Russia l’accordo per il gasdotto Southstream che aggirerebbe l’Ucraina, proprio mentre gli Usa pretendono che l’Europa isoli Mosca. «Un mondo multipolare è in divenire, ma resta da capire quanto stabile».
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Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra
La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.
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Il pupazzo Renzi ci sta spedendo nell’inferno del Ttip
Così pochi giorni fa abbiamo udito le voci del ventriloquo uscire dalle bocche dei nostri governanti. L’ineffabile Renzi, colui che il più delle volte parla senza dire alcunché (è anche questa una capacità molto importante per i politici di oggi, ma bisogna dare a lui il merito di averla portata alle vette del sublime), stavolta, animato dal ventriloquo, ha detto qualcosa di concreto: che bisogna firmare subito il Ttip, il trattato internazionale di libero commercio tra Usa ed Europa. «E’ tutto a nostro vantaggio», ha detto il ventriloquo. «Sst!… Guerrino dorme, non risvegliamolo. Vorrei sbagliarmi, ma credo che ogni giorno di più dubita di non esistere, d’essere un’armatura piena di vento…» (Gesualdo Bufalino). Dice che venderemo più facilmente i nostri prosciutti e il nostro parmigiano agli americani. Finalmente. Allora ci metteremo tutti a produrre prosciutti e parmigiano, e cargo di prosciutti e parmigiano, e magari vino Chianti e Brunello partiranno per l’America, inondando le mense Usa e sostituendo hamburger, popcorn, cibi in scatola e in plastica di ogni genere e tipo.Continueremo a importare grano, riso, carne, verdure, sementi, piante da orto e da giardino, soia e mais e farine animali da far mangiare ai maiali per i prosciutti e alle vacche per il parmigiano, pesticidi con cui irrorare i già troppo estesi vigneti del Chianti e del Brunello, ecc ecc, e molte di queste cose continueremo ad importarle dagli Stati Uniti, come già facciamo. Con una piccola differenza, però, rispetto ad ora: non potremo più rifiutare nulla. Non potremo più escludere ormoni, Ogm, veleni di qualsiasi genere dal nostro commercio e consumo, non potremo nemmeno più essere avvertiti della loro presenza da un’etichetta (e nemmeno da un articolo pubblicato su un giornale) perché sarebbe “concorrenza sleale”, punita con gravi sanzioni pecuniarie, se non peggio. Diventerebbe illegale anche un’etichetta che specificasse “esente da Ogm”: sarebbe sempre concorrenza sleale. “Sleale”! Ma dov’è finito il significato delle parole?Il Ttip (trattato di libero commercio), libererebbe le multinazionali Usa (e non solo) da ogni limite e vincolo che oggi la nostra legislazione prevede, e che abbiamo conquistato a seguito di tante lotte, mobilitazioni, impegno e lavoro di associazioni, gruppi e gente varia. Libererebbe le multinazionali e incatenerebbe noi. Ogni passo avanti nel cammino della globalizzazione imperialista è un passo avanti nella sottomissione dei popoli. Mentre quelli che ci stanno rendendo schiavi sventolano la bandiera della Santa Democrazia ogni volta che devono dare l’assalto a qualche paese refrattario e recalcitrante al farsi “globalizzare”. Il Ttip è un piano con cui le grandi corporations vogliono accaparrarsi tutto l’accaparrabile, controllare tutto il commercio, imporre a tutti i loro prodotti. Viene discusso in segreto, tenendone all’oscuro, con la complicità dei governi, i popoli che ne saranno vittime.E’ un’altra rapina di risorse naturali ed economiche, aumenterà la povertà dei molti e la ricchezza dei dominatori del mondo, accelererà la distruzione della Terra e della nostra salute. Se verrà approvato. Intanto, non lasciamo che a berciare sia solo il ventriloquo attraverso le sue marionette: la maggior parte dei cittadini non ne ha mai sentito parlare, se non da Renzi & C. Informiamoci e informiamo, facciamo conoscere la verità e gli obiettivi di questo trattato commerciale. Tutti devono capire, tutti quelli che sanno e hanno capito devono informare coloro che “cadono dalle nuvole” ma che pesano, eccome, sul piatto della bilancia. Il Trattato prevede che le legislazioni dei singoli Stati si pieghino alle norme di libero scambio stabilite dalle multinazionali, pena gravi sanzioni commerciali e risarcimenti (alle multinazionali) degli Stati contravventori. O delle Regioni, o dei Comuni.Sicurezza alimentare, norme sulle sostanze tossiche, sanità, medicinali, energia, cultura, risorse naturali, formazione professionale, appalti pubblici… tutto verrebbe piegato e ridisegnato secondo gli interessi delle multinazionali. Sarebbero creati appositi tribunali internazionali per tutelarne gli interessi. I servizi pubblici diventerebbero merce di libero scambio. Stiamo parlando di scuole, ospedali, ferrovie, musei, opere pubbliche, foreste e terreni, energia elettrica. Tutto “liberamente scambiabile”! Tutto arraffabile, accaparrabile, rapinabile dalle grandi industrie Usa ed europee. Nella delegazione americana che sta conducendo le trattative ci sono più di seicento (600!) rappresentanti mandati dalle multinazionali. Seicento loro lacché, funzionari, mercenari: dopotutto, è una guerra, e quei seicento si batteranno fino all’ultimo: per loro è questione di vita o di morte. Cioè di carriera e prestigio o di fallimento, che è tutto ciò che concepiscono della vita.Le istruzioni per tutti i lacché, Usa ed europei, politici e non, sono: non far trapelare nulla, fino alla fine, di ciò che si discute. Chissà perché? A noi italiani almeno lo potrebbero dire, dato che il Ttip “è tutto a nostro vantaggio”. «Con le monete in una mano, un bel niente nell’altra, persuasero tutti, eccetto il bambino – già sapeva… che, qualsiasi mano avesse toccato delle due tese avanti, sarebbe stata sempre quella vuota» (R. S. Thomas). Peccato che il trattato simile di libero commercio fatto tra Usa e Messico non sia stato anche lui a tutto vantaggio dei contadini messicani, che hanno visto inondare il mercato interno di mais Usa geneticamente modificato e a prezzi stracciati e, oltre a non riuscire più a vendere il proprio prodotto, vengono denunciati e rovinati dalla Monsanto perché il loro mais è contaminato.(Sonia Savioli, “Ventriloqui, pupazzi e accordo commerciale Usa-Ue”, da “Il Cambiamento” del 26 giugno 2014).Così pochi giorni fa abbiamo udito le voci del ventriloquo uscire dalle bocche dei nostri governanti. L’ineffabile Renzi, colui che il più delle volte parla senza dire alcunché (è anche questa una capacità molto importante per i politici di oggi, ma bisogna dare a lui il merito di averla portata alle vette del sublime), stavolta, animato dal ventriloquo, ha detto qualcosa di concreto: che bisogna firmare subito il Ttip, il trattato internazionale di libero commercio tra Usa ed Europa. «E’ tutto a nostro vantaggio», ha detto il ventriloquo. «Sst!… Guerrino dorme, non risvegliamolo. Vorrei sbagliarmi, ma credo che ogni giorno di più dubita di non esistere, d’essere un’armatura piena di vento…» (Gesualdo Bufalino). Dice che venderemo più facilmente i nostri prosciutti e il nostro parmigiano agli americani. Finalmente. Allora ci metteremo tutti a produrre prosciutti e parmigiano, e cargo di prosciutti e parmigiano, e magari vino Chianti e Brunello partiranno per l’America, inondando le mense Usa e sostituendo hamburger, popcorn, cibi in scatola e in plastica di ogni genere e tipo.
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Rwanda, in Italia i veri boia del genocidio: preti e suore
Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.Principalmente quelle della Chiesa cattolica, radicate nella storia coloniale e missionaria dell’ultimo secolo, che sono l’oggetto dell’ultima fatica di Vania Lucia Gaito, giornalista e psicologa già autrice del saggio sui preti pedofili “Viaggio nel silenzio” (Chiarelettere, 2008). Nel libro di recentissima pubblicazione “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica” (L’asino d’Oro edizioni, 2014) l’autrice ripercorre approfonditamente le trasformazioni sociali e culturali del secolo precedente al genocidio, rintracciando in esse i prodromi dei cento giorni, per «comprendere i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà di distruzione», individuabili nel connubio tra potere, fede e fanatismo. «Mai come in Rwanda – chiarisce l’autrice nella premessa – la Chiesa cattolica ha fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi princìpi fondamentali, del suo primo comandamento: ama il prossimo tuo».Ed è forse proprio questo il nodo più difficile da comprendere per chi ha sempre sentito parlare, ieri come oggi, di un conflitto “etnico” in Rwanda: chi accese la fiamma dell’odio, sottolinea Gaito, «non era un hutu, non era un tutsi, non era ruandese. Era bianco». E, si potrebbe aggiungere, europeo, imperialista, imbevuto delle ottocentesche teorie razziste, cattolico. Quando i tedeschi arrivarono a fine Ottocento nel “paese delle mille colline”, racconta l’autrice nella prima parte del libro dedicata alla ricostruzione storica, il concetto di razza era estraneo alla popolazione ruandese. «Lo esportammo così come oggi pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In nome di una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti e li imposero a un intero popolo».Con la fine della Prima Guerra Mondiale e la Conferenza di Parigi (Trattato di Versailles, 28 giugno 1919), la Germania lasciava il posto al Belgio sul ponte di comando del piccolo paese africano. La Chiesa locale, guidata dal vicario apostolico monsignor Léon-Paul Classe e assecondata dall’amministrazione belga, avviò un processo di “conversione” della società locale, ottenendo per il cattolicesimo lo status di religione di Stato, stringendo alleanze con la leadership aristocratica tutsi e diffondendo – grazie alle pubblicazioni dei missionari e alla fitta rete di scuole, ospedali e parrocchie con cui i missionari si garantivano il pieno controllo sociale – una nuova dottrina razziale per la quale i tutsi (alti, ricchi e più chiari), rappresentavano l’etnia “superiore” su cui Chiesa e coloni avrebbero investito per il futuro del Rwanda. Quando poi i tutsi alzarono la testa contro i coloni belgi, il corso della storia del piccolo paese africano prese una direzione opposta, proprio perché il potere acquisito dalla Chiesa cattolica, braccio “cultural-spirituale” dell’occupante, cominciò a vacillare.Per continuare a garantirsi una base strategica nel cuore dell’Africa, da fine anni Cinquanta i missionari ribaltarono strategia, presero a denunciare la discriminazione degli hutu, a rivendicarne l’emancipazione e la parità di trattamento, radicalizzando ancor più l’etnicizzazione di un conflitto sociale che nasceva su ragioni di diseguaglianza economica. Protagonista di questo voltafaccia, monsignor André Perraudin, padre bianco svizzero, consapevole, scrive Gaito, «che occorreva rovesciare la monarchia, stabilire alleanze con chi, grato dell’appoggio ricevuto, avrebbe continuato a lasciare il potere, le scuole e gli ospedali nelle mani della Chiesa». E così, nel 1959, nacque il Partito nazionale ruandese, sostenuto dalla monarchia tutsi, che rivendicava l’indipendenza del Rwanda, una riforma agraria e amministrativa e la laicizzazione dell’istruzione.Per tutta risposta fu fondato il Parmehutu (Partito per l’emancipazione degli hutu) – guidato dal segretario di Perraudin e ispirato al Manifesto degli hutu scritto praticamente sotto dettatura del monsignore – che si caratterizzò da subito come partito aggressivo e profondamente razzista. Seguirono due anni di massacri noti come “piccolo genocidio”, una riscossa sociale degli hutu (con 300.000 tutsi uccisi e molti sfollati nei paesi limitrofi, tra cui l’attuale presidente Paul Kagame) per la quale i Padri Bianchi esultavano e gli autori della strage riservavano ai missionari grande riconoscenza. Nel 1961 cadde la monarchia e l’ex segretario del vescovo, Grégoire Kayibanda, guidò la neonata Repubblica fino al 1973, quando un colpo di Stato militare portò al potere il cugino Juvénal Habyarimana, amico della famiglia reale belga, fervente cattolico, che poteva vantare il sostegno di larga parte d’Europa, anche della Francia, che cominciava ad allungare le mani sul Rwanda. Seguì un periodo di soppressione delle libertà fondamentali e il conflitto etnico divenne feroce.Nel 1987 i profughi ruandesi scappati dal “piccolo genocidio” in Uganda fondarono il Fronte patriottico ruandese, con l’obiettivo di rovesciare la dittatura e rientrare in patria, che dette vita ad anni di guerra e di violenze sulle popolazioni hutu. L’odio razziale raggiungeva in quegli anni un punto di non ritorno, e invano furono siglati gli Accordi di Arusha del 1993 con cui doveva nascere un governo di transizione a guida hutu-tutsi. Il governò importò dalla Cina un’ingente quantità di machete che distribuì tra la popolazione. Invano tentarono anche i governi occidentali e le istituzioni internazionali di opporsi alla deriva, chiedendo l’applicazione dei trattati. Poi arrivò l’esplosione dell’aereo presidenziale a sancire che ormai era troppo tardi. Dell’attentato furono incolpati i miliziani del Fronte patriottico. L’intreccio tra odio e panico nella popolazione fece il resto. Furono compilate liste di proscrizione e i cento giorni di massacro ebbero inizio, in strada, nelle scuole, negli ospedali, nelle chiese. Lasciando sulla strada quasi un milione di persone trucidate, principalmente tutsi ma anche hutu “moderati”.La seconda parte del libro traccia il profilo di alcuni protagonisti ecclesiastici di quella vicenda. Una galleria degli orrori tale da far rabbrividire anche il più fantasioso regista di film horror. Ritratti di “uomini di Dio” riemersi, anche recentemente in occasione del ventennale, nell’ambito di interpretazioni del genocidio “non allineate” alle gerarchie cattoliche, ancora colpevolmente lontane dall’ammettere le proprie implicazioni e proclamare il doveroso mea culpa (tra le italiane, quella dell’Espresso e di Adista). Si tratta di preti e suore, amministratori di ospedali e istituzioni pubbliche, che hanno partecipato attivamente e con dedizione alla grande strage e che, una volta concluso il genocidio con la presa del potere da parte del Fronte, sono fuggiti in Europa per evitare la giustizia dei tribunali e vivono ora in parrocchie, impiegati nella catechesi dei bambini e in altre attività sociali, sotto la copertura di diocesi e Vaticano.Tra gli altri, padre Athanase Seromba, a lungo ospite della diocesi di Firenze, accusato di aver accolto duemila tutsi in cerca di protezione, di averli chiusi nella parrocchia e di aver chiamato i soldati che hanno poi abbattuto la chiesa e giustiziato i sopravvissuti al crollo. E padre Emmanuel Uwayezu (protetto dalla diocesi di Firenze e da quella di Empoli), direttore di un collegio ruandese, accusato di aver abbandonato i suoi studenti nelle mani delle milizie hutu. E padre Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare, accusato di aver consegnato ai miliziani i tutsi ospitati nel suo seminario. Oppure il padre bianco Guy Theunis, direttore di uno dei principali organi di informazione che, già prima del genocidio, avevano lanciato una campagna di incitazione all’odio etnico. E ancora, per passare al “ramo femminile”, suor Gertrude Mukangango e la consorella Julienne Kizito (soprannominata “l’animale”), complici attive dei massacri; e suor Theophister Mukakibibi, condannata, tra l’altro, per aver gettato un bambino vivo in una latrina.Quello che c’è dopo – il cammino di un popolo che tenta timidamente di fare i conti con il proprio passato e guardare con speranza verso il futuro – è narrato dall’autrice con dovizia di particolari, attraverso interviste, testimonianze, citazioni di articoli di giornale. Il quadro, sul piano dell’assunzione di responsabilità della Chiesa cattolica, a molti anni dalla fine del genocidio, è tutt’altro che incoraggiante: ad ogni livello della scala gerarchica, la Chiesa continua a respingere al mittente le accuse di complicità e a ritenere missionari e vescovi di allora “uomini santi” votati esclusivamente all’edificazione del Regno di Dio. E, nella migliore delle ipotesi, a ignorare e denigrare l’importante operato di quanti, come Vania Lucia Gaito con quest’imprescindibile volume, lavorano incessantemente e faticosamente per portare alla luce una verità scomoda, oscurata dalla Chiesa e troppo spesso glissata anche nelle narrazioni dei grandi media mainstream.(Giampaolo Petrucci, “Le origini del male”, da “Micromega” del 30 giugno 2014. Il libro: Vania Lucia Gaito, “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica”, L’asino d’Oro edizioni, XIII-157 pagine, 12 euro).Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.
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Eurogendfor, la super-polizia Ue contro chi sciopera
L’Unione Europea si sta preparando a usare reparti militari antisommossa in tutti gli Stati membri, per reprimere il dissenso contro la grande crisi che sta devastando il continente. A rilanciare l’allarme su Eurogendfor, la nuova “gendarmeria europea” con poteri speciali con base a Vicenza, è il deputato tedesco Andrej Hunko, secondo cui si stanno creando i presupposti legali per dislocare in tutta Europa le unità speciali, e al tempo stesso «la Commissione Europea sta lavorando intensamente sulla creazione di una polizia Ue come di una magistratura Ue». L’utilizzo della “European Gendarmerie Forces” sarebbe legittimato dal ricorso alla “clausola di solidarietà”, anche se in realtà «l’Ue ha già un meccanismo di mutua assistenza in caso di disastro». La novità è che «verrano impiegate forze di polizia con status militare». Portogallo, Spagna, Italia, Francia e Paesi Bassi sono i fondatori della Eurogendfor, che opererà in tutto il continente anche presso le unità di polizia nazionali, la Nato e l’Onu. La “clausola” «segna ulteriormente il passo verso la militarizzazione della politica interna» europea.La “clausola di solidarietà”, spiega Hunko su “Global Research” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, impegna gli Stati membri dell’Ue a una nuova forma di assistenza reciproca, qualora avvenga «un disastro o un non ben definito stato di crisi». Un paese potrà invocare la “clausola” se una crisi superasse le sue capacità di risposta. «L’adozione della clausola da parte del Consiglio degli Affari Generali ha avuto luogo in segreto», è la denuncia di Hunko. «Il punto non trovava menzione nell’agenda dell’incontro e neanche la stampa ne era stata informata». La “clausola di solidarietà” «amplifica il ruolo dei due intelligence service stile Ue come unità di crisi, e crea inoltre il presupposto giuridico per la possibilità della Commissione Europea di dispiegare unità speciali di polizia del “Network Atlas”», di cui fa parte il Gsg 9, il corpo di unità d’élite della polizia tedesca, già all’opera nel 2013 con esercitazioni su larga scala, condotte con analoghi reparti di altri paesi europei.In Italia, pochissime voci fuori dal coro si sono levate sull’ambiguo statuto giuridico di Eurogendfor, che non sarebbe sottoposta ad alcuna restrizione: gli operatori della polizia speciale non risponderebbero alla legge di nessun paese e a nessuna magistratura ordinaria, neppure in caso di danni a cose e persone, fino all’omicidio. Una svolta di questo genere prelude senz’altro a una imminente «militarizzazione della politica interna», dal momento che «personale militare può essere inviato ad un altro Stato membro, su richiesta». Aggiunge Hunko: «Io sono molto preoccupato che questa versione “ad uso domestico” dell’articolo 5 sulla reciproca assistenza: potrebbe essere applicata in situazioni che potrebbero avere un effetto dannoso sulla popolazione, sull’ambiente e sul diritto alla proprietà privata». Per consentire il ricorso all’uso della forza da parte di Eurogendfor piotrebbero bastare manifestazioni, normali scioperi, nonché «serrate politicamente motivate nelle aree dell’energia e dei trasporti». Anziché di una “super-polizia militare” protetta dall’impunità, conclude il parlamentare tedesco, «avremmo bisogno di un meccanismo che andasse a rinforzare le politiche di solidarietà civile all’interno dell’Ue».L’Unione Europea si sta preparando a usare reparti militari antisommossa in tutti gli Stati membri, per reprimere il dissenso contro la grande crisi che sta devastando il continente. A rilanciare l’allarme su Eurogendfor, la nuova “gendarmeria europea” con poteri speciali con base a Vicenza, è il deputato tedesco Andrej Hunko, secondo cui si stanno creando i presupposti legali per dislocare in tutta Europa le unità speciali, e al tempo stesso «la Commissione Europea sta lavorando intensamente sulla creazione di una polizia Ue come di una magistratura Ue». L’utilizzo della “European Gendarmerie Forces” sarebbe legittimato dal ricorso alla “clausola di solidarietà”, anche se in realtà «l’Ue ha già un meccanismo di mutua assistenza in caso di disastro». La novità è che «verrano impiegate forze di polizia con status militare». Portogallo, Spagna, Italia, Francia e Paesi Bassi sono i fondatori della Eurogendfor, che opererà in tutto il continente anche presso le unità di polizia nazionali, la Nato e l’Onu. La “clausola” «segna ulteriormente il passo verso la militarizzazione della politica interna» europea.
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Gaza top secret, massacro made in Italy firmato Alenia
Chi vince, nella gara di ipocrisia? Obama che “non può fare nulla” per fermare Israele, che ha armato fino ai denti, o l’insignificante Italia, che pure ha fornito a Tel Aviv i velivoli-scuola per addestrare i piloti dei caccia che fanno piovere missili sulle case di Gaza? I cacciabombardieri che martellano Gaza sono F-16 e F-15 forniti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed elicotteri da guerra), insieme a migliaia di missili e bombe a guida satellitare e laser, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”. Come documenta lo stesso Congresso Usa l’11 aprile 2014, Washington si è impegnata a fornire a Israele, tra il 2009 e il 2018, un aiuto militare di 30 miliardi di dollari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo sviluppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washington di una sorta di “cassa continua” per l’acquisto di armi statunitensi, tra cui sono previsti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inoltre usare, in caso di necessità, le potenti armi stoccate nel “Deposito Usa di emergenza in Israele”.«Al confronto, l’armamento palestinese equivale a quello di chi, inquadrato da un tiratore scelto nel mirino telescopico di un fucile di precisione, cerca di difendersi lanciandogli il razzo di un fuoco artificiale», aggiunge Dinucci, nel servizio ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ma attenzione: un consistente aiuto militare a Israele viene anche dalle maggiori potenze europee. «La Germania gli ha fornito 5 sottomarini Dolphin (di cui due regalati) e tra poco ne consegnerà un sesto. I sottomarini sono stati modificati per lanciare missili da crociera nucleari a lungo raggio, i “Popeye Turbo” derivati da quelli Usa, che possono colpire un obiettivo a 1.500 km». E l’Italia, che consente ai top gun di Tel Aviv di condurre esercitazioni con armamenti letali in Sardegna, sta fornendo a Israele i primi dei 30 velivoli M-346 da addestramento avanzato, costruiti da Alenia Aermacchi (Finmeccanica). Aerei che possono essere usati anche come caccia per l’attacco al suolo in operazioni belliche reali.La fornitura dei caccia M-346, continua Dinucci, costituisce solo una piccola parte della cooperazione militare italo-israeliana, istituzionalizzata dalla legge 94 promulgata nel 2005. Legge che «coinvolge le forze armate e l’industria militare del nostro paese in attività di cui nessuno (neppure in Parlamento) viene messo a conoscenza». La norma stabilisce infatti che tali attività sono «soggette all’accordo sulla sicurezza», e quindi segrete. «Poiché Israele possiede armi nucleari – conclude il giornalista del “Manifesto” – alte tecnologie italiane possono essere segretamente utilizzate per potenziare le capacità di attacco dei vettori nucleari israeliani», e inoltre «possono essere anche usate per rendere ancora più letali le armi “convenzionali” usate dalla forze armate israeliane contro i palestinesi», che come vediamo sono soprattutto civili, donne e bambini inclusi, sacrificati anche questa volta per la pulizia tecnica di stampo terroristico mirata a sfrattare la popolazione palestinese da quella che viene definita “la più grande prigione a cielo aperto esistente al mondo”.«La cooperazione militare italo-israeliana – aggiunge Dinucci – si è intensificata quando il 2 dicembre 2008, tre settimane prima dell’operazione israeliana “Piombo Fuso” a Gaza, la Nato ha ratificato il “Programma di cooperazione individuale”». Il programma comprende lo scambio di informazioni tra i servizi di intelligence, la connessione di Israele al sistema elettronico Nato, la cooperazione nel settore degli armamenti e l’aumento delle esercitazioni militari congiunte. In quel quadro rientra “Blue Flag”, la più grande esercitazione di guerra aerea mai svoltasi in Israele, cui hanno partecipato nel novembre 2013 Stati Uniti, Italia e Grecia. «La “Blue Flag” è servita a integrare nella Nato le forze aeree israeliane, che avevano prima effettuato esercitazioni congiunte solo con singoli paesi dell’Alleanza, come quelle a Decimomannu con l’aeronautica italiana». Le forze aeree israeliane, sottolinea il generale Amikam Norkin, stanno sperimentando nuove procedure per potenziare la propria capacità, «accrescendo di dieci volte il numero di obiettivi che vengono individuati e distrutti». Ciò che sta facendo in questo momento a Gaza, grazie anche al contributo italiano, di cui la stampa mainstream evita accuratamente di parlare.Chi vince, nella gara di ipocrisia? Obama che “non può fare nulla” per fermare Israele, che ha armato fino ai denti, o l’insignificante Italia, che pure ha fornito a Tel Aviv i velivoli-scuola per addestrare i piloti dei caccia che fanno piovere missili sulle case di Gaza? I cacciabombardieri che martellano Gaza sono F-16 e F-15 forniti dagli Usa a Israele (oltre 300, più altri aerei ed elicotteri da guerra), insieme a migliaia di missili e bombe a guida satellitare e laser, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”. Come documenta lo stesso Congresso Usa l’11 aprile 2014, Washington si è impegnata a fornire a Israele, tra il 2009 e il 2018, un aiuto militare di 30 miliardi di dollari, cui l’amministrazione Obama ha aggiunto nel 2014 oltre mezzo miliardo per lo sviluppo di sistemi anti-razzi e anti-missili. Israele dispone a Washington di una sorta di “cassa continua” per l’acquisto di armi statunitensi, tra cui sono previsti 19 F-35 del costo di 2,7 miliardi. Può inoltre usare, in caso di necessità, le potenti armi stoccate nel “Deposito Usa di emergenza in Israele”.
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Henn: nazisti di Kiev allevati e protetti dalla Germania
“Frega il tuo vicino”, è da sempre la strategia della Germania: secondo Dagmar Henn, il tentativo di Berlino di ridurre l’intera Europa a sua colonia economico non è altro che un tentativo di rovesciare l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Di cui la Germania sembra ripercorrere tutti i passi falsi, a cominciare dalla sfida contro la Russia: perché se gli Usa sono la superpotenza mondiale che sta minacciando Mosca sulla frontiera ucraina, a tirare le fila sono soprattutto i tedeschi, anche se per ora restano nell’ombra. In realtà non è stata la Casa Bianca ma l’Unione Europea a far firmare alla giunta golpista di Kiev l’accordo che lega l’economia ucraina a quella tedesca. Ed è stata la stessa Ue a imporre l’accordo-capestro col Fmi. L’uomo della Merkel per l’operazione-Ucraina è stato il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, coordinatore dei servizi segreti fino al 2005 e quindi «profondamente coinvolto nei fatti del Kosovo». Proprio lui «ha spinto perché l’Ucraina entrasse nella Ue: non parliamo di un agnellino e nemmeno di un pacifista», perché è stato lui il primo a parlare di “integrità territoriale” subito dopo il golpe compiuto dai neonazisti ucraini.«Tutti ricordano la famosa telefonata della Nuland che chiedeva a Jatsenjuk di andare al governo», scrive la Henn in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma «quasi tutti hanno dimenticato» che l’emissaria di Obama diceva: «No Svoboda», ovvero: niente mano libera ai neo-nazisti di Kiev. «Fu Steinmeier che apri la porta a Svoboda», nel silenzio totale dei media, americani e tedeschi. Secondo l’analista, pochi vedono davvero quello che sta accadendo: la Germania, che finora ha “spremuto” i vicini europei «per stabilizzare l’industria e le banche tedesche», al di là delle polemiche di facciata sulle ingerenze spionistiche Cia-Nsa è perfettamente d’accordo con Washington nella politica di ostilità verso Mosca: «Tra Germania e Usa c’è complicità, non dipendenza: come accadde per la Jugoslavia, dove gli Usa ottennero le basi militari e la Germania le colonie». Attenzione: già allora, i «fascisti croati» che furono scatenati contro la Serbia «si erano rifugiati per decenni a Monaco di Baviera», pronti per «essere utilizzati ancora».«Chiedetelo ai greci: raramente la retorica politica tedesca dice la verità», continua Dagmar Henn, che denuncia il silenzio imposto ai media di Berlino. Nessuno fa notare l’autoritarismo tedesco, «e il risultato è la trasformazione della Ue in una struttura semi-coloniale con un solo centro politico ed economico, la Germania: basti pensare a Hollande che non può più nemmeno telefonare, se non autorizzato dalla Merkel». Questa struttura però «è tutt’altro che stabile, perché ormai stanno per finire i vicini di casa che ancora non sono ridotti alla miseria, mentre la crisi economica è tutt’altro che finita». Quindi, «entrambi i soci di questa aggressione», Usa e Germania, condividono lo stesso problema, «e nessuna bilancia commerciale con la Russia potrà colmare questa lacuna: entrambi hanno bisogno di una vera e propria distruzione dei valori reali su larga scala, e ne hanno bisogno subito». Storia: quando la Wehrmacht cominciò a vedere che stava perdendo la guerra nel 1943, concluse che non avrebbe mai dovuto attaccare la Russia, ma piuttosto controllare l’intero potenziale economico europeo. «Quindi è un po’ inquietante vedere oggi che, negli ultimi anni, non si è fatto altro che ripetere gli stessi errori di allora».Secondo Dagmar Henn, è impossibile dimostrare «quanto sia stretto il collegamento tra le autorità tedesche e i nazisti ucraini», perché gli archivi tedeschi sono ben chiusi «e lì si annida tutto lo sporco accumulato dal 1945 in poi». Ci sono però «forti indicazioni» che suggeriscono che «la parte peggiore delle forze ucraine» sia costituita da «pupazzi dei tedeschi, non degli americani, a cominciare dalla Timoshenko». I neonazisti, compresi quelli di Kiev, «non devono essere controllati direttamente: si mettono subito a correre nella “giusta” direzione, non appena vengono tirati fuori». Avverte la Henn: «Nelle zone intorno a Monaco ci sono sempre stati più nazisti ad occupare le posizioni ufficiali e più esuli ucraini, seguaci di Bandera, di quanti mai abbiano raggiunto gli Stati Uniti». I servizi segreti tedeschi (Bnd) si trovano a Pullach, a pochi chilometri da Monaco, e «non hanno mai lasciato cadere i loro antichi collegamenti». Secondo la Henn, «sono ancora profondamente legati alle stesse persone che tennero i collegamenti durante la guerra». A Monaco c’è stato un governo ucraino in esilio, con sede a Zeppelinstraße, e c’è ancora una università ucraina. Monaco, inoltre, è stata «il quartier generale dei terroristi ucraini dopo il 1945».Fin dalla sua indipendenza, in Ucraina c’è sempre stata una forte influenza tedesca: nel 1992 all’ambasciata tedesca di Kiev lavoravano più impiegati che in tutte le altre ambasciate occidentali messe insieme, inclusa quella americana. Mentre i funzionari governativi inglesi e americani allora cercavano di rafforzare le tendenze nazionaliste nei paesi ex Urss, il governo tedesco «aveva già fatto tutto quello che poteva fare in questo senso, non solo in Ucraina ma anche negli Stati baltici». Per questo, continua Henn, la gran quantità di agenti della Cia a Kiev «potrebbe non essere un segno di forza degli Usa in questo dramma», ma sembra piuttosto «un tentativo di recuperare il ritardo rispetto ai collegamenti già presi dai tedeschi». La Henn segnala una «strana eco storica» negli avvenimenti ucraini, che rimanda in modo sinistro al calendario del nazismo germanico. A cominciare dal massacro di Odessa, il rogo del palazzo dei sindacati lo scorso 2 maggio: sempre il 2 maggio (del 1919) Monaco di Baviera «fu conquistata dai controrivoluzionari», e la successiva repressione fece 3.000 vittime. Ancora il 2 maggio (del 1933) i nazisti «presero d’assalto gli edifici dei sindacati tedeschi».Coincidenze, o frutto di una “mente” germanica? «I nazisti tedeschi sono ossessionati dai riferimenti storici», avverte Dagmar Henn. «Sapete perché il primo campo di concentramento fu costruito a Dachau? In quel posto l’Armata Rossa bavarese vinse una battaglia all’inizio del 1919». I gerarchi di Hilter, dunque, «volevano cancellare chi era stato sconfitto, anche la sua memoria, e ci riuscirono». Conclude Henn: «Potrei sbagliarmi, mi piacerebbe sbagliarmi, ma la strategia russa al momento sembra essere mirata a creare una spaccatura tra Germania e Stati Uniti. Se avessi ragione, questa strategia sarebbe completamente inutile: non vedo nessun piano-B e non vedo nemmeno un qualche serio tentativo di informare la popolazione tedesca. Questo mi preoccupa profondamente. Ai governi tedeschi piace parlare di pace. Fino alle 5:44 del mattino».“Frega il tuo vicino”, è da sempre la strategia della Germania: secondo Dagmar Henn, esponente della sinistra tedesca (Linke), il tentativo di Berlino di ridurre l’intera Europa a sua colonia economica non è altro che un tentativo di rovesciare l’esito della Seconda Guerra Mondiale. Di cui la Germania sembra ripercorrere tutti i passi falsi, a cominciare dalla sfida contro la Russia: perché se gli Usa sono la superpotenza mondiale che sta minacciando Mosca sulla frontiera ucraina, a tirare le fila sono soprattutto i tedeschi, anche se per ora restano nell’ombra. In realtà non è stata la Casa Bianca ma l’Unione Europea a far firmare alla giunta golpista di Kiev l’accordo che lega l’economia ucraina a quella tedesca. Ed è stata la stessa Ue a imporre l’accordo-capestro col Fmi. L’uomo della Merkel per l’operazione-Ucraina è stato il ministro degli esteri Frank-Walter Steinmeier, coordinatore dei servizi segreti fino al 2005 e quindi «profondamente coinvolto nei fatti del Kosovo».
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Juncker letale per Italia e Francia, e Londra lascerà l’Ue
Condoglianze all’Europa, guidata dal super-falco del rigore Jean-Claude Juncker. Fastidioso per la Gran Bretagna, che non lo voleva – e anche per questo punterà sull’uscita dall’Ue col referendum del 2017 – il nuovo super-tecnocrate neoliberista imposto dalla Merkel come presidente della Commissione Europea sarà un’autentica condanna a morte per Francia e Italia, dove Hollande e Renzi saranno costretti a subire ancora più austerity, assistendo al boom inarrestabile di Marine Le Pen e Beppe Grillo. Lo sostiene l’autorevole analista economico del “Telegraph”, Ambrose Evans-Pritchard, secondo cui il lussemburghese Juncker è un vero maestro del “metodo” da gangster attribuito al francese Jean Monnet, uno dei tanti “padri” dell’atroce Ue. Testualmente: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede: se non c’è nessuna protesta, perché la maggior parte delle persone non capisce cosa stiamo facendo, andiamo avanti passo dopo passo fino a quando siamo oltre il punto di non ritorno», ha dichiarato candidamente Juncker al tedesco “Der Spiegel”.La sinistra caricatura di Europa disegnata dal Trattato di Lisbona, scrive Pritchard nell’articolo tradotto da “Voci dall’estero” e ripreso dal blog “Vox Populi”, non ha dato al Parlamento Europeo il potere di scegliere il presidente della Commissione, prerogativa che rimane ai leader nazionali dell’Ue. Gli eurodeputati? Hanno solo il diritto di sfiduciare la Commissione, ma non possono nominarla. «Eppure è esattamente quello che hanno fatto: una cricca di falchi integralisti a Strasburgo ha imposto a forza il presidente Juncker», un diktat accettato dagli «spauriti leader dell’Ue» solo per «ottenere concessioni o ingraziarsi il favore di Berlino». Tesi: il centrodestra (Ppe) avrebbe l’autorità per imporre la sua scelta, avendo “vinto” le elezioni europee. Lettura miope: «Il terremoto elettorale di maggio è andato in direzione completamente opposta: un urlo primordiale dei popoli europei contro la prepotenza dell’Ue e la distruzione di posti di lavoro causata dalla brutale austerità».Infatti, in Francia il Fronte Nazionale ha vinto chiedendo l’uscita dall’euro e col rifiuto viscerale del progetto dell’Unione Europea. «Bisogna essere politicamente analfabeti – protesta Pritchard – per ritenere saggio o appropriato, in questo momento, affidare la macchina Ue a un vecchio insider, uno dei maggiori responsabili delle disgraziate decisioni che hanno portato l’Europa nella sua attuale empasse». Per dirla con Beppe Grillo, «ovunque passi Juncker in Europa, non cresce più l’erba». E Marine Le Pen ha annunciato che si rifiuterà di ratificarne la nomina: «Io non parteciperò alla votazione per il carceriere della prigione: cercherò la fuga dalla prigione». Designare Juncker, sottolinea Pritchard, è stato il massimo “regalo” possibile alla Le Pen e a Grillo. Il neo-presidente della Commissione è «il volto di politiche terrificanti», che hanno intrappolato l’Europa in un drammatico “decennio perduto”, quello dell’euro. Eppure, il Ppe vanta il suo successo (numerico) alle europee. Una commedia degli equivoci: quanti elettori greci, tra quelli che hanno votato Nuova Democrazia, si sono resi conto che avrebbero lanciato alla guida di Bruxelles un uomo come Juncker, candidato a inasprire ulteriormente il rigore? E quanti elettori irlandesi di Fine Gael volevano davvero un’ulteriore integrazione nell’Ue?«Cerchiamo di essere onesti», scrive Pritchard. «Questa parodia è stata imposta dal blocco tedesco di europarlamentari, sia per aumentare i poteri della propria istituzione sia perché il presidente Juncker è ritenuto (per ora) il più sicuro curatore dello status quo nell’Ue, che serve abbastanza bene gli interessi tedeschi». Questo status quo «è rovinoso per la Francia e per l’Italia, eppure François Hollande e Matteo Renzi hanno acconsentito docilmente, lasciando David Cameron a fare una resistenza donchisciottesca contro una decisione che è quasi suicida per l’Unione Europea stessa». Pensavano di assicurarsi un po’ di flessibilità sull’austerità con un compromesso? Illusioni: «Nelle conclusioni del vertice non c’è stato nessun cambiamento sostanziale delle norme Ue sul disavanzo». Infatti, la politica di Bruxelles non cambia di una virgola: «La stagnazione permanente dell’economia è già tradotta in legge nell’Ue grazie al Fiscal Compact. Ogni paese deve tagliare il proprio debito pubblico in maniera meccanica per vent’anni, finché non raggiunge il rapporto del 60% del Pil, indipendentemente dalla politica monetaria o dallo stato dell’economia mondiale. Questo sta già incalzando la Francia, che scivola sempre più a fondo in una trappola di deflazione da debito, con una crescita zero che fa impennare la traiettoria del debito, nonostante un pacchetto di austerità dopo l’altro».Secondo Gilles Carrez, capo della commissione finanze del Parlamento francese, entro il prossimo anno la Francia sfonderà il tetto del 100%: questo significa che il debito dovrà essere tagliato di 40 punti percentuali, ossia di un 2% all’anno, nel bel mezzo di una crisi di disoccupazione. L’Italia sta anche peggio, continua Pritchard, con un debito che si avvita sopra il 133%. «Il signor Renzi può provare a guadagnare un piccolo margine di manovra per investimenti supplementari, ma a questo punto il compito è troppo arduo per qualsiasi leader politico». Colpa della «camicia di forza» dell’Uem, l’unione monetaria europea: l’euro obbliga il governo italiano «a ottenere un surplus di bilancio primario del 5% del Pil anno dopo anno, sempreché la Banca Centrale Europea riesca a raggiungere il suo obiettivo di inflazione del 2%, cosa che per ora non riesce a fare». Con lo 0,5% attuale, per conformarsi alle regole l’Italia deve ottenere un surplus vicino al 7%. «Ma ciò non è né possibile né auspicabile, in un paese con una forza lavoro che si contrae e una demografia alla giapponese».Secondo Pritchard, «Renzi avrebbe dovuto affrontare la cancelliera tedesca Angela Merkel quando il suo successo elettorale schiacciante era ancora fresco, chiedendo un blitz di reflazione per cambiare completamente il panorama economico europeo». Ma il giovane premier italiano «ha perso la sua chance, il che porta a chiedersi se non sia soltanto un chiacchierone, che probabilmente verrà messo a tacere in fretta». Forse, aggiunge l’analista del “Telegraph”, per Renzi «era impossibile ottenere di più senza l’aiuto di Hollande», che però è ormai «una figura tragica che replica le politiche deflazionistiche di Pierre Laval nel 1935». Morale: «Per Francia e Italia, gli orrori della trappola della deflazione da debito possono restare dissimulati finché regge il ciclo di liquidità globale, se la Cina va avanti ancora con gli stimoli e se il capo della Fed, la Yellen, si preoccupa di creare posti di lavoro al di sopra di tutto. Ma una volta che il ciclo cambia, Renzi e Hollande malediranno il giorno in cui hanno accettato di venire a patti con la Merkel a Bruxelles», cedendo sull’infelicissima scelta di Juncker.Nel frattempo, la Germania teme seriamente che il Regno Unito possa salutare la sgangherata compagnia europea, dopo che la Merkel «ha allegramente perseguito i suoi interessi con effetti venefici sulla psicologia politica della Gran Bretagna», facendo salire il consenso per un’uscita del paese dalla Ue fino a un record del 47,39%. Berlino ora si sta preoccupando di limitare i danni, aggiunge Pritchard: il vice-cancelliere Sigmar Gabriel ha detto che l’uscita britannica significherebbe la disintegrazione del progetto europeo. «Non dobbiamo sottovalutare l’impatto sugli Stati anglosassoni e sui mercati finanziari», ha detto. «L’Europa sembrerebbe lacerata e indebolita agli occhi del mondo: già viene considerata un continente in declino». Anche per il terribile ministro delle finanze Wolfgang Schauble, l’uscita britannica sarebbe «assolutamente inaccettabile». Ha ragione, dice Pritchard: «Un’uscita britannica sconvolgerebbe la chimica interna dell’Unione Europea, rischiando una reazione a catena», aumentando la solitudine dell’egemone Germania. Non solo: il Regno Unito continua a crescere più dell’Eurozona del 2% annuo, e l’aumento è anche demografico – oltre 400.000 abitanti l’anno – proprio in un momento in cui la Germania sta entrando in una crisi demografica. Dunque la situazione è critica, e oggi un uomo come Juncker è davvero il peggior presidente possibile.Condoglianze all’Europa, guidata dal super-falco del rigore Jean-Claude Juncker. Fastidioso per la Gran Bretagna, che non lo voleva – e anche per questo punterà sull’uscita dall’Ue col referendum del 2017 – il nuovo super-tecnocrate neoliberista imposto dalla Merkel come presidente della Commissione Europea sarà un’autentica condanna a morte per Francia e Italia, dove Hollande e Renzi saranno costretti a subire ancora più austerity, assistendo al boom inarrestabile di Marine Le Pen e Beppe Grillo. Lo sostiene l’autorevole analista economico del “Telegraph”, Ambrose Evans-Pritchard, secondo cui il lussemburghese Juncker è un vero maestro del “metodo” da gangster attribuito al francese Jean Monnet, uno dei tanti “padri” dell’atroce Ue. Testualmente: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede: se non c’è nessuna protesta, perché la maggior parte delle persone non capisce cosa stiamo facendo, andiamo avanti passo dopo passo fino a quando siamo oltre il punto di non ritorno», ha dichiarato candidamente Juncker al tedesco “Der Spiegel”.