Archivio del Tag ‘tradimento’
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Addio senatori, così Renzi li ha spogliati di ogni dignità
Pensi ai sentori, non quelli di adesso, ma di sempre. A ritroso. Come figura, come maschera, come archetipo. C’era quello all’italiana tronfio e grasso o allampanato e severo da prima repubblica, con le cravatte marroni e il suo codazzo di clienti, buono per una raccomandazione e un posto alle poste. C’era il Bossi secessionista che quasi per beffa si ritrova per la prima volta in Parlamento nella Camera nobile, giusto il tempo di guadagnarsi il soprannome di Senatùr e poi migrare a Montecitorio, dove la politica ha più sale. C’era Andreotti a cui l’«amico» Cossiga fece il più perfido dei regali, un seggio da senatore a vita, come a certificare l’eclissi di un potere. E fu allora che il Divo Giulio cominciò a logorarsi. C’era il Pci di Berlinguer che nel 1981 pubblicò a pagina sette de L’Unità un documento di riforma costituzionale per abolire il Senato e rimpiazzarlo con il Cnel. C’era Bendetto Croce, senatore del Regno, che da antifascista restò in Senato, convinto a ragione che il fascismo fosse solo una parentesi. C’era ancora prima il Senato dello Statuto Albertino, con i senatori scelti direttamente dal re, con il vantaggio di non dover improvvisare un generico «in base alle scelte degli elettori» come nel compromesso partorito dal Pd. C’era in una Roma lontana Cicerone che sbraitava contro Catilina e un Senato di ottimati cieco e oligarchico. Nel nome della libertà accoltellarono Cesare e si beccarono il più furbo Ottaviano. Augusto fece dei senatori una vanagloriosa casta plaudente.Nessuna simpatia per i senatori. Solo che nessuno immaginava come sarebbero finiti al tempo di Renzi. Niente gloria, nessun funerale, neppure un mezzo discorso d’addio, a pensarci bene neppure un suicidio orgoglioso alla Seneca. Nulla. Peggio. La fine dei senatori è una mediocre metamorfosi. Renzi con un abracadabra li ha trasformati in consiglieri regionali.Renzi li ha spogliati di ogni dignità, perlomeno quel poco che restava. Il Senato, il Palazzo, resta lì, ma come qualcosa di inutile, ristretto, periferico, una sorta di Parlamento minore, come un dopo lavoro rispetto agli affari regionali. Non si sa ancora come verranno eletti, forse scelti dai partiti e con la coperta democratica dei poveri elettori. Senatori ancora di più ingaglioffati nel gioco delle clientele, buoni a dirottare finanziamenti pubblici sul territorio e alle prese con le note spese. La cattiveria vera forse è proprio questa: aver salvato le Regioni per spogliare il Senato. Quelle Regioni simbolo di spreco a cui i riformatori concedono il titolo onorifico di Senatori.Non è più tempo di senatori. Sta tramontando perfino la parola. Questo è un tempo dove resistono solo leggende, gente come Pirlo o Totti. Non sono un gruppo storico, sono eccezioni. I senatori erano la bandiera e i vecchi di una squadra, di uno spogliatoio, di una nazionale. Ora sono solo carne da rottamare e utili solo come portaborse di giovani rampanti. Forse però è davvero qui il paradosso italiano. In questo paese di vecchi scompare un simbolo. Non c’è più il senex, l’anziano che incarna la saggezza, la tradizione, la memoria, quello che tramanda, che fa da testimone e che ricorda. Non serve più in una terra dove tutto è presente, dove il futuro è senza orizzonte e il passato si ferma all’altroieri. Non serve perché questo non è un Paese per senatori. Non lo è perché quelli che per età dovevano esserlo hanno bruciato sogni e utopie in piazza, lasciandosi alle spalle solo cenere e macerie. Non lo è perché hanno tradito e si sono traditi. Non lo è perché hanno urlato «la fantasia al potere», per poi buttare la fantasia e tenersi il potere. Non lo è perché si sono mangiati il futuro di chi veniva dopo. Addio senatori. Quello che avete davanti è l’ultimo tratto. I tempi, dicono, si chiuderanno nel 2020. È questo il futuro prossimo. È come in Guerre Stellari, come in quel Senato galattico e suicida. «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi».Pensi ai sentori, non quelli di adesso, ma di sempre. A ritroso. Come figura, come maschera, come archetipo. C’era quello all’italiana tronfio e grasso o allampanato e severo da prima repubblica, con le cravatte marroni e il suo codazzo di clienti, buono per una raccomandazione e un posto alle poste. C’era il Bossi secessionista che quasi per beffa si ritrova per la prima volta in Parlamento nella Camera nobile, giusto il tempo di guadagnarsi il soprannome di Senatùr e poi migrare a Montecitorio, dove la politica ha più sale. C’era Andreotti a cui l’«amico» Cossiga fece il più perfido dei regali, un seggio da senatore a vita, come a certificare l’eclissi di un potere. E fu allora che il Divo Giulio cominciò a logorarsi. C’era il Pci di Berlinguer che nel 1981 pubblicò a pagina sette de L’Unità un documento di riforma costituzionale per abolire il Senato e rimpiazzarlo con il Cnel. C’era Bendetto Croce, senatore del Regno, che da antifascista restò in Senato, convinto a ragione che il fascismo fosse solo una parentesi. C’era ancora prima il Senato dello Statuto Albertino, con i senatori scelti direttamente dal re, con il vantaggio di non dover improvvisare un generico «in base alle scelte degli elettori» come nel compromesso partorito dal Pd. C’era in una Roma lontana Cicerone che sbraitava contro Catilina e un Senato di ottimati cieco e oligarchico. Nel nome della libertà accoltellarono Cesare e si beccarono il più furbo Ottaviano. Augusto fece dei senatori una vanagloriosa casta plaudente.
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Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».
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Errore fatale, trattare i migranti come i Goti di Alarico
Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».Questa è l’impostazione politically correct di Amalia Signorelli. Commenta una lettrice: «E purtroppo l’autrice dell’articolo ha ragione, ha dannatamente ragione: i muri non bastano, non basteranno a fermare questa invasione barbarica che produrrà soltanto distruzione, come d’altronde tutte le invasioni. Non è più un fenomeno di immigrazione, è un’incontenibile invasione. Ha ragione l’autrice a paragonarla con quanto successe durante le guerre gotiche. Ma l’autrice omette colpevolmente di ricordare gli episodi di atroce crudeltà. Roma in cinquant’anni passò da un milione di abitanti a trentamila. Fu una carneficina e fu il crollo di una civiltà. Siamo arrivati, purtroppo, a una scelta: o noi o loro». Questa opinione è sostanzialmente condivisa da oltre il 90% dei lettori che commentano. Perciò parliamone apertamente e senza moralismi, o magari utilizzando la storia come metafora. Che vuol dire: “O noi o loro”? Dovremmo sterminarli, riportarli da dove vengono, o cosa?Lo so che il genocidio (non è già in corso?) è un reato, e l’apologia di reato non si può fare; e chi lo commette si autodistrugge. Ma proviamo a ridurre il divario fra opinione pubblica e establishment. I Goti e i loro successori non volevano abbattere l’impero romano, anzi: ma solo inserirsi in un’area sicura (dagli attacchi degli Unni) e ricca. Sounds familiar? Però ne provocarono il crollo. Il declino del reddito pro-capite durò circa mille anni. O più: i contadini del V secolo abitavano case pavimentate e con le tegole sul tetto; in Veneto cento anni fa molti contadini vivevano in abitazioni di paglia. Come gestirono la pressione migratoria nel V secolo? In modi diversi a Oriente e a Occidente. A Costantinopoli, in un caldo giorno di luglio dell’anno 400, fu pogrom. La folla inferocita trucidò tutti i Goti presenti in città: uomini, donne, bambini. Il governo di Arcadio completò la pulizia etnica, anche in Anatolia. La città festeggiò (3 gennaio 401)! I Visigoti di Alarico, invitti da 25 anni, vista la brutta aria, lasciarono la Tracia per l’Italia. E dei Goti in Oriente non si sentì più parlare. Problema risolto.In Occidente, in un caldo giorno di agosto del 405, Stilicone sconfisse un’orda di Goti che (dopo aver messo a ferro e fuoco l’Italia del Nord) assediava Firenze. Fece prigionieri forse 30.000 guerrieri: li risparmiò. Ne inserì 12.000 nell’esercito romano, alloggiando (in servitù) le rispettive donne e bambini presso famiglie padane; tutti gli altri li vendette schiavi. Ma nel 408 Stilicone cadde, e in Padania fu subito pogrom: la folla trucidò le donne e i bambini dei Goti. Allora i padri-mariti disertarono l’esercito romano (gli schiavi abbandonarono i padroni) e si unirono ad Alarico, portando l’esercito visigoto a circa 30.000 soldati. Fino ad allora battuto e ricacciato in Pannonia, Alarico così rinforzato riuscì ad espugnare Roma (410).Morale della favola. O li facciamo fuori tutti, ma proprio tutti, e in un colpo solo, come a Bisanzio. Ma ce la sentiamo di diventare dei genocidi? Oppure è meglio che li trattiamo bene. Perché anche in Oriente, nel 376, quando tutto cominciò, i forse 100.000 Goti che si presentarono alla frontiera sul Danubio chiesero ‘asilo politico’ all’imperatore, aspettarono due mesi la risposta di là dal fiume, entrarono disarmati, e non crearono problemi. Fino a quando – raccontano le fonti romane, non gote – traditi, umiliati, e affamati si ribellarono. E furono 25 anni di saccheggi. Tre strade. Il genocidio. La ri-emigrazione verso altri lidi (Cina? Antartide? I paesi di origine?). L’integrazione: attribuire loro dei diritti e rispettarli. Oppure il caos e la fine della civiltà. Quale preferite?Ps: il padre di Stilicone era Vandalo. E Stilicone fu l’ultimo baluardo di Roma! L’integrazione porta anche benefici. I romani avevano controlli sugli ingressi alle frontiere molto efficaci; e politiche dell’immigrazione molto restrittive (oggi Obama dice: fate di più contro i trafficanti di uomini). Il più bel libro che ho letto sull’argomento è di un italiano (Alessandro Barbero, “Barbari: Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano”, Laterza). I migranti di oggi non sono come quelli del V secolo. Nella società agraria latifondista romana un Goto che arrivava da solo non aveva nessuna possibilità di migliorare la sua condizione economica: poteva fare solo lo schiavo o il servo della gleba. La produzione agricola essendo più o meno data, l’impero non traeva benefici economici dall’immigrazione (a parte l’esercito).Perciò per i migranti al di là delle frontiere l’unico modo per partecipare al benessere romano era organizzare spedizioni armate di massa e costringere con la forza (e i saccheggi) lo Stato romano a venire a patti, a concedere terre e diritti di stanziamento (Alarico fino al 410 non chiese altro). Ma in tal modo i migranti del V secolo impoverirono l’impero, anche fiscalmente (i barbari non pagavano tasse), fino allo stremo. Oggi l’industria e i servizi cambiano la situazione: gli immigrati aumentano la capacità produttiva del paese ospite (perciò si presentano da soli, disarmati, pronti a creare valore e pagare le tasse). Il problema è nostro: organizzarci, investire su di loro per renderli produttivi. E prima ancora, farla finita con la crisi di domanda che non consente neanche a molti europei potenzialmente produttivi (disoccupati) di lavorare.(PierGiorgio Gawronski, “I migranti di oggi non sono come i Goti del V secolo”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 agosto 2015).Nel clima da fine impero in cui siamo immersi fioriscono i paragoni tra l’ondata migratoria attuale e le invasioni barbariche del V secolo. Scrive ad esempio l’antropologa Amalia Signorelli: «Vorrei suggerire all’onorevole Matteo Salvini e a tutti coloro che condividono le sue idee una passeggiata lungo le Mura Aureliane, la possente fortificazione con cui l’imperatore Aureliano (215 – 275 d.C.) circondò Roma, capitale dell’Impero, per metterla al riparo dalle invasioni dei barbari. Si resta affascinati dal diametro della cinta muraria (Roma all’epoca sfiorava il milione di abitanti), dallo spessore delle mura, dalla frequenza delle torri di avvistamento, dall’eccellente protezione dei camminamenti. Un’opera di ingegneria militare ancora oggi esemplare. Che, come tutti sappiamo, non fermò le invasioni barbariche. Se mai, per un paio di secoli, ne ritardò il compimento. Quei barbari non erano bande di briganti dedite al saccheggio, erano popolazioni che si muovevano dall’Est verso Ovest con donne e bambini e che tendevano a stabilirsi nei paesi conquistati». E poi la proposta: «Il rifugiato riceva dallo Stato italiano una cifra giornaliera per il proprio mantenimento e, in segno di gratitudine, si offra volontario per lavori socialmente utili».
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Perché il presidente Evo Morales si fa allacciare le scarpe
Stanno girando le immagini, riprese da uno smartphone, del presidente boliviano Evo Morales che si fa allacciare le scarpe da un uomo del suo staff, mentre lui continua a parlare coi suoi collaboratori. Le immagini sono state accolte da un coro di proteste e da una ridda di pubblicità prima del filmato. Stranamente, nessuno ha protestato per le pubblicità.Ma veniamo al punto. Dunque, un rappresentante del socialismo sudamericano, che dovrebbe predicare l’uguaglianza, si fa allacciare le scarpe come un regnante del cazzo? Le polemiche sono accesissime. La realtà è che un filmato non significa niente. Possiamo solo attenerci alle immagini, le interpretazioni non sono che un contorno. Le immagini sono queste: all’arrivo in un luogo non meglio precisato, atteso da una folla festante, il presidente parla con qualcuno, poi indica una scarpa al suo accompagnatore, il quale si china prontamente ad allacciargliela. Evo continua a parlare e, prima di andare incontro alla folla, guarda se il collaboratore gli abbia allacciato bene la scarpa. Le ipotesi potrebbero essere molte e ne faccio ben 12 esempi.1) Un uomo dello staff di Evo Morales, fan accanito del presidente, vuole a tutti i costi allacciargli le scarpe; lui, per sensibilità umana, accetta, come Cristo quando gli lavano i piedi. 2) È tardi, bisogna andare subito a fare un discorso pubblico di cui Evo discute coi suoi collaboratori. Come succede per Fantozzi, quando decide di prendere il tram al volo, ogni gesto è organizzato per non perdere neanche un secondo e così, mentre lui discute, uno va a predisporre il palco, un altro gli allaccia le scarpe. 3) Evo Morales ha un tremendo mal di schiena, non può chinarsi per nessun motivo a causa di fitte lancinanti, è imbottito di arnica, perciò prega un uomo del suo staff di allacciargli le scarpe. 4) Durante il viaggio, a Evo, si sono stracciati i pantaloni all’altezza del culo. Per evitare che girino filmati in cui fa una magra figura mentre le mutande rosse fanno capolino dalle sue braghe, l’intero staff decide che il presidente non si allacci le scarpe da solo. 5) Un’antica legge boliviana, che Morales vuole cancellare, impone al presidente di non allacciarsi le scarpe in pubblico.6) Ad allacciargli le scarpe non è uno del suo staff, ma un agente dell’opposizione camuffato, il quale compie il gesto a tradimento per fargli fare una figura barbina, d’accordo col tizio che, stranamente, è appostato proprio per riprendere la scena col suo cazzo di telefonino capitalista. 7) Stessa ipotesi del punto 6), con l’aggiunta che nemmeno Evo Morales è Evo Morales, ma bensì un sosia messo lì dall’opposizione, e quello non è il suo staff, ma l’intera opposizione. Il giorno prima gli alieni hanno rapito Evo Morales e ne hanno fatto un fighetto molliccio aristocratico, per via di alcuni loro esperimenti sulle metamorfosi. 9) Non è uno del suo staff ad allacciargli le scarpe, ma un agente della Cia che, con la scusa di quel gesto non richiesto, inserisce nelle sue scarpe una microspia. 10) La mafia sta ricattando Evo, che deve pagare un pizzo mensile, ogni volta che salta un pagamento la mafia gli fa fare una figura di merda.11) Avete presente quando di uno si dice: “Non è nemmeno capace di allacciarsi le scarpe”? È un cruccio dei suoi genitori, in una recente intervista, la madre, avrebbe dichiarato: «Ho solo un rammarico: quello di non essere riuscita ad insegnargli ad allacciarsi le scarpe». D’altronde, molti uomini si fanno annodare la cravatta dalle loro mogli e non per questo sono accusati di maschilismo. 12) Si tratta di un equivoco. Evo avrebbe detto al suo collaboratore: “Hai visto, che figata di scarpe rosse da 2 dollari e mezzo?”. Il collaboratore, talmente socialista che non ci sente dall’orecchio destro, avrebbe capito: “Allacciami le scarpe, schiavo di merda, o non ti do lo stipendio” e avrebbe eseguito timoroso. Ovviamente ci sono centinaia di altre ipotesi che io non ho preso in considerazione. Ma tutta questa vicenda ha uno sviluppo almeno in Italia, infatti sono convinto che moltissimi italiani se ne catafottessero della Bolivia e non avessero la minima idea di chi cazzo fosse il presidente boliviano, ora, grazie al fatto di poterlo infamare, molti italiani hanno imparato il suo nome. Come a dire: ne insegna più l’astio che la cultura.(Natalino Balasso, “Perché Evo Morales di fa allacciare le scarpe”, dalla pagina Facebook di Balasso, post del 26 agosto 2015).Stanno girando le immagini, riprese da uno smartphone, del presidente boliviano Evo Morales che si fa allacciare le scarpe da un uomo del suo staff, mentre lui continua a parlare coi suoi collaboratori. Le immagini sono state accolte da un coro di proteste e da una ridda di pubblicità prima del filmato. Stranamente, nessuno ha protestato per le pubblicità. Ma veniamo al punto. Dunque, un rappresentante del socialismo sudamericano, che dovrebbe predicare l’uguaglianza, si fa allacciare le scarpe come un regnante del cazzo? Le polemiche sono accesissime. La realtà è che un filmato non significa niente. Possiamo solo attenerci alle immagini, le interpretazioni non sono che un contorno. Le immagini sono queste: all’arrivo in un luogo non meglio precisato, atteso da una folla festante, il presidente parla con qualcuno, poi indica una scarpa al suo accompagnatore, il quale si china prontamente ad allacciargliela. Evo continua a parlare e, prima di andare incontro alla folla, guarda se il collaboratore gli abbia allacciato bene la scarpa. Le ipotesi potrebbero essere molte e ne faccio ben 12 esempi.
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Un Cln per la libertà della Grecia, tradita dall’infame Tsipras
Alexis Tsipras è un farabutto ipocrita. Dopo avere vinto le elezioni di gennaio al grido “mai più Troika”, questa specie di Matteo Renzi ellenico si è completamente consegnato nelle mani dei tecno-nazisti Draghi, Merkel e Schaeuble, adducendo scuse false e risibili degne dei suoi nuovi compari Samaras e Venizelos. L’ex leader di Syriza, oramai ridottosi a patetica macchietta, ha tradito la sua gente, sterilizzando di fatto la straordinaria prova di forza e democrazia offerta al mondo dai greci il 5 luglio scorso. Come molti di voi ricorderanno, infatti, in Grecia è stato recentemente indetto, proprio da Tsipras, un paradossale referendum contenente un semplice quanto decisivo quesito: “Siete voi disposti a proseguire sul sentiero dell’austerita’?” Oxi o Nai? Il popolo ha detto “Oxi” e Tsipras ha fatto come se avesse detto “Nai”. Bella coerenza! Con quale faccia questo damerino infingardo possa ora ripresentarsi di fronte al corpo elettorale resta un mistero difficile da comprendere. Cosa dirà ai suoi concittadini Tsipras? Probabilmente le stesse menzogne che, prima di lui, recitavano su dettatura i suoi predecessori, bravissimi nel tentare di carpire consenso veicolando paure buone per intontire e raggirare i deboli e gli ingenui.
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Mani Pulite, sfasciare l’Italia per venderla ai suoi carnefici
Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».La stessa Maiolo, scrive Petrosillo su “Conflitti e Strategie”, «riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli», anche se «non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi». Forse alla Maiolo erano sfuggiti «importanti spostamenti di campo che il Pci iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato e i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano». L’onda lunga del “tradimento” si completerà in seguito alla caduta dell’Urss con la svolta occhettiana della Bolognina, che porterà la “ditta” a cambiare apertamente nome e ragione sociale. «E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del Pds s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere», ma in effetti anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo: in quel caso l’inghippo fu Berlusconi, «catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici».Quando il pool di Milano «procedeva come un carro armato e tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale», grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che in un’intervista rilasciata al quotidiano “L’Unità” il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su Tangentopoli era finita, dopo aver colpito Dc e Psi e risparmiato il Pci-Pds. Fu lo stesso D’Ambrosio, aggiunge Petrosillo, a battersi per dimostrare che Primo Greganti, il faccendiere del Pci-Pds che aveva prelevato denaro in Svizzera dal “Conto Gabbietta”, «rubava per sé e non per il partito». Un paio di anni dopo, quando il quadro politico era radicalmente cambiato e non esistevano più la Dc né il Psi (ma esisteva ancora l’ex partito di Occhetto), il ministro di giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione Greganti salterà di nuovo fuori. Dov’erano finiti quei soldi? «Nelle casse del Pci-Pds». Ma il pool di Milano cessò di indagare. E a Tiziana Parenti, la giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia, l’inchiesta fu tolta.«Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di “aiutini”», continua Petrosillo. Si tratta del procuratore di Venezia, Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. «L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema, non arrivò mai. Si disse che era stata una “dimenticanza”. E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli». E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, avrebbe consegnato a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? «Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del “non poteva non sapere” o della “responsabilità oggettiva” con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto».Il tribunale che condannò Cusani scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga, scrive Petrosillo. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale “a un partito”. Francesco Misiani, pm romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di “Magistratura democratica”, ha spiegato in un libro quale fosse il suo stato d’animo quando scoprì che il Pci-Pds, «lungi dal rappresentare quella “diversità” su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo, un terzo, un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale». Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica, come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti, aveva persino maggiore disponibilità finanziaria.Un politico di Forza Italia come Giuliano Urbani racconta: «Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani». Secondo i “contatti” di Urbani, il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. «Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani». Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere “dopo”, e quindi non aveva nessun motivo di revanchismo nei confronti del Pm di Mani Pulite, sembra convincente: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. E i dubbi aumentano. «Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché», osserva Petrosillo. «Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del paese».C’è chi ha sposato la teoria del complotto internazionale, scrive Petrosillo. Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (Craxi in primis), questa ipotesi parte dal presupposto che la magistratura fino al 1992 ignorò il finanziamento illecito dei partiti. Poi, con l’arresto di Mario Chiesa, il caso esplose e si trasformò in un “processo al sistema”. «Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?». Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, attribuì alla Cia un ruolo importante sull’inizio di Tangentopoli, così come sulle “disgrazie” di Craxi e Andreotti. In quel periodo alla Casa Bianca c’erano amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Un altro boss della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, sostiene che il “complotto” iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani Pulite. In quei giorni il capo della Cia, James Woolsey, spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale, e a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. Gli Usa raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito. E il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali, se fosse servito.Nell’analisi di Cirino Pomicino, aggiunge Petrosillo, c’è anche la Gran Bretagna, dove «la Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. In quel momento «sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo». Il punto debole, conclude Petrosillo, è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul “dopo”. «Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei “poteri forti” che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?». La risposta è nei fatti, dal Britannia in poi, col clamoroso precedente del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale era retta da Ciampi. Lo ha spiegato molto bene Nino Galloni, consulente di Andreotti alla vigilia del Trattato di Maastricht: l’Italia fu deliberatamente azzoppata, con la complicità delle sue élite tecnocratiche in quota al futuro centrosinistra, per sabotare il sistema produttivo nazionale, come chiedeva la Germania per aderire all’euro e gestire il disegno strategico di indebolimento generale dell’Europa. Il resto è cronaca, e si chiama crisi.Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».
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Il piano segreto di Stanlio & Ollio per (non) salvare i greci
«Se penso che questo è il governo della sinistra radicale, che dovrebbe dare lezioni di democrazia, di un nuovo rapporto fra masse e potere, non so se ridere o piangere». Così il politologo Aldo Giannuli liquida il fantomatico “Piano-B” di cui ora chiacchiera l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: Tsipras ne era al corrente, anzi l’ha espressamente autorizzato, poi ha revocato l’ok fino alle dimissioni del ministro. Ma in ogni caso la Grecia non si è mai attrezzata per uscire dall’euro. E i greci, pur chiamati al referendum contro l’ultima stretta mortale di austerity pretesa dalla Germania, non sono mai stati informati dell’ipotetico “Piano-B”, al punto da lasciar configurare, oggi, l’accusa di alto tradimento a carico di Varoufakis – risvolto peraltro grottesco, in una situazione di catastrofe sociale come quella ellenica: «Deferire per questo Varoufakis all’Alta corte? Ma se non sono stati processati nemmeno quelli che hanno falsificato i bilanci dello Stato per un decennio! Siamo seri».In una conversazione privata durante una conferenza presso l’Omfif (Official Monetary and Financial Institutions Forum), Varoufakis ha detto che quel piano segreto sarebbe servito nel caso i negoziati fossero falliti, per realizzare una nuova moneta greca. L’ex ministro ha spiegato di essere stato autorizzato da Tsipras sin da prima delle elezioni e di aver «lavorato sotto traccia» con un piccolo team guidato dall’economista statunitense James Galbraith, figlio del celebre John Kenneth Galbraith. Il piano supervisionato da Jamie Galbraith prevedeva di dare un codice bancario e fiscale ad ogni contribuente e società per gestire il passaggio alla nuova valuta; poi, in caso di chiusura delle banche, sarebbe scattato un meccanismo di pagamento-ombra, basato sul sito dell’agenzia delle entrate greco che avrebbe permesso, attraverso un pin fornito a chi doveva del denaro, tanto lo Stato che i privati, di trasferire le somme in “formato digitale”, nominalmente in euro. Poi il sistema sarebbe stato esteso agli smartphone con un’app e al momento opportuno sarebbe stato convertito nella nuova dracma, accennando poi anche alla possibilità di arrestare il governatore della banca centrale greca se si fosse opposto.Era una conversazione privata, puntualizza Giannuli nel suo blog, ma poi lo stesso Varoufakis avrebbe autorizzato la messa in rete della registrazione. Sempre l’ex ministro ha poi aggiunto che la difficoltà di tradurre in realtà il piano sarebbe scattata nel momento della realizzazione, che richiedeva una seconda autorizzazione da parte di Alexis Tsipras e che invece non è mai arrivata. Galbraith, poi, ha confermato di aver preso parte al gruppo di lavoro segreto da febbraio ai primi di luglio. Nemmeno 24 ore dopo la messa in rete della conversazione, è scattata la richiesta di deferimento di Varoufakis all’Alta Corte di giustizia per alto tradimento. «La questione, intrecciando aspetti economici, politici, finanziari, costituzionali, penali, è complessa», premette Giannmuli. «Per di più, ha molti punti oscuri e suscita non poche perplessità». Che possibilità di successo avrebbe potuto avere il “Piano-B” di Varoufakis e Galbraith? «A quanto pare, per poterlo attuare si sarebbe dovuti passare attraverso una manovra di hackeraggio per accedere alle posizioni dei singoli cittadini. Il punto non è chiaro, ma fa alzare più di un sopracciglio per l’evidente illegalità della cosa».E poi: come se la sarebbero cavata i possessori di smartphone, magari pensionati? Sarebbero incorsi in manipolazioni, magari gestite dalla malavita? Ma il punto più delicato è un altro: «I greci avrebbero accettato questa moneta?». Senza una accurata preparazione verso il ritorno alla dracma, sarebbe alto il rischio di panico, con impennata dei prezzi, fino al posssibile rifiuto – da parte dei fornitori esteri – di accettare la dracma (in rapida svalutazione) come moneta per i pagamenti; una crisi destinata ad aggravarsi con l’esaurimento delle riserve di merci disponibili. Insomma, ragiona Giannuli, lo Stato sarebbe stato costretto a convertire la sua moneta virtuale in vere dracme. Quindi, il tentativo di Varoufakis «si sarebbe rivelato solo una breve perdita di tempo». Poi ci sono i problemi di ordine politico-istituzionale, e il primo interrogativo è: «Si può cambiare il sistema monetario di un paese con un colpo di mano e senza autorizzazione preventiva del Parlamento?». Qui, continua Giannuli, «c’è anche la slealtà di fondo di Syriza verso l’elettorato, cui era stato promesso il mantenimento dell’euro e la fine dell’austerità. Si può anche pensare che quella fosse la speranza (ahimè quanto infondata) di Tsipras, e che l’altro fosse il piano di riserva; ma è lecito nascondere all’elettorato, non dico il piano nei suoi particolari, ma quantomeno la possibilità di un ritorno alla moneta nazionale?».Alcuni “furbi” diranno che così Syriza avrebbe perso le elezioni? «Può darsi, ma mentire coscientemente all’elettorato è un gesto moralmente più basso che prendere tangenti». C’è chi è sensibile a questi argomenti, e chi invece ritiene questi scrupoli superati: «Tutto dipende da quale sia la concezione che si ha della democrazia: non capisco perché poi la stessissima cosa venga rimproverata a Renzi o Berlusconi». Inoltre, «nascondere il “Piano-B” e dichiarare la volontà di restare nell’euro a tutti i costi, non ammettendo neanche per un momento l’ipotesi di poterne uscire, ha indebolito la Grecia al tavolo negoziale». E inoltre, fino a che punto il team di Varoufakis e Galbraith ha davvero lavorato “sotto traccia”? «Non è certissimo che un qualche servizio segreto (europeo o americano conta poco) abbia avuto sentore di quelle manovre e sia riuscito a scoprirle, ma è realistico prendere in considerazione che ciò possa essere accaduto. Per cui, magari, il risultato è stato quello (peraltro per nulla insolito) un arcana imperii efficace solo verso i cittadini ma non verso i nemici». In ogni caso, l’impressione è pessima: «Una modesta furbata, in sostanza molto ingenua».Al contrario, sostiene Giannuli, «ad un paese come la Grecia sarebbe convenuto di gran lunga giocare a carte scoperte, da un lato chiamando la solidarietà dei popoli europei e degli Stati in condizioni analoghe, e dall’altro giocando sui prezzi che la zona euro avrebbe dovuto pagare per una sua uscita». Obiettivo, «cercare di arrivare ad un’uscita concordata, con minor danno di tutti, Grecia ed Eurozona». Ma per una scelta così lineare, probabilmente, occorrevano ben altri leader: a quanto pare, Tispras era al corrente della cosa da almeno 5 mesi e la approvava. La decisione di andare al referendum «si spiega perfettamente in questa logica, anche se, nella breve campagna referendaria, sia lui che il suo ministro hanno continuato a giurare che non esisteva alternativa all’euro». Poi, nonostante la clamorosa vittoria referenderaria, in due giorni è cambiato tutto: «Mentre a Bruxelles, Francoforte e Berlino si iniziava a fare il conto dei danni del terremoto, Atene si è ripresentata al tavolo delle trattative, ma con una faccia nuova, perché Varoufakis era stato dimissionato. Perché?».Cos’è successo in quelle 48 ore da indurre Tsipras a questa clamorosa svolta a 180 gradi? Perché questa improvvisa, teorica rottura fra i due? E, di conseguenza, perché oggi Varoufakis sente il bisogno di dire candidamente di questo piano che lo mette nei guai? Con un certo ritardo, Tispras ha confermato di aver dato ordine di apprestarlo, ma di non aver mai pensato all’uscita dall’euro. Per cui: o il piano era destinato a scattare se la Grecia fosse stata esclusa dall’euro contro la sua volontà, o serviva solo come deterrente nei confronti degli interlocutori. «Ma un piano segreto, se è davvero tale, non serve come deterrente». Quindi resta solo la prima ipotesi (il ripiego d’emergenza, dopo l’esclusione dal circuito Bce). Ipotesi «evidentemente non condivisa da Varoufakis, che invece sarebbe voluto passare all’attuazione del piano subito dopo il referendum e prima dell’espulsione di Atene dall’Eurozona». Di qui la rottura fra i due e le dimissioni. «Questo però fa capire quanto superficiale fosse l’intesa fra i due: a questo punto, più che una coppia di statisti, sembrano Stanlio ed Ollio».Niente, nella Grecia di Syriza, è davvero convincente: «Riesce davvero poco credibile un deferimento all’Alta corte del ministro senza che lo segua a ruota il presidente del Consiglio: se il reato non c’è perché non si è passati dal progetto all’atto, allora anche Varoufakis non è imputabile; ma se il reato sussiste anche solo per aver ipotizzato il “Piano-B”, allora sul banco degli imputati Varoufakis non può restare solo». Acque torbide: «L’impressione è che a nessuno convenga rimestare troppo in questa storia perché di scheletri nell’armadio ce n’è più d’uno. E non solo ad Atene: credete che Berlino non abbia preparato un suo “Piano-B” in caso di collasso dell’euro o anche solo in caso di uscita di altri? E Parigi, Madrid, l’Aia? Roma no, sono convinto che l’Italia sia l’unica a non averlo fatto». Ad Atene, poi, dilettanti allo sbaraglio: Tispras era giù incline a non uscire dall’euro, «ma è credibile che sin dall’inizio pensasse di fare un referendum-sceneggiata per poi calarsi le braghi in quel modo in 48 ore?».Il fatto che il martedì successivo il neo-ministro delle finanze si sia presentato a Bruxelles senza nessuna proposta «fa capire che non c’era nulla di pronto e che, quindi, la cosa è precipitata in poche ore, prendendo una strada diversa da quella pensata quando il referendum è stato convocato: perché?». La verità, conclude Giannuli, è che se si inizia a scavare su questa storia nessuno, né la Grecia né gli altri, ha da guadagnarci. E pertanto, «sono convinto che la cosa verrà sbrigativamente messa a tacere al massimo con un dibattito parlamentare molto formale». La cosa più triste è proprio l’eclissi di Syriza: fine ingloriosa per l’unico governo di sinistra insediato in Europa. Per giunta, guidato da un leader come Tsipras, presentato in Italia in veste di nuovo alfiere dei diritti, capace di guidare una riscossa anti-austerity pur restando nella moneta unica – un ossimoro palese: nell’euro non esiste benessere possibile, la moneta della Bce è un “mostro” finanziario unico al mondo, destinato esclusivamente a produrre crisi per creare enormi vantaggi speculativi all’élite finanziaria a scapito degli Stati e delle comunità nazionali, famiglie e aziende.«Se penso che questo è il governo della sinistra radicale, che dovrebbe dare lezioni di democrazia, di un nuovo rapporto fra masse e potere, non so se ridere o piangere». Così il politologo Aldo Giannuli liquida il fantomatico “Piano-B” di cui ora chiacchiera l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: Tsipras ne era al corrente, anzi l’ha espressamente autorizzato, poi ha revocato l’ok fino alle dimissioni del ministro. Ma in ogni caso la Grecia non si è mai attrezzata per uscire dall’euro. E i greci, pur chiamati al referendum contro l’ultima stretta mortale di austerity pretesa dalla Germania, non sono mai stati informati dell’ipotetico “Piano-B”, al punto da lasciar configurare, oggi, l’accusa di alto tradimento a carico di Varoufakis – risvolto peraltro grottesco, in una situazione di catastrofe sociale come quella ellenica: «Deferire per questo Varoufakis all’Alta corte? Ma se non sono stati processati nemmeno quelli che hanno falsificato i bilanci dello Stato per un decennio! Siamo seri».
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Della Luna: Germania criminale, utile idiota dello Zio Sam
“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titolava ieri in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “Il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti.Tsipras, il doppiogiochista bifronte, ha tradito sia il mandato elettorale che quello referendario del suo popolo, finendo per imporgli condizioni addirittura più schiaccianti di quelle inizialmente richieste dalla Germania, per fare lo sporco gioco di questa, condannando la Grecia a misure incompatibili col risanamento, perché aumentare le tasse sui redditi e l’Iva a un’industria già agonizzante significa voler ammazzare l’economia e peggiorare quindi il rapporto deficit/Pil. E licenziamenti massicci con una disoccupazione al 25% sono un suicidio sociale. L’insostenibilità del debito pubblico greco si ripresenterà entro l’anno, aggravata dal calo della produzione e dell’occupazione. Qual è dunque l’obiettivo di Berlino (e quindi del governo fantoccio di Bruxelles)? Disastrare la Grecia per impadronirsi, o far sì che i capitalisti finanziari franco-tedeschi si impadroniscano dei beni pubblici che il traditore Tsipras col suo Parlamento di nominati (come quello italiano) metterà nel fondo di garanzia da 50 miliardi. E far man bassa nelle privatizzazioni che Atene sarà forzata ad eseguire col peggiorare programmato della sua crisi debitoria.La Grecia ha avuto diversi traditori prima di Alexis Tsipras, a cominciare dal famoso Efialte, che insegnò ai persiani di Serse un sentiero segreto attraverso i monti per prendere alle spalle i difensori delle Termopili. I difensori delle Termopili sono sempre giustamente commemorati e celebrati, mentre Efialte è passato come lo sterco dei muli di Serse. Il governo Merkel, venendo alla luce come il padrone incontrastato e il vero manovratore delle istituzioni europee, ha distrutto l’Europa, o meglio l’illusione del processo di unificazione europea. Ormai il re è nudo, cioè tutti vedono che l’apparato detto “Unione Europea” è una macchina di sottomissione in mano al governo e alla finanza germanici, che non ci sono né democrazia né eguaglianza né solidarietà né giustizia né sane ricette economiche né un progetto costruttivo, ma solo il progetto tedesco di indebitare, indebolire e spadroneggiare in una Lebensraum in via di conquista. Razziare gli assets pregiati e far lavorare la gente in condizione di servitù, senza garanzie e senza progetti di vita, solo per pagare interessi su pretesi debiti contratti in cambio di denaro contabile, generato a costo zero da bancari-usurai.L’opinione pubblica tedesca se ne frega, se la mortalità infantile in Grecia sale del 45%. L’imperialismo genocida tipicamente tedesco riemerge periodicamente per guidare alla vittoria i cancellieri “forti”. I quali sinora hanno poi sempre perso, perché si sono messi contro il mondo. Il problema è però chi sta dietro Berlino e la sua campagna di conquiste: quale potenza consente alla Germania di imporre tutto ciò che vuole senza nemmeno negoziare, ma piegando e umiliando chi osa opporsi? Necessariamente una potenza che dispone di superiori forze non solo economiche, ma anche militari: gli Usa, o meglio la power élite che governa Washington, ai cui disegni globali la Germania, con le sue caratteristiche di efficienza e amoralità, è strumentale. Fu grazie alla I Guerra Mondiale scatenata dalla Germania, alle distruzioni e ai debiti che essa produsse, che gli Usa soppiantarono l’Impero britannico e le potenze europee. Fu grazie ai finanziamenti delle banche e della grande industria americana, che Hitler ricostruì e riarmò la Germania. E fu grazie alla II Guerra Mondiale, che Wall Street impose al mondo il suo ordine monetario, anche col Piano Marshall e la ricostruzione.Storicamente, la Germania è uno strumento con cui lo zio Sam sottomette l’Europa. Anche in questi giorni, dietro il bailamme della crisi greca, sta ottenendo il voto favorevole del Parlamento Europeo al Ttip. Già l’Italia, come la Grecia, ha avuto ed ha governi imposti da Berlino, ma guidati da personaggi della banca americana Goldman Sachs, per fare gli interessi stranieri. Governi che hanno massacrato questo paese, i cui conti reggono oggi solo perché il Qe di Draghi li sostiene, abbassando lo spread; ma quando il Qe finirà, il debito italiano rischia seriamente una crisi di sostenibilità come quello greco. Oggi Brunetta dice «io e Forza Italia non cederemo mai la sovranità a Schaeuble», ma fino a due anni fa hanno votato tutto quello che serviva per cederla!(Marco Della Luna, estratti da “Merkel e Serse, conquistare la Grecia”, dal blog di Della Luna del 14 luglio 2015).“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titolava ieri in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “Il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti.
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Lottare contro questa Ue? Archiviamo Tsipras e i suoi fans
C’è una sinistra che non vincerà mai, anzi che merita di perdere, ed è quella che non accetta di chiamare le cose con il loro nome e di riconoscere le sconfitte. I sostenitori di Tsipras? Passati, in meno di una settimana, «dalla più spensierata euforia alla più cupa depressione». Già, perché «vincere in modo travolgente un referendum, per poi proporre un accordo che coincide per il 95% con le condizioni di quello rifiutato, è già cosa difficile da digerire». Ma se poi si va ad una intesa «incomparabilmente peggiore, punitiva, tracotante», allora «non c’è scampo e ci si arrocca nel delirio». Aldo Giannuli osserva la battaglia sul web fra i delusi di Tsipras e i fanatici a oltranza della “Brigata Kalimera”, che non si rassegnano e invocano la “vittoria morale”. Fra i primi c’è chi accusa Tsipras di tradimento, di aver giocato sporco sin dall’inizio, di essere un agente della Bce che ha raggirato il popolo con un falso referendum: «E questa è l’ala più genuinamente di sinistra, quelli che ci hanno creduto e si sentono traditi». Quella che Giannili chiama “la Brigata Kalimera”, cioè «i neo socialdemocratici di Sel, Rifondazione, Altra Europa e moderati vari e travestiti, che giocano a fare i radicali» difende Tsipras a oltranza, arrampicandosi sugli specchi.C’è chi dipinge il leader di Syriza come un diabolico Machiavelli, che alla fine otterrà la riduzione del debito, chi esalta le sostanziose migliorie strappate (quali?), e chi, «con doppio salto mortale carpiato, tenta di dimostrare che il referendum voleva la permanenza nell’euro e questo è stato ottenuto». C’è anche chi, «contro ogni evidenza», continua a sperare in un “piano B” che porterà alla vittoria: «Mi ricorda quelli che, sino al maggio del 1945, continuarono a sperare nelle armi segrete della Germania che avrebbero rovesciato le sorti del conflitto. Con una differenza, però: che gli invasati nazifascisti, almeno, combatterono sino all’ultimo (spesso lasciandoci la pelle)», mentre questi «si limitano a fare il tifo: non sono stati capaci di promuovere una conferenza delle opposizioni europee per una campagna di difesa della Grecia, ma che dico? Non sono stati capaci di organizzare neanche una manifestazione di appoggio, ma adesso mostrano tutto il loro vigore militante. Almeno avessero il pudore di stare zitti».Già prima del gran rifiunto della Commissione Europea, continua Giannuli, lo stesso Tsipras aveva ha dichiarato che le proposte di accordo avanzate erano “lontane dalle promesse della campagna elettorale”. Poi, la riduzione del debito non è stata concessa: e i tedeschi dichiarano che “non esiste” questa possibilità, eppure «alcuni tsiprioti a oltranza ne parlano come se fosse cosa fatta». Anche la rottura in Siryza, che coinvolge anche il ministro “dimissionato” Varoufakis, non li fa recedere di un millimetro «anche se, sino a pochi giorni fa, era il vice-idolo della Brigata Kalimera». E non solo: «Neppure le condizioni catastrofiche dell’accordo raggiunto (di fatto la confisca dei beni di Stato, il commissariamento della Troika, i licenziamenti collettivi) valgono a scalfire la fede nel grande leader Alexis». Giannuli non crede che Tsipras sia «un traditore venduto», ma è convinto che si sia dimostrato un disastroso incapace: che senso ha «chiedere un incontro per riaprire i negoziati e presentarsi senza l’ombra di una proposta, che poi viene fatta all’indomani e per dire che andavano bene le condizioni di dieci giorni prima?».Che logica ha tutto questo? Il voltafaccia «presupporrebbe la complicità di Varoufakis», ma allora «non si spiegherebbe il suo dissenso attuale, a meno di non pensare che il solo Tsipras abbia ordito tutto da solo, ingannando anche quell’altro genio del suo ministro». Improbabile: «Queste sono le cose di cui può essere capace un Talleyrand, un Valentino Borgia, un Richelieu, un Metternich, e non mi pare che siamo a questi livelli. E’ una cosa troppo intelligente per uno come lui che è solo un simpatico giovanotto, che tiene sfitto l’ultimo piano». Il complotto? Una “leggenda”: «I nostri personaggi sono troppo piccoli per vestire i panni dei grandi congiurati, e mi pare evidente che non si possa sostenere decentemente che, dietro questa calata di braghe con accompagnamento musicale, ci sia chissà quale mefistofelica astuzia per ottenere chissà cosa chissà quando». Il taglio del debito? «Anche se fosse ottenuto, resterebbero da trovare le risorse per rilanciare gli investimenti e riassorbire l’occupazione, per di più in una situazione in cui l’appartenenza all’area euro sarebbe un ostacolo formidabile alle esportazioni». Per cui, anche se il taglio fosse mai concesso (e non lo sarà) saremmo ancora “sotto la tenda di ossigeno”.Secondo Giannuli, la triste verità è che Tsipras «non ha alcun piano coperto: non c’è un pensiero recondito perché l’uomo, proprio, non pensa. E non considera che con i suoi accordi, entro uno o due anni (sempre che lui ci sia ancora) starà di nuovo affrontando una nuova emergenza perché il debito si riprodurrà fatalmente per via degli interessi». La dura realtà è che «i suoi sostenitori non riescono ad accettare l’idea che Tsipras è un incapace. E si infuriano se glielo fai notare, perché questa è anche la loro misura: i neo socialdemocratici che non sanno immaginare nulla di diverso dall’esistente». Ribaltare l’assetto oligarchico dell’Ue basato sull’euro richiede «coraggio, capacità progettuale, rigore analitico, onestà intellettuale, determinazione, chiarezza strategica e abilità tattica. Tutte qualità che mancano a questi quattro pellegrini della Brigata Kalimera che sono i primi da togliere davanti se vogliamo costruire una sinistra all’altezza dei tempi».C’è una sinistra che non vincerà mai, anzi che merita di perdere, ed è quella che non accetta di chiamare le cose con il loro nome e di riconoscere le sconfitte. I sostenitori di Tsipras? Passati, in meno di una settimana, «dalla più spensierata euforia alla più cupa depressione». Già, perché «vincere in modo travolgente un referendum, per poi proporre un accordo che coincide per il 95% con le condizioni di quello rifiutato, è già cosa difficile da digerire». Ma se poi si va ad una intesa «incomparabilmente peggiore, punitiva, tracotante», allora «non c’è scampo e ci si arrocca nel delirio». Aldo Giannuli osserva la battaglia sul web fra i delusi di Tsipras e i fanatici a oltranza della “Brigata Kalimera”, che non si rassegnano e invocano la “vittoria morale”. Fra i primi c’è chi accusa Tsipras di tradimento, di aver giocato sporco sin dall’inizio, di essere un agente della Bce che ha raggirato il popolo con un falso referendum: «E questa è l’ala più genuinamente di sinistra, quelli che ci hanno creduto e si sentono traditi». Quella che Giannili chiama “la Brigata Kalimera”, cioè «i neo socialdemocratici di Sel, Rifondazione, Altra Europa e moderati vari e travestiti, che giocano a fare i radicali» difende Tsipras a oltranza, arrampicandosi sugli specchi.
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Renzi consegna la Cdp ai registi della svendita dell’Italia
Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.Perché nominare presidente di una società a controllo pubblico un uomo cresciuto negli ambienti della finanza e della grande industria privata? La risposta può trovarsi nel curriculum di Costamagna, che nel giugno 1992 ha partecipato alle famose riunioni segrete sul panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, nelle quali banchieri anglo-americani e uomini pubblici e privati italiani decisero la linea di privatizzazioni delle aziende strategiche nazionali portata poi avanti col contributo decisivo di Romano Prodi. Claudio Costamagna è l’ultimo cavallo di Troia dell’economia italiana. Il boccone prelibato consiste nelle residue aziende strategiche a controllo pubblico, come Eni e le sue controllate, Enel e Finmeccanica, per ricordare solo le principali. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, a confessare i reali propositi di questo commissariamento è lo stesso presidente del Consiglio, quando afferma che «l’Italia si trova oggi a un passaggio decisivo per la ripresa. Le riforme strutturali, l’attrazione degli investimenti, e una politica di bilancio basata sul taglio delle tasse sul lavoro stanno riportando il Paese alla crescita. In questo contesto il rafforzamento del ruolo di Cdp risulta ancora più cruciale».È la solita retorica governativa: l’Italia non crescerà sostenendo i redditi e creando lavoro, ma aprendosi allegramente agli investimenti esteri che, tradotto, significa cedere le eccellenze italiane e i settori strategici al profitto estero. D’altra parte basta guardare la parabola discendente della stessa Cassa Depositi e Prestiti. Nel 2003 è stata trasformata da ente di diritto pubblico in società per azioni, negli anni successivi il 18,4% delle sue azioni è passato nelle mani di diverse fondazioni bancarie che già oggi ne condizionano la politica, e negli ultimi anni, attraverso il Fondo Strategico Italiano (Fsi), ha stretto rapporti con fondi sovrani esteri che hanno cominciato a scalare le nostre società controllate dallo Stato. Al culmine della lunghissima crisi provocata dal casinò finanziario, il nostro premier rincara la dose e affida 250 miliardi di risparmi postali dei cittadini italiani all’ennesimo uomo del destino che svenderà i nostri gioielli nazionali per un piatto di lenticchie. “Ahi serva Italia, di traditori ostello”.(M5S Parlamento, “Cdp in mano a Goldman Sachs”, dal blog di Beppe Grillo del 22 giugno 2015).Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.
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Paura della storia: cancellano l’Urss che distrusse Hitler
Il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista. Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.Il secondo fronte fu aperto con lo sbarco anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai l’Armata Rossa e i partigiani sovietici avevano sconfitto le truppe tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista. Il prezzo pagato dall’Unione Sovietica fu altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione (in rapporto allo 0,3% degli Usa in tutta la Seconda Guerra Mondiale); circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70.000 piccoli villaggi, 30.000 fabbriche distrutte. Questa pagina fondamentale della storia europea e mondiale si tenta oggi di cancellare, mistificando anche gli eventi successivi. La guerra fredda, che divise di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, non fu provocata da un atteggiamento aggressivo dell’Urss, ma dal piano di Washington di imporre il dominio statunitense su un’Europa in gran parte distrutta.Anche qui parlano i fatti storici. Appena un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945, al Pentagono già calcolavano che occorrevano oltre 200 bombe nucleari per attaccare l’Urss. Nel 1946, quando il discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” apriva ufficialmente la guerra fredda, gli Usa avevano 11 bombe nucleari, che nel 1949 salivano a 235, mentre l’Urss ancora non ne possedeva. Ma in quell’anno l’Urss effettuò la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il proprio arsenale nucleare. In quello stesso anno venne fondata a Washington la Nato, in funzione antisovietica, sei anni prima del Patto di Varsavia costituito nel 1955.Terminata la guerra fredda, in seguito al dissolvimento nel 1991 del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, su spinta di Washington la Nato si è estesa fin dentro il territorio dell’ex Urss. E quando la Russia, ripresasi dalla crisi, ha riacquistato un ruolo internazionale stringendo crescenti rapporti economici con la Ue, il putsch in Ucraina, sotto regia Usa/Nato, ha riportato l’Europa a un clima da guerra fredda. Boicottando sulla scia degli Usa il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, l’Europa occidentale (quella dei governi) cancella la storia della sua stessa Resistenza, che tradisce sostenendo i nazisti andati al governo a Kiev. Sottovaluta la capacità della Russia di reagire, quando viene messa alle corde. Si illude di poter continuare a dettare legge, quando la presenza a Mosca dei massimi rappresentanti dei Brics, a partire dalla Cina, e di tanti altri paesi conferma che il dominio imperiale dell’Occidente è sulla via del tramonto.(Manlio Dinucci, “La cancellazione della storia”, da “Il Manifesto” del 14 maggio 2015).Il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista. Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.
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Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.E’ sempre Israle che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», schiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.