Archivio del Tag ‘The Guardian’
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Cambridge Analytica e Facebook: vittime 50 milioni di utenti
Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».Wylie prepara così il contenitore da cui nascerà Cambridge Analytica, la società di analisi da lui stesso fondata. Nel 2014 l’incontro con Steve Bannon, a cui offre «gli strumenti per la sua guerra psicologica». Per convincere il direttore di “Breibart”, la voce online della destra radicale americana, il «gay-vegano-canadese» Christopher usa la metafora dei sandali Crocs: «Non si può dire che siano belli, eppure tutti li vogliono». Si trattava solo di mettere la Brexit (e poi Trump) al posto dei sandali, scrive Sarcina. E i soldi per l’operazione? Bannon chiede l’appoggio di Robert Mercer, 71 anni, informatico tra i primi ad applicarsi all’intelligenza artificiale (poi approdato al misterioso e quasi “mistico” hedge fund Renaissance Technologies). Con un portafoglio di oltre 25 miliardi di dollari, Robert Mercer e la figlia Rebekah «sono finanziatori generosi delle varianti più conservatrici della politica americana e non solo», ricorda il “Corriere”. Hanno comprato quote in “Breitbart” e si sono appresati a sostenere Cambridge Analytica. Dove e come procurarsi i profili dei navigatori? Ci ha pensato Aleksandr Kogan, 31 anni, nato in Moldavia e cresciuto a Mosca fino all’età di 7 anni, quando la famiglia emigrò negli Stati Uniti.Kogan ha studiato psicologia a Berkeley e ha conseguito un Phd (dottorato di ricerca) all’università di Hong Kong. Nel 2012 è diventato assistente alla cattedra di psicologia a Cambridge, in Gran Bretagna. Ha condotto ricerche sofisticate, ma per la Analytica ha creato la app “Thisisyourdigitallife”, che offre «un esame della personalità compiuto da un team di psicologi». Kogan l’ha collocata sulla piattaforma Facebook, “catturando” subito 270 mila utenti. In realtà, scrive Sarcina, quell’applicazione «è una specie di sifone usato per risucchiare i dati sensibili dei sottoscrittori e dei loro amici». Un’enormità: «In totale 51 milioni di profili sottratti senza il consenso degli interessati: materiale prezioso per gli intrugli di Bannon». A gestire – come manager – il meccanismo è stato Alexander Nix, 42 anni, di Londra, reduce da studi all’Eton College (la scuola dell’establishment britannico), con laurea all’università di Manchester. Nel 2003, Nix ha lasciato la finanza per occuparsi di «comportamento e comunicazione politica». Ha diretto lo Strategic Communication Laboratories Group, fino a quando Bannon e Mercer l’hanno scelto come amministratore delegato di Cambridge Analytica (ora sospeso dalla società, per un video trasmesso da “Channel 4 News” in cui «si vede il distinto manager offrire “belle ragazze dell’Ucraina” per discreditare l’avversario politico di un suo cliente nello Sri Lanka».Una macchina devastante: manipolazione di massa, via Facebook, a scopo politico. Dietro allo scandalo Cambridge Analytica che sta facendo crollare in Borsa il social network di Mark Zuckerberg (2 miliardi di utenti, quasi 9 miliardi di dollari in pubblicità nel 2017) emerge una squadra formata da personaggi capaci di mettere insieme tecnologia, finanza e politica. Sono il “genietto pentito” Christopher Wylie, lo stratega trumpiano Steve Bannon, il miliardario Robert Mercer affascinato dall’intelligenza artificiale, il “manipolatore della psiche” Aleksandr Kogan e il manager Alexander Nix. «Una storia di profili rubati, manipolazioni, forse anche di tangenti e di corruzione», scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere della Sera”. Due gli obiettivi: spingere la Gran Bretagna fuori dall’Europa e Donald Trump verso la Casa Bianca. Un racconto reso possibile da una straordinaria inchiesta giornalistica del “Guardian”, firmata da Carole Cadwalladr. La reporter ha scavato per un anno sui retroscena della Brexit, fino a convincere Wylie a svelare i misteri della Cambridge Analytica. Il suo lavoro si è poi sommato all’indagine del “New York Times”. Tutto nasce nel 2013, quando sbarca a Londra un giovanotto canadese di 24 anni, Wylie, specialista in tendenze della moda, con un’idea sovversiva: rivoluzionare il marketing politico grazie a una specie di “porta a porta” digitale. «Si raccolgono i profili delle persone, si analizzano e poi si confeziona un messaggio su misura».
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Clinton, pedofili al potere: e Trump mobilita il Pentagono
Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dai Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, prove alla mano) hanno il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.«Che i media siano controllati e che si auto-censurino per salvarsi il sedere, lo sa anche un cacciavite», premette. «Ma che due notizie bomba sul presidente della nazione più potente del mondo, e accessibili a tutti, scomparire nel nulla sui maggiori media occidentali, per un ordine di scuderia, questo non lo credevo». Attenti: nei Pentagon Papers, nel Watergate, nell’Iran-Contras, nell’Iraq-gate, i fatti erano occulti. Qui invece «sono pubblici e accessibili da una pensionata, riguardano l’uomo più potente del pianeta, eppure sono stati ‘suicidati’ e sepolti da tutti i grandi media con un accordo e con una sincronia scioccanti». In pratica, «i media non esistono più». Trump è sotto attacco da parte di due “Stati ombra” ben noti: il raggruppamento dei servizi segreti (Cia, Nsa, Nga, Fbi) che va sotto il nome di Shadow Government, e le maggiori corporations coi loro lobbysti che foraggiano il Congresso: Big Oil, Big Pharma, Big Banks, Big Media, Arms Industry e Silicon Valley, che passano sotto il nome di Deep State. Nota per gli scettici: chiunque neghi l’esistenza e i poteri di questi apparati, liquidandoli con la parola “complottismo”, «non ha mai letto una pagina del “New York Times”, del “Washington Post” o sentito di P2 e stragismo in Italia, quindi è un cretino».Donald Trump? Un presidente «incontrollabile, e forse anche mentalmente instabile», ma proprio per questo «ha devastato la sacra tradizione di almeno 70 anni di presidenze americane, dove le politiche reali furono sempre influenzate o truccate da Shadow Government e Deep State, fino alla presidenza Obama inclusa». Conclusione: «Trump va quindi abbattuto. Ma quest’uomo è molto meno fesso di ciò che appare», scrive Barnard. O meglio: «Si è circondato di alcuni dei più brillanti ‘Rasputin’ di tutta la storia moderna». Messo sotto assedio, ha quindi contrattaccato con quei due numeri, 13818 – 82 FR 60839. Premessa: «Donald Trump è sotto una ‘Dresda’ di bombe per abbatterlo», fra cui il presunto accordo-scandalo con Putin per truccare le elezioni 2016, che coinvolge anche la sua famiglia (e la relativa inchiesta è nelle mani dell’implacabile ex direttore dell’Fbi Robert Mueller). Sconta «accuse di grave instabilità mentale da impeachment», apparentemente documentate dall’esplosivo bestseller “Fire and Fury” di Michael Wolff: «Una presunta serie di abusi sessuali ai danni di donne lungo la sua carriera sia da businessman che come politico». Poi c’è una sfilza di accuse a membri del suo governo (Steve Mnuchin, Ryan Zinke, Tom Price) per uso personale di denaro pubblico. «Tutti questi scandali s’appoggiano pesantemente sui poteri e/o sulle spiate dello Shadow Government».Ce n’è a sufficienza per demolire chiunque, osserva Barnard. E Trump, senza quel micidiale documento (che ha firmato il 20 dicembre 2017) sembrava un gigante dai piedi d’argilla. «Non controlla l’Fbi, prima diretta dal suo arci-nemico Comey e oggi da Christopher Wray che a sua volta non controlla l’Fbi». In più Trump «non controlla la Cia, diretta da Mike Pompeo, che a sua volta non controlla la Cia». Di più: «Non controlla la Nsa diretta dall’ammiraglio Michael Rogers, che a sua volta non controlla la Nsa». Donald Trump «non ha nessuna influenza sulla Nga, che gioca un ruolo centrale in tutte le inchieste di massima sicurezza in America». Questo, per quanto riguarda lo Shadow Government. «Poi è troppo ricco per poter essere comprato dal Deep State, che – specialmente con Wall Street e la dirigenza ebraica americana – è lo sponsor principale dei democratici, e di tutti i repubblicani ostili al presidente». Poi, continua Barnard, quattro giorni prima di Natale cade la bomba 13818 – 82 FR 60839. «E, usando un’impareggiabile espressione americana, “the shit hit the fan” (la merda finì nelle pale del ventilatore)». Attenzione: l’ordine esecutivo «è uno degli atti legislativi americani più dirompenti da sessant’anni». Cosa dice? Colpisce con le massime armi – militari, giuridiche e finanziarie – chiunque si renda colpevole di violazioni dei diritti umani e di corruzione, negli Usa e nel mondo».L’ordine esecutivo presidenziale «colpisce anche i governi esteri coinvolti, i loro funzionari, e qualsiasi complice in qualsiasi forma». Di più: «Va a colpire queste infami catene là dove gli fa più male, cioè nei soldi, con il blocco e la confisca dei loro denari, proprietà, titoli, azioni, anche nelle loro forme più maliziosamente nascoste o lontanamente imparentate». Certo, «sappiamo che Trump non è Mandela», e infatti quel decreto è stato scritto «per mitragliare a morte un settore ben preciso delle violazioni dei diritti umani». Nel mirino c’è una piaga indicibile: «Il mercato dei minori per pedofilia, nel bacino più ampio dei trafficanti di persone». Infatti, spiega Barnard, il presidente aveva anticipato questa legge il 23 febbraio 2017 in conferenza stampa, rilanciata dalla “Associated Press”, «dove parlò proprio di traffici umani per pedofilia». Ma perché? «Perché Trump sa bene che questo abominio, l’abuso di minori venduti, sembra aver infettato la maggioranza dei vertici del Deep State, col silenzio dello Shadow Government, e con un presunto forte coinvolgimento di una notissima beneficienza: la Clinton Foundation». Come fa Trump a saperlo? «Da anni ne parla in pubblico un ex pezzo grosso della Cia, più altre fonti autorevoli». Sicché, il suo “executive order” «colpirà proprio i suoi nemici».In questo preciso momento, giura Barnard, «negli Stati Uniti alcuni altissimi nomi stanno tremando, e precisamente dalla mattina del 21 dicembre scorso, quando l’“executive order” 13818 – 82 FR 60839 è stato pubblicato ‘in Gazzetta’ a Washington». Un conrattacco mortale: «Jfk fu ucciso per meno, a quanto sappiamo fino ad oggi. Infatti i ‘Rasputin’ di Trump sapevano che la vita del presidente sarebbe stata immediatamente in pericolo dopo quell’ordine esecutivo». Proprio per questo, infatti, «hanno fatto la pensata di tutte le pensate». Cioè: il ricorso d’emergenza al Pentagono. Nelle prime righe dell’“executive order”, il presidente scrive: «Io perciò decido che i gravi abusi dei diritti umani, e la corruzione, nel mondo costituiscono un’insolita e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale». Notare: le parole “minaccia” e “sicurezza nazionale”, pronunciate dal presidente degli Stati Uniti, «implicano l’immediata mobilitazione di tutto l’esercito americano, cioè del Pentagono. E’ di fatto un preallarme di guerra, e di conseguenza le protezioni intorno al presidente divengono massime. E quando si muove il Pentagono non esiste nulla al mondo, se non un arsenale nucleare straniero, che possa batterlo. Questo è ultra-chiaro a tutti gli apparati di Deep State e Shadow Government, che ora sono in “deep shit”, nella merda fino al collo, per essere chiari».Non è stato un caso che Trump abbia messo nei posti chiave a Washington tre generali, e un ammiraglio a capo dei più potenti 007 degli Usa, sottolinea Barnard. «Abbiamo il generale James “Mad Dog” Mattis come ministro della difesa, il generale John Kelly come White House Chief of Staff e il generale H. R. McMaster come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Poi, anche se boicottato dai suoi sottoposti, c’è l’ammiraglio Michael Rogers a capo dalla Nsa. Insomma, il Pentagono. Trump sarà anche scemo, ma cosa sia lo Shadow Government lo sapeva benissimo, e si è protetto». Protezioni salva-vita, ora che Trump – per sfuggire all’assedio di cui è vittima – incalza i suoi nemici, capeggiati da Hillary Clinton, con quell’ordine esecutivo concepito «per metterli in un angolo con indagini profonde sul traffico internazionale di minori per pedofilia, in cui sarebbero coinvolti molti vertici Usa del Deep State, inclusi i Clinton, col silenzio dello Shadow Government». “The Donald” lo sta facendo «coprendosi le spalle con l’intero esercito degli Stati Uniti». Del resto, l’argomento toccato è off limits: pedofilia e potere, “non aprite quella porta”. Nessuno aveva mai osato tanto: l’abuso di bambini, nelle alte sfere, è un tabù inaccessibile. Chi tocca, muore.«Esisterebbe dunque un traffico di minori per pedofili di altissimo livello ai vertici del Deep State, inclusi i Clinton», scrive Barnard. «Trump apprende questo da molte fonti, la prima delle quali è l’ex agente e dirigente pluridecorato della Cia Kevin M. Shipp. Costui, senza la fama attribuita al suo collega ‘whistleblower’ Edward Snowden, sta rivelando da anni il livello di marciume criminale che davvero permea lo Shadow Government in America». Shipp è stato esperto di anti-terrorismo, guardia del corpo di due direttori della Cia. Era ai vertici della Counterintelligence, ed è stato citato dal “New York Times” come «veterano della Central Intelligence Agency». In altre parole: «Non è proprio un signor nessuno nello Shadow Government americano». Barnard ricorda che da anni il “Washington Times”, il “New York Post” e l’inglese “Guardian” «riportavano notizie certe sui cosiddetti “Voli Lolita” – cioè voli su un jet privato per orge con minori – organizzati dal miliardario pedofilo Jeffrey Epstein». Per dire: «Bill Clinton, secondo gli atti del processo che condannò Epstein, fu ospite 26 volte su quei voli». Altri nomi di alto rango trovati nell’agenda “nera” del miliardario «furono Tony Blair, Michael Bloomberg, Richard Branson fra molti altri, e i cellulari delle minori schiave del sesso fra cui “Jane Doe N.3”», una ragazzina che negli atti processuali ha dichiarato di «essere stata costretta a rapporti sessuali con diversi politici americani, top businessmen, un premier famosissimo e altri leader internazionali».Nel 2006, continua Barnard, «Epstein fece una grassa donazione alla Clinton Foundation». Nella capitale Usa, la Ong di Conchita Sarnoff, “Alliance to Rescue Victims of Trafficking”, ha decine di files su “potere e pedofilia”. Un incubo? Certo. «Ora, provate a trovare traccia sui grandi media italiani o americani dell’esplosivo affare». Niente: silenzio assoluto sui nomi coinvolti, «come Bill e Hillary Clinton, Robert Mueller, Kevin M. Shipp». Sui media, le espressioni Deep State e Shadow Government neppure compaiono. «Attenti, non parliamo di una legge del Nicaragua, ma del presidente americano più discusso e delegittimato della storia». Silenzio stampa totale: ne accenna il solo “Financial Times”, «ma svuotando tutta la news». Peggio: il 19 gennaio, giunge al Congresso un memorandum «che sembra contenere le prove delle azioni della Clinton, coi soldi del Partito Democratico, col silenzio di Cia ed Fbi, per usare i poteri “tech” della Nsa permessi dalla legge Fisa, sotto la presidenza di Obama… e il tutto per spiare la campagna elettorale di Trump, per corrompere testimoni russi a dire il falso contro il neo-eletto presidente, e con la collusione di Londra».“Fox News” titola: “Molto più grave del Watergate”. Il sito di finanza “Zero Hedge” pubblica all’istante i Tweet di alcuni senatori americani sotto shock, con parole come «questo memorandum manderà a spasso un sacco di gente, al Dipartimento della Giustizia, e certi nomi finiranno in galera», dalla bocca del senatore Matt Gaetz. Roba da invadere le prime pagine di “New York Times” e “Repubblica”, passando per “Cnn”, “Bbc” e “Rai”. «Nulla. Vado su “Fox News”, e in prima non c’è più nulla! Perdo il fiato. Ma lo recupero quando “Zero Hedge” pubblica un Tweet del più autorevole fra gli autorevoli, Edward Snowden, che conferma tutto». Eppure, di nuovo – scrive Barnard – ago e filo «hanno cucito la bocca e le dita di tutto il mondo dei media che contano in un istante, e con un potere di assolutismo che davvero non credevo possibile a questo livello». Ipotesi: «E’ possibile che lo stesso Donald Trump sia parte di questa incredibile congiura del silenzio, per barattare coi suoi nemici e per poterli poi ricattare per anni, ma ciò non cambia la sostanza». Sotto i nostri piedi si sta spalancando un abisso: «Non fate figli», chiosa Barnard.Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dal clan Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, probabilmente ricattabili a vita) hanno comunque il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.
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Soldati italiani in Niger, a proteggere l’uranio dei francesi
Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».In Niger c’è anche Arlit, una delle capitali mondiali della produzione di uranio impoverito, continua il newsmagazine. E’ proprio il pericolosissimo materiale «che provocò la morte dei soldati italiani al ritorno dalle missioni coloniali in Kosovo, Afghanistan e Jugoslavia (340 morti, 4000 malati, una strage silenziata al massimo dai media, con D’Alema e Mattarella, all’epoca ministro della difesa, che in materia negarono l’impossibile)». Ma in Niger, continua “Senza Soste”, «se si scrive uranio si legge Areva, una multinazionale francese a proprietà pubblica, con un proprio distinto grattacielo al quartiere parigino della Défense». Il campo si fa quindi più chiaro: resta in mano francese lo sfuttamento e l’export dell’uranio del Niger, i cui proventi non vanno certo ad una popolazione ben al di sotto del livello di povertà. «L’export di uranio del Niger, oltre a non fruttare niente per il popolo di quel paese e inquinarne pesantemente le acque, fornisce energia per il 50 per cento della popolazione francese». E’ evidente quindi che «lo sviluppo drammaticamente ineguale in Niger è un affare interno della Francia». Ma anche esterno, «perchè nella fornitura di energia atomica in Ue, che è circa un terzo di quella complessiva, l’uranio permette alla Francia di essere la principale produttrice di energia del continente, con una quota del 17,1% sulla produzione totale Ue e davanti a Germania (15,3%) e Regno Unito (in calo, ma al 13,9%)».Così è tutto più chiaro, scrive “Senza Soste”: «Gli scafisti di un paese senza sbocco al mare c’entrano poco, se non come fake news all’amatriciana». L’Italia? Forse potrebbe ricavarne, in cambio, anche una quota di energia. Ma, al netto degli eventuali appalti per Roma – una possibile fetta dei 23 miliardi concessi in “aiuti” – il blog segnala che le nostre truppe saranno inserite in un disegno, interamente francese, di ristrutturazione “coloniale” dell’area, dopo la crisi apertasi nel 2011 per Areva, costretta a rivedere una serie di reattori dopo il disastro giapponese di Fukushima. Il 2011, ricorda la “Bbc”, è anche l’anno del cosiddetto “uranium-gate”, che coinvolge l’Areva in fenomeni di corruzione in Niger, con fondi neri finiti in Russia e in Libano, fuori dal controllo di Parigi. Altro obiettivo, per la Francia: contrastare la presenza della Cina sul terreno: «E visto che in Africa i cinesi non esistono, sul piano militare, non c’è niente di meglio che ristrutturare Areva dall’interno e far valere la propria presenza sul campo in termini di truppe, con l’aiuto dell’Italia». Il rischio? La guerriglia: dopo la sollevazione dei Tuareg che ha minacciato proprio le miniere di uranio, si è già fatta sentire una guerriglia definita “islamista”, che ha già colpito siti francesi nel 2013.«Secondo fonti africane in lingua inglese, la guerra dell’uranio in Niger sembra essere appena cominciata: una guerra con gli Usa che forniscono i droni, mentre la Francia e l’Italia sono sul campo – la prima a difendere i propri interessi diretti, la seconda a supporto», cercando di rimediare appalti o magari una posizione privilegiata nella produzione di energia. Gruppi islamisti? In un articolo seguito all’uccisione di quattro soldati americani nell’area, il “Guardian” parla di gruppi in grado di colpire ma difficili da identificare, «in una delle più remote e caotiche zone di guerra del pianeta». Ed è in questo tipo di zona che la Francia vuol rimettere ordine, con l’aiuto italiano, anche per fronteggiare la minacciosa concorrenza del Kazakhstan, super-produttore di uranio. «Se ne può stare certi: le mosse legate al Niger vedranno un piano di decisione politico, su più capitali dell’Occidente, e uno legato alla situazione sui mercati finanziari. Poi si potrà raccontare degli scafisti, dei progressi contro la guerriglia islamista», a beneficio dei grandi media e del loro pubblico ignaro. Non a caso, è già partito il ritornello degli “aiuti” per fronteggiare la devastante emergenza-siccità che sta flagellando l’area. «Per evitare tragedie nel Sahel, legate alla fuga dai territori, basterebbe intervenire sulle crisi idriche, favorendo le naturali economie locali, e non immaginare di creare fortezze da fantascienza».Se però andiamo a vedere la vastità della crisi idrica che tocca il Niger, aggiunge “Senza Soste”, vediamo che non comprende solo quel paese ma anche tutta la grande fascia sub-sahariana, dalla Mauritania all’Eritrea. E spesso, le zone toccate dalla crisi idrica coincidono con quelle interessate dalla cosiddetta guerriglia islamica: è il caso del Mali, oggetto di intervento francese a inizio 2013. «Parigi interviene, quando la crisi economica e politica precipita, per “stabilizzare” economia e situazione politica del paese e far valere gli interessi francesi. La novità è che, stavolta, interviene anche l’Italia», coinvolta anche nell’intricato dopoguerra in Libia. Riusciranno a pesare sulla crisi, i maxi-appalti in arrivo? «A essere cinici – scrive “Senza Soste” – con 150 milioni annui, e qualche cerimonia militare, l’Italia si dovrebbe garantire un po’ di appalti, per una cifra magari 20 o 30 volte superiore, per le proprie imprese dal settore infrastrutture a quello della fornitura». Secondo Gianandrea Gaiani di “Analisi Difesa”, non è né garantito l’affrancamento dalla subalternità militare a Parigi, già evidenziatosi con la crisi libica del 2011, né il processo di razionalizzazione dei flussi migratori. La politica italiana? Considera “naturale” «l’assenza di qualsiasi visione strategica sull’Africa, continente la cui sinergia tra miseria e boom demografico è ottima candidata ad essere un futuro problema per l’Europa».Soldi e uranio, col rischio di finire in mezzo a una guerra. L’Italia in Niger con 500 soldati, su invito della Francia? Motivo ufficiale: fermare, nel Sahel, la tratta dei migranti e il fondamentalismo islamico. Ma attenzione: il Niger ha appena ottenuto, dalla conferenza parigina dei donatori, un super-finanziamento da 23 miliardi di dollari. Un pacchetto di aiuti, come si dice in gergo, “allo sviluppo e alla sicurezza”, i cui appalti sono destinati a imprese europee. «Di sicuro vedremo quindi imprese italiane su quel campo, per non parlare della fornitura di armi necessaria alla “stabilizzazione”», scrive il blog “Senza Soste”, che mette a fuoco anche l’altra possibile motivazione della strana missione italiana, annunciata da Gentiloni dal ponte di una portaerei. «Il punto è che in Niger, oltre ai 23 miliardi di dollari in aiuti che andranno trasformati in appalti, c’è qualcosa che vale, come sempre, una spedizione militare: qualcosa di serio, come quel tipico prodotto da green economy che è l’uranio». Non è certo una novità: proprio per l’uranio destinato al nucleare fu montato, nel 2002, il caso Nigergate. «In poche parole, si scrive Niger e si legge uranio. Stiamo parlando del quinto produttore di uranio al mondo ma con una popolazione, di venti milioni di persone, stimata tra le dieci più povere del pianeta».
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Ha inghiottito il mondo, è il mostro chiamato neoliberismo
Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.All’indomani della crisi finanziaria del 2008, scrive Metcalf in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, il termine neoliberismo è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle: non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato. Per i democratici Usa e i laburisti inglesi, questa cessione è stata descritta come un grottesco tradimento dei loro principi: Bill Clinton e Tony Blair, è stato detto, hanno abbandonato gli impegni tradizionali della sinistra, in particolare nei confronti dei lavoratori, a favore di un’élite finanziaria globale e di politiche autoritarie (che li hanno arricchiti). E nel fare questo, hanno permesso un terribile aumento delle diseguaglianze. Ormai l’accusa di neoliberismo è un’arma retorica, «un modo per la gente di sinistra di gettare le colpe su quelli che stanno anche un centimetro alla loro destra». Ma il neoliberismo, osserva Metcalf, è anche un filtro attraverso cui guardare il mondo: «I pensatori politici più ammirati da Thatcher e da Reagan hanno contribuito a modellare l’ideale della società come una sorta di mercato universale (e non, ad esempio, una polis, una sfera civile o una sorta di famiglia) e gli esseri umani come dei calcolatori di profitti e perdite (e non come beneficiari di previdenze o titolari di diritti e doveri inalienabili)».Naturalmente, si trattava di «indebolire lo Stato sociale e l’obiettivo della piena occupazione», nel frattempo abbattendo le tasse e spianando la strada al business senza regole. E’ anche e soprattutto «un modo per riordinare la realtà sociale, e ripensare il nostro status come individui isolati». Basta vedere «in quale maniera pervasiva siamo invitati a pensare a noi stessi come proprietari dei nostri talenti e iniziative, con quanta disinvoltura ci viene detto di competere e adattarci». Lo stesso linguaggio, prima limitato alle semplificazioni didattiche che descrivono i mercati delle materie prime (concorrenza, trasparenza, comportamenti razionali) ora «è stato applicato a tutta la società, fino a invadere la realtà della nostra vita personale», ridotta a marketing permanente. Neoliberismo non significa solo «politiche a favore del mercato o compromessi col capitalismo finanziario fatti dai partiti socialdemocratici falliti». È anche «la denominazione di una premessa che, silenziosamente, è arrivata a regolare tutta la nostra pratica e le nostre credenze», come se la concorrenza fosse «l’unico legittimo principio di organizzazione dell’attività umana».Non appena il neoliberismo – certificato come reale – ha «reso evidente l’ipocrisia universale del mercato», allora «i populisti e i fautori dell’autoritarismo sono arrivati al potere». Negli Usa, Hillary Clinton, cioè «il super-cattivo dei neoliberal», ha perso nei confronti di Trump, «un uomo che sapeva solo quanto basta per fingere di odiare il libero scambio». Contro la globalizzazione, scrive Metcalf, si è riaffermata l’identità nazionale nel modo più duro possibile: da una parte la Brexit e, oltreoceano, «un folle a ruota libera» alla Casa Bianca. «Non è solo che il libero mercato produce una piccola squadra di vincitori e un enorme esercito di perdenti – e i perdenti, in cerca di vendetta, si sono rivolti alla Brexit e a Trump. C’era, sin dall’inizio, una relazione inevitabile tra l’ideale utopistico del libero mercato e il presente distopico in cui ci troviamo; tra il mercato come dispensatore unico di valore e tutore della libertà, e la nostra attuale caduta nella post-verità e nell’illiberalismo», afferma l’analista inglese, secondo cui – per capire bene il fenomeno – è meglio archiviare i Clinton e tornare alla radice del male: «C’era una volta un gruppo di persone che si definivano neoliberali, e lo facevano con molto orgoglio, e ambivano a una rivoluzione totale nel pensiero».Il più importante fra di loro, l’economista austriaco Friedrich von Hayek, «non pensava di conquistare una posizione nello spettro politico, o di giustificare i ricchi, o aggrapparsi ai margini della microeconomia: pensava di risolvere il problema della modernità». Per Hayek, «il mercato non agevolava semplicemente il commercio di beni e servizi: rivelava la verità». Solo che «la sua ambizione si è rovesciata nel suo opposto». Ovvero: «Grazie alla nostra venerazione sconsiderata del libero mercato, la verità potrebbe essere scacciata del tutto dalla vita pubblica», scrive Metcalf. Quando nel 1936 Friedrich Hayek ebbe “l’illuminazione”, pensò di aver incontrato qualcosa di inedito: «Come può la combinazione di frammenti di conoscenze esistenti in menti diverse – ha scritto – portare a risultati che, se dovessero essere perseguiti deliberatamente, richiederebbero una conoscenza da parte del regista che nessuno può possedere?». Non era tecnicismo economistico, né una polemica reazionaria contro il collettivismo: «Era un modo di far nascere un mondo nuovo», sostiene Metcalf. «Con crescente eccitazione, Hayek capì che il mercato potrebbe essere considerato come una sorta di mente».La “mano invisibile” di Adam Smith ci aveva già consegnato la concezione moderna del mercato: una sfera autonoma dell’attività umana e quindi, potenzialmente, un oggetto valido di conoscenza scientifica. Ma Smith era un moralista del XVIII secolo, «pensava che il mercato fosse giustificato solo alla luce della virtù individuale, e temeva che una società governata da nient’altro che dall’interesse personale allo scambio non fosse affatto una società». Il neoliberismo? «E’ Adam Smith senza il suo timore», dice Metcalf. «Che Hayek sia considerato il padre del neoliberalismo – uno stile di pensiero che riduce tutto all’economia – è un po’ assurdo, dato che era un economista mediocre. Era solo un giovane e oscuro tecnocrate viennese quando era stato reclutato alla London School of Economics per competere con la stella nascente di John Maynard Keynes a Cambridge, o addirittura contrastarla». Il piano fallì, e l’Hayek contrapposto a Keynes fu una disfatta. La “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” di Keynes, pubblicata nel 1936, fu accolta come un capolavoro. «Dominava la discussione pubblica, specialmente tra i giovani economisti inglesi in formazione, per i quali Keynes, brillante, affascinante e ben inserito socialmente, rappresentava un modello ideale».Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, continua Metcalf, molti eminenti sostenitori del libero mercato si erano avvicinati al modo di pensare di Keynes, riconoscendo che il governo aveva un ruolo da svolgere nella gestione di un’economia moderna. L’eccitazione iniziale su Hayek si era dissipata. La sua peculiare idea che non fare niente avrebbe potuto curare una depressione economica era stata screditata in teoria e nella pratica. Più tardi, lo stesso Hayek ammise addirittura di aver sperato che il suo lavoro di critica a Keynes venisse semplicemente dimenticato. Nel 1936 era un accademico senza pubblicazioni e senza un futuro scontato. «Adesso viviamo nel mondo di Hayek, come abbiamo vissuto una volta in quello di Keynes». Lawrence Summers, il consigliere di Clinton ed ex rettore dell’università di Harvard, ha affermato che la concezione di Hayek del sistema dei prezzi è «un’impresa penetrante e originale, alla pari della microeconomia del XX secolo», nonché «la cosa più importante da imparare oggi in un corso di economia». Il pensiero di Keynes, un uomo che non ha vissuto né previsto la guerra fredda, era comunque «riuscito a penetrare in tutti gli aspetti del mondo della guerra fredda». Allo stesso modo, osserva Metcalf, «anche ogni aspetto del mondo post-1989 è imbevuto del pensiero di Hayek».L’economista austriaco aveva una visione globale: un modo di strutturare tutta la realtà sul modello della concorrenza. Comincia col dire che le attività umane sono una forma di calcolo economico e possono così assimilate ai concetti fondamentali di ricchezza, valore, scambio, costo – e soprattutto: prezzo. «I prezzi sono un mezzo per allocare le risorse scarse in modo efficiente, secondo necessità e utilità, in base alla domanda e all’offerta». Perché il sistema dei prezzi funzioni in modo efficiente, i mercati devono essere liberi e concorrenziali. «Da quando Smith aveva immaginato l’economia come una sfera autonoma – prosegue Metcalf – esisteva la possibilità che il mercato non fosse solo un pezzo della società, ma la società nel suo complesso». Uomini e donne che «hanno bisogno solo di seguire il proprio interesse personale e competere per le risorse scarse». Attraverso la concorrenza diventa possibile, per citare il sociologo Will Davies, «discernere chi e che cosa ha valore». E così, rileva Metcalf , nel pensiero di Kayek non ha più alcun posto «tutto ciò che una persona che conosce la storia vede come necessari baluardi contro la tirannia e lo sfruttamento: una classe media prospera e una sfera civile, istituzioni libere, suffragio universale, libertà di coscienza, dimensione collettiva, religione e stampa».In Hajek viene mancare «il riconoscimento di fondo che l’individuo è portatore di dignità». L’austriaco, infatti, «ha incorporato nel neoliberalismo l’ipotesi che il mercato fornisca tutta la protezione necessaria contro l’unico reale pericolo politico: il totalitarismo. Per evitare questo, lo Stato deve solo mantenere libero il mercato. Quest’ultimo è ciò che rende il neoliberalismo “neo”. È una modifica fondamentale della credenza precedente in un mercato libero e uno Stato minimo, noto come “liberalismo classico”». Nel liberalismo classico, infatti, i commercianti semplicemente chiedevano allo Stato di “lasciar fare” a loro. Il neoliberismo, invece, «riconosce che lo Stato deve essere attivo nell’organizzazione di un’economia di mercato». E quindi, «le condizioni che consentono il libero mercato devono essere conquistate politicamente». Per questo, «lo Stato deve essere riprogettato per sostenere il libero mercato in modo costante e continuativo». E non è tutto: «Ogni aspetto della politica democratica, dalle scelte degli elettori alle decisioni dei politici, deve essere sottoposto ad un’analisi puramente economica. Il legislatore è obbligato a lasciare abbastanza le cose come stanno per non distorcere le azioni naturali del mercato e così, idealmente, lo Stato fornisce un quadro giuridico fisso, neutrale e universale in cui le forze di mercato operano spontaneamente».La direzione consapevole del governo non è mai preferibile ai “meccanismi automatici di aggiustamento“, cioè il sistema dei prezzi, che non è solo efficiente, ma massimizza la libertà, o l’opportunità per gli uomini e le donne di fare scelte libere sulla propria vita. «Mentre Keynes volava tra Londra e Washington, creando l’ordine del dopoguerra, Hayek se ne stava imbronciato a Cambridge». Era stato mandato lì durante le evacuazioni di guerra, e si lamentava di essere circondato da «stranieri» e «orientali di tutti i tipi», nonché da «europei di praticamente tutte le nazionalità, ma solo pochissimi dotati di una reale intelligenza». Bloccato in Inghilterra, senza alcuna influenza o credibilità, Hayek aveva solo la sua idea a consolarlo: «Un’idea così grande che un giorno avrebbe fatto mancare il terreno sotto i piedi a Keynes e a qualsiasi altro intellettuale». Lasciato libero di funzionare, il sistema dei prezzi funziona come una sorta di mente: «E non come una mente qualsiasi, ma una mente onnisciente: il mercato calcola ciò che gli individui non possono afferrare».Rivolgendosi a lui come a un compagno d’armi intellettuale, il giornalista americano Walter Lippmann scrisse a Hayek dicendo: «Nessuna mente umana ha mai colto l’intero schema di una società. Nella migliore delle ipotesi, una mente può cogliere la propria versione dello schema, qualcosa di molto più limitato, che sta alla realtà come una sagoma sta a un uomo reale». Affermazione forte: il mercato è un sistema per conoscere le cose che supera radicalmente la capacità di ogni mente individuale. «Un tale mercato non è tanto una convenzione umana, da manipolare come qualsiasi altra cosa, quanto una forza da studiare e da placare», scrive Metcalf. «L’economia cessa di essere una tecnica – come credeva Keynes – per raggiungere fini sociali desiderabili, come la crescita o la stabilità del valore della moneta. L’unico fine sociale è il mantenimento del mercato stesso. Nella sua onniscienza, il mercato costituisce l’unica forma legittima di conoscenza, davanti alla quale tutti gli altri modi di riflessione sono parziali, in entrambi i sensi della parola: comprendono solo un frammento di un intero e rispondono a un interesse particolare. A livello individuale, i nostri valori sono solo personali, o semplici opinioni; a livello collettivo, il mercato li converte in prezzi, o fatti oggettivi».Via dall’ateneo, Hayek non ebbe mai un incarico permanente che non fosse pagato da grandi sponsor aziendali. «Anche i suoi colleghi conservatori dell’università di Chicago – l’epicentro globale del dissenso libertario negli anni ’50 – consideravano Hayek come un portavoce reazionario, un “uomo di squadra della destra” con uno “sponsor di squadra della destra”, come si suol dire». Ancora nel 1972, quando un amico andò a trovare Hayek a Salisburgo, «trovò un uomo anziano prostrato nell’autocommiserazione, convinto che il lavoro della sua vita era stato inutile: nessuno si interessava a quello che aveva scritto!». C’era, però, qualche segno di speranza: Hayek era il filosofo politico preferito di Barry Goldwater e a quanto si dice anche di Ronald Reagan. Poi c’era Margaret Thatcher, che «esaltava Hayek di fronte a tutti e prometteva di mettere insieme la sua filosofia del libero mercato con una ripresa dei valori vittoriani: famiglia, comunità, lavoro duro». Hayek si incontrò privatamente con la “lady di ferro” nel 1975, proprio nel momento in cui lei, appena nominata leader dell’opposizione, si stava preparando a mettere in pratica la sua Grande Idea per consegnarla alla storia.L’incontro durò mezz’ora. Al termine, lo staff della Thatcher chiese ad Hayek cosa ne pensasse. «Per la prima volta in 40 anni, il potere restituiva a Friedrich von Hayek la tanto preziosa immagine che egli aveva di se stesso, l’immagine di un uomo che poteva sconfiggere Keynes e ricostruire il mondo». Rispose: «Lei è veramente bella». La Grande Idea di Hayek non è granché, come idea, fino a che non la ingigantisci. Continua Metcalf. «Processi organici, spontanei ed eleganti che, come un milione di dita sul tavolo di una seduta spiritica, si coordinano per creare risultati che altrimenti sarebbero accidentali. Applicata ad un mercato reale – il mercato della pancetta di maiale o i futures del granturco – questa rappresentazione dei fatti è poco più che un’ovvietà. Può essere ampliata per descrivere come i vari mercati, delle materie prime e del lavoro e anche lo stesso mercato della moneta, compongano quella parte della società conosciuta come “l’economia“. Questo è meno banale, ma ancora irrilevante; un keynesiano accetta tranquillamente questa rappresentazione. Ma cosa succede se le facciamo fare un passo avanti? Cosa succede se concepiamo tutta la società come una sorta di mercato?».Più l’idea di Hayek si espande, più diventa reazionaria, più si nasconde dietro la sua pretesa di neutralità scientifica – e più permette alla scienza economica di collegarsi alla tendenza intellettuale più importante dell’Occidente sin dal 17° secolo, continua Metcalf. «L’ascesa della scienza moderna ha generato un problema: se il mondo universalmente obbedisce alle leggi naturali, cosa significa essere esseri umani? L’essere umano è semplicemente un oggetto nel mondo, come qualsiasi altra cosa?». Tutta la cultura politica del dopoguerra gioca a favore di Keynes e di un forte ruolo dello Stato nella gestione dell’economia. Ma tutta la cultura accademica postbellica si trova a favore della Grande Idea di Hayek. «Prima della guerra, anche l’economista più conservatore pensava al mercato come lo strumento per un obiettivo limitato, l’efficiente allocazione delle risorse scarse. Fin dai tempi di Adam Smith a metà del 1700, e fino ai membri fondatori della scuola di Chicago negli anni del dopoguerra, vi era la credenza comune che gli obiettivi finali della società e della vita, si trovavano nella sfera non-economica». Lo scrive nel 1922 il saggio “Etica e interpretazione economica” di Frank Knight, che giunse a Chicago due decenni prima di Hayek: «La critica economica razionale dei valori dà risultati ripugnanti per il buon senso: l’uomo economico è egoista e spietato, degno di condanna morale».Gli economisti, prosegue Metcalf, avevano dibattutto aspramente per 200 anni su come considerare i valori sui quali si organizza una società mercantile, al di là di un semplice calcolo e interesse personale. Knight, insieme ai suoi colleghi Henry Simon e Jacob Viner, si trovava davanti a Franklin Delano Roosevelt e agli interventi sul mercato del New Deal. Quegli economisti «fondarono l’università di Chicago facendone quel tempio intellettualmente rigoroso dell’economia del libero mercato che rimane ancora oggi». Tuttavia, Simons, Viner e Knight iniziarono tutti la loro carriera prima che l’inarrivabile prestigio dei fisici atomici riuscisse a far fluire enormi somme di denaro nel sistema universitario e lanciasse la moda postbellica per la scienza “dura”. «Non adoravano le equazioni o i modelli, e si preoccupavano di questioni non scientifiche. Più esplicitamente, si preoccupavano di questioni di valore, dove il valore era assolutamente distinto dal prezzo». Non che fossero meno dogmatici di Hayek o più disposti a “perdonare” lo Stato per e le tasse e la spesa pubblica. «Semplicemente, riconoscevano come principio fondamentale che la società non era la stessa cosa del mercato, e che il prezzo non era la stessa cosa del valore».Questo, continua Metcalf, ha fatto sì che Simons, Viner e Knight venissero completamente dimenticati dalla storia. «È stato Hayek che ci ha mostrato come arrivare dalla condizione senza speranza della relatività umana alla maestosa oggettività della scienza. La Grande Idea di Hayek funge da anello mancante tra la nostra natura umana soggettiva e la natura stessa. Così facendo, pone qualsiasi valore che non possa essere espresso come un prezzo – il verdetto del mercato – su un piano incerto, come nient’altro che un’opinione, una preferenza, folklore o superstizione». Ma più di chiunque altro, «anche più di Hayek stesso», è stato il grande economista del dopoguerra di Chicago, Milton Friedman, che «ha contribuito a convertire i governi e i politici al potere alla Grande Idea di Hayek». Prima, però, ha dovuto rompere con i due secoli precedenti e dichiarare che l’economia è «in linea di principio indipendente da qualsiasi posizione etica particolare o da giudizi normativi», e che è «una scienza oggettiva, nello stesso senso di qualsiasi scienza fisica». I valori del vecchio ordine mentale normativo erano viziati, erano «differenze su cui gli uomini alla fine possono solo combattere». Detto con altre parole, da una parte c’è il mercato, e dall’altra il relativismo. «I mercati possono essere facsimili umani di sistemi naturali, e come l’universo stesso, possono essere senza autori e senza valore».Ma l’applicazione della Grande Idea di Hayek ad ogni aspetto della nostra vita, sottolinea Metcalf, nega ciò che di noi è più caratteristico: «Nel senso che assegna ciò che è più umano degli esseri umani – la nostra mente e la nostra volontà – agli algoritmi e ai mercati, lasciandoci meccanici, come zombi, rappresentazioni rattrappite di modelli economici». Espandere l’idea di Hayek sino a promuovere radicalmente il sistema dei prezzi a una sorta di “onniscienza sociale” significa «ridimensionare radicalmente l’importanza della nostra capacità individuale di ragionare, la nostra capacità di trovare le giustificazioni delle nostre azioni e credenze e valutarle». Di conseguenza, la sfera pubblica, cioè lo spazio in cui offriamo ragioni e contestiamo le ragioni degli altri, «cessa di essere lo spazio della deliberazione e diventa un mercato di click, “like” e “retweet”». Internet? «E’ la preferenza personale enfatizzata dall’algoritmo: uno spazio pseudo-pubblico che riecheggia la voce dentro la nostra testa. Piuttosto che uno spazio di dibattito in cui facciamo il nostro cammino, come società, verso il consenso, ora c’è un apparato di affermazione reciproca chiamato banalmente “mercato delle idee”».«Quello che appare pubblico e chiaro è solo un’estensione delle nostre preesistenti opinioni, pregiudizi e credenze, mentre l’autorità delle istituzioni e degli esperti è stata spiazzata dalla logica aggregativa dei grandi dati», sostiene Metcalf. «Quando accediamo al mondo attraverso un motore di ricerca, i suoi risultati vengono classificati, per come la mette il fondatore di Google, “ricorrentemente” – da un’infinità di singoli utenti che funzionano come un mercato, in modo continuo e in tempo reale». A parte l’utilità straordinaria della tecnologia digitale, «una tradizione più antica e umanistica, che ha dominato per secoli, aveva sempre distinto fra i nostri gusti e preferenze – i desideri che trovano espressione sul mercato – e la nostra capacità di riflessione su quelle preferenze, che ci consente di stabilire ed esprimere valori». Un sapore è definito come una preferenza su cui non si discute, dice il il filosofo ed economista Albert Hirschman: un gusto che si può contestare diventa un valore. Uomini e donne, dice Hirschman, hanno anche la capacità di rivedere i loro desideri, volontà e preferenze, per chiedersi se valga la pena di volere quelle cose. E’ decisivo: «Modelliamo noi stessi e le nostre identità sulla base di questa capacità di riflessione».Ragiona Metcalf: «L’uso del potere di riflessione del singolo individuo è la ragione; l’uso collettivo di questi poteri di riflessione è la ragione pubblica; l’uso della ragione pubblica per approvare le leggi e la linea politica è la democrazia. Quando forniamo ragioni per le nostre azioni e credenze, ci realizziamo: individualmente e collettivamente, decidiamo chi e che cosa siamo». Secondo la logica della Grande Idea di Hayek, invece, queste espressioni della soggettività umana senza la ratifica del mercato sono senza significato – come ha detto Friedman, «non sono altro che relativismo, ogni cosa risultando buona come qualsiasi altra». Quando l’unica verità oggettiva è determinata dal mercato, tutti gli altri valori hanno lo status di mere opinioni; tutto il resto è aria fritta relativistica. Ma il “relativismo” di Friedman «è un insulto assurdo, visto che tutte le attività umane sono “relative”, a differenza delle scienze». Sono relative alla condizione (privata) di avere una mente, e alla necessità (pubblica) di ragionare e comprendere, anche quando non possiamo aspettarci delle prove scientifiche. E quando i nostri dibattiti non sono più risolte con ragionamenti, allora l’esito sarà determinato dall’arbitrio del potere. «È qui che il trionfo del neoliberismo si traduce nell’incubo politico che viviamo oggi».Il grande progetto di Hayek, concepito negli anni ’30 e ’40 per impedire di ricadere nel caos politico e nel fascismo, «ha sempre coinciso con questo abominio stesso che voleva impedire che accadesse», rivela Metcalf. Era un’idea «fin dall’inizio intrisa della cosa stessa da cui sosteneva di proteggereci», anche perché «la società riconcepita come un gigante mercato porta ad una vita pubblica ridotta a uno scontro tra mere opinioni, finché il pubblico frustrato non si rivolge, infine, ad un uomo forte come ultima risorsa per risolvere i suoi problemi, altrimenti ingestibili». Nel 1989, un giornalista americano bussò alla porta di un ormai novantenne Hayek. «Non era più l’uomo di una volta, sprofondato nella sconfitta per mano di Keynes». La Thatcher gli aveva appena scritto, con un tono di trionfo epocale, che niente di ciò che lei e Reagan avevano compiuto «sarebbe stato possibile senza i valori e le idee che ci hanno portato sulla strada giusta e fornito la giusta direzione». Hayek ora era soddisfatto di se stesso e ottimista sul futuro del capitalismo. Vedeva «un maggiore apprezzamento per il mercato tra le giovani generazioni». Diceva: «Oggi i giovani disoccupati di Algeri e Rangoon non protestano per uno Stato sociale pianificato a livello centrale, ma per le opportunità: la libertà di acquistare e vendere – jeans, automobili, qualunque cosa – a qualsiasi prezzo che il mercato possa sostenere».Sono passati trent’anni, e si può giustamente dire che la vittoria di Hayek non ha rivali, conclude Metcalf: viviamo in un “paradiso” costruito dalla sua Grande Idea. E’ vero, purtroppo: ogni giorno «ci sforziamo di diventare più perfetti come acquirenti e venditori, isolati, discreti, anonimi, e ogni giorno consideriamo il desiderio residuo di essere qualcosa di più di un consumatore come un’espressione di nostalgia, o di elitismo». Tutto era iniziato come una visione intellettuale «onestamente apolitica», ma quel pensiero si è trasformato «in una politica ultra-reazionaria». Aggiunge Metcalf, amaramente: «Quando abbiamo abbandonato, per il suo imbarazzante residuo di soggettività, la ragione come una forma di verità e abbiamo reso la scienza l’unico arbitro del reale e del vero, abbiamo creato un vuoto che la pseudo-scienza è stata ben felice di riempire». L’autorità del professore, del riformatore, del legislatore o del giurista «non deriva dal mercato, ma da valori umanistici come la passione civile, la coscienza o il desiderio di giustizia». Ma queste figure erano state private di rilevanza molto tempo prima che Trump cominciasse a squalificarle. E’ una storia ormai lunga quasi un secolo: e non c’è ancora in circolazione un vaccino efficace contro il virus mortale, il veleno psico-economico del neoliberismo.Il neoliberismo è come la mafia: non esiste, si diceva un tempo, in Sicilia. Poi sono arrivate le bombe: così, la mafia “esiste”, ormai ufficialmente, da decenni. E adesso che anche la bomba neoliberista ha fatto morti e feriti in tutto il mondo, lo ammettono: il neoliberismo esiste, parola del Fmi. Nell’estate 2017, tre ricercatori del Fondo Monetario hanno ribaltato l’idea quella parola non sia altro che un artificio politico: il loro “paper”, scrive Steven Metcalf sul “Guardian”, individua chiaramente un’agenda neoliberista, che ha sravolto il pianeta: ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, ha forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali, ha richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Parlano i dati statistici: la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 ha coinciso con la crisi della crescita, i cicli economici a singhiozzo e il dilagare delle diseguaglianze. Neoliberismo? «E’ un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica», fino al punto da plagiare la nostra mente: siamo meno umani e più soli, individui in feroce competizione tra loro.
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Mundell, il genio malvagio dell’euro: così vi rovineremo
L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.Ma Mundell, da intraprendente canadese-americano, aveva intenzione di fare qualcosa: trovare un’arma che spazzasse via regole governative e norme sul lavoro (odiava veramente gli idraulici sindacalizzati che gli avevano fatto pagare un fracco di soldi per spostare il suo trono). «È molto difficile licenziare lavoratori in Europa», si era lamentato. La sua risposta fu l’euro. L’euro avrebbe realmente fatto il suo dovere quando sarebbero arrivate le crisi economiche, aveva spiegato Mundell. Togliere al governo il controllo sulla valuta avrebbe impedito agli odiosi, piccoli funzionari eletti di usare “estratti” di politiche monetarie e fiscali keynesiane per tirare un paese fuori dalla recessione. L’euro «mette la politica monetaria fuori dalla portata dei politici», disse. E «senza politica fiscale, l’unico modo in cui le nazioni possono mantenere i posti di lavoro è la riduzione competitiva delle regole sugli affari». Citò leggi sul lavoro, norme di tutela ambientale e, naturalmente, le tasse. L’euro avrebbe spazzato via tutto. Non si sarebbe permesso alla democrazia di interferire con il mercato – o con l’impianto idraulico!Come osserva un altro Nobel, Paul Krugman, la creazione dell’Eurozona ha violato la regola economica di base conosciuta come “area valutaria ottimale”. Era una regola inventata da Bob Mundell, ma questo non preoccupa Mundell: per lui, l’euro non riguardava la trasformazione dell’Europa in una potente unità economica unificata. Si trattava di Reagan e Thatcher. «Reagan non sarebbe stato eletto presidente senza l’influenza di Mundell», scrisse Jude Wanniski sul “Wall Street Journal”. L’economia dell’offerta pionieristica di Mundell è divenuta il modello teorico per la Reaganomics – o “economia voodoo”, come l’ha definita George Bush senior: la magica convinzione nella panacea del libero mercato che ha ispirato che le politiche della signora Thatcher. Mundell mi ha spiegato che, infatti, l’euro fa parte delle Reaganomics: «La disciplina monetaria impone la disciplina fiscale anche ai politici». E quando si verificano crisi, le nazioni economicamente disarmate hanno poco da fare, ma cancellano i regolamenti governativi all’ingrosso, privatizzano in modo massiccio le industrie statali, riducono le tasse e gettano lo stato sociale europeo nella discarica.Così, vediamo che il primo ministro Mario Monti (non eletto) ha preteso la “riforma” del diritto del lavoro in Italia per rendere più facile, per i datori di lavoro come Mundell, sparare agli idraulici toscani. Mario Draghi, capo (non eletto) della Banca Centrale Europea, chiede “riforme strutturali” – un eufemismo per i sistemi di frantumazione dei lavoratori. Cita la teoria nebulosa che questa “svalutazione interna” di ogni nazione li renderà tutti più competitivi. Monti e Draghi non possono credibilmente spiegare come, se ogni paese del continente riduce la propria forza lavoro, chiunque può ottenere un vantaggio competitivo. Ma non devono spiegare le proprie politiche; devono solo lasciare che i mercati agiscano sui titoli di Stato di ogni nazione. Quindi, l’unione monetaria è la guerra di classe con altri mezzi.La crisi in Europa e le fiamme della Grecia hanno prodotto il bagliore di ciò che il sommo filosofo Joseph Schumpeter ha chiamato “distruzione creativa”. L’apologeta del libero mercato Thomas Friedman, seguace di Schumpeter, volò ad Atene per visitare il “tempio improvvisato” della banca bruciata dove tre persone erano morte dopo esser state bombardate dai manifestanti anarchici, e ha usato l’occasione per condurre un’omelia sulla globalizzazione e l’“irresponsabilità” greca. Le fiamme, la disoccupazione di massa, la svendita delle risorse nazionali porterebbero ciò che Friedman definiva “rigenerazione” della Grecia e, in ultima analisi, di tutta l’Eurozona. Così che Mundell e gli altri con ville possono ben mettere i loro bagni ovunque vogliono. Lungi dall’essere un fallimento, l’euro, che era il figlio di Mundell, è riuscito probabilmente ad andare al di là dei sogni più selvaggi del suo progenitore.(Greg Palast, “Robert Mundell, il genio malvagio dell’euro”, dal “Guardian” del 26 giugno 2012).L’idea che l’euro abbia “fallito” è pericolosamente ingenua. L’euro sta facendo esattamente quello che il suo progenitore – e il ricco 1% che l’ha adottato – hanno previsto e progettato che facesse. Il progenitore è un ex economista dell’università di Chicago, Robert Mundell. L’architetto dell’“economia dell’offerta” è ora un professore presso la Columbia University, ma io ho avuto modo di conoscerlo attraverso i suoi rapporti con il mio professore di Chicago, Milton Friedman, ben prima che le ricerche di Mundell su valute e tassi di cambio avessero dato vita al progetto di un’unione monetaria europea e di una valuta europea comune. Mundell, allora, era più preoccupato dei lavori di ristrutturazione del suo bagno. Il professor Mundell, che ha sia un Premio Nobel sia un’antica villa in Toscana, mi disse furibondo: «Non mi permettono nemmeno di avere un gabinetto. Hanno regole per cui mi dicono che non posso avere un bagno in questa stanza! Ti rendi conto?». In effetti no, non posso rendermi conto. Ma io non ho una villa italiana, quindi non riesco a immaginare le frustrazioni per le norme edilizie che disciplinano il posizionamento dei gabinetti.
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Vaccinisti di tutto il mondo unitevi: ecco la Gavi di Bill Gates
«Esiste, in questo nostro mondo globalizzato, anche una “alleanza globale per i vaccini”, di nome Gavi». Essendo globale ha un nome inglese, “Global Alliance for Vaccines and Immunisation”. E’ fuori da ogni controllo pubblico, fondata nel 2000 dalla “Bill and Melinda Gates Foundation” con l’obiettivo di “incrementare l’accesso a vaccini nuovi e sottoutilizzati” per i bambini che vivono nei paesi poveri. I vaccini “nuovi”, scrive Sonia Savioli, ormai compaiono a un ritmo sempre più incalzante, e che siano sottoutilizzati lo decidono loro. «Loro chi? Gavi sta a Ginevra, dice di collegare settore pubblico e privato (traduzione: il pubblico sono gli Stati che pagano, il privato le industrie farmaceutiche che vendono). Ma ci sono anche le agenzie Onu e le Ong, che finanziano o sono finanziate, in questa superalleanza. E cioè, sempre gli Stati che pagano, con le nostre tasse». Nel gennaio 2000, la Fondazione Gates spese 750 milioni di dollari (deducibili dalle tasse) per creare Gavi. Scopo dichiarato, non solo di “reperire risorse finanziarie” per i vaccini già presenti sul mercato, ma anche per crearne di nuovi, «i quali permetteranno di reperire nuove e ingenti risorse finanziarie a chi li fa e li vende». Altro obiettivo dichiarato: «Arrivare a farli pagare, i vaccini, ai governi delle nazioni “in via di sviluppo”».E chi c’è a dirigere questa “Alleanza per i vaccini” che dice di volere il bene dei bambini dei paesi poveri? A tirare le fila, scrivela Savioli sul “Cambiamento”, è Ngozi Okonjo Iweala, una robusta signora nigeriana con un curriculum impressionante: già ministra delle finanze e degli esteri nel governo nigeriano, prima ancora direttrice della Banca Mondiale, ora siede nella dirigenza della Fondazione Rockfeller. «Si vede che la signora ha una marcia in più. E il quotidiano britannico “The Guardian”, infatti, la definisce “una speranza per l’Africa”». Non è il solo: un coro di lodi viene cantato attorno alla ex ministra nigeriana. «Gli unici che nel coro stonano un po’, peccato, sono proprio i nigeriani», che nel 2016 chiedevano conto alla signora Ngozi Okonjo – attraverso l’Alta Corte federale di Lagos – di 30 bilioni di naira (moneta locale, pari a 130 miliardi di euro) scomparsi dai bilanci statali quand’era al dicastero delle finanze. Poi, sempre nel 2016, una richiesta di indagine su di lei inviata alla Icc (Corte Criminale Internazionale) per uno scandalo di traffico di armi ammontante a due miliardi e rotti, questa volta di dollari.Tra i sommi dirigenti di Gavo, continua Sonia Savioli, c’è anche David Sidwell, una specchiata carriera di banchiere internazionale tra Morgan Stanley, Jp Morgan e Ubs. «Del resto, la Gavi non fa mistero della sua propensione finanziaria». A parte il bla-bla sul salvare i bambini, quando si passa alle cose serie ecco come presenta se stessa ai suoi “clienti”. Il titolo è “Il modello affaristico Gavi”, che “raccoglie la domanda dei paesi poveri, e invia ai produttori un chiaro segnale che vi è un ampio mercato percorribile per i vaccini” e “Il sostegno dei donatori… renderà possibile per i produttori fare nuovi investimenti per aumentare la produzione”. Gavi si impegna anche a “migliorare la salute del mercato dei vaccini fino a far sì che la produzione incontri la richiesta”, lavora affinché “siano ridotti al minimo i rischi per i fornitori” e si adopera anche per procurare ai “produttori” “risorse, informazioni e incentivi per superare gli impedimenti ed entrare e competere nel mercato”. «Come azienda non c’è male», chiosa Savioli. «Noi italiani possiamo testimoniare che hanno fatto un buon lavoro».«Esiste, in questo nostro mondo globalizzato, anche una “alleanza globale per i vaccini”, di nome Gavi». Essendo globale ha un nome inglese, “Global Alliance for Vaccines and Immunisation”. E’ fuori da ogni controllo pubblico, fondata nel 2000 dalla “Bill and Melinda Gates Foundation” con l’obiettivo di “incrementare l’accesso a vaccini nuovi e sottoutilizzati” per i bambini che vivono nei paesi poveri. I vaccini “nuovi”, scrive Sonia Savioli, ormai compaiono a un ritmo sempre più incalzante, e che siano sottoutilizzati lo decidono loro. «Loro chi? Gavi sta a Ginevra, dice di collegare settore pubblico e privato (traduzione: il pubblico sono gli Stati che pagano, il privato le industrie farmaceutiche che vendono). Ma ci sono anche le agenzie Onu e le Ong, che finanziano o sono finanziate, in questa superalleanza. E cioè, sempre gli Stati che pagano, con le nostre tasse». Nel gennaio 2000, la Fondazione Gates spese 750 milioni di dollari (deducibili dalle tasse) per creare Gavi. Scopo dichiarato, non solo di “reperire risorse finanziarie” per i vaccini già presenti sul mercato, ma anche per crearne di nuovi, «i quali permetteranno di reperire nuove e ingenti risorse finanziarie a chi li fa e li vende». Altro obiettivo dichiarato: «Arrivare a farli pagare, i vaccini, ai governi delle nazioni “in via di sviluppo”».
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Qe, truffa da record: soldi facili alle banche, solo per i ricchi
Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.Come notato da Laith Khalaf, senior analyst presso Hargreaves Lansdown, «dopo la crisi finanziaria, le banche centrali hanno inondato l’economia globale con denaro a buon mercato, ma la crescita globale è tuttora in una situazione di stallo, in particolare in Europa ed in Giappone, dove sono state prese imponenti misure di stimolo per fronteggiare il problema». Persino “Forbes” ammette che il Qe ha «in gran parte fallito nel rivitalizzare la crescita economica». Ciò non sorprende, o quanto meno non dovrebbe. Il Qe era destinato fin dall’inizio a mancare i suoi obiettivi dichiarati, perché il motivo per cui le banche non finanziavano investimenti produttivi non era la carenza di denaro – al contrario, già nel 2013, molto prima degli ultimi cicli di Qe, le imprese inglesi disponevano di quasi 500 miliardi di riserve liquide – ma piuttosto perché l’economia globale si trovava (e si trova tuttora) in una profonda crisi di sovrapproduzione. In poche parole, i mercati erano (e sono) saturi, e non ha senso investire in un mercato saturo.Per questo motivo, tutto il nuovo denaro creato dal Qe ed “iniettato” nelle istituzioni finanziarie – come fondi pensione e compagnie d’assicurazione – non è stato poi investito nelle attività produttive, ma si è invece riversato nei mercati azionari ed immobiliari, gonfiando i prezzi delle azioni e degli immobili, senza generare nulla in termini di ricchezza reale o occupazione. I titolari di beni come azioni e immobili hanno tratto molti vantaggi dal Qe, che in Uk si stima abbia accresciuto la ricchezza del 5 percento più ricco mediamente di 128.000 sterline a testa. Com’è stato possibile? Da dove è venuta tutta questa nuova ricchezza? Dopo tutto, anche se il denaro – a dispetto degli slogan dei Tory – può essere effettivamente creato “dal nulla”, precisamente come è stato fatto col Qe, non è così per la ricchezza reale. Ed il Qe non ha prodotto ricchezza reale. Eppure, il 5% più ricco oggi dispone di 128.000 sterline extra da spendere in yacht, ville principesche, diamanti, caviale e così via. Ma da dove viene questo denaro?Semplice. La ricchezza che il Qe ha trasferito ai titolari di asset proviene, in primo luogo, direttamente dai salari dei lavoratori. Poiché ha praticamente svalutato la moneta, il Qe ha ridotto la capacità d’acquisto del denaro, il che ha causato nei fatti una svalutazione dei salari reali, che in Uk sono tuttora del 6% al di sotto dei loro livelli pre-Qe. Il denaro sottratto ai salari forma dunque parte di quel dividendo di 128.000 sterline. Ma viene anche dagli ultimi arrivati nei mercati gonfiati dal Qe – principalmente gli acquirenti di una prima casa e chi è recentemente andato in pensione. Chi oggi acquista una casa (che il Qe ha reso molto più cara), ad esempio, dovrà lavorare migliaia di ore in più per pagare un mutuo a prezzi più alti. Sono queste ore in più a creare la ricchezza che sovvenziona le stravaganti spese del 5% più ricco. Ovviamente, questi prezzi immobiliari più alti sono pagati da chiunque acquisti una casa, non solo da chi lo fa per la prima volta – ma per chi è già proprietario il costo aggiuntivo è compensato dall’aumento di prezzo della casa già di proprietà (o delle azioni, per chi è abbastanza ricco da possederne).Un’altra conseguenza del Qe è che chi va in pensione adesso è costretto a sovvenzionare il 5% più ricco. I nuovi pensionati usano il loro fondo pensione per acquistare una ‘rendita’ – un pacchetto di titoli azionari fruttiferi che produce reddito. Ma poiché il Qe ha causato un’inflazione del prezzo dei titoli, ciò ha ridotto il numero di titoli acquistabili con questo fondo. E dato che all’aumento di prezzo dei titoli non corrisponde un aumento dei dividendi, ciò si traduce in una pensione ridotta. In realtà, la teoria che il Qe servisse ad incoraggiare gli investimenti e stimolare l’occupazione e la crescita è sempre stata un artificio fantasioso creato per dissimulare quello che stava realmente accadendo – un colossale trasferimento di ricchezza verso i più ricchi. L’economista Dhaval Joshi faceva notare nel 2011: «La cosa più sconvolgente è che, dopo due anni di apparente ripresa, i lavoratori [inglesi] in realtà guadagnano meno che nel momento più drammatico della recessione. Salari e stipendi reali sono calati di 4 miliardi di sterline. I profitti sono aumentati di 11 miliardi. I benefici della ripresa sono stati distribuiti nel modo più iniquo possibile».Nel marzo di quest’anno il “Financial Times” riportava che, nonostante il Pil della Gran Bretagna sia ritornato ai livelli pre-crisi già dal 2014, i salari reali sono ancora più bassi del 10% rispetto al 2008. «La contrazione dei salari reali in Uk si è arrestata nel 2015», aggiungeva, «ma ciò non è destinato a durare». Così è stato. Nello stesso mese di pubblicazione di quell’articolo, i salari reali hanno iniziato nuovamente a scendere, e sono da allora in costante diminuzione. Lo stesso è successo in Giappone, dove, secondo “Forbes”, «il reddito delle famiglie si è effettivamente ridotto dopo l’introduzione del Qe». Il Qe ha sortito un effetto simile nei paesi del sud del mondo: aumentare la ricchezza dei detentori di asset a spese di chi non ne ha. Così come l’afflusso di nuovo denaro crea bolle nei mercati immobiliari e finanziari, allo stesso modo crea una bolla nei prezzi delle materie prime, dovuta ad esempio alla corsa degli speculatori all’acquisto di quote di petrolio e di materie prime alimentari.Per alcuni paesi produttori di petrolio ciò ha comportato effetti positivi, con la messa a disposizione di denaro inatteso da investire in programmi sociali, come inizialmente è accaduto nel caso di Venezuela, Libia ed Iran. In tutti e tre i casi, le forze imperialiste sono state costrette a ricorrere a vari livelli di intervento militare per contrastare queste conseguenze indesiderate. Ma l’aumento del prezzo del petrolio è certamente deleterio per paesi che non ne producono – e qualsiasi aumento dei prezzi alimentari è sempre devastante. Nel 2011 il “Daily Telegraph” sottolineava «la correlazione tra i prezzi alimentari e gli acquisti da parte della Fed di titoli di Stato americani (ossia, programmi di quantitative easing)…Si può notare come l’indice dei prezzi alimentari si è pressoché stabilizzato tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, ed è poi nuovamente salito a partire dalla metà del 2010 dopo il nuovo avvio del quantitative easing… con un aumento dei prezzi di circa il 40% durante un periodo di tempo di otto mesi».L’aumento dei prezzi ha spinto 44 milioni di persone in povertà nel solo 2010 – il “Telegraph” riteneva che ciò stesse alla base del malcontento manifestato nelle cosiddette Primavere Arabe. Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale, all’epoca commentava: «L’inflazione dei prezzi alimentari è oggi la più grave minaccia incombente sui poveri del mondo… basta un episodio di maltempo estremo per finire nel baratro». Sono questi i costi del quantitative easing. I paesi Brics erano anche critici nei confronti del Qe per un altro motivo: lo consideravano un metodo subdolo di svalutazione competitiva. Riducendo artificialmente il valore delle loro monete, la “triade imperiale” Usa, Ue e Giappone causavano a tutti gli effetti un apprezzamento delle valute di tutti gli altri paesi, danneggiando così le loro esportazioni.Nel 2015 “Forbes” scriveva: «Gli effetti si iniziano già a sentire anche nei paesi esportatori più dinamici al mondo, nell’est asiatico. Le loro esportazioni in dollari americani hanno subito una drammatica variazione, da una crescita annua del 10% ad una contrazione del 12% nella prima metà di quest’anno, e questi risultati non cambiano, che si tenga conto o no della Cina». Il vantaggio principale del Qe per i paesi in via di sviluppo avrebbe dovuto essere l’enorme afflusso di capitali da esso innescato. Si stima che circa il 40% del denaro generato dalla prima espansione di credito Qe della Fed (‘Qe1’) si è spostato all’estero – in particolare nei cosiddetti ‘mercati emergenti’ del sud del mondo – e circa un terzo durante il Qe. Tuttavia, contrariamente alle apparenze questo non è necessariamente un vantaggio. Gran parte del denaro, come si è visto, è stato utilizzato per acquistare scorte di materie prime (rendendo così beni essenziali come il cibo esorbitanti per i poveri) invece di essere investito in attività di produzione, ed un’altra buona parte è servita per acquistare scorte valutarie, causando ancora una volta un apprezzamento nocivo alle esportazioni.Per di più, un afflusso di ‘hot money’ (capitali speculativi erranti, in contrapposizione al capitale per gli investimenti di lungo termine) accentua la volatilità e vulnerabilità delle valute in caso, ad esempio, di aumenti dei tassi esteri. Se, ad esempio, i tassi d’interesse dovessero nuovamente salire in Usa ed in Europa, ciò rischierebbe di scatenare una fuga di capitali dai mercati emergenti, che potrebbe innescare un tracollo valutario. Fu infatti proprio un afflusso di ‘hot money’ nei mercati valutari asiatici, molto simile a quello visto durante il Qe, a precedere la crisi valutaria asiatica del 1997. La prossima fine del Qe, con il conseguente innalzamento dei tassi d’interesse, rischia di riproporre proprio questa vulnerabilità come una possibilità – se non addirittura come un’opportunità speculativa.(Dan Glazebrook, “Quantitative Easing, il più grande trasferimento di ricchezza della storia”, da un editoriale su “Rt” del 22 luglio 2017, tradotto e ripreso da Margherita Russo per “Voci dall’Estero”. Glazebrook è un giornalista politico freelance che collabora, fra gli altri, con “Russia Today Rt”, “Counterpunch”, “Z Magazine”, il “Morning Star”, il “Guardian”, il “New Statesman”, l’“Independent” e “Middle East Eye”. I suoi saggi esaminano i legami tra la crisi economica, l’ascesa dei Brics, le guerra in Libia e in Siria e l’“austerità” europea. Attualmente conduce ricerche per un libro sull’impiego degli “squadroni della morte” contro Stati sovrani e movimenti politici, dall’Irlanda del Nord e dall’America Centrale negli anni ‘70 e ‘80 fino al Medio Oriente e all’Africa di oggi).Sembra che l’enorme trasferimento di ricchezza verso i ricchi, durato circa un decennio e noto come ‘quantitative easing’, stia per volgere al termine. Delle quattro principali banche centrali del mondo – la Federal Reserve americana, la Bank of England, la Banca Centrale Europea e la Banca del Giappone – due hanno già abbandonato la politica di acquisto di attività finanziarie (la Fed e la BoE), e la Bce intende smettere gli acquisti da dicembre. La Fed dovrebbe infatti iniziare a vendere nei prossimi due mesi i 3500 miliardi di dollari di titoli acquistati in tre cicli di Qe. Dal momento che – valutato alla luce degli obiettivi ufficiali – il Qe è stato un completo disastro, ciò appare perfettamente sensato. Grazie ad un’“iniezione” di denaro nell’economia, il Qe avrebbe dovuto portare le banche a prestare nuovamente, rilanciando gli investimenti e la crescita economica. In realtà, dopo l’introduzione del Qe il credito bancario totale nel Regno Unito è invece diminuito, e il credito a piccole e medie imprese – responsabili per il 60% dell’occupazione – è in caduta verticale.
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The Frontman: il vero Bono, una vita nel nome del potere
«“The Frontman” non si limita a smascherare il luccicante principe del “chiagni e fotti” Bono Vox, ma sfascia l’intera narrazione tossica sui nababbi buoni, i miliardari impegnati, i Live Aid per smacchiare la coscienza, i turlupinatori che parlano di fame in Africa e sono culo e camicia con le multinazionali che devastano l’Africa e il mondo», scrive Wu Ming 1, presentando il libro di Harry Browne sull’ingombrante leader degli U2. Un pamphlet ironico e graffiante, un vero e proprio atto di accusa nei confronti della superstar irlandese: «Senza metterne in discussione i meriti del successo musicale, ne attacca le modalità nell’uso politico di questo successo», annota “Il Megafono Quotidiano”. E’ una biografia non convenzionale di Bono Vox, che lo vede da una parte impegnato ad evitare di pagare le tasse nel suo paese, e dall’altra ergersi a «volto premuroso della tecnocrazia globale» assumendo, senza alcun tipo di mandato, il ruolo di portavoce per l’Africa, fornendo “copertura umanitaria” ai leader del G8 e alle loro politiche. Con un linguaggio depoliticizzato in cui il mondo dei poveri esiste solo come oggetto di attenzione pelosa, “buona causa” da ostentare in società.L’associazione no-profit “One”, da lui fondata, sostiene di lavorare per conto dei poveri ma, ci svela l’autore, è composta in gran parte da multimilionari, dirigenti d’azienda e politici statunitensi. Tra i suoi membri si scoprono Condoleezza Rice (consigliere di George W. Bush che ha promosso la guerra in Iraq) e Larry Summers (economista della Banca Mondiale che ha contribuito a deregolamentare Wall Street) e solo due membri africani: un magnate dell’industria dei telefoni cellulari e un ex amministratore delegato della Banca Mondiale. Non proprio i migliori rappresentanti dei poveri. «Diffidate dei ricchi & famosi che si proclamano “in guerra contro la povertà”», aggiunge Wu Ming 1. «Si avrà una vera guerra alla povertà quando i poveri insorgeranno contro i ricchi. E se mai verrà quel giorno, non sarà un buon giorno per Bono». Non sarà facile insabbiare i dati di fatto raccolti da Harry Browne, sostiene “Counterpunch”: «Nel corso della propria vita, Bono è diventato ricco sfondato. Fico. Adesso usa il proprio status di celebrità rock per guadagnarsi l’accesso ai (e cospargere un po’ di polvere d’oro rock’n'roll sui) pezzi grossi al potere. Già meno fico. Nel mentre, fa prediche sui poveri e sui malati di Aids in compagnia di certi elusori fiscali davvero luridi e di destra, e coi “migliori” di questi accumula ricchezze e ci elude il fisco insieme. Proprio per niente fico».Per George Monbiot, autore di una recensione sul “Guardian”, quello di Browne è un un libro «brillante e ustionante», dal momento che Bono e altri come lui «si sono appropriati di uno spazio politico che altrimenti sarebbe stato occupato dagli africani di cui si riempiono la bocca». Bono, di fatto, «è visto dai leader mondiali come rappresentante dei poveri», ma «questi ultimi non sono mai invitati a parlare». La cosa «funziona bene per tutti quanti… esclusi i poveri». Harry Browne è libero docente alla School of Media del Dublin Institute of Technology. I suoi articoli sono apparsi su “Counterpunch”, sulla “Dublin Review” e in altri giornali irlandesi. Nato in Italia e cresciuto negli Stati Uniti, Browne vive in Irlanda dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso.(Il libro: Harry Browne, “The Frontman. Bono (nel nome del potere)”, edizioni Alegre, 283 pagine, 15 euro, edizione italiana a cura di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti).«“The Frontman” non si limita a smascherare il luccicante principe del “chiagni e fotti” Bono Vox, ma sfascia l’intera narrazione tossica sui nababbi buoni, i miliardari impegnati, i Live Aid per smacchiare la coscienza, i turlupinatori che parlano di fame in Africa e sono culo e camicia con le multinazionali che devastano l’Africa e il mondo», scrive Wu Ming 1, presentando il libro di Harry Browne sull’ingombrante leader degli U2. Un pamphlet ironico e graffiante, un vero e proprio atto di accusa nei confronti della superstar irlandese: «Senza metterne in discussione i meriti del successo musicale, ne attacca le modalità nell’uso politico di questo successo», annota “Il Megafono Quotidiano”. E’ una biografia non convenzionale di Bono Vox, che lo vede da una parte impegnato ad evitare di pagare le tasse nel suo paese, e dall’altra ergersi a «volto premuroso della tecnocrazia globale» assumendo, senza alcun tipo di mandato, il ruolo di portavoce per l’Africa, fornendo “copertura umanitaria” ai leader del G8 e alle loro politiche. Con un linguaggio depoliticizzato in cui il mondo dei poveri esiste solo come oggetto di attenzione pelosa, “buona causa” da ostentare in società.
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Maryam Mirzakhani, la pensatrice lenta: un genio assoluto
Un genio a bassa velocità, una “pensatrice lenta”. Maryam Mirzakhani era una delle scienziate più sbalorditive dei nostri tempi, famosa perché nel 2014 fu la prima donna nella storia a vincere la Fields Medal, l’equivalente del Nobel per la matematica, scrive Viviana Mazza sul “Corriere della Sera”. Quattro anni fa le era stato diagnosticato un cancro al seno. Si è spenta il 14 luglio in California, all’età di 40 anni. «La sua scomparsa – osserva il “Corriere” – unisce nel dolore due nazioni, l’Iran e gli Stati Uniti, spesso divise dalla politica. Mirzakhani apparteneva a entrambe, entrambe l’hanno resa la donna che era». I media di Stato della Repubblica Islamica la piangono ritraendola con un foulard (photoshoppato), mentre le femministe ricordano che non portava l’hijab sui capelli cortissimi ed era sposata con un non musulmano. «Da piccola sognava di fare la scrittrice, ed è stata la fantasia a guidare il suo destino», permettendole di fare cose prima impensabili per una donna. «Non penso che tutti dovrebbero diventare matematici», ha detto, in una recente intervista. «Alle medie, andavo male in matematica. Se non ne sei entusiasta può sembrare una materia fredda. La bellezza della matematica si mostra solo ai più pazienti».«Si è spenta una luce. Un genio? Sì, ma anche una madre, una figlia e una moglie», è il saluto dell’amico Firouz Naderi, scienziato della Nasa. La vita di Maryam Mirzakhani scorre parallela a quella dell’Iran rivoluzionario: nata a Teheran nel 1977, completa le elementari alla fine della durissima guerra Iran-Iraq. Alle superiori, lei e la sua amica Roya furono le prime ragazze in Iran a partecipare alle Olimpiadi internazionali di matematica grazie all’aiuto della preside: così, nel 1994, la 17enne Maryam vinse la medaglia d’oro, racconta il “Corriere”. Dopo la laurea si trasferì a Harvard, completò il dottorato con una tesi sulla geometria delle superfici iperboliche, poi andò a insegnare a Princeton e quindi a Stanford. I suoi campi di studio includevano la teoria ergodica e la geometria simplettica, settori molto astratti della matematica pura. «Per concentrarsi amava scarabocchiare la stessa figura all’infinito, tanto che la figlia Anahita la credeva una pittrice». Aggiunge Viviana Mazza: «Mirzakhani si definiva una pensatrice lenta. Gravitava intorno ai problemi più profondi». Il marito Jan Vondrak, anche lui matematico, raccontava che una volta, da fidanzati, andarono a correre. «Io ero in forma, lei gracile. Così all’inizio io ero in testa. Ma un’ora dopo mi ero fermato. Lei invece continuava a correre, alla stessa velocità».Una carriera fulminante. «Galeotto fu il fratello più grande: aveva l’abitudine di raccontarle ciò che imparava a scuola, accendendole la curiosità per le materie scientifiche», scrive Rosita Rijtano su “Repubblica”. Il primo ricordo fatto di cifre? La storia di un bimbo tanto prodigioso quanto turbolento: Carl Friedrich Gauss, poi diventato il “principe dei matematici”. Per punizione, il maestro gli aveva chiesto di risolvere un problema: fare la somma di tutti i numeri da uno a cento. La storia narra che ci sia riuscito in pochi minuti, adottando una soluzione brillante, che ha “affascinato” la piccola Maryam. Ma cruciale, per le scelte del futuro, è stato l’ultimo anno di liceo: «Più tempo trascorrevo sulla matematica e più ne diventavo appassionata», ha raccontato Mirzakhani in un’intervista al “Guardian”. A soli 17 anni ha vinto la medaglia d’oro “olimpica” a Hong Kong, e da lì è stata una continua escalation. Dopo la laurea a Teheran, continua “Repubblica”, il dottorato ad Harvard con una tesi sui cammini chiusi sulle superfici in geometria iperbolica, considerata da molti colleghi “spettacolare”.Anche Rosita Rijtano sottolinea il carattere della Mirzakhani: «Amava definirsi una “pensatrice lenta”. Forse proprio questa sua qualità, di soffermarsi sulle questioni un po’ più a lungo, le ha permesso di concentrarsi su problemi che riguardano le strutture geometriche sulle superfici e il modo in cui si deformano». Viaggi nel mondo della matematica che descriveva come «lunghe escursioni, senza un sentiero tracciato né un traguardo visibile». La meccanica invisibile della materia, esplorata dalla matematica. Nel 2014, la medaglia Fields per “i suoi contributi alla dinamica e alla geometria delle superfici di Riemann e dei loro spazi di moduli”. Le è stata consegnata nella capitale della Corea del Sud, Seoul, durante il ventisettesimo Congresso internazionale dei matematici che si tiene ogni quattro anni. «Quel giorno Mirzakhani ha rotto un tabù, dato che il premio non era mai finito tra le mani di una donna da quando la medaglia è stata assegnata per la prima volta: nel lontano 1936». Il commento di Frances Kirwan, dell’università di Oxford, membro della giuria: «Spero che questo riconoscimento sia d’ispirazione per sempre più giovani ragazze».Prima di entrare a Harvard, ha raccontato in un’intervista, aveva studiato soprattutto topologia combinatoria e algebra. «L’analisi complessa mi era sempre piaciuta, ma non ne sapevo molto». Ha dovuto imparare molti argomenti che negli Stati Uniti uno studente universitario conosce già. «Ho cominciato frequentando il seminario informale organizzato da Curt McMullen, e la maggior parte del tempo non capivo una parola di quello che dicevano. Ero affascinata dal modo semplice ed elegante di parlare di McMullen, perciò ho cominciato a fargli tante domande, a ragionare, discutere». Le sue ricerche? «La maggior parte dei problemi su cui lavoro – ha spiegato – è collegata a strutture geometriche su superfici e le loro deformazioni. In particolare mi interessa studiare le superfici iperboliche. Soprattutto trovo affascinante poter guardare allo stesso problema da diversi punti di vista, e affrontarlo usando metodi differenti». L’aspetto più gratificante? «Il momento in cui provi l’eccitazione della scoperta, il piacere di capire qualcosa di nuovo, la sensazione di essere arrivati in cima a una montagna e avere la visuale sgombra. Ma la maggior parte del tempo per me fare matematica è come una lunga escursione senza sentiero tracciato e senza una destinazione visibile». Ancora: «Io sono una che pensa lentamente, e ho bisogno di tempo prima di fare passi avanti». Lentezza e flessibilità: in matematica «ognuno ha il suo stile, e una cosa che funziona per una certa persona magari non funziona così bene per altre».Un genio a bassa velocità, una “pensatrice lenta”. Maryam Mirzakhani era una delle scienziate più sbalorditive dei nostri tempi, famosa perché nel 2014 fu la prima donna nella storia a vincere la Fields Medal, l’equivalente del Nobel per la matematica, scrive Viviana Mazza sul “Corriere della Sera”. Quattro anni fa le era stato diagnosticato un cancro al seno. Si è spenta il 14 luglio in California, all’età di 40 anni. «La sua scomparsa – osserva il “Corriere” – unisce nel dolore due nazioni, l’Iran e gli Stati Uniti, spesso divise dalla politica. Mirzakhani apparteneva a entrambe, entrambe l’hanno resa la donna che era». I media di Stato della Repubblica Islamica la piangono ritraendola con un foulard (photoshoppato), mentre le femministe ricordano che non portava l’hijab sui capelli cortissimi ed era sposata con un non musulmano. «Da piccola sognava di fare la scrittrice, ed è stata la fantasia a guidare il suo destino», permettendole di fare cose prima impensabili per una donna. «Non penso che tutti dovrebbero diventare matematici», ha detto, in una recente intervista. «Alle medie, andavo male in matematica. Se non ne sei entusiasta può sembrare una materia fredda. La bellezza della matematica si mostra solo ai più pazienti».
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Schiavi comprati e venduti nella Libia “liberata” dagli Usa
La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».Il quotidiano inglese scrive che sebbene «la violenza, l’estorsione e il lavoro in schiavitù» siano stati già in passato una realtà per le persone che transitavano attraverso la Libia, recentemente il commercio degli schiavi è aumentato». E oggi «la compravendita di esseri umani come schiavi viene fatta apertamente, alla luce del sole», scrive Wedler, in un post ripreso da “Voci dall’Estero”. «Gli ultimi report sul ‘mercato degli schiavi’ a cui sono sottoposti i migranti si possono aggiungere alla lunga lista di atrocità che avvengono in Libia», afferma Mohammed Abdiker, capo delle operazioni di emergenza dell’Iom, International Office of Migration, un’organizzazione intergovernativa che promuove “migrazioni ordinate e più umane a beneficio di tutti“, secondo il suo stesso sito web. «La situazione è tragica. Più l’Iom si impegna in Libia, più ci rendiamo conto come questo paese sia una valle di lacrime per troppi migranti». Il paese nordafricano viene usato spesso come punto di uscita per i rifugiati che arrivano da altre parti del continente. Ma da quando Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, spiega Abdiker al “Guardian”, «il paese, che è ampio e poco densamente popolato, è piombato nel caos della violenza: e i migranti, che hanno poco denaro e di solito sono privi di documenti, sono particolarmente vulnerabili».Un sopravvissuto del Senegal, proveniente dal Niger, racconta che stava attraversando la Libia insieme a un gruppo di altri migranti, tutti in fuga dai paesi di origine. Avevano pagato un trafficante perché li trasportasse in autobus fino alla costa, dove avrebbero corso il rischio di imbarcarsi per l’Europa. Ma, anziché portarli sulla costa, il trafficante li ha condotti in un’area polverosa presso la cittadina libica di Sabha. Secondo quanto riportato da Livia Manente, la funzionaria dell’Iom che intervista i sopravvissuti, «il loro autista gli ha detto all’improvviso che gli intermediari non gli avevano passato i pagamenti dovuti e ha messo i passeggeri in vendita». Molti altri migranti hanno confermato questa storia, aggiunge la Manente: i profughi descrivono «i vari mercati degli schiavi, indipendenti l’uno dall’altro, e le diverse prigioni private che si trovano in tutta la Libia». Le stesse storie, aggiunge la funzionaria, sono confermate dai migranti che hanno trovato asilo nell’Italia del sud.Il sopravvissuto senegalese ha detto di essere stato portato in una prigione improvvisata che, come nota il “Guardian”, in Libia è cosa comune: «I detenuti all’interno sono costretti a lavorare senza paga, o in cambio di magre razioni di cibo, e i loro carcerieri telefonano regolarmente alle famiglie a casa chiedendo un riscatto. Il suo carceriere chiese 300.000 franchi Cfa (circa 450 euro), poi lo vendette a un’altra prigione più grossa dove la richiesta di riscatto raddoppiò senza spiegazioni». Quando i migranti sono detenuti troppo a lungo senza che il riscatto venga pagato, continua il “Guardian”, vengono portati via e uccisi. «Alcuni deperiscono per la scarsità delle razioni e le condizioni igieniche miserabili, muoiono di fame o di malattie, ma il loro numero complessivo non diminuisce mai», sottolinea il quotidiano britannico. «Se il numero di migranti scende perché qualcuno muore o viene riscattato, i rapitori vanno al mercato e ne comprano degli altri», dice ancora Livia Manente. Le fa eco Giuseppe Loprete, capo della missione Iom in Niger: «È assolutamente chiaro che loro si vedono trattati come schiavi», ha detto.Loprete ha gestito il rimpatrio di 1.500 migranti nei soli primi tre mesi dell’anno, e teme che molte altre storie e incidenti del genere emergeranno man mano che altri migranti torneranno dalle coste libiche: «Le condizioni stanno peggiorando, in Libia: penso che ci possiamo aspettare molti altri casi nei mesi a venire». Ora, conclude Wedler, mentre il governo degli Stati Uniti «sta insistendo nell’idea che un cambio di regime in Siria sia la soluzione giusta per risolvere le molte crisi di quel paese», è ormai sempre più evidente che la cacciata dei dittatori – per quanto detestabili possano essere – non è una soluzione efficace. «Rovesciare Saddam Hussein non ha portato solo alla morte di molti civili e alla radicalizzazione della società, ma anche all’ascesa dell’Isis», sottolinea l’analista. «Mentre la Libia, che un tempo era un modello di stabilità nella regione, continua a precipitare nel baratro in cui l’ha gettata “l’intervento umanitario” dell’Occidente». Un pozzo nero e senza fondo, nel quale «gli esseri umani vengono trascinati nel nuovo mercato della schiavitù, e gli stupri e i rapimenti affliggono la popolazione». Chi preme sulla guerra, conclude Wedler, deve sapere che non farà altro che produrre «ulteriori inimmaginabili sofferenze».La Libia “liberata” dagli Usa è diventata un colossale mercato degli schiavi. Lo dimostra un report di Carey Wedler su “Zero Hedge”, che accusa l’Occidente: le stesse menti criminali, che hanno ridotto il territorio libico a disgustoso “business di carne umana”, stanno cercando di fare la stessa cosa in Siria. «È ben noto che l’intervento Nato a guida Usa del 2011 in Libia, con lo scopo di rovesciare Muhammar Gheddafi, ha portato ad un vuoto di potere che ha permesso a gruppi terroristici come l’Isis di prendere piede nel paese», premette Wedler. «Nonostante le conseguenze devastanti dell’invasione del 2011, l’Occidente è oggi lanciato sulla stessa traiettoria nei riguardi della Siria». Ieri Obama ha stroncato Gheddafi con la scusa di “proteggere il popolo libico”, e oggi – senza uno straccio di prova sulle responsabilità di Assad nell’attacco coi gas – Trump minaccia di abbattere il regime di Damasco. Ma, al netto della propaganda, «emergono sempre più chiaramente i pericoli connessi all’invasione di un paese straniero e alla rimozione dei suoi leader politici». Lo conferma il “Guardian”, con «nuove rivelazioni sugli effetti collaterali degli “interventi umanitari”: la crescita del mercato degli schiavi».
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Caso Regeni, colpire l’Italia: l’Eni, ma anche Hacking Team
«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.Il nome quell’azienda rimbalza spesso sulla stampa in quei giorni bollenti, a fianco dell’Eni, ricorda Dezzani nel suo blog: si tratta di Hacking Team, una piccola società informatica milanese. «Tra i clienti di Hacking Team c’era anche l’Egitto», scrive il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2016. «Amnesty: basta con l’hacking di Stato, denunciamolo», attacca a ruota la “Repubblica” citando la società. «L’ombra di Hacking Team sull’omicidio Regeni», insiste “La Stampa”. All’interno di quest’ultimo articolo, si legge: «Le tensioni con l’Egitto per l’uccisione di Giulio Regeni hanno lambito anche Hacking Team, l’azienda italiana che vende software di intrusione e sorveglianza a numerosi governi. Il 31 marzo infatti il ministero dello sviluppo economico (Mise) ha revocato con decorrenza immediata l’autorizzazione globale per l’esportazione che era stata concessa alla società milanese, dallo stesso Mise, circa un anno fa». La ragione del ripensamento? «Lo scontro (per alcuni troppo debole da parte italiana) tra il nostro paese e l’Egitto sul caso Regeni». L’Egitto sarebbe stato infatti un cliente di Hacking Team.Software di intrusione e sorveglianza, blocco con decorrenza immediata dell’autorizzazione ad esportare, contesto geopolitico difficile, contatti con l’Egitto nazionalista di Al-Sisi, misteriosi attacchi informatici che riversano in rete la lista dei clienti della società? «Si direbbe che questo piccolo produttore italiano di software, pur fatturando solo 40 milioni di euro rispetto ai 70 miliardi dell’Eni, non sia finito accidentalmente nella bufera Regeni», scrive Federico Dezzani. Secondo l’analista, «gli stessi attori coinvolti nell’operazione per danneggiare i rapporti italo-egiziani», tra i quali Dezzani include «il gruppo “L’Espresso”, Amnesty International, Human Rights Watch», cioè le Ong «dietro cui si nascondono le diplomazie e i servizi segreti angloamericani», avrebbero «sfruttato la morte del giovane friulano per colpire anche una piccola ma scomoda realtà economica». Ma di cosa si occupa esattamente l’Hacking Team? E perché è finita nel mirino dell’establishment atlantico?Nata nel 2003, ricorda Dezzani, l’Hacking Team produce programmi per sorvegliare telefoni e computer, con una peculiarità che la rende pressoché unica a livello mondiale: anziché decifrare i dati criptati, li legge direttamente “in chiaro” sul supporto fisico, introducendo virus sugli apparecchi elettronici. «Partecipata anche dalla Regione Lombardia, l’Hacking Team non è però un nido di pirati informatici: tra i suoi clienti figurano soltanto governi e forze di sicurezza, anche di un certo calibro, se si considera che si annovera anche il Federal Bureau of Investigation». Essendo così ben introdotta negli apparati di sicurezza Nato, l’Hacking Team avrebbe dovuto dormire sonni tranquilli: la situazione, invece, si deteriora mese dopo mese a partire dal 2014, sino a culminare con l’accusa di essere complice del sequestro e l’uccisione di Regeni, con conseguente revoca dell’autorizzazione ad esportare. «Se la società milanese fosse stata “sensibile” agli inequivocabili messaggi che le erano lanciati, avrebbe dovuto da tempo capire di essere finita nei radar dei servizi angloamericani (gli stessi dell’“operazione Regeni”) e avrebbe dovuto notare come l’umore nei suoi confronti stesse velocemente cambiando».Siamo infatti nel febbraio 2014 quando Citizen Lab, un laboratorio interdisciplinare dell’università di Toronto specializzato in sicurezza delle telecomunicazioni e difesa dei diritti umani, accusa la società italiana di aver venduto un sofisticato sistema di monitoraggio di pc e telefoni a decine di paesi. Stati americani (Colombia, Panama e Messico), europei (Ungheria e Polonia), asiatici (Malesia, Thailandia, Corea del Sud). Ma anche a governi “autoritari” come quelli di Azerbaijan, Etiopia, Sudan Kazakhstan, Uzbekistan, Sudan. Nella lista figurano anche paesi “amici” ma non certo democratici come Marocco, Nigeria, Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti. Più la Turchia, imbarazzante “democratura” Nato, e lo stesso Egitto. «Che uso fanno, questi paesi di dubbia democraticità, dei programmi acquistati?», si domanda il Citizen Lab. Ovvio: li usano per sorvegliare «attivisti e difensori dei diritti umani», ossia lo stesso humus dove sono state coltivate le “rivoluzioni colorate” che hanno sconquassato il Medio Oriente nel 2011. Sono, per inciso, gli stessi ambienti “studiati” anche dai docenti di Cambridge del defunto Giulio Regeni.A distanza di un mese, continua Dezzani, nel marzo 2014 il rapporto canadese è prontamente ripreso da Privacy International, un’organizzazione non governativa inglese ruotante nell’orbita della London School of Economics. Privacy International prende carta e penna e scrive al Parlamento italiano: non solo, dicono gli inglesi, l’Hacking Team viola i diritti umani, ma riceve addirittura fondi pubblici dalla Regione Lombardia. Che lo Stato italiano intervenga subito, per «indagare e prendere provvedimenti per garantire che la sua attività invasiva e offensiva non sia esportata dall’Italia e utilizzata in violazione dei diritti umani». Già in questa fase, come accadrà due anni dopo col caso Regeni, entra in campo il gruppo “L’Espresso”: «Privacy International chiede chiarimenti al governo sull’attività di Hacking Team, una delle più importanti organizzazioni internazionali per la difesa della privacy chiama in causa il governo italiano». Per Dezzani, «è quasi una prova generale dell’attacco che, di lì a due anni, sarà sferrato contro la società milanese, arrivando a revocarle l’autorizzazione ad esportare, sull’onda dell’omicidio Regeni».Ma perché l’Hacking Team, un tempo cliente persino dell’Fbi, è diventata improvvisamente d’intralcio ai servizi angloamericani? Risposta: «E’ una società italiana, e il nostro paese non fa parte della ristretta cricca di spioni anglofoni nota come “Five Eyes”». L’Hacking Team è quindi “un’arma tecnologica” che per gli angloamericani sarebbe meglio inglobare o neutralizzare. Tanto più che «opera in un lucroso mercato dove esistono pochi altri concorrenti (inglesi, americani e israeliani)». E la storia dell’Olivetti, osserva Dezzani, «insegna che le eccellenze tecnologiche in un paese a sovranità limitata, come l’Italia, sono spesso uccise in fasce». Infine, i suoi programmi per la sorveglianza delle telecomunicazioni venduti a “governi autoritari” (Turchia, Nigeria, Uzbekistan, Kazakhstan, Egitto e Malesia) e impiegati per monitorare “dissidenti e attivisti”, di fatto «ostacolano le solite “rivoluzioni colorate” fomentate da George Soros, Mi6 e Cia». Nel 2015, l’assedio attorno ad Hacking Team si stringe: «Nel mese di luglio un attacco informatico in grande stile scardina le difese della società milanese e, svuotatone gli archivi, riversa su Wikileaks (la piattaforma usata dai diversi servizi segreti per lanciarsi fango a vicenda) 400 Gb di dati: clienti, fatture, email», racconta Dezzani.«Wikileaks pubblica un milione di email aziendali rubate ad Hacking Team», scrive “Repubblica”, evidenziando le zone grigie dell’azienda, mentre la stampa inglese attacca ancora più pesantemente: «I documenti – scrive il “Guardian” – dimostrano che l’azienda ha venduto strumenti di spionaggio a regimi repressivi». Il battage della stampa insiste, infatti, sulla natura “autoritaria e repressiva” dei clienti della società milanese: Azerbaijan, Kazakhstan, Uzbekistan, Russia, Bahrein, Arabia Saudita «ed altri “regimi” che gli angloamericani rovescerebbero con piacere». Del caso si occupa anche il “Fatto Quotidiano”, che nell’aprile 2016 titola: «Hacking Team, revocata l’autorizzazione globale all’export del software spia: stop anche per l’Egitto dopo il caso Regeni». Al che, la società milanese vacilla. E per alcune settimane sembra che debba chiudere i battenti: poi, passata la tempesta mediatica, riprende la normale attività. «L’operazione con cui è ucciso Giulio Regeni ha, senza dubbio, come principali obbiettivi l’Eni e la politica estera tra Egitto e Libia, ma il fatto che anche l’Hacking Team fosse un fornitore del Cairo è prontamente sfruttato per revocare alla società l’autorizzazione ad esportare, così da chiuderle i mercati di sbocco, come auspicato da Londra e Washington», sintetizza Dezzani.«Quella dell’Hacking Team è l’ennesima prova avuta in questi dodici mesi che l’omicidio Regeni non è la storia di un brutale interrogatorio della polizia finito in tragedia, ma un vero e proprio attacco all’Italia e al sistema-paese, condotto con efficienza americana e puntualità inglese». Federico Dezzani, analista geopolitico, mette a fuoco la singolare “sincronicità” fra l’atroce morte del giovane Giulio Regeni e l’ostracismo “atlantico” scattato contro un’assoluta eccellenza italiana, la società Hacking Team, partecipata della Regione Lombardia e un tempo fornitrice anche dell’Fbi. «Nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni – ricorda Dezzani – il fuoco mediatico è diretto contro il “regime egiziano”, il “dittatore Al-Sisi” e i rapporti italo-egiziani, da interrompere tassativamente finché il Cairo non fornirà “la verità” sul caso». Per Dezzani, il povero Regeni (reclutato dall’università di Cambridge in una struttura contigua all’intelligence britannica) fu ucciso su ordine di Londra per sabotare l’asse strategico Roma-Cairo, dopo la scoperta da parte dell’Eni del più grande giacimento mediterraneo di gas nel mare egiziano. Ma, a quanto pare, nell’affare-Regeni andrebbe aggiunta anche l’azienda tecnologica milanese, colpita anch’essa per punire l’Italia.
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E’ l’ultimo giovane maschio del villaggio, arriverà anche lui
Il sito del “Guardian” riporta una delle grandi interviste della storia. È con Goundo Wandianga, l’ultimo giovane maschio rimasto in un tipico villaggio del Senegal, seduto su un copertone, perfetto simbolo del grande agitarsi del mondo che finisce in discarica. Indossa jeans con regolamentare buco ad altezza ginocchio e maglietta, sullo sfondo alcune capanne di argilla e paglia. Tutti gli altri sono partiti, “Barça ou Barzakh”, “Barcellona o Morte”, rischiando la vita per mari e deserti, per poter arrivare in Europa. Paradossalmente, si spende di più per pagare i viaggi dei figli in Europa, di quanto ritorni nei villaggi sotto forme di rimesse (pensiamo alle dimensioni economiche dell’industria delle migrazioni). Spiega il responsabile regionale di quello che si chiama pittorescamente lo sviluppo: «Nei villaggi, restano solo gli anziani, le donne e i bambini. Non ci sono giovani, perché non c’è nulla che li trattenga. Non c’è nulla che un giovane maschio possa fare, nemmeno per comprarsi una tazza di tè o una sigaretta. E non c’è una famiglia che voglia che i suoi figli rimangano».Non c’è nulla che si possa fare, per due motivi. Il primo è che i prezzi delle derrate alimentari sono così bassi, che l’agricoltura non può più dare un reddito; il secondo è che il degrado del suolo e la siccità legata al cambiamento climatico la renderebbero comunque impraticabile. Da una parte, la Roba che trabocca non si limita ai vestiti di plastica, ma invade tutto l’immenso campo dell’agricoltura industriale, che nel Senegal ha trovato storicamente una delle sue più grandi e criminali fabbriche (rileggere “Voyage au bout de la nuit”). Dall’altra, proprio questo meccanismo dell’apparente abbondanza mina la sopravvivenza della vita stessa. Ora, il Senegal è uno dei paesi più stabili dell’Africa. Se capiamo perché persino lì, tutti i giovani maschi se ne vanno, capiremo perché il “Terzo Mondo” rischia di fare la fine dei villaggi di montagna dell’Italia: il Molise oggi ha meno abitanti di quanti ne avesse nel 1861. Solo che i nostri villaggi di montagna si sono svuotati con un futuro immaginario davanti: tutto il continente delle Americhe da saccheggiare, o almeno una civiltà industriale da creare in pianura.Per capire quello che attende i giovani maschi di oggi, faccio un giro mentale tra i nostri senegalesi. Eccoveli… C’è il posteggiatore abusivo di una certa età (l’altro giorno aveva steso un cartone tra le auto per pregare). C’è Magoro che vende fazzolettini davanti al supermercatino e Bakari che li vende davanti al fornaio (Bakari fa anche da meteorologo predicendo alle signore se domani pioverà o no). C’è Fatouma, che lavora saltuariamente facendo le pulizie nelle case, suo marito è disoccupato più o meno da sempre e si cerca tutti di dare una mano al loro figlio. C’è Ali, che mentre scappava dai vigili con le borse Gucci contraffatte sottobraccio ha conosciuto una ragazza italiana, e adesso hanno un figlio. Ali ora fa il meccanico in una piccola officina. Ah, e c’è anche un senegalese che ha avuto un po’ di successo, prima mondano e poi mediatico, facendo il Negro Immagine in un locale notturno dove spacciava cocaina e finendo per ammazzare una ragazza americana in un integrato impeto di movida fiorentina. L’elenco è significativo.Tolto l’ultimo personaggio, si tratta decisamente di brava gente, che non ha problemi con gli autoctoni. Anzi, contribuiscono a salvaguardare il carattere popolare del rione. Ma con un’eccezione, campano di espedienti di dubbia legalità (che poi dipendono tutti esclusivamente da un sistema basato sui contanti che ovunque si cercano di far scomparire). E non brilla nemmeno la stella dei meccanici artigiani, a pensarci. Noi tendiamo a pensare a queste cose in maniera episodica. Pensiamo che ci sia una guerra localizzata nella Siria che secondo i punti di vista genera bambini in fuga oppure terribili Terroristi Islamici (che poi hanno fatto appena 17 azioni in un anno in un continente delle dimensioni dell’Europa). Oppure pensiamo che ci sia qualche altro fatto qua e là che porta alcuni a cercare di venire in Europa, e anche lì i pareri si dividono moralisticamente tra chi li vede come delinquenti invasori e chi li vede come futuri imprenditori che già da oggi ci aiutano a pagare le pensioni. Eppure il vero quadro ha poco di moralistico. C’è un pianeta che è stato unificato al prezzo della sua devastazione. La maggior parte degli abitanti di quel pianeta si appresta ad andarsene da luoghi ormai invivibili, per concentrarsi in pochi luoghi urbani: alcune megalopoli asiatiche e la megalopoli sconfinata del cosiddetto “Occidente”. Questo però avviene quando, per la prima volta nella storia, le braccia umane non servono quasi più e non è rimasto un angolo libero del pianeta da sfruttare.(Miguel Martinez, “L’ultimo giovane maschio del villaggio”, da “Kelebek Blog” dell’11 gennaio 2107, ripreso da “Megachip”).Il sito del “Guardian” riporta una delle grandi interviste della storia. È con Goundo Wandianga, l’ultimo giovane maschio rimasto in un tipico villaggio del Senegal, seduto su un copertone, perfetto simbolo del grande agitarsi del mondo che finisce in discarica. Indossa jeans con regolamentare buco ad altezza ginocchio e maglietta, sullo sfondo alcune capanne di argilla e paglia. Tutti gli altri sono partiti, “Barça ou Barzakh”, “Barcellona o Morte”, rischiando la vita per mari e deserti, per poter arrivare in Europa. Paradossalmente, si spende di più per pagare i viaggi dei figli in Europa, di quanto ritorni nei villaggi sotto forme di rimesse (pensiamo alle dimensioni economiche dell’industria delle migrazioni). Spiega il responsabile regionale di quello che si chiama pittorescamente lo sviluppo: «Nei villaggi, restano solo gli anziani, le donne e i bambini. Non ci sono giovani, perché non c’è nulla che li trattenga. Non c’è nulla che un giovane maschio possa fare, nemmeno per comprarsi una tazza di tè o una sigaretta. E non c’è una famiglia che voglia che i suoi figli rimangano».