Archivio del Tag ‘terzo mondo’
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Io borghese di merda e tutti noi scarafaggi da schiacciare
«Ma tu non eri di sinistra?», mi chiedeva con preoccupazione un mio follower twittarolo stamattina. Il fatto è, caro, che prima di tutto io sono una borghese di merda, e proprio per questo a vent’anni ero comunista. Non c’è da stupirsene perché sono i borghesi che scelgono la bandiera rossa senza averne la necessità. Marx, Lenin, Trockij, Che Guevara, Fidel Castro, erano tutti borghesi, perché è la borghesia che, quando l’élite esagera, che si tratti di incipriati aristocratici e pretacci o di latifondisti, capitalisti e padroni delle ferriere, fa le rivoluzioni. Sono stata di sinistra per un lungo tempo, prima che saltassero tutte le regole su chi dovesse stare dalla parte del popolo e chi invece doveva vendersi al Capitale. Perché qualcosa è successo, darling. Più o meno attorno al Sessantotto. E’ stato un processo lungo e difficile da allora, ma sta giungendo a compimento. La più grande operazione di pulizia sociale della storia. La fine della lotta di classe con la proclamazione del Capitale come vincitore. With a little help from his friends.Ti spiego il mio percorso. Sono una borghese, dicevo, e la mia è la classe media che, ad un certo punto, nel secolo scorso, è riuscita storicamente ad inglobare emancipandola anche tanta parte della classe operaia. Merito delle lotte dei borghesi dalla coscienza infelice di cui sopra, condotte assieme agli operai, certo, ma anche di un capitalismo che pensava che estendere la ricchezza a fasce più ampie della popolazione, facendo diventare i proletari classe media, significava più merci vendute, più profitti e più benessere per tutti. Il famigerato moltiplicatore. Ma già, Henry Ford era un nazifascista anche se pensava che aumentando il salario ai suoi operai questi avrebbero potuto comperare il modello T che fabbricavano. Quello della mia gioventù sembra un mondo perduto ed estinto; una meraviglia, sai, in confronto a quello di oggi. E sono sicura che te ne ricordi, perché non sei di primo pelo neppure tu.Uno stipendio in famiglia bastava a condurre una vita più che dignitosa dove non ti mancava nulla di veramente necessario. Esisteva ancora il concetto di superfluo e per quello c’era il «no, non ce lo possiamo permettere». Quel no ti aiutava a crescere e a capire che, una volta grande, te lo saresti guadagnato con il tuo lavoro, perché il lavoro ci sarebbe stato, secondo quello che avevi studiato e imparato a fare. Perfino con uno stipendio solo, con i risparmi (allora si riusciva a mettere da parte qualcosa ogni mese), la famiglia riusciva a comperarsi la casa dove viveva e, se lavoravano tutti e due i genitori, ci si comperava magari un’altra casa, al mare o in campagna o in montagna. Perché allora esistevano ancora le ferie e le vacanze non duravano meno di venti giorni. Per le malattie c’era il welfare, ad una certa età arrivavano la pensione e la liquidazione con la quale ti potevi togliere qualche sfizio in più o farti la casetta di cui sopra, perché i nonni non erano costretti a mantenere nipoti disoccupati.Erano i tempi in cui l’Italia stava diventando, pur tra corruzione, mafia e caste, e sottoposta a sovranità limitata come paese sconfitto, la quinta potenza industriale del mondo. Non erano tutte rose e fiori? Certo, c’erano come sempre i poveri e lo sfruttamento, il mondo era diviso in classi. C’erano la crisi petrolifera, il terrorismo di Stato, le bombe, le guerre imperialiste. Poi arrivò la shock economy, prima dal Sudamerica (però così lontano da noi) e poi nel mondo anglosassone, con i primi vagiti del dominio finanziario sulle nostre vite; ma la speranza di un futuro migliore non mancava, nessuno pensava che, pur lavorando da rompersi la schiena, da vecchio sarebbe stato povero e abbandonato perché gli avrebbero portato via tutto. Non avevamo nulla da perdere, casomai ci sarebbe stato ancora qualcosa da ottenere. Il muro nero della depressione, dell’assenza di un futuro o dell’angoscia data dal pensiero di che cosa sarà il nostro futuro in balia della povertà non esisteva e nessuno sarebbe stato in grado di immaginarlo, a meno che non fosse vissuto al di là di qualche Cortina di Ferro.Soprattutto, nessuno si sarebbe mai immaginato che il benessere ottenuto in base alle lotte sindacali, nato dal sangue degli operai e di quei borghesi empatici e simboleggiato in maniera sacra dalla democrazia, dato ormai per acquisito perché certificato nella Costituzione, sarebbe stato possibile toglierlo al popolo per consegnarlo ad un’élite intenzionata a redistribuire la ricchezza esistente verso l’alto, accaparrandosela tutta e creando un mondo dove l’1% ha tutto e il 99% quasi nulla, senza più democrazia. Un mondo nuovo ma tremendamente simile al Medioevo che, per essere realizzato, ormai lo sappiamo, nei trent’anni previsti per il suo compimento non potrà che finire con l’eliminazione fisica della classe media, magari sostituita da carne da macello proveniente dal terzo mondo, da impiegare per la pulitura dei cessi dove andranno a sedersi i culi imperiali.Credo che, se qualcuno allora, negli anni sessanta-settanta, avesse visto un’anteprima del futuro, ovvero dei giorni nostri, lo avrebbe considerato il peggiore incubo mai vissuto e nessuno avrebbe potuto immaginare che coloro che si sarebbero offerti spontaneamente per farlo avverare sarebbero stati i partiti di sinistra, quelli più tradizionalmente (allora) vicini al popolo. Eccoci, caro, al perché io non sono più comunista, non sono più di sinistra, anzi non sono niente, sono solo una borghese di merda ma molto, molto incazzata. Sono incazzata e mi difenderò fino all’ultimo perché vogliono farmi fuori. Vogliono portarmi via ciò che la mia famiglia mi ha lasciato, affinché, assieme a ciò che mi guadagno con il mio lavoro, potessi avere una vecchiaia serena senza dover dipendere da nessuno. Penso a me stessa, certo. Gli altri hanno smesso di pensare a me.Ti pare impossibile che l’orrendo scenario che ti ho descritto possa realizzarsi? Cosa ti stanno ripetendo giorno e notte, tutti i giorni e a tutte le ore, caro amico? Che quel mondo che ti ho descritto e che abbiamo vissuto, che ci ha permesso di crescere ed arrivare fin qui dobbiamo scordarcelo perché NON POSSIAMO PIU’ PERMETTERCELO. E, di grazia, ti stai chiedendo il PERCHE’? Perché le risorse mondiali sono limitate? Per quello basterebbe uno sviluppo più responsabile. Basterebbe quella cosa che si chiama progresso e che nasce dall’ingegno di persone molto creative in ogni epoca e che in poco più di cento anni ci hanno dato l’elettricità, la mobilità di persone e merci e la comunicazione. Progresso che serve da sempre a migliorare la vita delle persone e a renderla più facile. Basterebbe tendere a realizzare uno di quei mondi futuribili ideali che nessun romanzo di fantascienza ha più il coraggio di immaginare.Il nostro benessere non possiamo più permettercelo perché ciò che abbiamo lo vuole qualcun altro, e non sono certo coloro che non hanno nulla ma quelli che hanno già tutto. Vedi, in fondo, da borghese di merda, con queste parole sto pensando anche a te, sto cercando di avvertirti del pericolo, anche se non meriteresti affatto di essere salvato. Non sono direttamente le élite che ti annunciano la fine del tuo diritto al benessere perché un domani conterà solo il loro, perché la scusa delle risorse limitate è un’occasione ghiotta per fare un po’ di pulizia sociale e vincere la Lotta di Classe. Te lo fanno dire dai loro servi. Quelli che si sentono superiori perché non sono razzisti ma democratici, a favore delle minoranze, antifascisti, ammiratori dell’Europa e della serietà teutonica, progressisti, internazionalisti, contro tutte le diversità perché devoti all’OMOLOGAZIONE. Che si sentono importanti perché con il 99% possono masturbarsi sulle grandi cifre e non si accorgono che la loro maggioranza è destinata a diventare il Soylent Green. Sono quelli che ogni mattina ringraziano non si sa chi per non essersi svegliati trasformati in scarafaggi piccoloborghesi.Quando tutto iniziò, con i primi attacchi ai diritti sociali acquisiti e l’avvento della dittatura del mercato, avrebbero dovuto riconoscere subito il progetto reazionario e revanchista dell’élite. Certo avrebbero dovuto difendere il benessere generale, le conquiste ottenute fino a quel momento e la democrazia, distinguendo tra capitalismo accettabile e capitalismo disumano, alleandosi con quella borghesia di merda che però sa fare le rivoluzioni e che un minimo di riconoscenza se la meriterebbe. Invece, pur di non rinnegare la lotta antiborghese di principio, hanno ascoltato le sirene della globalizzazione travestita da internazionalismo ed hanno scelto l’omologazione nel concime, il “semo tutti uguali” come materia organica anfibia, per potere essere ancora più merda della borghesia e in fondo distinguersi. Perché in fondo sono dei neoaristocratici pure loro. Si sono alleati con il Capitale contro il resto del mondo e di fatto contro loro stessi. Perché credono di appartenere ad un corpo speciale e privilegiato per essersi guadagnati con il tradimento l’onore di poter dare il colpo di grazia all’odiata borghesia (rinnegando Marx, Lenin e gli altri che ho nominato) ma sono anche loro feccia destinata a soccombere. Li tengono per ultimi per compostarli meglio. Concimeranno con onore i giardini degli ingiusti di Elysium.(Barbara Tampieri, “Io sono una borghese di merda”, da “Il blog di Lameduck” del 29 maggio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte).«Ma tu non eri di sinistra?», mi chiedeva con preoccupazione un mio follower twittarolo stamattina. Il fatto è, caro, che prima di tutto io sono una borghese di merda, e proprio per questo a vent’anni ero comunista. Non c’è da stupirsene perché sono i borghesi che scelgono la bandiera rossa senza averne la necessità. Marx, Lenin, Trockij, Che Guevara, Fidel Castro, erano tutti borghesi, perché è la borghesia che, quando l’élite esagera, che si tratti di incipriati aristocratici e pretacci o di latifondisti, capitalisti e padroni delle ferriere, fa le rivoluzioni. Sono stata di sinistra per un lungo tempo, prima che saltassero tutte le regole su chi dovesse stare dalla parte del popolo e chi invece doveva vendersi al Capitale. Perché qualcosa è successo, darling. Più o meno attorno al Sessantotto. E’ stato un processo lungo e difficile da allora, ma sta giungendo a compimento. La più grande operazione di pulizia sociale della storia. La fine della lotta di classe con la proclamazione del Capitale come vincitore. With a little help from his friends.
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Tanaticismo: questo regime produce morte. E ci odia
Non so perché continuiamo a chiamarlo capitalismo. È come se ci trovassimo di fronte a una sorta di fallimento o di blocco della funzione poetica del pensiero critico. Anche i suoi adepti non hanno problemi a non chiamarlo più capitalismo. I suoi critici, invece, sembrano essersi ridotti ad aggiungere degli aggettivi: postfordista, neoliberale, oppure il quanto mai ottimista e seducente “tardo” capitalismo. Un termine agrodolce, dal momento che il capitalismo sembra destinato a seppellirci tutti. Mi sono svegliato da un sogno con in testa l’idea che avrebbe più senso chiamare il capitalismo “tanaticismo” – da Thanatos, figlio di Nyx (notte) e Erbos (oscurità), gemello di Hypnos (sonno), come Omero ed Esiodo sembrano più o meno concordare. Ho provato con “tanatismo” su Twitter, e Jennifer Mills mi ha risposto: «Sì, ma penso che siamo di fronte a qualcosa di più entusiasticamente suicida. Tanaticismo?».Questa parola mi sembra pertinente. Tanaticismo, come fanati[ci]smo: una gioiosa ed entusiasta voglia di morire. L’assonanza con “thatcherismo” è di aiuto. Tanaticismo: un ordine sociale che subordina la produzione di valori d’uso ai valori di scambio, a tal punto che la produzione di valori di scambio minaccia di estinguere le condizioni di esistenza dei valori d’uso. Come definizione approssimativa potrebbe funzionare. Bill McKibben ha suggerito che gli esperti di clima dovrebbero andare in sciopero. Il Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico ha fatto recentemente uscire il suo report per il 2013. Il documento più o meno ricalca quello del 2012, ma con maggiori prove, maggiori dettagli e con peggiori previsioni. Tuttavia non sembra accadere nulla che possa fermare il tanaticismo. Perché fare uscire un altro report? Non è la scienza che ha fallito, ma la scienza politica. O forse l’economia politica.Nella stessa settimana, Bp ha fatto presente la sua intenzione di dare fondo alle riserve di carbone di cui detiene i diritti. Gran parte del valore di questa azienda, dopotutto, consiste nel valore di quei diritti. Non estrarre, succhiare o fratturare il carbone per ottenere benzina sarebbe un suicidio per l’azienda. Tuttavia trasformare il carbone in benzina per poi bruciarla, rilasciando il carbone nell’aria, mette seriamente a rischio il clima. Ma questo non conta nulla nella produzione di valori di scambio. Il valore di scambio srotola la sua logica intrinseca sino alla fine: l’estinzione di massa. La coda (il capitale) fa scodinzolare il cane (la Terra). Forse non è un caso che la privatizzazione dello spazio fa capolino all’orizzonte come opportunità di investimento proprio in questo momento in cui la Terra è un cane sotto il controllo del capitale.I nostri governanti stanno coscientemente contribuendo all’esaurimento della Terra. È per questo che stanno sognando di costruire degli hotel nello spazio. Non vogliono essere toccati dall’esaurimento della Terra e vogliamo continuare a sviluppare grandi progetti. In questo quadro è ovvio che agenzie come la Nsa spiino chiunque. I governanti sono coscienti di essere i nemici dell’intera specie a cui apparteniamo. Sono i traditori della nostra specie. Per questo vivono nel panico e nella paranoia. Immaginano che siamo tutti là fuori pronti a catturarli. Quindi lo Stato diventa un agente di sorveglianza collettiva e una forza armata in difesa della proprietà. Il ruolo dello Stato non è più quello di amministrare il biopotere. Lo Stato è sempre meno interessato al benessere delle popolazioni. La vita è una minaccia per il capitale ed è trattata come tale.Il ruolo dello Stato non è di amministrare il biopotere ma di amministrare il tanatopotere. Chi sono i primi a cui va negato il sostegno alla vita? Quali popolazioni dovrebbero marcire e scomparire per prime? Innanzitutto quelle che non possono essere usate come forza lavoro o come consumatori, e che hanno smesso di essere fisicamente e mentalmente adatte per servire nell’esercito. Molte di quelle popolazioni non hanno più il diritto di voto. A breve perderanno il diritto ad avere i buoni pasto e altre forme di supporto biopolitico. Solo chi vorrà e saprà difendersi dalla morte avrà il diritto alla vita. Questo per quanto riguarda il mondo sovra-sviluppato. Mentre nel resto del mondo centinaia di milioni di persone vivono attualmente in condizioni di pericolo dovute all’innalzamento del livello dei mari, alla desertificazione e ad altre gravi fratture metaboliche fra società e ambiente. Tutti lo sappiamo: quelle popolazioni sono trattate come dispensabili.Tutti sappiamo che le cose non possono continuare ad andare avanti così come sono. È semplicemente ovvio. A nessuno, però, piace pensarlo. Tutti amiamo le nostre distrazioni. Tutti ci facciamo adescare dal fascino del clic. Ma davvero: lo sappiamo tutti. E tuttavia c’è chi trae vantaggi dal mettersi a servizio della morte. Ogni accenno di scusa in favore del tanaticismo viene riempito da cascate di elogi. Da tempo non possiamo più contare sulla figura dell’intellettuale pubblico; siamo però pieni di pubblici idioti. Chiunque abbia una storia da raccontare o un’idea su come “cambiare le cose” può avere un po’ di attenzione mediatica, nella misura in cui riesce a distogliere l’attenzione dal tanaticismo – o meglio, a giustificarlo. Perfino il migliore dei pubblici idioti di quest’epoca, alla fine, si rivela per ciò che è, ossia un venditore di auto usate. Non è certo un gran periodo per le arti retoriche.È chiaro che l’università, per come la conosciamo, sparirà. Le scienze naturali, le scienze sociali e le discipline umanistiche, ciascuna nei propri modi, lottavano per accrescere i nostri saperi. Ma è molto difficile, a prescindere dalla disciplina, evitare di approdare alla conclusione che il regime oggi vigente sia il tanaticismo. Tutto ciò che le discipline tradizionali possono fare è focalizzarsi su qualche piccolo problema assai circoscritto, su qualche dettaglio, al fine di evitare il quadro generale. E questo non è più sufficiente. Tuttavia, quelle forme di produzione di conoscenza che si concentrano su questioni minori o sussidiarie sono ancora pericolose. Esse stanno iniziando a scoprire ovunque tracce di tanaticismo all’opera. Di conseguenza, l’università deve essere distrutta. Al suo posto, un’apoteosi di ogni forma di non-conoscenza.Stanno già emergendo tante nuove discipline, come le discipline inumane o le scienze antisociali: i loro oggetti di indagine non sono i problemi dell’umanità o delle società. Il loro oggetto è il tanaticismo: la sua descrizione, la sua giustificazione. È necessario identificarsi con (e celebrare) tutto ciò che si oppone alla vita. Un insieme di credenze così poco plausibile e disfunzionale necessita, per imporsi, di cancellare qualunque rivale. Tutto ciò è deprimente. Ma la depressione, d’altronde, è sussidiaria al tanaticismo. È previsto che tu sia depresso, ed è previsto che tu ritenga di esserlo per via di un tuo problema o di una tua carenza individuale. Il tuo brillante e illusorio mondo fantastico cade di colpo in mille pezzi, ed ecco che ti appare la nuda realtà tanatica – e tu pensi che sia per colpa tua. È colpa tua perché hai smesso di crederci. Vai da uno strizzacervelli. Prendi un po’ di psicofarmaci. Oppure fatti un po’ di shopping-terapia.Il tanaticismo cerca anche di assimilare coloro i quali sollevano dubbi su questo modo di governare, ma lo fanno attraverso una cosmesi della loro critica. Esso li trasforma in nuove iterazioni di produzione tanatica. «Comprati una macchina ecologica!», «Fa’ la raccolta differenziata! No, cazzo, falla bene! Separa quella merda!». Ancora una volta, come nel caso della depressione, tutto si riduce alle tue virtù e alla tua responsabilità personale. È colpa tua se il tanaticismo vuole distruggere il mondo. È colpa tua perché sei tu che consumi, ma d’altronde non hai scelta. «Anche le nostre civilizzazioni sanno di essere mortali», scrisse Paul Valéry nel 1919. In quegli anni, dopo la più feroce e inutile tra le guerre mai verificatesi, una considerazione del genere appariva in tutta la sua chiarezza. Ma noi abbiamo perso quella chiarezza. Quindi faccio una modesta proposta. Chiamiamo almeno le cose con il loro nome. Questa è l’era del tanaticismo: il modo di produzione della non-vita. Svegliatemi quando sarà finito.(McKenzie Wark, “Nascita del Tanaticismo”, da “Lavoro culturale” del 23 aprile 2014).Non so perché continuiamo a chiamarlo capitalismo. È come se ci trovassimo di fronte a una sorta di fallimento o di blocco della funzione poetica del pensiero critico. Anche i suoi adepti non hanno problemi a non chiamarlo più capitalismo. I suoi critici, invece, sembrano essersi ridotti ad aggiungere degli aggettivi: postfordista, neoliberale, oppure il quanto mai ottimista e seducente “tardo” capitalismo. Un termine agrodolce, dal momento che il capitalismo sembra destinato a seppellirci tutti. Mi sono svegliato da un sogno con in testa l’idea che avrebbe più senso chiamare il capitalismo “tanaticismo” – da Thanatos, figlio di Nyx (notte) e Erbos (oscurità), gemello di Hypnos (sonno), come Omero ed Esiodo sembrano più o meno concordare. Ho provato con “tanatismo” su Twitter, e Jennifer Mills mi ha risposto: «Sì, ma penso che siamo di fronte a qualcosa di più entusiasticamente suicida. Tanaticismo?».
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Votiamo chi ci spolperà: siamo un paese di imbecilli?
«Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali». Così il Principe di Salina nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Citazione perfetta, secondo Rosanna Spadini, per fotografare lo sconcertante voto italiano delle europee, che trasformano l’incolore Pd neoliberista nel primo partito europeo, ufficialmente ancora “di sinistra” benché renziano e ligio ai diktat della destra economica euro-atlantica, prontissimo anche ora alle larghe intese a Bruxelles coi popolari della Merkel e del navigato tecnocrate lussemburghese Juncker, ennesima controfigura del super-potere antidemocratico diretto dalla Troika.«Io però non credo all’esito di queste elezioni», protesta Spadini. «Non credo che gli italiani possano essere così imbecilli da rifiutare il cambiamento, o comunque barattarlo con un voto di scambio degli 80 euro. Non credo che siano state elezioni pienamente libere e democratiche, perché garantite da una casta politica che usa le garanzie solo per sé».La dissonanza dell’Italia è dolorosa, preoccupante. In Francia, il Front National di Marine Le Pen conquista il 25% e demolisce il socialista Hollande, in Spagna crollano i due grandi partiti del bipolarismo iberico, popolari e Psoe, che dimezzano la loro rappresentanza europea. E mentre in Gran Bretagna lo Ukip di Farage diventa primo partito stracciando il prenier Cameron relegato in terza posizione, in Grecia, con Syriza, Tispras arriva al 26,7%, staccando di quattro punti il partito del premier Antonis Samaras. «Che cos’ha l’Italia per essere diversa?». La mancanza di alternative credibili? Grillo ambiguo sull’euro? Non basta: con una posizione più netta sulla moneta unica, il M5S avrebbe recuperato «i 3 punti che sono andati alla Lega» e si sarebbe fermato a quota 24-25%, quella del febbraio 2013. Bravo Salvini, certo: ha «riesumato un partito-spazzatura», corresponsabile «di tutte le nefandezze euriste che hanno saccheggiato il paese», compresi «tutti i trattati-capestro europei che stanno trasformando l’Italia in economia da terzo mondo».«Oggi – continua Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’Italia ha perso tutte le proprie sovranità, quella monetaria con l’introduzione dell’euro, quella economica con la legge del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia (Ciampi-Andreatta, 1981) e quella politica, da quando nel 2011 il governo Berlusconi è stato silurato dal “golpe bianco” dello spread e sostituito da “governi oligarchici” impostici da quei poteri finanziari che hanno commissariato l’Italia e la spolperanno fino all’osso. Io non credo – continua Spadini – che gli italiani abbiano capito cosa sta succedendo a loro e al loro paese, mentre il governo Renzi proseguirà nel progetto di svendita dei gioielli di Stato (Eni, Enel, Finmeccanica) alle lobby finanziarie straniere, e nella realizzazione del suo piano di lavoro Jobs Act, che precarizzerà a vita il lavoro delle giovani generazioni – se ne troveranno uno e retribuito decentemente». Gli italiani? «Non hanno capito la nuova proposta politica del M5S, un movimento di cittadini che si fanno Stato, cittadini comuni entrano nelle istituzioni, ma solo per due mandati».Una forma di democrazia diretta, quella dei 5 Stelle, che «risponde benissimo alle sfide del nostro tempo e si adatta perfettamente alla società dei consumatori, dove i grandi apparati politici si sono sgretolati sotto il crollo delle ideologie, dove le grandi fabbriche si stanno dissolvendo a vista d’occhio sotto i colpi della globalizzazione (vedi Fiat)». Il Movimento 5 Stelle non sparirà facilmente: «Si è confermato comunque come prima forza politica di opposizione e seconda forza in Italia», quindi «continuerà a restituire i soldi dello stipendio e a rifiutare i rimborsi elettorali, a difendere la Costituzione, i giovani dal precariato e gli imprenditori da Equitalia», mentre il Pd confluirà nel Partito Socialista Europeo che ha già annunciato che si alleerà con il Ppe della Merkel e di Berlusconi – possibile che gli elettori Pd non se ne siano “accorti”? Più facile, invece, che nel frattempo sparisca l’Italia, «condannata al declino inesorabile stabilito dagli oligarchi». E’ un destino di terzomondizzazione, «sancito da quelle lobby finanziarie che pilotano Renzi and company: l’Italia è destinata a diventare un’economia da terzo mondo – anzi, se vogliamo culturalmente lo è già, perché così ha stabilito il vero potere».«Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali». Così il Principe di Salina nel “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa. Citazione perfetta, secondo Rosanna Spadini, per fotografare lo sconcertante voto italiano delle europee, che trasformano l’incolore Pd neoliberista nel primo partito europeo, ufficialmente ancora “di sinistra” benché renziano e ligio ai diktat della destra economica euro-atlantica, prontissimo anche ora alle larghe intese a Bruxelles coi popolari della Merkel e del navigato tecnocrate lussemburghese Juncker, ennesima controfigura del super-potere antidemocratico diretto dalla Troika.«Io però non credo all’esito di queste elezioni», protesta Spadini. «Non credo che gli italiani possano essere così imbecilli da rifiutare il cambiamento, o comunque barattarlo con un voto di scambio degli 80 euro. Non credo che siano state elezioni pienamente libere e democratiche, perché garantite da una casta politica che usa le garanzie solo per sé».
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Europee, contro il Pd di Renzi l’unico vero “voto utile”
La confusione è grande, perché non esiste un piano-B sufficientemente chiaro: non c’è ancora un possibile governo per l’alternativa, a cominciare dall’economia. Rispetto alle politiche 2013, però, la situazione si è molto chiarita: la crisi sta devastando famiglie e imprese, e la protesta contro Bruxelles ormai dilaga in tutta Europa, da Londra a Parigi. Si improvvisano liste no-euro per cogliere il vento favorevole, mentre sul fronte opposto fioccano scongiuri: ma sono motivati dalla scarsa credibilità attribuita a molte espressioni no-euro, piuttosto che da una reale convinzione nelle virtù della moneta unica, il cui fallimento disastroso è ormai sotto gli occhi di tutti. I critici più coerenti, sulle barricate da anni contro l’anomalo regime monetario di Francoforte, unico al mondo, invitano a non considerare affatto un fallimento quello dell’euro, bensì il perfetto compimento – col massimo profitto possibile – del piano oligarchico di cui l’euro sarebbe il braccio armato: ridurre gli Stati all’impotenza e preparare la loro resa definitiva alle ragioni del più forte, cioè il capitalismo globalizzato che oggi si rifugia nella speculazione finanziaria e nella razzia ai danni dello Stato, non potendo più ricorrere, come prima, al consueto saccheggio del colonialismo industriale a spese del terzo mondo.La situazione geopolitica si va facendo esplosiva, con gli Stati Uniti che accerchiano la Cina nel Pacifico e intanto in Ucraina logorano il più importante alleato dei cinesi, la Russia, con la piena collaborazione di un’Europa-fantasma, domani al guinzaglio anche sul piano commerciale grazie al varo del Trattato Transatlantico, che minaccia di porre fine alla storica sovranità giuridica europea in materia di libero scambio, agricoltura, energia, salute, lavoro, pensioni, sicurezza alimentare. Nell’offerta elettorale italiana, per molti aspetti sconcertante, uno spettro variegato di forze – da destra a sinistra – denuncia perlomeno alcuni aspetti della crisi. Una sola, il Pd, procede invece a rullo compressore verso un regime di devastante pericolosità. Jobs Act e precariato obbligatorio, abolizione del Senato, legge elettorale liberticida: secondo i maggiori giuristi è a rischio la sopravvivenza stessa della democrazia, o di quel che ne rimane, grazie soprattutto al soggetto politico prescelto per tenere l’Italia in stato di sofferenza, sprofondando il paese in una depressione irreversibile. Se una vera soluzione non c’è ancora, milioni di elettori andranno alle urne il 25 maggio con in testa un’idea precisa: la convizione che ogni voto contro il Pd di Renzi sia un voto utile.Fermare il Bugiardo di Firenze, in qualunque modo. Per milioni di elettori, molestati dal debordante presenzialismo televisivo del premier, è la vera missione del voto del 25 maggio. Vale tutto: qualsiasi lista – da Tsipras a Fratelli d’Italia – può servire a sbarrare la strada a quello che la maggioranza relativa degli italiani ormai considera il pericolo numero uno per il paese, il Pd, percepito come il partito di gran lunga più compromesso coi “nemici” storici dell’Italia. Partito che ora, con Renzi, si appresta a sfrerrare il colpo di grazia di fronte al quale Berlusconi e persino Monti avevano esitato. Vecchia, triste regola degli ultimi decenni: il super-potere sceglie la sinistra (intesa come partiti) per colpire a fondo i ceti popolari. Così Prodi, D’Alema e Amato introdussero privatizzazioni, tagli e flessibilità, producendo sofferenze e precariato. Oggi, il partito del super-potere euroatlantico teme l’antagonista Grillo, e gli oppone il giovane Matteo. Obiettivo: fingere di innovare il paese e in realtà smantellare quel che resta dello Stato, a beneficio del grande capitale finanziario che si appresta a banchettare su pensioni e sanità, scuola, servizi vitali, acqua potabile, trasporti.
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Fine programmata della democrazia: l’ha deciso l’élite
I veri padroni del mondo non sono più i governi, ma i dirigenti di gruppi multinazionali finanziari o industriali, e di istituzioni internazionali opache (Fmi, Banca Mondiale, Ocse, Wto, banche centrali). Purtroppo, questi dirigenti non sono stati eletti, malgrado l’impatto delle loro decisioni sulle popolazioni. Il potere di queste organizzazioni viene esercitato su una dimensione planetaria, mentre il potere di uno Stato è ridotto ad una dimensione nazionale. Tra l’altro, il peso delle multinazionali nei flussi finanziari ha da tempo superato quello degli Stati. Di dimensione internazionale, più ricche degli Stati, ma anche principale fonte finanziaria dei partiti politici di ogni tendenza nella maggior parte dei paesi, queste organizzazioni si trovano quindi al di sopra delle leggi e del potere politico, al di sopra della democrazia. La democrazia ha già cessato di essere una realtà.I responsabili delle organizzazioni che esercitano il potere non sono eletti, e il pubblico non viene informato sulle loro decisioni. Il margine d’azione degli Stati viene sempre più ridotto da accordi economici internazionali per i quali i cittadini non sono stati né consultati, né informati. Tutti questi trattati elaborati negli ultimi 10 anni (Gatt, Omc, Ami, Ntm, Nafta) hanno un unico scopo: trasferire il potere degli Stati verso organizzazioni non elette, tramite un processo chiamato “mondializzazione”. Una sospensione proclamata della democrazia avrebbe senz’altro provocato una rivoluzione. Ecco perché sembra essere stato deciso di mantenere una democrazia di facciata, e di piazzare il potere reale verso nuovi centri. I cittadini continuano a votare, ma il loro voto è privo di senso. Votano per dei responsabili che non hanno più un potere reale. Ed è senz’altro perché non c’è più nulla da decidere, che i programmi politici di “destra” e di “sinistra” si assomigliano sempre di più in tutti i paesi occidentali.Per riassumere, non possiamo scegliere il piatto, ma possiamo scegliere il contorno. Il piatto si chiama “nuova schiavitù”, e il contorno può essere o piccante di destra, o agro-dolce di sinistra. Dai primi anni ‘90, l’informazione è stata progressivamente tolta dai media destinati al grande pubblico. Come le elezioni, i telegiornali continuano ad esistere, ma sono privi di senso. Un telegiornale contiene al massimo 2 o 3 minuti di vera informazione. Tutto il resto è costituito da soggetti da rivista, servizi aneddotici, fatti diversi e reality show sulla vita quotidiana. Le analisi di giornalisti specializzati e le trasmissioni di informazione sono state quasi totalmente eliminate. L’informazione si restringe ormai alla stampa, letta da un numero ridotto di persone. La sparizione dell’informazione è un segno tangibile che il nostro regime politico ha già cambiato natura.I responsabili del potere economico provengono quasi tutti dallo stesso mondo, lo stesso giro sociale. Si conoscono, si incontrano, condividono gli stessi punti di vista e gli stessi interessi. Condividono quindi naturalmente la stessa visione di ciò che dovrebbe essere il futuro mondo ideale. E’ quindi naturale che si mettano d’accordo e sincronizzino le loro azioni verso degli obbiettivi comuni, inducendo a delle situazioni economiche favorevoli alla realizzazione dei loro obbiettivi, come ad esempio: indebolimento degli Stati e del potere politico, deregolamentazione, privatizzazione dei servizi pubblici, disimpegno totale degli Stati dall’economia, compresi i settori dell’educazione, della ricerca e, tra breve, dell’esercito e della polizia, destinati a diventare dei settori sfruttabili da ditte private.Indebitamento degli Stati tramite la corruzione, lavori pubblici inutili, sovvenzioni a ditte senza contropartita, spese militari. Quando una montagna di debiti viene accumulata, i governi sono costretti alla privatizzazione e allo smantellamento dei servizi pubblici. Più un governo è sotto il controllo dei “Padroni del Mondo”, più fa aumentare i debiti del suo paese. Precarietà del lavoro e mantenimento di un alto livello di disoccupazione, intrattenuti tramite il decentramento e la mondializzazione del mercato del lavoro: tutto ciò aumenta la pressione economica sui lavoratori, che sono quindi costretti ad accettare qualsiasi stipendio o condizione di lavoro. Riduzione dell’aiuto sociale per aumentare le motivazioni del disoccupato ad accettare qualsiasi tipo di lavoro o qualsiasi stipendio: un aiuto sociale troppo elevato impedisce alla disoccupazione di fare una pressione efficace sul mercato del lavoro. Impedire l’espansione di rivendicazioni salariali nel Terzo Mondo, mantenendovi dei regimi politici totalitari o corrotti: se i lavoratori del Terzo Mondo venissero pagati meglio, il principio stesso del decentramento, e della pressione che esercita sul mercato del lavoro nella società occidentale, verrebbe frantumato. Ciò costituisce un lucchetto strategico essenziale che deve essere preservato ad ogni costo. La famosa “crisi asiatica” del 1998 è stata innescata nello scopo di mantenere questo lucchetto.Le organizzazioni multinazionali private si stanno progressivamente dotando di tutti gli attributi della potenza degli Stati: reti di comunicazione, satelliti, servizi di spionaggio, dati sugli individui, istituzioni giudiziarie (stabilite dal Wto e l’Ami, accordo tramite il quale una multinazionale potrà fare causa ad uno Stato davanti ad una corte internazionale speciale). La prossima e ultima tappa per queste organizzazioni sarà di ottenere il potere militare e poliziesco che corrisponda alla loro nuova potenza, creando i loro propri eserciti, dato che gli eserciti e le polizie nazionali attuali non sono adattate alla difesa dei loro interessi nel mondo. Tra breve, gli eserciti diventeranno società private, presteranno servizio sotto contratto con gli Stati, o con qualsiasi altro cliente capace di pagarli. Ma all’ultima tappa del piano, questi eserciti serviranno quasi esclusivamente gli interessi delle multinazionali, e attaccheranno gli Stati che non si piegheranno al nuovo ordine economico. Nel frattempo, questo ruolo viene assunto dall’esercito dei Stati Uniti, il paese meglio controllato dalle multinazionali.Oggi il denaro è essenzialmente virtuale. La sua realtà è una serie di 0 e di 1 nei computer delle banche. La maggior parte del commercio mondiale si opera senza denaro liquido, e solo 10% delle transazioni finanziarie quotidiane corrispondono a degli scambi economici nel “mondo reale”. Gli stessi mercati finanziari costituiscono un sistema di creazione di denaro virtuale, di profitto non basato su una creazione di ricchezze reali. Questa creazione di denaro senza creazione di corrispondente ricchezza economica è la definizione della creazione artificiale del denaro. Ciò che la legge vieta ai falsificatori di denaro, e ciò che l’ortodossia economica liberale vieta agli Stati, è quindi legale e possibile per un numero ristretto di beneficiari. Se si vuol capire ciò che realmente è il denaro e a che cosa serve, basta invertire la famosa frase “il tempo è denaro”: il denaro è tempo. Permette di comprare il tempo degli altri, il tempo necessario a produrre i prodotti o i servizi che consumiamo.E’ evidente che siamo oggi urtando i limiti ecologici dell’attività economica. I modelli economici attuali sono incapaci di stimare al suo giusto valore la “produzione” della natura, indispensabile alla nostra sopravvivenza: produzione d’ossigeno, fissazione dei gas carbonici dalle foreste e gli oceani, regolazione della temperatura, protezione dai raggi del sole, riciclaggio chimico, spartizione delle alluvioni, produzione d’acqua potabile, di alimenti. La produzione della natura è stata valutata a 55.000 miliardi di dollari annui da un gruppo di scienziati dell’Institute for Ecological Economics dell’Università del Maryland nel 1997. La scomparsa della natura è inevitabile, poiché voluta dal nuovo potere economico. La scomparsa della natura e l’aumento dell’inquinamento renderanno gli individui ancora più dipendenti del sistema economico per la loro sopravvivenza, e permetteranno di generare nuovi profitti, tra i quali un consumo crescente di medicine e prestazioni mediche.Tutto quello che può portare un individuo a pensare e a vivere con la propria testa è potenzialmente sovversivo. Il più grande pericolo per l’ordine sociale è la spiritualità che porta l’individuo a rimettere in gioco il proprio sistema di valori e quindi il proprio atteggiamento. Questo nuovo potere è globale, planetario. Non ha quindi né alternativa, né scappatoia. Costituisce un nuovo livello di organizzazione della civilizzazione, una specie di super-organismo. D’altronde l’unificazione del mondo per via dell’economia e il declino degli Stati-nazione sono stati in parte decisi per una nobile causa: rendere impossibile una nuova guerra mondiale che, all’era atomica, significherebbe la fine della civilizzazione. La globalizzazione non è una cosa negativa in sé: potrebbe permettere una forma di pace mondiale durevole. Ma se continua ad essere organizzata a beneficio di una minoranza di persone e se conserva la sua attuale direzione neoliberista, non tarderà ad instaurare una nuova specie di totalitarismo, il commercio integrale degli esseri viventi, la distruzione della natura e una forma inedita di schiavitù.(Estratti da “Fine programmata della democrazia”, dal sito “Syti.net” a cura di Sylvain Timsit).I veri padroni del mondo non sono più i governi, ma i dirigenti di gruppi multinazionali finanziari o industriali, e di istituzioni internazionali opache (Fmi, Banca Mondiale, Ocse, Wto, banche centrali). Purtroppo, questi dirigenti non sono stati eletti, malgrado l’impatto delle loro decisioni sulle popolazioni. Il potere di queste organizzazioni viene esercitato su una dimensione planetaria, mentre il potere di uno Stato è ridotto ad una dimensione nazionale. Tra l’altro, il peso delle multinazionali nei flussi finanziari ha da tempo superato quello degli Stati. Di dimensione internazionale, più ricche degli Stati, ma anche principale fonte finanziaria dei partiti politici di ogni tendenza nella maggior parte dei paesi, queste organizzazioni si trovano quindi al di sopra delle leggi e del potere politico, al di sopra della democrazia. La democrazia ha già cessato di essere una realtà.
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Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti
Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
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Goldman Sachs, il super-potere che fa il lavoro di Dio
Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.Questo ha inevitabilmente incrementato la malnutrizione e scatenato rivolte popolari in molti paesi in via di sviluppo. Nel 2008, la banca di Wall Street ha contribuito al crollo dell’economia mondiale attraverso la diffusione dei mutui tossici sub-prime e le scommesse contro le “collateralized debt obligations”. È importante ricordare inoltre che la Goldman Sachs è stata riconosciuta colpevole da un punto di vista penale per le attività di “insider trading” nello stato della California. Nel 2009, la banca americana ha contribuito a creare alcune delle condizioni della crisi nell’Eurozona, aiutando ad esempio il governo della Grecia a “cucinare” e mascherare i dati sul debito pubblico nazionale tra gli anni 1998 e 2009. La metafora “Goldman Sachs, macchina delle crisi” sembra chiarita ora, ma perché parlare anche di “governo del mondo”?Dall’inizio degli anni ‘80, dopo l’avvento della finanziarizzazione neoliberista, la Goldman Sachs ha aumentato in modo esponenziale il suo potere politico. Le ingenti quantità di ricchezza accumulate attraverso l’uso e l’abuso dei derivati sono state in parte investite in finanziamenti di campagne elettorali e attività di lobby. La Goldman Sachs è poi riuscita, grazie al sistema delle “porte girevoli”, a piazzare alcuni dei suoi uomini migliori in posizioni politiche di rilievo nei governi degli Stati Uniti e in Europa. Tra gli ex banchieri della Goldman Sachs, che hanno ricoperto cariche politiche importanti negli Stati Uniti, ricordiamo Henry Paulson, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Bush figlio, Robert Rubin, ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton, Timothy Geithner ex segretario al Tesoro durante l’amministrazione Obama, Mark Patterson, ex capo del personale al segretario al Tesoro e Stephen Friedman, ex presidente della Federal Reserve Bank di New York.Tra i leader di Goldman Sachs che hanno occupato importanti cariche di governo in Europa, ricordiamo invece Mario Draghi, attuale capo della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Monti, ex primo ministro d’Italia, Otmar Issing, ex membro del consiglio della Bundesbank e della Bce, Karelvan Miert, ex commissario alla concorrenza dell’Unione Europea, Antonio Borges, ex capo del Fondo Monetario internazionale (Fmi), Lucas Papademos, ex primo ministro della Grecia e Peter Sutherland, ex procuratore generale d’Irlanda. Non male, vero? L’assunzione di alte cariche istituzionali da parte di ex dirigenti della Goldman Sachs non è tuttavia evidenza sufficiente per dire che “governa il mondo.”C’è dell’altro, però. Oltre a contribuire a generare crisi mondiali, aiutare politici a vincere le elezioni, fare lobby per ottenere favori fiscali e piazzare i suoi uomini negli uffici governativi che dovrebbero disciplinare le attività speculative, la Goldman Sachs si permette pure il lusso di suggerire ricette economiche ai governi. Provate a pensare alle riforme adottate negli Stati Uniti e in Europa negli anni successivi il collasso della Lehman Brothers. Prima c’è stato il salvataggio delle banche “troppo-grandi-per-fallire” con circa 12 trilioni di dollari di denaro pubblico (il Prodotto Interno Lordo del mondo è di circa 70 trilioni di dollari). Poi, sono arrivate le riforme finanziarie all’acqua di rose che hanno evitato di regolare i circa 600 trilioni di dollari di derivati che hanno messo in ginocchio l’economia. Infine, sono state adottate le famose politiche di austerità. Ma chi ha guadagnato da queste riforme?A pensar male si fa presto, ma sentite cos’ha scritto John Williamson, ideologo delle politiche di deregolamentazione finanziaria neoliberista del Consenso di Washington: «I tempi peggiori (come le crisi economiche) danno luogo alle migliori opportunità per chi comprende la necessità di fondamentali riforme economiche». Poi ha aggiunto: «Ci si dovrà chiedere se, concettualmente, potrebbe avere un senso pensare di provocare una crisi deliberatamente… in modo da spaventare tutti ad accettare questi cambiamenti». Qualche tempo fa, un giornalista ha chiesto a Lloyd Blankfein, amministratore delegato della Goldman Sachs, se fosse giusto imporre dei limiti ai compensi dei suoi top manager. Il banchiere ha risposto che «mettere un limite alla loro ambizione sarebbe sbagliato perché i banchieri adempiono un compito fondamentale nella società: fanno il lavoro di Dio».(Roberto De Vogli, “Goldman Sachs, la macchina delle crisi che fa il lavoro di Dio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 14 marzo 2014).Dall’inizio della crisi economica, la Goldman Sachs, una delle maggiori banche d’investimento a livello mondiale, è stata spesso presa di mira e perfino scambiata per una specie di Leviatano di predatori finanziari senza scrupoli. In un articolo pubblicato su “Rolling Stone” nel 2009, Matt Taibbi l’ha definita una macchina che produce bolle e crisi economiche a ripetizione. Un paio d’anni dopo, lo scrittore americano William Cohan ha paragonato la Goldman Sachs a un oscuro e potentissimo “governo del mondo”. Le solite teorie del complotto da aggiungere alla lunga lista di deliri virali che popolano il magico mondo della rete? Non è proprio così. Nel 2007, la Goldman Sachs ha indirettamente contribuito alla crisi mondiale del cibo attraverso ingenti speculazioni nei mercati dei derivati che, a loro volta, hanno provocato aumenti vertiginosi dei prezzi dei generi alimentari.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.
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L’ipocrita Bono, falsa coscienza umanitaria dell’élite
La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.E proprio della star degli U2 e di Africa parla il libro del giornalista irlandese Harry Browne, “The Frontman”. Un volume smaccatamente che proviene dalla sinistra militante, pubblicato in Italia dalle edizioni no global Alegre e in Inghilterra dalla Verso, celebre per pamphlet di cultura alternativa e di critica al sistema. Il libro soffre dunque di eccesso di moralismo quando fa le pulci a Bono per i suoi soldi e la sua rete di banchieri, industriali e leader politici con legami con il Fmi e la Banca Mondiale, come Paul Wolfowitz. Ma il libro è audace nella critica all’umanitarismo di quello che Oprah Winfrey ha definito “il re della speranza in carica”. «Ovunque due o tre siano riuniti nel nome della ricchezza e del potere, là c’è anche Bono, a garantire per la loro bontà. Bono non si limita a riempire di belle parole posti come i meeting di Davos: lancia progetti, illustra piani d’azione, promuove cause. Tanto lavoro per l’eminenza planetaria della filantropia, per questo è certo di meritarsi il titolo».Alcuni giorni fa anche il “Daily Mail”, giornale di segno ideologico opposto a quello di Browne, ha massacrato Bono con un lungo articolo che ha messo insieme tutte le incoerenze del cantante e, soprattutto, tutte le sue sconfinate ricchezze: un patrimonio immobiliare da sceicco, un parco macchine da emiro, un tenore di vita da faraone e un’attrazione fatale per la grande finanza e per la Borsa, grazie al coinvolgimento di noti “squali” che gli permetteranno, se tutto andrà per il verso giusto, di raddoppiare in dieci anni il patrimonio personale, che lo stesso “Daily Mail” quantifica oggi in un miliardo di sterline. «Da quasi tre decenni, e soprattutto nel nuovo secolo, Bono ha quasi sempre fatto da megafono ai discorsi dell’élite, difeso soluzioni inefficaci, parlato dei poveri in modo paternalistico e leccato i culi dei ricchi e dei potenti».Browne non fa mistero di detestare la rock star: «Bono è ricco: indossa abiti firmati, vola su jet privati, guida cinque diverse automobili di lusso, adora i cibi e i vini più raffinati. Bono è famoso: è il leader del gruppo musicale più stabilmente popolare degli ultimi trent’anni, ha milioni di fan, è l’interprete di alcune delle canzoni più conosciute della nostra epoca. Indossa occhiali da sole che attirano l’attenzione su di lui anziché ripararlo dagli sguardi. Bono è potente: la sua opinione è ricercata, ascoltata e apprezzata ai più alti livelli governativi nazionali e internazionali». Browne è perfido con Bono, definito «ispirato cercatore di verità» e «ultrà dell’euro-postmodernismo», campione del «filantrocapitalismo» ed esponente del «potere taumaturgico dello sviluppo dell’Africa elaborato dalle élite occidentali». L’Africa di Bono e delle altre star come Bob Geldof, anziché essere un luogo reale, viene trasformato in «un progetto per la coscienza occidentale, una specie di vocazione».Secondo il giornalista irlandese, «i discorsi sulla grande benevolenza, sull’impegno e la compassione dell’Occidente, mentre sembrano con ogni apparenza occuparsi della vita di coloro che cercano di salvare e risollevare, in realtà collocano attivamente ‘i nostri ragazzi’ come le star dello spettacolo dello sviluppo, mentre chi è oggetto della benevolenza nazionale (e del nord del mondo) non è altro che lo sfondo di una storia che in realtà si occupa di ‘noi’, individui del Primo mondo». In altre parole, scrive Browne, la figura della celebrità umanitaria incarnata da Bono «funziona come fantasia di redenzione in cui gli abitanti del sud del mondo sono collocati retoricamente come lo sfondo su cui ‘i bravi ragazzi del Primo mondo’ possono mettere in risalto il senso di sé». Per usare le parole di Alex de Waal, «è il grande carnevale umanitario, la moda delle celebrità».(Giulio Meotti, “Un libro di sinistra contro Bono, «leccaculo di ricchi e potenti»”, da “Il Foglio” del 26 febbraio 2014. Il libro: Harry Browne, “The Frontman. Bono, nel nome del potere”, Edizioni Alegre, 283 pagine, 15 euro).La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.
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Mangiare con 50 euro al mese, anche Tsipras si piega
Pessime notizie, tanto per cambiare, da Atene: anche Alexis Tsipras, candidato di opposizione alla presidenza della Commissione Europea, si è ormai di fatto rassegnato alla retrocessione definitiva della Grecia verso il terzo mondo, guidato dai suoi spin-doctor americani. Lo sostiene Grigoriou Panagiotis, in un drammatico diario quotidiano che illustra le condizioni di vita sempre più precarie della popolazione, in un paese in cui – secondo la rivista medica “Lancet” – il rigore della Troika di Bruxelles ha fatto aumentare la mortalità infantile del 42%. Emergenza umanitaria, grazie alla spietata “cura” neoliberista dell’Unione Europea, che ha raso al suolo lo Stato greco e la sua capacità di proteggere i cittadini. Risultato: niente soldi per cibo e medicinali. Ormai si sopravvive con 50 euro al mese: è il budget medio destinato all’alimentazione della famiglia. La vera tragedia? Tutti si stanno abituando all’idea, anche Syriza.«E’ il nuovo modello pensato per la Grecia e, fatte le debite proporzioni, per l’Irlanda», scrive Panagiotis in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. E’ la nuova povertà, ovvero «l’arte di vivere con 550 euro al mese, spendendo 200 euro per l’edilizia abitativa, 100 per riscaldamento ed elettricità, 30 di costi vari come l’acqua, 40 per il telefono – Internet compreso – e 100 euro dedicati alla cosiddetta previdenza sociale». E per il cibo? Soltanto 50 euro al mese. «Da qui la recente competizione tra i partiti politici (business tutto sommato succoso) su chi organizzerà la prima migliore zuppa popolare. E’ questo, del resto, il povero modello che Syriza ha già adottato senza dirlo troppo in giro». Secondo il blogger ellenico, a rassegnarsi alla “normalizzazione” degli stipendi medi attorno ai 580 euro sono gli stessi analisti del think-tank “Levy Economics Institute” del Bard College di New York, istituto che da poco più di un anno «è diventato consulente chiave (e ufficiale) della politica economica per il partito di Alexis Tsipras».Anziché combattere contro la camicia di forza dell’Eurozona, gli specialisti americani «propongono la messa in circolazione di una moneta interna e parallela all’euro», e in ogni caso si preparano a far digerire ai greci un futuro da 500 euro al mese. «Un economista del Levy Institute – continua Panagiotis – mi aveva detto a margine di un simposio qualche mese fa che “è preferibile allineare gli stipendi sui 580 euro mensili, piuttosto che lasciar diffondere la situazione attuale dove moltissimi greci lavorano talora come schiavi per meno di 300 euro al mese”». Capito? «Aspettando i 580 euro, Syriza e anche l’elettricità, in certi quartieri gli abitanti si organizzano in assemblee popolari per inventare, forse, un modo con il quale poter resistere di fronte ai pignoramenti immobiliari organizzati dal regime bancocrate, che ha come scopo quello di sottrarre ai greci i loro beni immobiliari in modo da sottometterli in una maniera più “adeguata” al nuovo regime di neo-depauperati, probabilmente sotto l’alto patronato della Banca Mondiale, perché no?».Pessime notizie, tanto per cambiare, da Atene: anche Alexis Tsipras, candidato di opposizione alla presidenza della Commissione Europea, si è ormai di fatto rassegnato alla retrocessione definitiva della Grecia verso il terzo mondo, guidato dai suoi spin-doctor americani. Lo sostiene Grigoriou Panagiotis, in un drammatico diario quotidiano che illustra le condizioni di vita sempre più precarie della popolazione, in un paese in cui – secondo la rivista medica “Lancet” – il rigore della Troika di Bruxelles ha fatto aumentare la mortalità infantile del 42%. Emergenza umanitaria, grazie alla spietata “cura” neoliberista dell’Unione Europea, che ha raso al suolo lo Stato greco e la sua capacità di proteggere i cittadini. Risultato: niente soldi per cibo e medicinali. Ormai si sopravvive con 50 euro al mese: è il budget medio destinato all’alimentazione della famiglia. La vera tragedia? Tutti si stanno abituando all’idea, anche Syriza.
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Dopo Marx, sarà l’ex terzo mondo a sfidare l’élite
“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.Nel blog “Foreign Policy”, Kenny ricorre alla rivisitazione del marxismo: «Nella sua lotta di classe, Marx vide una logica apocalittica. E la battaglia della grande massa contro la piccola plutocrazia aveva una conclusione inevitabile: lavoratori 1, ricchi 0». Marx pensava che l’impulso rivoluzionario proletario fosse soprattutto globale, che le classi lavoratrici sarebbero state unite in tutto il mondo dalla loro comune esperienza di povertà devastante e dall’alienazione della vita in fabbrica. Ragionevole, per l’epoca. Secondo Branko Milanovic, economista della Banca Mondiale, quando nel 1848 fu scritto il “Manifesto” comunista la maggior parte della disuguaglianza del reddito a livello globale dipendeva dalla differenza fra classi su base nazionale. Sebbene alcuni paesi fossero più ricchi di altri, il reddito che poteva rendere un uomo ricco o confinarlo alla povertà in Inghilterra si sarebbe tradotto nella stessa cosa in Francia, negli Stati Uniti e persino in Argentina.Ma, mentre la Rivoluzione Industriale prendeva piede, quella parità mutava drammaticamente durante il secolo successivo: una ragione per la quale la predizione di Marx circa una rivoluzione proletaria globale si rivelò errata. Solo pochi anni dopo la pubblicazione del “Manifesto”, i salari dei lavoratori cominciarono a crescere in Inghilterra. La tendenza proseguì nel resto d’Europa e in Nord America, mentre divennero abissali le differenze col resto del mondo: «Centoquarant’anni fa l’africano medio era ricco un quinto del suo compagno inglese. Oggi, vale meno di un decimo». Mentre l’Occidente decollava verso una crescita continua, scrive Kenny in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, le differenze di reddito fra paesi sovrastavano il divario di reddito all’interno dei paesi stessi. Ovvero: «Una segretaria a tempo determinato nell’Est di Londra può ancora avere difficoltà ad arrivare alla fine del mese, ma se la mandi a Lagos potrà vivere come una regina». Lo stesso Milanovic stima che il reddito medio del 5% più ricco dell’India equivale a quello del 5% più povero degli Usa.I lavoratori municipali di più basso grado in Europa e negli Stati Uniti sono ben più ricchi dei loro omologhi nei paesi poveri in via di sviluppo, e stanno comunque meglio della gran parte degli occupati in quei paesi. Vero, la povera gente in Europa e in America fa parte dell’élite reddituale, secondo gli standard del Sud Asia o dell’Africa. Questo perché «i lavoratori di tutto il mondo non si sono ancora uniti», conclude Kenny. Nel 1920, l’Internazionale Comunista condannò il “tradimento” di molti socialisti europei e americani durante la Prima Guerra Mondiale, quando difesero la madrepatria per camuffare il “diritto” della loro borghesia di schiavizzare le colonie. Per i comunisti, la diffidenza generata nel resto del mondo poteva essere sradicata solo abbattendo l’imperialismo nei paesi avanzati e riscattando l’economia del terzo mondo. Oggi, il colonialismo si chiama globalizzazione. Ma secondo Kenny «è ancora un processo in fase di cambiamento», perché «a mano a mano che i mercati globali diventano sempre più interconnessi, i redditi medi convergono». Dati alla mano, «gli ultimi dieci anni hanno visto i paesi in via di sviluppo crescere molto più rapidamente dei paesi ad alto reddito, diminuendo la differenza fra redditi medi».Un altro economista, Arvind Subramanian, prevede che la Cina nel 2030 sarà ricca come l’intera Unione Europea oggi. E lo stesso Brasile non sarà molto indietro, attestandosi a un Pil pro-capite di 31.000 dollari, seguito a breve distanza da paesi come l’Indonesia e la Corea del Sud. «Semplicemente – annota Kenny – questo significa che, nello spazio di una generazione al massimo, una buona porzione del mondo sarà presto ricca, o come minimo solidamente classe media». Secondo le previsioni sviluppate in collaborazione con Sarah Dykstra di “Global Development”, Kenny rileva che circa il 16% della popolazione della Terra vive in paesi tanto ricchi da poter essere considerati dalla Banca Mondiale “ad alto reddito”. Se i tassi di crescita continueranno come nella decade passata, il 41% della popolazione mondiale si troverà entro il 2030 nella fascia “ad alto reddito”. «Quindi, se i paesi in via di sviluppo continueranno a crescere al ritmo che abbiamo visto di recente, la disuguaglianza fra nazioni si ridurrà, e la disuguaglianza all’interno delle nazioni tornerà la componente dominante della disuguaglianza globale».Ciò significa che Marx aveva ragione, con due secoli di anticipo? «Non esattamente», sostiene Kenny. «La realtà è che questa nuova classe media avrà una vita che la classe lavoratrice dell’era vittoriana poteva solo sognare. Lavoreranno in negozi e uffici illuminati da led piuttosto che in oscure e infernali fabbriche. E vivranno quasi 40 anni più a lungo della persona media nel 1848, secondo l’aspettativa di vita alla nascita». Ma la vera domanda è: condivideranno la causa con i loro compagni operai che sono ad un oceano di distanza? «Forse, ma non perchè le barricate sono l’unica opzione praticabile. Marx ha predetto che la classe lavoratrice globale si sarebbe unita e ribellata perché ovunque i salari sarebbero stati portati a livelli di sussistenza. Ma, a mano a mano che i salari crescono e si livellano in tutto il mondo, la brutta situazione del proletariato – lavoro duro, paga bassa – oggi più che mai significa lavoro più semplice e paga migliore».Solo in Cina, questo sviluppo sta portando centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. «Proprio perché il ricco e il povero di Lagos e di Londra si somiglieranno, sarà più probabile nel 2030 un’unione dei lavoratori di tutto il mondo». Mentre la tecnologia e il commercio livellano il campo di gioco e uniscono l’umanità, i previsti 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo potranno capire quanto hanno in comune rispetto alle super-ricche élite dei propri paesi. Secondo Kenny, i nuovi esponenti della mid-class mondiale «faranno pressioni sui governi per collaborare al fine di assicurare che il loro sudore e il loro sangue non arricchiscano troppo una piccola globale élite capitalista, ma siano diffusi più largamente». E magari «lavoreranno per fermare i paradisi fiscali dove i plutocrati del mondo nascondono i loro guadagni, e sosterranno i trattati per prevenire le corse al ribasso sui diritti del lavoro e nelle politiche fiscali pensate e stilate per attrarre le compagnie». Uno stile di vita globale, non solo per i più ricchi. Rivoluzione in vista? «La prossima decade – profetizza Kenny – non vedrà tanto la povertà disperata affrontare la plutocrazia, quanto la classe media riprendersi quanto le spetta».“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.