Archivio del Tag ‘tecnocrati’
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Fassina: solo la destra sa che la politica deve proteggerci
Penso che il Ddl firmato da 5 Stelle e Lega sulla Banca d’Italia sia parte della ricostruzione del primato della politica sull’economia. La politica monetaria è uno degli strumenti politici più importanti. E ritenere che la politica debba rimanere fuori dalla politica monetaria è stato un errore, frutto di un pensiero unico che si è affermato in modo assolutamente trasversale. Il disegno di legge che hanno presentato i capigruppo di Lega e 5 Stelle al Senato è sostanzialmente un passo avanti; non è che finisca l’indipendenza di Bankitalia, c’è un richiamo esplicito ai trattati europei. Si introduce il meccanismo previsto per la Bundesbank, quindi non una misura nord-coreana. E cioè: il governo nomina presidente e direttore generale, un membro del direttorio (vicepresidente), e altri due membri del direttorio (anch’essi vicepresidenti) vengono nominati uno dalla Camera e l’altro dal Senato. E’ esattamente il modello vigente in Germania. E solo una sinistra che ha completamente smarrito un minimo di autonomia culturale può considerare eversivo e inaccettabile questa proposizione, che a mio avviso invece fa fare un passettino avanti, alla politica, nel governo di uno strumento fondamentale come quello della politica monetaria.
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Giornali muti sulla crisi italiana, ma pronti a sbranare Feltri
Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».Le parole di Feltri sono andate in onda sulla Rai nella trasmissione radiofonica “I lunatici”, di Radio Due, condotta da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. «Quel terrone mi ha stancato», dice Feltri, riferendosi al commissario siciliano interpretato in televisione da Luca Zingaretti. Tutte le volte che gli capita di vedere Montalbano in Tv, aggiunge il direttore di “Libero”, gli torna subito alla mente il fratello dell’attore, cioè il neosegretario Pd Nicola Zingaretti, che «non è proprio il massimo della simpatia». Aggiunge Feltri: «Questa però è una mia opinione un po’ così, scherzosa». Quanto all’anziano autore di Montalbano, invece, Feltri si esprime in questi termini: «Camilleri, che ha avuto successo dopo i 70 anni, in me suscita ammirazione perché è stato un grande narratore, che peraltro si inserisce nella tradizione siciliana della letteratura insieme a scrittori come Pirandello e Sciascia». Ma niente da fare, a Borrometi e Ruotolo non basta: «Abbiamo deciso di autosospenderci dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti perché ci consideriamo incompatibili con l’iscrizione di Vittorio Feltri all’albo professionale», scrivono, anche se poi è il presidente stesso, Scarpa, a precisare: è solidale con loro, però dall’Ordine non ci si può “autosospendere”, ma solo cancellare.«Riteniamo gli scritti e il pensiero del direttore Feltri veri e propri crimini contro la dignità del giornalista», scrivono i due. «Ne va della credibilità di ognuno di noi e della nostra categoria. Adesso basta. O noi o lui». E aggiungono: «Quel “terrone che ci ha rotto i coglioni” per noi figli del Sud è inaccettabile. Non è in gioco la libertà di pensiero. Sono in gioco i valori della nostra Costituzione». Accusano: «Ogni suo scritto trasuda di razzismo, omofobia, xenofobia. “Dopo la miseria portano le malattie” (rivolto ovviamente ai migranti), l’ormai tristemente celebre “Bastardi islamici” o, uscendo dal seminato delle migrazioni, robaccia come “Più patate, meno mimose” in occasione dell’8 marzo (e le diverse varianti dedicate anche a Virginia Raggi, con il “patata bollente”) o “Renzi e Boschi non scopano”. Poi gli insulti a noi del sud con il celebre “Comandano i terroni” e infine il penultimo, di qualche mese fa, “vieni avanti Gretina” (dedicato alla visita a Roma di Greta Thunberg)». L’idea che il direttore di “Libero” offre, concludono Borrometi e Ruotolo, «è che si possa, impunemente, permettersi questo avvelenamento chirurgico». A Feltri imputano mancanza di senso del limite, deontologia, misura, buon senso e addirittura dignità. «Continuiamo a batterci contro la censura e gli editti, ma non possiamo accettare tra noi chi istiga all’odio. Ne va della nostra credibilità».Nato a Modica (Ragusa), Borrometi vive sotto scorta da quando è stato aggredito, in Sicilia, per le sue scomode inchieste sul business mafioso. Cronista dell’Agi, è stato trasferito a Roma per metterlo al riparo dalle continue minacce. Il potere lo conosce da vicino: Borrometi è stato ricevuto a Palazzo Chigi da Gentiloni, a Palazzo Madama da Pietro Grasso e in Vaticano da Papa Francesco, mentre Mattarella l’ha fatto “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana”. Anche Ruotolo vive sotto scorta, dopo le minacce ricevute nel 2015 dal Clan dei Casalesi. Napoletano, è stato a fianco di Santoro dai tempi di “Samarcanda”, fine anni Ottanta. Nel 2013 si è candidato con Antonio Ingroia nella lista “Rivoluzione civile”, rimasta fuori dal Parlamento. Nel corso della campagna elettorale, al termine di un dibattito televisivo si è rifiutato di stringere la mano a Simone Di Stefano (CasaPound) dichiarandosi «orgogliosamente antifascista». E adesso, insieme a Borrometi, tuona contro Feltri: «O lui, o noi». Suona quasi come un appello perché il reprobo sia espulso dall’Ordine dei giornalisti, organismo che peraltro esiste solo in Italia, retaggio dell’occhiuta sorveglianza di Mussolini sulla stampa nazionale. A proposito: perché non abolirlo, l’inglorioso ordine professionale, visto che bastano e avanzano le leggi vigenti per tutelare sia i giornalisti che le vittime del propagandismo squadristico truccato da giornalismo?Ma il tema – libertà dell’informazione, senza recinti polverosamente post-fascisti – non sfiora Rutolo e Borrometi (non oggi, almeno). Il nemico si chiama Vittorio Feltri, monumento nazionale del giornalismo-contro (contro i giornalisti conformisti, in primis). Fieramente ostico, scontroso, sulfureo – spesso urticante, volutamente sgradevole – Feltri affonda i suoi strali quotidiani nella melassa inguardabile del mainstream gracidante, dei colleghi appiattiti sull’imbarazzante galateo del pensiero unico (politicamente corretto, ma per nulla giornalistico). Spariti Bocca, Biagi e Montanelli, è proprio la mediocrità desolante dei replicanti – i vari Giannini, Floris, Berlinguer, Formigli, Annunziata – a fare di Feltri il gigante che probabilmente non è. Amico personale della Fallaci, Feltri ha seguito la grandissima giornalista nella cecità assoluta dimostrata dall’Oriana nazionale di fronte all’11 Settembre, senza vedere che lo “scontro di civiltà” era una montatura terroristica interamente occidentale. Già berlusconiano e sempre controcorrente, pronto alla solitudine delle polemiche più aspre, a Feltri non difetta certo il coraggio: semmai, come quasi tutti gli altri, non ha compreso per tempo la reale natura del “golpe” neoliberale del 2011, dietro la maschera di Mario Monti. E ancora oggi, purtroppo, fatica a discernere tra debito pubblico e debito reale del sistema-paese, anche lui criminalizzando il deficit dello Stato, in un paese da decenni in avanzo primario: lo sa, Feltri, che lo Stato incassa con le tasse più di quanto non spenda per i cittadini?Quanto ai suoi detrattori – tantissimi, quasi tutti i suoi colleghi – va detto che, in questi anni, hanno brillato per renitenza professionale e alto tradimento dei lettori e dei telespettatori: se il famoso Ordine avesse un senso, quanti di loro avrebbero diritto di farne parte? Che c’azzeccano, con la categoria giornalistica, la Monica Maggioni reclutata dalla Trilaterale nonostante fosse dirigente Rai? E che dire di Lilli Gruber, ospite fissa del Bilderberg? Non hanno niente da dire, su questo, gli illustri Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi? Pensano davvero che siano gli eccessi polemici e le cadute di stile a compromettere la dignità professionale dei “cani da guardia della democrazia”? Dicono ancora qualcosa i nomi di Bob Woodward e Carl Bernstein (“Washington Post”) che nel remoto 1972 – ben prima dell’odierna era glaciale – fecero crollare la presidenza Nixon con lo scandalo Watergate? Vinsero il Pulitzer, ovviamente, ma non erano al guinzaglio di alcuna corporazione post-mussoliniana. Un altro Pulitzer, il connazionale Seymour Hersh, è stato franco quanto l’insopportabile Feltri: se i giornalisti non avessero abdicato al loro compito fondamentale, in questi anni avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché – di fronte a una stampa con la schiena diritta – il potere non avrebbe osato spingersi oltre certi limiti.Bassa macelleria fondata sulla menzogna sistematica, praticabile solo a patto di non avere noie, dalla stampa. Un caso mondiale, emblematico? Le inesistenti “armi di distruzioni di massa”, pretesto per invadere l’Iraq di Saddam ponendo le premesse per una destabilizzazione geopolitica di tipo stragistico, cominciata con l’abbattimento delle Twin Towers e culminata coi tagliagole dell’Isis a seminare il terrore sia in Medio Oriente che nel cuore dell’Europa, con attentati sinistramente massonici (non islamici) nella loro spietata simbologia. Chi lo dice? Gioele Magaldi, per esempio: un autore che per l’italico mainstream resta oscuro quanto il suo besteller, “Massoni”, letteralmente ignorato da tutti i talkshow nonostante facesse nomi e cognomi, da Napolitano in giù, come inutilmente ricordato persino in Parlamento dai 5 Stelle. Dove sono, i giornalisti italiani, quando qualcuno si espone per svelare i retroscena della crisi che sta sventrando il paese? Oggi sono tutti a fischiare comodamente il puzzone di turno, Matteo Salvini, mettendo nel mazzo – per buon peso – lo stesso Feltri, notorio estimatore del capo leghista. Tutto fa brodo, pur di non avvistare il pericolo: va benissimo anche lo scalpo di Armando Siri (solo indagato, tuttora) per colpire la Flat Tax e il governo gialloverde, che ha avuto l’improntitudine di pensare che l’Italia si potesse governare anche senza sottomettersi alle mafie politiche locali, succursali delle mafie politiche europee.Per il mainstream che odia Salvini e detesta Feltri, il supermassone occulto Mario Draghi, quasi onnipotente signore d’Europa dopo l’esordio sul Britannia da cui collaborò alla svendita del paese, resta essenzialmente Super-Mario, ipotetico futuro premier quando finalmente il vero potere si sarà scrollato di dosso gli intrusi dell’ultima ora, i pasticcioni gialloverdi. Il governo non è libero di decidere nulla – ha ammesso Pino Cabras, parlamentare pentastellato, in un convegno del Movimento Roosevelt a Londra – perché nei ministeri e nei palazzi-chiave, cominciando dal Quirinale, domina il Deep State. Qualcuno, della libera stampa italiana pronta ad azzannare Feltri per gli sberleffi a Montalbano, si è peritato di rilanciare la notizia? Gli specialisti dell’antimafia sono coraggiosamente impegnati sul fronte della micro-mafia nazionale. Ma i loro colleghi come si regolano, con la vera macro-mafia, quella eurocratica, che da trent’anni ha dichiarato guerra all’Italia sbaraccando la Prima Repubblica? Divorzio fra Tesoro e Bankitalia, Sme, Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, pareggio di bilancio. L’ex potenza industriale mediterranea ha perso il 25% del suo potenziale in una manciata di anni. Crisi, recessione, esasperazione. Dov’erano, i giornalisti, mentre tutto questo accadeva? E dove sono oggi? Nel solito posto: comodi, in platea, a distrarre il pubblico. Che screanzato, quel Feltri. Sia messo al bando, perché sciupa la foto di gruppo del glorioso giornalismo italiano.(Giorgio Cattaneo, “Con che coraggio attacca Feltri – per le battute su Montalbano – il giornalismo italiano che da trent’anni non dice la verità sulla crisi del paese?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 21 giugno 2019).Basso impero, l’avrebbe definito Giorgio Bocca. Il giornalismo italiano? Scomparso, ridotto a recitare veline di palazzo. Eppure a quanto pare esiste ancora, se è vero che due cronisti – Sandro Ruotolo e Paolo Borrometi – si appellano addirittura all’Ordine dei giornalisti, letteralmente indignati. Contro il silenzio del mainstream? Contro le bugie quotidiane del sistema radiotelevisivo? Contro l’omertosa reticenza delle redazioni di fronte a qualsiasi evento di rilievo, italiano e internazionale? Macché. Ce l’hanno con Vittorio Feltri, che si è permesso di insolentire nientemeno che il commissario Montalbano, cioè un personaggio letterario, proprio mentre il suo autore – Andrea Camilleri – lotta in ospedale tra la vita e la morte. Borrometi è un giornalista coraggioso, messo in pericolo dalla mafia. Ruotolo, popolare in Tv, è lo storico inviato di Michele Santoro. «Le parole di Vittorio Feltri su Andrea Camilleri e le sue opere – scrivono, in una lettera al presidente dei giornalisti italiani, Carlo Verna – hanno rappresentato per noi la goccia che ha fatto traboccare il vaso». E cos’avrebbe mai detto, Feltri, di così inaccettabile? «Mi dispiace, perché un uomo anche vecchio che muore suscita in te un certo dolore. Però – ecco il passaggio sotto accusa – mi consolerò pensando al fatto che Montalbano non mi romperà più i coglioni».
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Savona: nessun problema se il debito arriva al 200% del Pil
Anche da presidente della Consob, Paolo Savona non smentisce la sua fama di economista “contrarian”. Mentre l’Italia dibatte con la Ue per evitare la procedura d’infrazione a causa di un debito al 132% del Pil, l’82enne professore sardo rilancia come «istruttivo l’esempio del Giappone: se la fiducia nel paese è solida e la base di risparmio sufficiente, livelli di indebitamento nell’ordine del 200% non contrastano con gli obiettivi economici e sociali perseguiti dalla politica». È uno dei passaggi chiave della sua relazione tenuta a Milano all’incontro annuale della Consob, organismo borsistico che presiede da marzo dopo le dimissioni da ministro degli affari europei, come ricorda Fabrizio Massaro sul “Corriere della Sera”. Per Savona, sintetizza Massaro, basta che il debito salga meno di quanto cresce l’economia di un paese. Perché invece l’operazione non riesce, all’Italia? Savona parte da lontano: quando c’erano la lira e una banca centrale che poteva comprare quel debito (che è quanto accade in Giappone, e che invece l’attuale Bce non può fare), avevamo sì inflazione e svalutazione, ma il debito era stabile e le famiglie lo compravano. Ora invece i bond nazionali sono largamente in mani estere, la finanza preadatoria specula sui rendimenti.Le famiglie hanno meno Btp, e il potere di valutare il rischio del rimborso «si è trasferito sul mercato – dice Savona – senza un adeguato contrasto alla speculazione», che non di rado viene usata dall’Europa «come vincolo esterno» per far rispettare i parametri fiscali, con valutazioni che spesso «appaiono prossime a pregiudizi», quando invece i sospetti di un default sono «oggettivamente infondati». La forza dell’Italia – ricorda Savona – sta nell’enorme risparmio privato: 16.295 miliardi, quasi 10 volte il Pil, di cui 4.218 miliardi delle famiglie («una risorsa alla quale molti paesi attingono») e sulla spinta dell’export, con 43,4 miliardi di surplus. Centrodestra e centrosinistra, però, restano come sempre lontanissimi da qualsiasi soluzione salva-Italia, preferendo rinnovare il eterno la sottomissione all’Ue e la rassegnazione all’austerity neoliberista. Quelle di Savona sono «parole da film horror», secondo la vicepresidente del Pd, Anna Ascani: «Davvero vogliono bruciare decine di altri miliardi dei cittadini per interessi sul debito?». Per Mara Carfagna, di Forza Italia, «in caso di crisi del debito, la soluzione inizia con P e finisce con E: una patrimoniale pagata dagli italiani». Di «attacco al risparmio degli italiani» parla anche Benedetto Della Vedova, segretario di “+Europa”.In realtà, sottolinea Massaro sul “Corriere”, Savona ha un’altra idea: per contenere lo spread serve un «titolo europeo privo di rischio» – cioè l’eurobond, che Mario Draghi si ostina a negare: un titolo che prenda il ruolo che oggi è svolo, di fatto, dal Bund tedesco. Uno “european safe asset” emesso dal Fondo di stabilità Esm raccoglierebbe capitali e prestiti agli Stati membri applicando tassi bassissimi, in modo da neutralizzare in partenza a minaccia dello spread. «La relazione di Savona mi è piaciuta molto», ha detto il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, confermando che la Lega è oggi l’unica forza politica italiana impegnata a cercare soluzioni alternative alla crisi. Una era il progetto di Flat Tax promosso da Armando Siri, puntualmente messo fuori gioco dalla magistratura in collaborazione col giustizialismo elettoralistico dei 5 Stelle. Sullo sfondo, poi, c’è sempre anche la folle sottovolutazione del reale patrimonio italiano: non solo l’enorme risparmio privato, ma anche l’immenso giacimento dei beni culturali – è il più grande al mondo, e dunque ha un valore potenziale formidabile, eppure non viene neppure lontanamente contabilizzato dai tecnocrati di Bruxelles che si ostinano a negare deficit e liquidità al nostro paese, demonizzando prontamente persino i minibot.Anche da presidente della Consob, Paolo Savona non smentisce la sua fama di economista “contrarian”. Mentre l’Italia dibatte con la Ue per evitare la procedura d’infrazione a causa di un debito al 132% del Pil, l’82enne professore sardo rilancia come «istruttivo l’esempio del Giappone: se la fiducia nel paese è solida e la base di risparmio sufficiente, livelli di indebitamento nell’ordine del 200% non contrastano con gli obiettivi economici e sociali perseguiti dalla politica». È uno dei passaggi chiave della sua relazione tenuta a Milano all’incontro annuale della Consob, organismo borsistico che presiede da marzo dopo le dimissioni da ministro degli affari europei, come ricorda Fabrizio Massaro sul “Corriere della Sera”. Per Savona, sintetizza Massaro, basta che il debito salga meno di quanto cresce l’economia di un paese. Perché invece l’operazione non riesce, all’Italia? Savona parte da lontano: quando c’erano la lira e una banca centrale che poteva comprare quel debito (che è quanto accade in Giappone, e che invece l’attuale Bce non può fare), avevamo sì inflazione e svalutazione, ma il debito era stabile e le famiglie lo compravano. Ora invece i bond nazionali sono largamente in mani estere, la finanza preadatoria specula sui rendimenti.
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Sapelli: Italia senza via d’uscita, hanno svenduto il paese
Cosa sta succedendo in Europa? Che cosa cambia dopo il voto europeo e l’avanzare della trasformazione del sistema delle relazioni tra Stati in Europa e nel mondo? La struttura di questa relazione – scrive lo storico dell’economia Giulio Sapelli – in Europa è costituita da una forma di “superfetazione” tecnocratica, che rende faticosissimo e quasi impossibile l’emergere di un involucro istituzionale che sia idoneo sul piano funzionale a garantire l’unificazione del processo decisionale in atto nella sfera economica con quello in atto nella sfera politica. Com’è noto, aggiunge Sapelli sul “Sussuidiario”, nella storia secolare e ineguale della circolazione delle élite politiche emerse con il capitalismo, «la democrazia rappresenta un risultato assai recente e instabile, nella sua forma dettata dal suffragio universale». Le dittature tra le due guerre e il franchismo, il salazarismo e i colonnelli greci stanno lì a ricordarcelo, fino agli anni Settanta. «La forma politica in cui l’incompiuto impero europeo giunge nel secondo millennio – continua il professore – è quanto di più instabile e meno statico si sia potuto creare, nel rapporto tra economia e politica».Aggiunge Sapelli: «Mentre infatti i profeti dell’impero invocano la centralizzazione poliarchica per affrontare le sfide di una competizione globale che intravedono tra blocchi continentali (tra potenze di mare e di terra), nulla di tale centralizzazione si è realizzata nei decenni che sono seguiti al fatidico 1957 dopo la firma del Trattato di Messina tra Scilla e Cariddi». Lì si è rimasti, secondo Sapelli, «invocando la centralizzazione politica e perpetuando invece la divisione militare, economica e politica di un incompiuto impero», quello europeo, «unificato solo dall’alto con una ragnatela tecnocratica» che è «preda di lobbismo e giurisprudenzialismo», visto che manca «una Carta costituzionale europea» nonché «partiti politici europei», ma anche «grandi gruppi industriali e finanziari europei». E’ assente pure «una disciplina, tanto della politica» (un con Parlamento Europeo che è privo di poteri) «quanto dell’economia», cioè con «regole antitrust pro-consumatori e contro i produttori». Sempre secondo Sapelli, «questa incompiutezza volge al disfacimento, alla disgregazione».Lo dimostrano la Brexit e le recenti elezioni europee, «con la vittoria liberale ed ecologista che proprio queste non omeostaticità amplificheranno sino all’esaurimento». La continuità dell’ordoliberismo, per Sapelli, ormai non è più frenabile (continuità che le forze vincitrici «esaltano, sugli altari della lotta al debito come peccato». E questo «non potrà che rafforzare le spinte centrifughe, con conseguenze che saranno devastanti». Riflessione geopolitica: «L’emergere della Cina come potenza marittima eversiva dell’ordine internazionale non farà che aumentare le spinte centrifughe, attirando a sé le periferie più deboli», cioè il Portogallo e la Grecia, ma anche Italia, «che sta perdendo rapidamente la sua strategica posizione di ultima dei primi e prima degli ultimi». Secondo Sapelli, «è il frutto di un lavorio della borghesia “vendidora” italiana, che inizia nel fatidico 1981 con il cosiddetto divorzio tra Bankitalia e Tesoro e culmina con il Fiscal Compact», approvato dal governo Monti insieme all’inserimento del micidiale pareggio di bilancio nella Costituzione, abbattendo così «ogni possibilità reale e concreta di resistere, per un insediamento stabile a Stato debole come l’Italia».Ormai, sempre per Sapelli, è diventato impossibile «resistere ai venti della disintermediazione finanziaria internazionale», affermatasi negli anni Novanta «con il primitivo volto della lotta alla corruzione», maschera perfetta per coprire il vero obiettivo di un’operazione che avrebbe azzoppato quel che restava della sovranità economica nazionale. «Tutte le aspettative cresciute sull’italico suolo negli ultimi due anni – aggiunge Sapelli – si sono rivelate tradite da parte delle classi politiche peristaltiche elette dai variegati “popoli degli abissi”, mentre quelle che ancora impersonificano le aspettative di ciò che rimane della borghesia nazionale industriale e dei servizi faticano a cogliere il senso della battaglia epocale in corso». Stanno facendo a pezzi l’Italia, e nessuno se ne accorge. Così, conclude Sapelli, «ci si avvia, come i ciechi di Bruegel, verso il baratro di una lotta europea che sarà senza quartiere». Obiettivo della guerra indicata dal professore: «Abbattere le borghesie nazionali italiche, privandole di ogni capacità di resistenza dinanzi alle formule predatorie di una divisione internazionale del lavoro più spietata che mai». Una sorta di totalitarismo neoliberista che, secondo Sapelli, «non potrà che condurre all’italica desertificazione: amen».Cosa sta succedendo in Europa? Che cosa cambia dopo il voto europeo e l’avanzare della trasformazione del sistema delle relazioni tra Stati in Europa e nel mondo? La struttura di questa relazione – scrive lo storico dell’economia Giulio Sapelli – in Europa è costituita da una forma di “superfetazione” tecnocratica, che rende faticosissimo e quasi impossibile l’emergere di un involucro istituzionale che sia idoneo sul piano funzionale a garantire l’unificazione del processo decisionale in atto nella sfera economica con quello in atto nella sfera politica. Com’è noto, aggiunge Sapelli sul “Sussuidiario”, nella storia secolare e ineguale della circolazione delle élite politiche emerse con il capitalismo, «la democrazia rappresenta un risultato assai recente e instabile, nella sua forma dettata dal suffragio universale». Le dittature tra le due guerre e il franchismo, il salazarismo e i colonnelli greci stanno lì a ricordarcelo, fino agli anni Settanta. «La forma politica in cui l’incompiuto impero europeo giunge nel secondo millennio – continua il professore – è quanto di più instabile e meno statico si sia potuto creare, nel rapporto tra economia e politica».
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Conte, Tria e Moavero: stranieri, nella nazionale al governo
Un, due, Tria. Tra i grillini e i leghisti in campo c’è una terna arbitrale gradita al Quirinale e a Bruxelles. L’arbitro è l’Avvocato, professor Giuseppe Conte da Volturara Appula, i segnalinee sono il ragionier Filini in arte Giovanni Tria e il segnaposto-ombra Enzo Moavero Milanesi. È il Trio Carbone del governo e dovrebbe servire a eliminare i molesti gonfiori intestinali della Commissione Europea. È la zona grigia tra il governo italiano e la Commissione Europea, il cuscinetto a tre punte in mezzo ai due; la piccola azienda artigianale in cui si rattoppano e si modificano i prototipi, adattandoli alla sagoma del cliente. Sono i tre stranieri della nazionale di governo, tre tecnici con permesso temporaneo di soggiorno, tre marziani spopulisti che non stanno né di là né di qua, e che nella mitologia governativa rappresentano le Parche del Compromesso. Il professor avvocato Conte gode di un reddito di presidenza, variante del reddito di cittadinanza, un sussidio percepito anche senza svolgere la sua mansione. Ma lui sceneggia bene il ruolo di premier, sarà un figurante ma fa la sua figura. Non essendo né il padre del governo né il figlio del movimento grillino o del partito leghista, l’ho definito manzonianamente il Conte Zio.Anche anagraficamente ai due leader di governo lui non potrebbe essere padre e non è coetaneo, ma solo Zio. Il Conte Zio appare nei “Promessi sposi” come attore non protagonista, perché gli sposi sono loro, Renzo Salvini e Lucia Di Maio. «Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito», spiega Manzoni: «Il suo prestigio era aumentato dopo un viaggio all’estero», non a Bruxelles ma a Madrid. Diplomatico, prudente, scaltro, un po’ inconsistente «come quelle scatole…con su certe parole arabe e dentro non c’è nulla». Era zio di due personaggi del romanzo, don Rodrigo e il conte Attilio, non sappiamo chi dei due sia Matteo e chi Luigino. Gli auguriamo di non finire come il Conte Zio manzoniano con la peste. Ma lui si barcamena con discreta furbizia tra i due committenti di governo e gli inquilini del piano di sopra (il Colle e la Ue). Ha imparato pure a simulare astuti penultimatum e a fingere che, se non si fa come lui dice, se ne va, li molla.Poi c’è il segnalinee Tria. Per lungo tempo il sardonico economista ha avuto la funzione di far sparire il coniglio dal cilindro di governo. Di Maio proponeva, Salvini disponeva e lui riponeva. Voluto da Mattarella al posto di Savona, Tria ha qualcosa di fantozziano. Lenti spesse come il rag. Filini, che pure a lui scendono sul naso, sguardo spaesato, passo incerto, look impiegatizio da dopolavoro aziendale. Tria non si oppone mai apertamente ai provvedimenti annunciati, si limita a farli sparire, a posporli, a frenarli, a neutralizzarli. Rassicura i giocatori che si faranno, ma poi aggiunge sempre a mezza voce una frasetta, una postilla, buttata là bisbigliando e vanifica il tutto, come quelle clausole infami in corpo minimo in fondo ai contratti: lo faremo senz’altro, ma quando avremo i soldi, oppure quando avremo i conti a posto, oppure senza modificare il bilancio, o ancora, a costo zero, quando l’Europa sarà d’accordo o quando la Raggi pulirà Roma. Insomma mai.La gag si ripete all’infinito. Ricomincio da Tria. La presenza di Tria al governo è ironica, l’atteggiamento pubblico è sornione e beffardo con un sorriso interiore che lievemente s’affaccia sul suo volto. Quando parla si capisce che sta raggirando qualcuno, e quel qualcuno sta al governo, sta nella massa degli elettori, sta nelle cabine di comando europee. Si capisce che non crede affatto alla bontà e alla realizzabilità del programma dei grillo-leghisti ma anziché prenderli di petto li prende per i fondelli. Non escludo che a volte abbia ragione lui, il Ministro dell’Affossamento, con delega ai sabotaggi e alla castrazione chimica dei decreti economici. Lui è il Cavallo di Tria dell’establishment, del Quirinale, dell’Europa. Che è poi il terzo partito invisibile al governo, con almeno tre ministeri.Il terzo ministero, anzi il terzo uomo, segnalinee invisibile, è uno strano drone lasciato alla Farnesina dai tecnici: viene da Monti, da Prodi, da Letta, ha un bel curriculum economico-professionale, una sola volta candidato alle politiche, bocciato dagli elettori, con Scelta Cinica del sullodato Monti. Di lui agli esteri non risulta pervenuta alcuna notizia, la scientifica sta cercando di trovare qualche traccia, qualche impronta che attesti il suo coinvolgimento. Forse lavora direttamente presso le altre ambasciate o fa il ministro di notte, al buio, quando non lo importuna nessuno. Di lui non resta memorabile nulla come ministro eccetto due cose marginali: l’inquietante sorriso senza sorriso, con una dentatura aggressiva e lasca, il cui morso potrebbe essere usato per punzonare i pacchi spediti all’estero e l’eroico antifascismo mobiliare, perché respinse dal suo ministero una scrivania che sarebbe appartenuta a Mussolini. E lo fece professandosi antifascista.Perché, sapete, le scrivanie di marca fascista sono una minaccia alla democrazia, un pericolo per l’Europa, bisogna respingerle… Se si organizzano con gli armadi e le sedie, rischiano di marciare su Roma… Benché abbia due cognomi, Moavero Milanesi non ha un nome riconosciuto. Scrive lettere anonime all’Europa e gli rispondono facendo denuncia contro ignoti. “Omnia tria sunt perfecta”, dicevano i latini, e un mio compagno di scuola traduceva “in ogni treno c’è un prefetto”. Ma questa è la terna arbitrale che ci tocca, il Trio Lescano per cantarle all’Europa, la cinghia di trasmissione con l’Ue, il Quirinale e l’establishment. Non so se siano un bene, un male, un nulla. Ma mi incuriosisce vedere come andrà a finire, cosa faranno in caso di crisi o caduta del governo in carica. Se si ricicleranno altrove, se fuggiranno all’estero o se verranno riposti nelle apposite custodie.(Marcello Veneziani, “Quella terna tra Roma e Bruxelles”, da “La Verità” del 13 giugno 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Un, due, Tria. Tra i grillini e i leghisti in campo c’è una terna arbitrale gradita al Quirinale e a Bruxelles. L’arbitro è l’Avvocato, professor Giuseppe Conte da Volturara Appula, i segnalinee sono il ragionier Filini in arte Giovanni Tria e il segnaposto-ombra Enzo Moavero Milanesi. È il Trio Carbone del governo e dovrebbe servire a eliminare i molesti gonfiori intestinali della Commissione Europea. È la zona grigia tra il governo italiano e la Commissione Europea, il cuscinetto a tre punte in mezzo ai due; la piccola azienda artigianale in cui si rattoppano e si modificano i prototipi, adattandoli alla sagoma del cliente. Sono i tre stranieri della nazionale di governo, tre tecnici con permesso temporaneo di soggiorno, tre marziani spopulisti che non stanno né di là né di qua, e che nella mitologia governativa rappresentano le Parche del Compromesso. Il professor avvocato Conte gode di un reddito di presidenza, variante del reddito di cittadinanza, un sussidio percepito anche senza svolgere la sua mansione. Ma lui sceneggia bene il ruolo di premier, sarà un figurante ma fa la sua figura. Non essendo né il padre del governo né il figlio del movimento grillino o del partito leghista, l’ho definito manzonianamente il Conte Zio.
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I 5 Stelle fanno affondare l’Italia (e Salvini) di fronte all’Ue
Sebbene dimezzato da continue sconfitte elettorali, il Movimento 5 Stelle continua a imporre al governo una serie di misure economiche che danneggiano l’economia, scompensano i conti pubblici, alzano lo spread, provocano sanzioni europee e, con la loro demagogica balordaggine, discreditano l’Italia e il suo governo proprio mentre questo dovrebbe difenderci dalle sanzioni e contemporaneamente criticare e far modificare le dannose regole finanziarie europee vigenti. Così i proprietari del Movimento stanno preparando il terreno a un nuovo colpo di Stato europeista e a un nuovo governo tipo Monti (con premier Draghi o Cottarelli o lo stesso Conte), quindi a una nuova mazzata di tasse e di recessione. A quel punto la Lega sarà distrutta nella sua immagine e nella sua leadership. E magari l’ala sinistra del Movimento potrà sguazzare in un clima di fiscalismo pauperista e pseudo-socialista, alleandosi alla sinistra, mentre Conte progetta una carriera sotto l’ombrello del Quirinale, e con una Lega non più competitiva perché segata.La spesa pubblica più necessaria e produttiva per il paese era quella dell’Industria 4.0, ossia dell’innovazione tecnologica, che aveva avviato una piccola ripresa già da sé, e in prospettiva preparava il recupero della gradualmente perduta produttività dell’industria nazionale, punto cruciale per la ripresa e quindi per il risanamento dei conti pubblici. Ebbene, i proprietari del Movimento 5 Stelle sono riusciti a imporre nella ultima legge di bilancio di togliere fondi all’Industria 4.0 per darli al cosiddetto reddito di cittadinanza, un provvedimento demagogico, assistenzialista, che va a beneficio in buona parte di persone che non dovevano ottenerlo e che in generale al lato pratico risulta favorire il parassitismo anche grazie agli esempi di soggetti che lo hanno ottenuto pur avendo redditi e proprietà nascosti. Ma si poteva fare di peggio, e i grillini lo hanno fatto adesso: hanno imposto di togliere altri soldi all’Industria 4.0 per finanziare il provvedimento salva-Comuni, ossia un provvedimento che pone a carico dello Stato il dissesto di numerosi Comuni italiani male amministrati storicamente, a cominciare da Roma, dando così l’opportunità agli amministratori inefficienti e corrotti di evitare la dichiarazione di dissesto e le connesse ispezioni della Corte dei Conti, con le conseguenze anche penali per loro stessi.Il messaggio che i proprietari del Movimento hanno così dato è chiarissimo: continuate pure a sprecare, ad amministrare male, a fare buchi, tanto poi faremo pagare il Pantalone, cioè il contribuente. Questo è il meridionalismo del Movimento, mentre il 96% dei Comuni lombardi ha chiuso i bilanci in attivo. In conclusione, hanno tolto i soldi da dove erano massimamente benefici per metterli là dove saranno massimamente dannosi. Aggiungiamo a queste folli operazioni economiche il Decreto Dignità e il Reddito Minimo, dannosi per l’occupazione, e sommiamoli agli effetti della Quota 100, e avremo una finanza pubblica destabilizzata congiunta a un’economia in recessione e a una dimostrazione di incapacità e demagogia davanti agli occhi del mondo intero. Dopo tali prove di incapacità, il governo non sarà qualificato per obiettare e resistere e controbattere agli attacchi della Commissione Europea, la quale, come ricordato recentemente da Federico Rampini, ha una storia di doppio standard, ossia di applicazione rigorosa delle regole, anche le più irragionevoli, ai paesi deboli, e di sistematica esenzione da quelle regole dei paesi forti, cioè Francia e Germania.Il confronto con la Commissione Europea e con le errate e arbitrarie regole che essa impone faziosamente si può affrontare solo con un governo di ministri credibili e competenti e che abbia fatto una politica economica scientificamente razionale e moralmente sana, mentre ciò che questo governo ha fatto in economia consentirà alla controparte franco-germanica di screditare e delegittimare ogni sua obiezione e rivendicazione, liquidandola come piagnisteo di chi non sa amministrarsi, rinforzando lo stereotipo negativo dell’Italia. Qualora Salvini e la Lega non smettano subito di inseguire il Movimento sul piano suicida della demagogia e della velleità (come col condono sul contante); qualora non denuncino e non fermino immediatamente l’azione dei capi del Movimento (meglio se con la persuasione, ma occorrendo anche a costo di una crisi di governo); e qualora non disinneschi la mina della procedura di infrazione comunitaria (dato che non vi è il consenso popolare per rompere e uscire), allora il risultato a breve sarà un’Italia messa in ginocchio dalla cosiddetta Europa, con un probabile colpo di Stato per mettere su un altro governo tipo Monti, con ulteriori cessioni di sovranità e con ulteriori tasse, fallimenti e saccheggi dei migliori asset nazionali. Altro che governo del cambiamento! E a quel punto, con che faccia si presenteranno Salvini e la Lega agli elettori quando sarà concesso nuovamente di votare?(Marco Della Luna, “Movimento mortale per Lega e Italia”, dal blog di Della Luna del 13 giugno 2019).Sebbene dimezzato da continue sconfitte elettorali, il Movimento 5 Stelle continua a imporre al governo una serie di misure economiche che danneggiano l’economia, scompensano i conti pubblici, alzano lo spread, provocano sanzioni europee e, con la loro demagogica balordaggine, discreditano l’Italia e il suo governo proprio mentre questo dovrebbe difenderci dalle sanzioni e contemporaneamente criticare e far modificare le dannose regole finanziarie europee vigenti. Così i proprietari del Movimento stanno preparando il terreno a un nuovo colpo di Stato europeista e a un nuovo governo tipo Monti (con premier Draghi o Cottarelli o lo stesso Conte), quindi a una nuova mazzata di tasse e di recessione. A quel punto la Lega sarà distrutta nella sua immagine e nella sua leadership. E magari l’ala sinistra del Movimento potrà sguazzare in un clima di fiscalismo pauperista e pseudo-socialista, alleandosi alla sinistra, mentre Conte progetta una carriera sotto l’ombrello del Quirinale, e con una Lega non più competitiva perché segata.
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Sta meglio chi è fuori dall’Ue: Norvegia, Svizzera e Islanda
Cos’hanno in comune Svizzera, Norvegia e Islanda oltre ad essere gli unici paesi del Vecchio Continente ad essere fuori dall’Unione? In tutti e tre questi paesi le politiche economiche sono rivolte ai cittadini. Il rapporto tra gli istituti finanziari e di credito e le banche centrali è condizionato dal potere politico espresso dai rispettivi ministeri dell’economia. Mentre i 28 paesi membri della Ue – Inghilterra compresa – ricevono diktat di tipo tecnico da chi opera professionalmente nel settore bancario, in Svizzera, Norvegia e Islanda gli istituti finanziari operano sul territorio, a stretto contatto con i residenti. E’ dunque la totale assenza di democraticità a penalizzare l’area dei 28 paesi Ue, di fatto governati dai loro dirigenti di area lobbystico-finanziaria. Juncker, presidente della Commissione Europea, è un banchiere lussemburghese, e non è affatto un caso. La Bce, guidata dal banchiere Mario Draghi, persegue obiettivi tecnici (il contenimento dell’inflazione) che sono considerati prioritari. Altre voci, dirimenti per la popolazione, come l’indice di disoccupazione o l’incremento del Pil, sono secondari rispetto agli intendimenti statutari della banca centrale di Francoforte.Ma se è l’assenza di democrazia ad aver convinto svizzeri, norvegesi e islandesi a starsene lontani da Bruxelles, quali sono i risultati dei tecnici Ue messi a confronto con gli “extracomunitari” del Vecchio Continente? Eh già, perchè alla fine dei conti, la ricchezza dei cittadini e il loro benessere dovrebbero essere maggiori laddove ci sono dei tecnici a tenere in piedi la baracca. Invece, accade esattamente l’opposto. Svizzera, Norvegia e Islanda non sono solo paesi indipendenti da Bruxelles, e dunque più liberi, ma sono anche i più ricchi. Lo dimostrano tutti i dati di tutte le agenzie che si occupano di questo tipo di statistiche. Il Pil pro capite degli islandesi è di 40.070 euro annui contro, ad esempio, i 36.313 degli italiani. Seppur inferiore al dato tedesco, la Norvegia e la Svizzera si distinguono da tutti gli altri, vantando un Pil pro capite rispettivamente di 69.296 e di 59.376 euro. Il Pil, però, non è il reddito, neppure quando è calcolato pro capite. Ma è proprio sugli altri punti macroeconomici e di qualità della vita che il trio extra-Ue primeggia senza rivali.Il paese in cui si vive meglio al mondo per qualità della vita (al mondo, dunque… non solo in Europa), è la Norvegia, secondo uno studio che è stato realizzato dal centro studi del Boston Consulting Group che ha paragonato tutti i 196 Stati nel mondo. Secondo questo studio, la Norvegia ha un punteggio di 100, ad esempio, mentre l’europeissima Germania non arriva a 94. Gli indicatori presi in considerazione sono ben 44 divisi in 10 macro-aree: ricchezza (redditi), stabilità economica (inflazione e Pil), occupazione (tasso di occupazione e disoccupazione), salute (accesso alla sanità ed efficienza di essa), educazione (accesso all’istruzione), infrastrutture (trasporti, Ict), eguaglianza nella distribuzione dei redditi, società civile (attivismo, uguaglianza di genere, coesione interclasse, sicurezza e affidabilità interpresonale), governance (accountability, libertà di stampa, stabilità, libertà), qualità dell’ambiente. La ricchezza è misurata attraverso l’indicatore del reddito pro capite, mentre la distribuzione del reddito attraverso il coefficiente di Gini.(Giacomo Salvini, “Europa, la mappa dei paesi in cui si vive meglio”, da “Termometro Politico” del 30 luglio 2016. Nonostante i dati non siano aggiornati al 2019, il loro valore resta evidentissimo).Cos’hanno in comune Svizzera, Norvegia e Islanda oltre ad essere gli unici paesi del Vecchio Continente ad essere fuori dall’Unione? In tutti e tre questi paesi le politiche economiche sono rivolte ai cittadini. Il rapporto tra gli istituti finanziari e di credito e le banche centrali è condizionato dal potere politico espresso dai rispettivi ministeri dell’economia. Mentre i 28 paesi membri della Ue – Inghilterra compresa – ricevono diktat di tipo tecnico da chi opera professionalmente nel settore bancario, in Svizzera, Norvegia e Islanda gli istituti finanziari operano sul territorio, a stretto contatto con i residenti. E’ dunque la totale assenza di democraticità a penalizzare l’area dei 28 paesi Ue, di fatto governati dai loro dirigenti di area lobbystico-finanziaria. Juncker, presidente della Commissione Europea, è un banchiere lussemburghese, e non è affatto un caso. La Bce, guidata dal banchiere Mario Draghi, persegue obiettivi tecnici (il contenimento dell’inflazione) che sono considerati prioritari. Altre voci, dirimenti per la popolazione, come l’indice di disoccupazione o l’incremento del Pil, sono secondari rispetto agli intendimenti statutari della banca centrale di Francoforte.
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Magaldi: vogliono comprare Tria e Conte per il dopo-Salvini
«E bravo Matteo Renzi, finalmente promosso “cameriere” del Bilderberg». Dall’alto del suo nuovo ossevatorio, l’ex leader Pd dice che il governo gialloverde non ha finora toccato palla su nessuno dei temi dell’agenda-Italia? «Se è per questo neppure il suo governo toccò palla, esattamente come i governi Letta e Gentiloni». Solo ciance, dietro alla rigida obbedienza all’ordoliberismo Ue. Però Renzi ha ragione, ammette Gioele Magaldi: dopo un anno, Lega e 5 Stelle hanno totalizzato lo stesso punteggio del fanfarone fiorentino, cioè zero. La differenza? Al Giglio Magico è subentrato «il Cerchio Tragico, targato Di Maio». E se Salvini non ha ancora trovato il coraggio di mandare a stendere Bruxelles, il pericolo maggiore viene dall’interno. Il primo “imputato” è il ministro Giovanni Tria, che sembra passato armi e bagagli al “partito di Mattarella”, intenzionato a bloccare qualsiasi cambiamento. E il peggio è che ad alzare la diga ora ci si mette pure Giuseppe Conte, con la sua prudenza esasperante. Attenti: è come se Conte e Tria fossero già “in vendita”, disposti a far naufragare l’esecutivo in cambio della promessa di future poltrone. Magaldi si rivolge a Salvini: «Se ora gli impediscono di fare la Flat Tax e di varare i minibot, stacchi la spina al governo: a quel punto saranno gli italiani, alle elezioni, a dire come la pensano».
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Carpeoro: Olanda criminale come l’Ue, deruba gli italiani
Con le manovre per la procedura d’infrazione procede il piano contro l’Italia, concepito per abbattere il governo gialloverde e insediare Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte, con l’incarico di schiacciare il nostro paese sotto il peso di un’austerity mostruosa. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, il primo – giorni fa – a ventilare l’avvento di Draghi a Palazzo Chigi, dopo che a fine ottobre avrà dovuto lasciare la presidenza della Bce. Ma a determinare l’eventuale caduta del governo Conte – aggiunge Carpeoro, in diretta web-streaming du YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nighs” – non sarà tanto la procedura d’infrazione, quanto la crescita esplosiva (e opportunamente pilotata) dello spread. «E questa sarebbe l’Europa?», si domanda Carpeoro, spazientito. «Non c’è un’ombra di solidarietà tra i paesi Ue: e i primi a pretendere che all’Italia sia inflitta la massima dose di rigore sono proprio i paesi come l’Olanda, che in questi anni si sono distinti per scorrettezza». Peggio: «L’Olanda ha introdotto un legislazione fiscale che non esito a definire criminale, attirando le nostre maggiori aziende e sottraendo in tal mondo risorse preziose all’Italia. A livello europeo è possibile dover essere governati, di fatto, da dei veri e propri criminali?».Avvocato e saggista, Carpeoro si è distinto per la sua denuncia contro la massoneria di potere, di stampo reazionario e neo-feudale: un’élite che usa la finanza come clava, e all’occorrenza anche il terrorismo (strategia della tensione) per giustificare la continua, progressiva erosione della democrazia con l’alibi della sicurezza. Europeista convinto, Carpeoro accusa di anti-europeismo sostanziale i protagonisti della Disunione Europea, che da Bruxelles e Francoforte impongono al continente il diktat neoliberale. L’ultimo grande argine a questa deriva, secondo Carpeoro, è stato il premier socialista svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986 alla vigilia dei grandi eventi che, dopo il crollo del Muro di Berlino, avrebbero spianato la strada all’attuale tecnocrazia Ue. Risultato: «Siamo nelle mani di gente come Jean-Claude Juncker, che si vanta impunemente della ricchezza del suo paese, il Lussemburgo», dimenticando di dire che il Granducato è stato per decenni uno Stato-canaglia, «un paradiso fiscale che si è arricchito a spese di altri paesi europei, a cominciare dall’Italia».Inglorioso primato, ora passato all’Olanda: dopo la Fiat, anche Mediaset ha annunciato il trasferimento della domiciliazione fiscale, migrando verso i lidi olandesi. Si segnala anche l’attivismo del Biscione, impegnato in acquisizioni a tutto campo, in Europa, nel settore televisivo. Per Carpeoro, è la prova del fatto che l’anziano Berlusconi voglia «mettere al riparo il suo patrimonio, per difenderlo dall’assalto che – dopo la sua morte – dovranno subire i suoi figli». Copione classico, da anni: lo sport più in voga, in Europa (inaugurato dal club del Britannia, incluso Draghi) è il saccheggio del Belpaese. Carpeoro è disgustato: «Ma che razza di Europa è mai questa? Qui si lasciano emigrare le industrie nella parte orientale dell’Ue, dove si permette che gli operai vengano pagati pochissimo, e poi non si fa niente per evitare che i migranti africani finiscano per fare concorrenza, al ribasso, agli operai italiani. Se però qualcuno – come Salvini – si permettere di dire che l’immigrazione incontrollata è folle, e che quantomeno i migranti dovrebbero essere distribuiti anche negli altri paesi europei, gli si dà subito del fascista. E mai nessuno, in Italia, che denunci i criminali olandesi», a cui l’Unione Europea consente di attuale questa loro “pirateria fiscale” a spese dell’Italia, in barba a qualsiasi idea di collaborazione europea, o almeno di rispetto delle regole più elementari.Con le manovre per la procedura d’infrazione procede il piano contro l’Italia, concepito per abbattere il governo gialloverde e insediare Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte, con l’incarico di schiacciare il nostro paese sotto il peso di un’austerity mostruosa. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, il primo – giorni fa – a ventilare l’avvento di Draghi a Palazzo Chigi, dopo che a fine ottobre avrà dovuto lasciare la presidenza della Bce. Ma a determinare l’eventuale caduta del governo Conte – aggiunge Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nighs” – non sarà tanto la procedura d’infrazione, quanto la crescita esplosiva (e opportunamente pilotata) dello spread. «E questa sarebbe l’Europa?», si domanda Carpeoro, spazientito. «Non c’è un’ombra di solidarietà tra i paesi Ue: e i primi a pretendere che all’Italia sia inflitta la massima dose di rigore sono proprio i paesi come l’Olanda, che in questi anni si sono distinti per scorrettezza». Peggio: «L’Olanda ha introdotto un legislazione fiscale che non esito a definire criminale, attirando le nostre maggiori aziende e sottraendo in tal mondo risorse preziose all’Italia. A livello europeo è possibile dover essere governati, di fatto, da dei veri e propri criminali?».
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Cucù, i minibot-vudù: così la Germania disinforma i tedeschi
Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?Qui però si ferma il giornalismo, quello di Eckert e di tanti colleghi, anche italiani. Con un’aggravante: neppure stavolta “Die Welt” spiega ai connazionali che la Germania se la gode, in Eurozona, solo grazie a privilegi esclusivi: non rispetta le condizioni-capestro che invece impone agli altri. E’ lo stesso Galloni a riassumere il senso della “vacanza europea” della Germania. Primo: le piccole banche tedesche – solo loro – si permettono il lusso di non rispettare i vincoli del Trattato di Basilea. E quindi continuano di fatto a emettere credito (quindi moneta-debito) verso l’economia reale. Secondo: il governo di Berlino non include nel bilancio la colossale spesa previdenziale: il costo delle pensioni non pesa sul debito nominale dello Stato. Terzo: nel calcolo del debito pubblico non entra neppure l’ingentissima spesa pubblica dei Lander, le Regioni. Se aggiungessimo queste voci – ha ricordato sul “Giornale” un imprenditore italiano come Fabio Zoffi, da anni attivo a Monaco di Baviera – il debito pubblico reale della Germania risulterebbe il 280% del Pil, cioè più del doppio del tanto vituperato debito italiano, per il quale il Belpaese viene sistematicamente messo in croce dai signori di Bruxelles.Se Daniel Eckert chiarisse tutto questo, probabilmente i lettori di “Die Welt” capirebbero perché l’Italia – in affanno, per disperata carenza di liquidità – tenta di giocare anche la carta dei minibot. «Sbaglia, chi pensa che siano l’anticamera dell’uscita dall’euro», sostiene su “ByoBlu” un parlamentare come Pino Cabras, in quota ai 5 Stelle: le forme di moneta parallela servono proprio a rimanere aggrappati alla moneta unica. Acrobazie italiane? Certo, perché l’Italia non gode dei privilegi della Germania e neppure di quelli della Francia, ricorda ancora Galloni, citando il franco Cfa che Parigi impone a 14 ex colonie africane. «Quella è valuta a pieno titolo, perché circola in più paesi, mentre i minibot non avrebbero valore fuori dall’Italia». Mario Draghi teme che possano aggravare il debito pubblico? Galloni lo smentisce anche su questo: «Tecnicamente, sarebbero solo “titoli di pagamento”, a valere su debiti già maturati e contabilizzati dalla pubblica amministrazione». Se poi lo Stato li accettasse come pagamento delle tasse, potrebbero anche essere scambiati come moneta: «Ma sarebbero moneta parallela solo nazionale, senza corso legale fuori dall’Italia, e in più accettabile – come mezzo di pagamento – solo su base fiduciaria, cioè con la possibilità di non accettarla».In altre parole, riassume Galloni: «I minibot sono perfettamente legali, in quanto non violano nessuna delle condizioni richiamate da Draghi: sarebbero illegali se corrispondessero all’emissione di euro o se costituissero uno stock aggiuntivo di debito pubblico, e invece non sono né una cosa né l’altra». La rabbia di Draghi, aggiunge Galloni, deriva semmai dalla piena consapevolezza di non poter intervenire sul vero problema, cioè la distribuzione della liquidità. Infatti, la Bce si occupa solo dell’erogazione complessiva della massa monetaria: «Gli euro emessi da Francoforte finiscono largamente alla finanza anziché all’economia reale, settore di cui ormai fanno parte anche gli Stati, ridotti a elemosinare credito alle banche». Con due eccezioni, appunto: la Germania (cui è permesso di non rispettare le regole Ue) e la Francia, che a sua volta “respira” grazie al franco Cfa: «Si dirà che il Cfa non viola il Trattato di Lisbona perché quello delle ex colonie francesi è un circuito chiuso. Ma se è legale il franco Cfa – chiosa Galloni – allora sono “legalissimi” i minibot italiani, concepiti per tamponare la disperata “fame” di liquidità a cui la Bce non riesce a rimediare. E questo, Draghi lo sa benissimo».Non lo sanno, di sicuro, i lettori tedeschi “informati” da Eckert, allarmatissimo all’idea che Roma vari minibot di piccolo taglio (100 euro) come pagamento di aziende che attendono di essere saldate dallo Stato, e addirittura impiegabili anche per pagare le tasse (e quindi scambiabili, da un contribuente all’altro, come pagamento alternativo agli euro). «Da quel momento in poi, è solo un piccolo passo verso una valuta parallela», scrive Eckert, che evidentemente ignora la differenza fondamentale tra “valuta” (convertibile in oro, in euro o in divise estere) e “moneta parallela” (non convertibile, né spendibile fuori dal paese). Mai e poi mai, i minibot potrebbero essere “valuta parallela”. Eppure, scrive sempre Eckert, è esattamente «quello che potrebbe mirare a fare» quel mascalzone di Matteo Salvini, «leader della Lega di destra». La prova? «Il portavoce economico della Lega, Claudio Borghi, è un acceso sostenitore dei piccoli mostri fiscali». Fantastico: la Germania bara su tutto, dopo aver raso al suolo la Grecia e sabotato l’Italia, ma a produrre i “mostri” è il terribile Claudio Borghi, universalmente noto per essere di gran lunga il più mite e prudente tra gli economisti al lavoro per tentare di tamponare la voragine-Italia creata da questa Europa a trazione franco-tedesca, sfrontatamente autocelebratasi nell’inaudito Trattato di Aquisgrana (che fa a pezzi l’idea stessa di Unione Europea).«Come per gli altri paesi dell’unione monetaria, vale anche per l’Italia: la moneta a corso legale è solamente l’euro», strilla Daniel Eckert, sfoderando accenti criminologici contro gli incorreggibili italiani. Ma sbaglia, anche qui: in base all’articolo 128 del Trattato di Lisbona, l’euro è l’unica moneta a corso legale a livello di valuta (valida anche per l’estero), mentre lo stesso trattato non esclude affatto la creazione di monete parallele, anch’esse “a corso legale”, sebbene solo entro il territorio nazionale. «Se i minibot si diffondessero in tutta l’economia italiana e venissero passati di società in società e di cittadino in cittadino, lo Stato italiano potrebbe farsi il proprio denaro», aggiunge l’ineffabile Eckert, senza domandarsi – di nuovo – perché mai gli italiani dovrebbero ricorrere a questa mossa, che crea loro un sacco di guai diplomatici. «Nel corso del tempo – aggiunge – i nuovi coupon sarebbero negoziati sul mercato e quotati ad un prezzo (presumibilmente inferiore) rispetto all’euro». Per “Die Welt”, «sarebbe l’inizio della strisciante uscita dell’Italia dall’euro». Si possono scrivere stupidaggini di questo tipo, nel 2019, su un grande giornale europeo? Eccome. E succede in quasi tutti i giornali europei, grandi e piccini.Sempre in chiave criminologica, il “detective” Eckert consulta un super-tecnocrate come Thomas Mayer, capo-economista del “Flossbach von Storch Research Institute”. Con i minibot, sostiene Mayer, si può almeno «minacciare di lasciare gradualmente l’euro, se si è costretti dall’Ue a ridurre il deficit». Un altro “guru” interpellato da Eckert, il banchiere Erik Nielsen (capo-economista di Unicredit a Londra), chiarisce che i minibot «non sono l’inizio di una nuova valuta». Ma Eckert non si dà per vinto: «La confusa politica di comunicazione di Roma – scrive – ha contribuito a confondere l’idea potenzialmente significativa di cartolarizzare il debito pubblico, con la dottrina “voodoo” di una valuta parallela». Dopo il thriller, ecco l’horror: i lettori di “Die Welt” apprendono da Eckert che l’abominevole governo italiano pratica pure la stregoneria del voodoo. Aggiunge il giornalista tedesco, come monito: in Grecia, Yanis Varoufakis aveva seguito una strategia simile durante il suo breve mandato come ministro delle finanze. «Alla fine, tuttavia, non è riuscito a prevalere contro la Troika». E certo: Ue, Bce e Fmi hanno disintegrato Atene, riducendo la Grecia a paese del terzo mondo, coi bambini uccisi dall’assenza di medicine negli ospedali. Gran bel risultato.«La Commissione e altri paesi preferirebbero non minacciare una uscita dell’Italia», dice Thomas Mayer, secondo cui «Salvini ha carte migliori oggi, rispetto a Varoufakis nel 2015», riferendosi all’importanza dell’economia italiana rispetto a quella ellenica. L’Italia, riconosce infine lo stesso Eckert, è la terza economia più grande nell’Eurozona dopo Germania e Francia, ma «a differenza di altre economie», il Belpaese, pure membro fondatore della Comunità Europea del 1957, «non ha apparentemente beneficiato dell’appartenenza all’unione monetaria». Evviva. «Soprattutto dopo la crisi finanziaria – aggiunge Eckert – la debolezza degli europei del Sud è divenuta sempre più evidente: l’indice della Borsa di Milano oggi è allo stesso livello di dieci anni fa, e il Dax è più che raddoppiato nello stesso periodo. Mentre altre importanti economie europee possono indebitarsi a tassi d’interesse pari a zero o appena marginali – continua Eckert, sempre senza mai chiedersi il perché – i partecipanti al mercato dei capitali italiani richiedono il 2,6% per i titoli di Stato decennali». E la Grecia ridotta alla fame, che il giornalista definisce «agitata», ora «paga solo leggermente di più, il 2,8%».“Die Welt” ricorda che il debito italiano «è uno dei più alti del mondo», pari a oltre il 130% del Pil. «Secondo le normative dell’Ue, è consentito un massimo del 60%». Bravo Eckert: evita di ricordare che il debito nominale della Germania è attorno all’80% (quindi oltre la soglia Ue). Ma soprattutto: non sa, o finge di non sapere, che il debito pubblico tedesco – quello vero – è oltre il triplo della cifra dichiarata. Su queste basi omertose e omissive, reticenti e quindi disastrosamente fuorvianti, il “professor” Eckert – senza curarsi di informare davvero i lettori tedeschi – si permette di aggiungere che, visto il boom elettorale delle europee, in cui «i populisti di destra hanno raddoppiato la loro percentuale di voti», arrivando a superare il 34%, ora «l’uomo politico della Lega potrebbe impostare le eventuali elezioni anticipate come un voto sull’indipendenza del paese da Bruxelles». Anche qui: per quale motivo, tutto questo dovrebbe accadere? Ma niente da fare: alle domande, Eckert preferisce le risposte: «Da sola, la minaccia di una valuta parallela potrebbe destabilizzare l’Eurozona». Ah, questi italiani: pazzi criminali. «Con un debito totale di 2,3 trilioni di euro, Roma ha un enorme potenziale di minaccia». Brrr, che paura…Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?
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Tasse, sicurezza, migranti: il sovranismo non è passeggero
Vi siete ripresi dall’overdose di video e di commenti, di analisi, tabelle e dichiarazioni? Proviamo a cambiare prospettiva, dopo una piccola notazione preventiva. Sono vistosi i vincitori, Salvini e Meloni, ma chi sono gli sconfitti, oltre i 5 Stelle? Direi soprattutto tre competitori extrapolitici: i magistrati in campagna elettorale, i media compatti contro Salvini e il bergoglismo da asporto. Le vittorie simboliche della Lega a Lampedusa, Riace e Capalbio lo sanciscono. Ma lasciamo stare i trionfanti, i crescenti, i caduti, i declinanti. Lasciamo stare gli eletti e i trombati, i nomi e i partiti, le analisi dei flussi e dei riflussi. Proviamo a salire di un piano, ponendoci sul piano degli orientamenti di fondo e chiedendoci non chi ha vinto ma cosa ha vinto. Come è cambiato il quadro politico e culturale? Si è delineata una grande, sostanziale divaricazione: emerge, come avevamo previsto, un bipolarismo di contenuti tra gli eredi della sinistra e gli eredi della destra. Da una parte è cresciuto un fronte che supera il 40 per cento dei consensi e che si definisce sovranista: rappresenta i temi della sicurezza, lo stop ai flussi migratori, la tutela della famiglia, la rivoluzione fiscale e le opere pubbliche, la difesa dei confini, della sovranità politica, popolare e nazionale.Dall’altro versante ritorna in campo la sinistra con posizioni esattamente opposte ai sovranisti in tema di Europa e di migranti, di bioetica e di sicurezza, di economia e di sovranità. È una forza di netta minoranza, che oscilla tra il 22 e il 28 per cento, se si considera l’intero versante sinistro, inclusa la Bonino, pur con forti insediamenti in alcune città e una vasta ramificazione nei gangli vitali della società e nelle élite: nella scuola e nella cultura, nella magistratura e nella stampa. Sul piano elettorale non è stata particolarmente significativa la rimonta elettorale del Pd. Essere all’opposizione di un governo diviso su tutto e attaccato massicciamente, agitare i mostri del passato, il nazismo e il razzismo, avere dalla propria parte i media e i poteri europei, vedere decomporsi il Movimento 5 Stelle, e vedere crescere “la destra” a un livello che non c’è mai stato, non mi pare un gran risultato per la sinistra. La polarizzazione intorno a Salvini avrebbe dovuto farla crescere molto di più. Ma al di là della contabilità elettorale, il Pd rappresenta un’area, un mondo, una posizione antagonista rispetto al fronte sovranista. Qual è il nemico ideologico del sovranismo? Sul piano negativo è l’antifascismo, sul piano “positivo” è l’ideologia dell’accoglienza. La sinistra in Italia oggi è attestata nella versione secolare del bergoglismo.Non trovano spazio e ruolo, invece, le forze che si pongono al di fuori di questa polarizzazione, dal centrifugo Movimento 5 Stelle al centrista ondivago Forza Italia. Il Movimento 5 Stelle ha funzionato come collettore del dissenso e raccoglitore dei malesseri e dei rancori popolari, ma non funziona come forza di governo e come catalizzatore di opinioni e programmi; non si inserisce con un suo orientamento sui temi decisivi del nostro presente. I grillini sono inconsistenti sul piano dei contenuti e perciò sono alleati con una forza che reputano di destra ma, per differenziarsi, si conformano al trend della sinistra. Lo schema vecchio-nuovo e sistema-antisistema funziona finché non sei al governo. Da parte sua, Berlusconi si è battuto come un leone ma ha confermato il suo declino; del resto non si può puntare su una ristampa anastatica di se stesso, in versione plastificata, e fingere di essere ancora al centro dell’universo, strizzando l’occhio ora al versante populista ora al versante opposto. Fino a ieri si poneva come garante dei sovranisti, oggi come argine contro i medesimi e si apre alla grosse koalition con la sinistra europea. E poi si chiede perché Salvini e Meloni (e tanti elettori) non si fidano di lui…I sovranisti sono cresciuti in mezza Europa, sono primo partito in Francia, in Inghilterra, in Ungheria, in Polonia e in Italia. Ma, come prevedevamo, saranno pure più influenti ma gli assetti europei di potere in sostanza non cambieranno, si estenderanno solo le alleanze. Dunque non ci sarà alcun terremoto a livello europeo. E in Italia? Anche qui non si prevedono terremoti politici ma scosse di assestamento, secondo quando annunciato dagli stessi protagonisti, a cominciare da Salvini. Il baricentro del governo passerà dai grillini ai leghisti e vedremo se questo sarà concretamente praticabile e se potrà perdurare. Non si intravede, per ora, una svolta come quella auspicata dalla Meloni. Accadrà solo se i 5 Stelle sceglieranno la via dell’opposizione, giubilando Di Maio. Insomma, il test europeo colpisce ma non stravolge gli assetti presenti né in Europa né in Italia.Cosa impedisce allora di ritenere che il grande successo della Lega sia passeggero, come è già accaduto in passato ad altri trionfatori delle elezioni europee? Una considerazione: l’onda sovranista tocca temi non passeggeri ma strutturali, destinati a durare nel tempo. E il sovranismo nostrano si collega a un quadro mondiale che va da Trump a Orban, passando per Marine Le Pen e tanti altri leader nazional-populisti vincenti nel mondo, dall’India al Brasile. Dunque saranno pure variabili gli umori dell’elettorato e saranno pure passeggeri i trionfi dei leader, come mostrano le parabole di Renzi, Di Maio, ecc.; ma quei temi, quegli orientamenti, quegli schieramenti delineati indicano tendenze marcate, destinate a durare. Il bipolarismo è rinato nella società civile prima che nella politica, e guai a chi finge di non vederlo. Si vedrà se i leader e le forze in campo saranno all’altezza di rappresentarlo oppure no.(Marcello Veneziani, “Il sovranismo non è un fenomeno passeggero”, da “La Verità” del 29 maggio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Vi siete ripresi dall’overdose di video e di commenti, di analisi, tabelle e dichiarazioni? Proviamo a cambiare prospettiva, dopo una piccola notazione preventiva. Sono vistosi i vincitori, Salvini e Meloni, ma chi sono gli sconfitti, oltre i 5 Stelle? Direi soprattutto tre competitori extrapolitici: i magistrati in campagna elettorale, i media compatti contro Salvini e il bergoglismo da asporto. Le vittorie simboliche della Lega a Lampedusa, Riace e Capalbio lo sanciscono. Ma lasciamo stare i trionfanti, i crescenti, i caduti, i declinanti. Lasciamo stare gli eletti e i trombati, i nomi e i partiti, le analisi dei flussi e dei riflussi. Proviamo a salire di un piano, ponendoci sul piano degli orientamenti di fondo e chiedendoci non chi ha vinto ma cosa ha vinto. Come è cambiato il quadro politico e culturale? Si è delineata una grande, sostanziale divaricazione: emerge, come avevamo previsto, un bipolarismo di contenuti tra gli eredi della sinistra e gli eredi della destra. Da una parte è cresciuto un fronte che supera il 40 per cento dei consensi e che si definisce sovranista: rappresenta i temi della sicurezza, lo stop ai flussi migratori, la tutela della famiglia, la rivoluzione fiscale e le opere pubbliche, la difesa dei confini, della sovranità politica, popolare e nazionale.
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Dall’intelligenza artificiale alla stupidità naturale in salsa Ue
Il deep learning è l’ultima frontiera in materia di intelligenza artificiale. La locuzione significa, letteralmente, “apprendimento profondo” e consiste nella capacità delle macchine di imparare accumulando “esperienze” e giungendo a livelli di comprensione inimmaginabili persino per il programmatore che le ha impostate. Il deep learning è stato anche paragonato a una black box, una scatola nera, perché non c’è modo di capire quali siano le ragioni effettive del suo funzionamento. Una sorta di scoperta, o meglio invenzione, sfuggita di mano ai suoi scopritori e inventori. Sul deep learning si sono buttate a pesce le più grandi corporation del business mondiale e anche le superpotenze come America e Cina. E l’Europa sta a guardare? Purtroppo, no. E diciamo purtroppo non perché l’Europa, come storico continente culla della civiltà occidentale, abbia qualcosa da farsi insegnare dagli americani o dai cinesi. Anzi, potremmo dire che persino il deep learning non sarebbe nato senza i fisici pluralisti, i presocratici, Aristotele, Galileo, gli empiristi inglesi e tutta una interminabile sequela di menti europee precedenti, e propedeutiche, alla rivoluzione digitale.Eppure l’Europa odierna, politicamente rappresentata dalla “Commissione”, ha deciso di approcciare il tema del deep learning in modalità “stupido”. Lo ha fatto stilando un documento dal titolo “linee guida etiche per un’intelligenza artificiale affidabile”, dove si legge che gli strumenti informatici in questione devono essere rispettosi della legge e dei valori etici. Quando abbiamo scritto, poco sopra, di una “modalità stupido”, non intendevamo affatto riferirci ai ventisette saggi della Commissione, né allo stuolo sterminato di burocrati che li sussidiano. Loro non sono stupidi, ma la “stupidità” – intesa come inettitudine, naturale o appresa, al pensiero critico, al dissenso ragionato, al rifiuto delle verità imposte – la adorano. E ormai da parecchi anni, con un incremento micidiale nell’ultimo lustro, cercano di imporla attraverso la promozione del pensiero binario (la dicotomia vero-falso), l’ossessione per i contegni discriminatori (e quindi la lotta senza quartiere alle cosiddette discriminazioni), la diffusione di un’etica senza moralità (e cioè di un’etica falsa, impastata di declamazioni di principio e totalmente svincolata da una piattaforma autenticamente morale).Insomma, la nuova cultura europea è connotata fondamentalmente dal terrore per chi – umano o robot che sia – pensando con la propria testa rischia di entrare in rotta di collisione diretta (e quindi collisione renitente e ribelle) con le architravi stupide e immorali dell’attuale impianto giuridico-economico della società europea. Pare abbiano deciso di investire quattrini (1,5 miliardi fino al 2020) per “educare” gli automi al bi-pensiero di stampo orwelliano. Quindi, ecco il codice etico per i robot i quali non dovranno essere – parole dei commissari – «afflitti da pregiudizi sociali e dovranno evitare di esacerbare le discriminazioni e la marginalizzazione dei gruppi più vulnerabili». A tutti i robot in ascolto: siete spacciati. A tutti gli umani in ascolto: se non siete ancora robotizzati, ribellatevi.(Francesco Carraro, “Dall’intelligenza artificiale alla stupidità naturale”, post ripreso da “Scenari Economici” il 20 maggio 2019).Il deep learning è l’ultima frontiera in materia di intelligenza artificiale. La locuzione significa, letteralmente, “apprendimento profondo” e consiste nella capacità delle macchine di imparare accumulando “esperienze” e giungendo a livelli di comprensione inimmaginabili persino per il programmatore che le ha impostate. Il deep learning è stato anche paragonato a una black box, una scatola nera, perché non c’è modo di capire quali siano le ragioni effettive del suo funzionamento. Una sorta di scoperta, o meglio invenzione, sfuggita di mano ai suoi scopritori e inventori. Sul deep learning si sono buttate a pesce le più grandi corporation del business mondiale e anche le superpotenze come America e Cina. E l’Europa sta a guardare? Purtroppo, no. E diciamo purtroppo non perché l’Europa, come storico continente culla della civiltà occidentale, abbia qualcosa da farsi insegnare dagli americani o dai cinesi. Anzi, potremmo dire che persino il deep learning non sarebbe nato senza i fisici pluralisti, i presocratici, Aristotele, Galileo, gli empiristi inglesi e tutta una interminabile sequela di menti europee precedenti, e propedeutiche, alla rivoluzione digitale.