Archivio del Tag ‘tasse’
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Perché mai dovremmo prendere ordini da Olli Rehn
Un fisico da attore comico, il classico volto pacioccone da commedia brillante: lo sfigato che tenta inutilmente di farsi prendere sul serio. In virtù dell’indecente ordinamento feudale dell’Unione Europea, persino uno come lui – Olli Illmari Rehn, classe 1962, proveniente dal paese di Babbo Natale – è in grado di impartire moniti e severe direttive ai 60 milioni di individui che compongono il popolo italiano. Popolo che pure è autorizzato (per ora) a continuare a votare per il suo Parlamento nazionale, quello di Roma, il quale però ha ormai competenza solo sull’1% dei problemi del paese: il 99% è infatti appannaggio diretto di Francoforte e Bruxelles, per gentile concessione di Washington. Così, a spiegare agli italiani di che morte dovranno morire può provvedere impunemente un tizio come il signor Rehn, dal 2010 “commissario europeo per gli affari economici e monetari”. Un super-potente, nonostante quella faccia un po’ così. Un gauleiter, a tutti gli effetti: con piena facoltà di emanare diktat acuminati, anche se non è mai stato eletto da nessuno di noi.Economia, relazioni internazionali e giornalismo: il curriculum del “signor no” che da qualche tempo perseguita gli italiani riassume da solo la mappa strategica dei territori-chiave riconquistati dal pensiero unico, negli ultimi decenni, per imporre la ricetta economica dell’oligarchia neoliberista: il trionfo dei pochi sui molti, la geopolitica piegata all’egemonia globalizzata delle élite finanziarie e mercantili, la disinformazione come arma pervasiva e invisibile del regime. Per capire chi è il “ministro dell’economia” della Commissione Europea basta aprire la relativa paginetta di Wikipedia: vi si legge che Rehn si è laureato nel Minnesota, si è specializzato a Oxford e ha approfondito le sue competenze sul corporativismo e la competitività industriale negli Stati europei minori, quelli che oggi sono sottoposti alle amorevoli cure della Troika. Ma anche Olli Rehn, dopotutto, è un essere umano: è sposato, ha un figlio, in gioventù ha persino giocato a calcio nella serie A finlandese.Moderato, è in politica dalla fine degli anni ’80. Nella triste Europa dell’Unione si è affacciato nel 1991, guidando la delegazione finlandese, per poi approdare all’euro-Parlamento nel ’95. Anni cruciali, quelli seguenti, segnati dall’incontro con l’uomo del destino, il connazionale Erkki Liikanen, futuro governatore della banca centrale finnica e all’epoca “ministro” della Commissione Europea guidata da Romano Prodi. Col tempo, Rehn ha preso il posto di Liikanen ed è rimasto pressoché in pianta stabile nell’esecutivo sub-imperiale europeo, prima presieduto da Prodi e poi da Barroso. Uno specialista, il dottor Rehn: è stato lui a trattare l’ingresso nell’Ue di Romania e Bulgaria, nonché a tenere in caldo l’adesione della Turchia. Così efficiente, il signor nessuno venuto da freddo, da meritarsi la poltronissima di super-ministro dell’economia, dalla quale minacciare ogni giorno – con le solite armi di distruzione di massa dell’economia – chiunque non intenda piegarsi alle micidiali “direttive” di Bruxelles.Al popolo italiano – e a tutti gli altri, sventurati ostaggi dell’Eurozona traditi dalle rispettive partitocrazie nazionali – resta da spiegare per quale ragione al mondo un paese come l’Italia dovrebbe prendere ordini (perché di questo si tratta) da un anonimo funzionario come l’ex calciatore finlandese. In Italia si combatte per un seggio in Parlamento, si corre per le primarie e si accorre ai meeting di Grillo, si favoleggia ancora sulle notti di Arcore, si discute (en passant) su come smontare la Costituzione e su come eventualmente rimontare una vera legge elettorale. E intanto si chiacchiera sull’Imu, si prende nota dei soggiorni europei del turista Letta e del fido banchiere Saccomanni, si vocifera di privatizzazioni e nuovi tagli, nuove tasse, nuovi orrori. E nessuno mai che spieghi per chi e per che cosa gli italiani dovrebbero votare, se poi alla fine a decidere del loro destino saranno ancora e sempre gli invisibili Padroni dell’Universo, per i quali lavorano gli estremisti in doppiopetto come Olli Rehn.Un fisico da attore comico, il classico volto pacioccone da commedia brillante: lo sfigato che tenta inutilmente di farsi prendere sul serio. In virtù dell’indecente ordinamento feudale dell’Unione Europea, persino uno come lui – Olli Illmari Rehn, classe 1962, proveniente dal paese di Babbo Natale – è in grado di impartire moniti e severe direttive ai 60 milioni di individui che compongono il popolo italiano. Popolo che pure è autorizzato (per ora) a continuare a votare per il suo Parlamento nazionale, quello di Roma, il quale però ha ormai competenza solo sull’1% dei problemi del paese: il 99% è infatti appannaggio diretto di Francoforte e Bruxelles, per gentile concessione di Washington. Così, a spiegare agli italiani di che morte dovranno morire può provvedere impunemente un tizio come il signor Rehn, dal 2010 “commissario europeo per gli affari economici e monetari”. Un super-potente, nonostante quella faccia un po’ così. Un gauleiter, a tutti gli effetti: con piena facoltà di emanare diktat acuminati, anche se non è mai stato eletto da nessuno di noi.
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Contro la Troika solo Grillo è credibile: non è loro complice
E alla fine ci sono andato, anche perché la manifestazione distava ben 900 metri dal portone di casa mia. Non saprei dire se a radunarsi sono state più o meno di 100.000 persone, però è una certezza assoluta che, tranne Grillo, nessun leader politico oggi sarebbe capace di portare in piazza così tanti cittadini, e piazza della Vittoria è maledettamente grande, pare che neppure Papa Ratzinger fosse riuscito a stiparci tanti uomini e donne. Mi sono fermato a parlare con quante più persone possibile soprattutto per capire se fossero già elettori dell’M5S. Ovviamente perlopiù lo sono, ma ho trovato una consistente minoranza (diciamo 4 persone su 10) che mi hanno detto di non avere votato per nessuno alle ultime elezioni politiche oppure di avere votato per qualche partito del centrodestra. Solo uno ha fatto l’outing di essere un elettore di centrosinistra, e per un città rossa come Genova la cosa mi ha dato da pensare. Forse si è trattato solo di vergogna (interessante come cambiano le cose, una volta ci si vergognava di essere elettori di Berlusconi).
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Truce Germania smemorata: noi le condonammo i debiti
Strana, pericolosa Germania: è risorta dalla vergogna mondiale del nazismo ricorrendo alla “politica della memoria” che l’ha riabilitata, beneficiando di un colossale taglio del debito accordatole nel ’53 (per motivi geopolitici, certo) da ben 65 paesi, tra cui l’Italia. Ma ora pare vittima di un’amnesia capitale, pretendendo che il debito altrui venga saldato, costi quel che costi, foss’anche la morte per fame dei poveri greci o la devastazione economica di un grande paese come il nostro. Per Barbara Spinelli, rischia di tornare in scena il peggio della storia europea: proprio i tedeschi stanno infliggendo al resto d’Europa la stessa “punizione” che furono i primi a subire, per mano della Francia, che dopo la Prima Guerra Mondiale demolì la Repubblica di Weimar spianando la strada alle camicie brune. Stessa ricetta degli “austeritari” di allora: deflazione spietata, super-export, crollo dei consumi interni, crescente irresponsabilità bellicosa verso i vicini.
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Un Comitato di Liberazione Nazionale contro le euro-tasse
Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.«La tragedia dell’economia attuale, quella del tuo reddito, del tuo mutuo e del futuro di tuo figlio – scrive Barnard nel suo blog – è che una generazione di miserabili economisti prezzolati a suon di parcelle dal Potere ha fatto dimenticare a tutti il Dna dell’economia per l’Interesse Pubblico, quella che veramente creò la ricchezza moderna. Così ci hanno guadagnato quattro porci di speculatori, sulla pelle di milioni». Ed è successo. «Immaginate: è come se Maria De Filippi, il Gabibbo, Jovanotti e Mammuccari ci avessero fatto dimenticare che il Dna della lingua italiana sono Dante, Petrarca, Foscolo, Carducci o Pavese e Moravia – infatti è successo anche questo, e la lingua che parliamo è una cosa abominevole». Barnard cita un economista democratico di 70 anni fa, Michal Kalecki: «Basterebbe ricordare che razza di genio illuminato era costui e che cuore aveva per l’interesse della gente». Meglio si capirebbe che «la penicillina della salvezza delle nostre vite economiche è stata annientata, nascosta, con risultati orripilanti sulla vita di tutti noi».Nel 2013, l’Italia si ritrova un governo «illegittimo», sorretto da un uomo come Napolitano, accusato di “cestinare” la Costituzione. «Il potere deve tornare ai cittadini», dice Barnard, attraverso un nuovo Cln come quello sorto nel 1943. Obiettivo, abbattere il “fascismo finanziario” di Bruxelles. Come? Con una sorta di rivolta fiscale. «Azione numero 1: Il reato di evasione fiscale è abolito. Lo decidono gli italiani per legittima difesa. Evaderemo tasse fino al raggiungimento del 9% di deficit, poiché le identità macroeconomiche dimostrano oltre ogni dubbio che il deficit dello Stato è la ricchezza di cittadini e aziende per la salvezza nazionale. O l’alza il governo (unitamente a un taglio delle tasse), o l’alziamo noi con l’evasione. Vita o morte dell’Italia è in gioco». Un appello che Barnard considera patriottico: «Nel nome della patria e della Costituzione italiana, oggi la salvezza del paese passa per l’evasione fiscale delle tasse dell’Economicidio impostoci dal fascismo tecnocratico europeo».Serve un nuovo Comitato di Liberazione Nazionale, per respingere il “fascismo finanziario” dell’Unione Europea e imporre il ritorno della democrazia e della sovranità in Italia. Paolo Barnard lo spiega “verticalizzando” il problema senza giri di parole. I “sociopatici” trattati-capestro su cui si fonda l’Ue? «Esautorano Stati, Costituzioni e Parlamenti, quindi i cittadini sovrani», che non hanno mai votato né per Maastricht né tantomeno per il Fiscal Compact. Su Bruxelles il Parlamento Europeo non ha potere, i popoli europei non possono esprimersi democraticamente né difendersi. Imposizione fiscale, taglio dei deficit, austerità imposte dal regime europeo? «Sono strumenti del fascismo finanziario Ue per l’impoverimento delle masse e conseguente scadimento della democrazia». L’unica soluzione, secondo Barnard, sta nell’abolizione, «per legittima difesa», del reato di evasione fiscale. Inutile aspettarsi misure di salvezza dal governo: non le adotterà mai.
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Sapelli: Letta svende il paese perché non osa difenderlo
La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.Privatizzare la rete ferroviaria è impossibile, si potrebbero piuttosto vendere le Grandi Stazioni. Per quanto riguarda Poste Italiane, avrebbe senso privatizzarle a condizione di trasformarle in un grande gruppo di logistica. In questo momento però manca un disegno industriale, e lo documenta il fatto che sono un’entità ibrida a metà tra le poste e una banca. Quindi, parlare di privatizzazioni in questo momento è soltanto una concessione al pensiero dominante che ha distrutto la crescita del nostro paese. Gli effetti delle privatizzazioni negli anni ‘90 sono stati la spartizione di un bottino e l’indebolimento del nostro settore industriale. Le privatizzazioni attuate dal governo Letta per “ridurre il debito pubblico”? Cercare di fare passare un’idea di questo tipo è soltanto una presa in giro. L’Italia ha un debito pubblico da 2.000 miliardi, e 12 miliardi non sono certo sufficienti a cambiare le cose.I dividendi di queste imprese partecipate dallo Stato sono molto più utili a ridurre gli squilibri di bilancio. Mi domando come si possa credere a una manovra illusionistica come quella che sta facendo il governo. Enrico Letta ha delle pesanti responsabilità storiche, perché è stato lui, insieme a Pier Luigi Bersani, ad attuare la liberalizzazione dell’energia elettrica e del gas, in modo errato anche dal punto di vista tecnico. Il premier ora si trova costretto a privatizzare perché da un lato è messo sotto pressione da parte di Saccomanni, che non risponde agli interessi dell’Italia ma a quelli della tecnocrazia europea. Letta non ha la forza né il coraggio di battersi per cambiare la linea europea in politica economica, che sta producendo effetti suicidi. Non a caso Francia e Germania, che si rifiutano di applicare i diktat europei, stanno subendo una decrescita meno pesante rispetto al nostro paese.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Pietro Vernizzi per l’intervista “La tecnocrazia europea vuole svenderci”, apparsa su “Il Sussidiario” il 23 novembre 2013).La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.
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Omeopatia, a rischio i farmaci per 11 milioni di italiani
Dal Parlamento al Tar, si consuma in queste settimane la battaglia per salvare centinaia di medicinali omeopatici dalla scomparsa. Il casus belli? Le modalità con cui il legislatore italiano ha recepito la direttiva europea che prevede la “schedatura” dei medicinali omeopatici in commercio e la valutazione sulle modalità produttive per garantirne la qualità. Il cosiddetto “decreto Balduzzi”, poi convertito in legge, ha imposto tariffe di registrazione per le specialità medicinali 700 volte superiori a quelle precedenti e questo ha gettato nel panico le aziende, soprattutto quelle medio-piccole che si troverebbero costrette a chiudere o a fare tagli drastici per poter andare avanti. Peraltro, la procedura, nella distorsione italiana, come ha spiegato anche Omeoimprese (l’associazione industriale italiana dei produttori di rimedi omeopatici), impone che i medicinali omeopatici vengano registrati come se fossero nuovi, mentre sono sul mercato da decenni.
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Benetazzo: scordiamoci l’Italia, sta per essere cancellata
Scordatevi questa Italia: sarà cancellata. Finito nella tagliola dell’euro che priva lo Stato della capacità di finanziarsi a costo zero, il governo di turno è “costretto” a super-tassare famiglie e aziende. E non potendo più far ricorso alla banca centrale per controllare il debito, ricorre alla svendita dei gioielli di famiglia: Sace, Enav, Fincantieri, Grandi Stazioni e per finire anche l’Eni. Enrico Letta si appresta a svendere per battere cassa, nella speranza di racimolare almeno 10 miliardi? «Ormai ci siamo: a farla grande, si tratta di aspettare ancora 18 mesi». Dopodiché, secondo Eugenio Benetazzo, «il destino di contribuenti, pensionati e risparmiatori italiani sarà presto delineato». E stavolta «non ci saranno mezze misure», perché «il declino del paese si trasformerà nella dipartita della nazione». Chi spera nell’avvento del “Regno di Renzi” si illude: anche il sindaco di Firenze pensa a una colossale dismissione del patrimonio pubblico. Eseguendo, alla lettera, il famoso diktat della Bce che detronizzò Berlusconi a fine 2011, aprendo la strada al governo Napolitano-Monti.La svendita del paese, ricorda Benetazzo sul suo blog, è una ingloriosa esclusiva del centrosinistra: prima Amato, poi D’Alema e quindi Prodi. «Si vende l’argenteria, per pagare i debiti contratti per giocare alle slot machine». Ormai ci siamo: senza un Piano-B, si salvi chi può. «Non ci saranno scialuppe per tutti, molti faranno la fine di tante povere pecore: scannati vivi». E non serviranno a nulla «il pianto in diretta presso il talk show di turno, l’appello di qualche autorità rinsavita o le esternazioni prosaiche formulate dagli ambienti cattolici». Non si scappa: la strada è segnata da quella maledetta lettera firmata da Draghi e Trichet, col pretesto di «mettere il paese in sicurezza economica e finanziaria», dopo l’esplosione dello spread gonfiato dallo stesso super-potere finanziario con l’obiettivo di mettere in crisi l’Italia per poi sbranarla comodamente, a prezzi di saldo, con la complicità del personale politico nazionale. Le chiamano “riforme strutturali”: quanto accadrà nei prossimi mesi non è altro che l’applicazione di quella lettera. «Andatevela a rileggere e studiare, nei minimi dettagli», scrive Benetazzo. Era tutto scritto: dopo aver messo mano a pensioni e risparmi, sarà “obbligatorio” intervenire su quei gangli vitali che finora nessuno ha avuto il coraggio di modificare.Quelli della lettera? Potranno sembrare «capisaldi di buon senso, necessari per sgravare il peso della attuale fiscalità diffusa», almeno per provare a rimettere in moto «un paese che tra otto anni sarà scalzato dal Messico e dal Brasile». Chi non ha “visto” subito il pericolo – lo smantellamento del sistema-Italia – tenterà una retromarcia per salvarsi. Ma ormai sarà troppo tardi anche per i «diversamente rinsaviti». Quelli che pagheranno il conto più amaro, continua Benetazzo, saranno proprio quei soggetti che hanno vissuto per decenni «dentro una cupola intoccabile», cioè i dipendenti pubblici e parastatali: «Finalmente capiranno che cosa significa, semanticamente, il termine di “equità sociale” quando calerà la scure del Memorandum of Undestanding affiancato dalle Omt, Outright Monetary Transactions». Sarà la fine del paesaggio socio-economico al quale siamo abituati da sempre. Se qualcuno dei tagli farà piazza pulita di alcune storture, il risultato sarà devastante: terra bruciata, là dove c’era la comunità nazionale italiana.Succederà a colpi di imposizioni europee, quando non avremo più risorse a cui attingere: aumento della concorrenza nei servizi pubblici (fine delle baronie e dei feudi di famiglia, ma probabilmente tariffe più care) e nuova fiscalità, per rendere le imprese italiane più competitive (fine dell’Irap e diminuzione dell’Ire). Poi: “razionalizzazione” dell’assistenza sanitaria, ovvero «assicurazioni private ove non sussista più l’intervento generico dello stato sociale», con tanti saluti al welfare sanitario universale. Il mercato del lavoro? Più “dinamico ed efficiente”. Traduzione: «Libertà di licenziamento senza obblighi di reintegro». In agenda anche la “liberalizzazione dei servizi professionali”, quindi la fine degli ordini professionali, e la “riforma della contrattazione sindacale”, cioè il ridimensionamento del potere contrattuale di sindacati ormai rassegnati a negoziare solo la perdita dei diritti del lavoro. Altro capitolo, il “miglioramento dell’efficienza amministrativa”, ovvero: «Inserimento di indicatori di performance per i dipendenti pubblici per la valutazione del loro operato». E naturalmente, “snellimento dei centri di responsabilità”. Leggasi: abolizione del Senato e delle Province, e accorpamento dei Comuni, cioè gli ultimi centri istituzionali ancora controllabili dai cittadini mediante l’istituto delle elezioni. A volte la democrazia ha funzionato? Niente paura: laddove rischia di ostacolare il business, verrà semplicemente rimossa.Scordatevi questa Italia: sarà cancellata. Finito nella tagliola dell’euro che priva lo Stato della capacità di finanziarsi a costo zero, il governo di turno è “costretto” a super-tassare famiglie e aziende. E non potendo più far ricorso alla banca centrale per controllare il debito, ricorre alla svendita dei gioielli di famiglia: Sace, Enav, Fincantieri, Grandi Stazioni e per finire anche l’Eni. Enrico Letta si appresta a svendere per battere cassa, nella speranza di racimolare almeno 10 miliardi? «Ormai ci siamo: a farla grande, si tratta di aspettare ancora 18 mesi». Dopodiché, secondo Eugenio Benetazzo, «il destino di contribuenti, pensionati e risparmiatori italiani sarà presto delineato». E stavolta «non ci saranno mezze misure», perché «il declino del paese si trasformerà nella dipartita della nazione». Chi spera nell’avvento del “Regno di Renzi” si illude: anche il sindaco di Firenze pensa a una colossale dismissione del patrimonio pubblico. Eseguendo, alla lettera, il famoso diktat della Bce che detronizzò Berlusconi a fine 2011, aprendo la strada al governo Napolitano-Monti.
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Liberarsi dall’euro, non-moneta fraudolenta e totalitaria
La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».Obiettivo: smantellare lo Stato democratico – garante dei cittadini – per privatizzare tutto, a beneficio di pochi ricchissimi. E tutto questo, osserva Alberto Conti su “Megachip”, grazie a un alibi come il «falso dogma dell’indipendenza della politica monetaria ai fini della stabilità». Così, si è formata l’euro-burocrazia al servizio delle lobby economico-finanziarie, che di fatto si arrogano il diritto d’interpretare il processo di unificazione europea, «falsamente presentato con la persuasiva immagine progressista dei padri fondatori di un sogno, che in realtà si è trasformato in un incubo», soprattutto per paesi come l’Italia. Col maturare della crisi, «l’euro mostra sempre più la sua vera natura di moneta fraudolenta, con la funzione di idrovora della ricchezza pompata dal basso verso l’alto». Ma la cosa peggiore è che questi falsi ideologici «alimentano odio e false contrapposizioni d’interesse tra i popoli, in nome della “competitività nei liberi mercati”, senza mai specificare se fisici o finanziari, in una logica di commistione diabolica dove per salvare gli uni occorre distruggere gli altri».Che l’euro sia una non-moneta, continua Conti, lo testimonia il suo disegno strutturale fin dalla nascita (Maastricht, Bundesbank, Deutsche Bank), i cui esiti nefasti si stanno manifestando dopo poco più di un decennio dalla sua entrata in vigore, precipitati e aggravati dalla crisi finanziaria globale che ha il suo epicentro a Wall Street. Basta un raffronto dell’euro col dollaro – i debiti sovrani europei e quello federale Usa – per capire le analogie e le differenze della “nostra” (si fa per dire) moneta con quella di riferimento globale, cioè il dollaro di Bretton Woods, dal 1971 divenuto «la principale arma di contrapposizione ostile e violenta dell’impero col resto del mondo». Quanto all’euro, «da promessa di simbolo e motore economico dell’Unione Europea», si è presto rivelato essere il suo esatto opposto, cioè «strumento di prevaricazione di pochi sempre più ricchi sulle masse impoverite». Una vera «forza disgregatrice dell’Unione Europea, dopo i primi illusori anni». La catastrofe della periferia, però, è di tali proporzioni da travolgere di seguito anche il centro, che però un risultato lo ha comunque ottenuto: consolidare l’economia della Germania riunificata, “stabilizzando” un alleato strategico degli Usa.«Si pronuncia euro, copyright della Bce, ma si legge “potere della finanza globale neoliberista”», realizzato «attraverso la longa manus di un sistema bancario privatizzato e asservito agli interessi dell’élite, come già le corporation che monopolizzano i mercati fisici e il sistema mediatico che disinforma e addormenta le masse». Dunque, che fare? Abbattere questo “mostro” o riformarlo, mettendolo al servizio dei popoli? Per Conti, «la natura non riformabile di questa sovrastruttura tecno-politica può pur sempre trasfigurare in positivo semplicemente abrogandone la sua caratteristica principale, il totalitarismo progressivamente istituzionalizzato, cioè il fatto di essere una “moneta unica” non nel senso che è comune (10 paesi dell’Ue non l’hanno mai adottata), ma nel senso che non ammette altre valute là dove invece è stata introdotta nel 2000». Tecnicamente basterebbe aggiungere in ogni paese dell’Eurozona una nuova moneta nazionale (Euro-lira, Euro-marco, Euro-pesetas), inizialmente nel rapporto 1:1 con l’euro; la nuova moneta sostituirebbe quella della Bce per la fiscalità e i pagamenti interni al paese, lasciando all’euro la funzione di pagamento nelle transazioni tra paesi diversi. Decisivo il rapporto dei cambi: andrebbe aggiornato periodicamente «sotto il controllo di un nuovo Parlamento Europeo, finalmente dotato della dignità di un vero governo di competenza strettamente confederale, che governa la Bce collegialmente».Questa misura, per avere il successo sperato e traghettare l’Europa fuori dalla crisi, dovrebbe essere accompagnata da un decalogo di cambiamento radicale. Mai più cessioni improprie di sovranità nazionale, a cominciare da quella monetaria interna. Mai più obbedienza cieca, sotto ricatto, ai diktat del circo della finanza globalizzata. Mai più salvataggi pubblici dei crack degli speculatori privati, grandi o piccoli. Mai più la primazia del profitto privato sulla difesa del lavoro. Mai più il contrasto alla recessione con misure recessive. E mai più libera circolazione di merci e capitali contro gli equilibri e gli interessi leciti dell’economia locale. Inoltre, aggiunge Conti, bisognerebbe bloccare gli attacchi speculativi eterodiretti alla valuta nazionale, impedire che i “debiti sovrani” finiscano fuori controllo. Mai più interferenze delle lobby, le grandi mafie che oggi dettano ai governi le misure da infliggere ai cittadini. Obiettivo possibile, a patto che risorga lo Stato democratico come “attore dell’economia”, con «funzioni di stimolo e di controllo sistemico». Dalla dignità dello Stato dipende quella dei cittadini, quindi la democrazia: serve «una forte volontà politica» per globalizzare i diritti, verso un futuro di pace che ci liberi dall’incubo.La nostra maledizione? Si chiama euro. «Più che una moneta, è un metodo di governo occulto, elitario, illegittimo, autoritario e antidemocratico». Una minaccia «che divide, anziché unire i popoli europei, col terrorismo della miseria (fuori dall’euro) e la promessa della prosperità (dentro l’euro)». Un mito, «falsificato in diverse varianti, a seconda della realtà socio-economica interna di ciascun paese». L’inizio della fine? Lo storico divorzio tra governi e banche centrali, dove queste ultime hanno cessato di fungere da “bancomat” degli Stati per sostenere la spesa pubblica. Di qui le “riforme strutturali” che prevedono stangate fiscali e misure recessive, privatizzazioni dei servizi, devastazione del lavoro con flessibilità, precarizzazione e licenziamenti facili. Era un piano preciso: togliere ossigeno agli Stati, azzoppando le economie democratiche a vantaggio delle élite. Lo spread? «Chiaramente pilotato dalla Bce, come “clava di ultima istanza” per costringere i governi periferici a imporre l’amara medicina».
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La via dei lupi, per resistere. Vale un film: facciamolo
Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.«Viviamo in città lontano dalla natura, mangiamo senza fame e beviamo senza sete, ci stanchiamo senza che il corpo fatichi, rincorriamo il nostro tempo senza raggiungerlo mai». Così scriveva, Carlo Grande, nel libro-confessione “Terre alte”. «Abbiamo bisogno di riprenderci le nostre vite, di trovare una strada che ci riporti al centro di noi stessi». Era solo il 2008, ma sembra un secolo fa. «Quando si ha, come noi, una tale sicurezza materiale da non temere più di tanto per il futuro, quando non ci si domanda cosa succederà la settimana prossima, quando si ha sempre di che vivere e non si sa più per cosa, si forma intorno a noi una prigione senza confini, da cui è difficile fuggire». Oggi, col precipitare della crisi, molte di queste sicurezze sono cadute: sono migliaia, milioni, i cittadini italiani ed europei che hanno ripreso a preoccuparsi per la loro sorte immediata, a causa di una sofferenza decretata dall’alto di un potere oscuro, percepito come ostile. Un potere accusato di aver tradito la sua promessa, venendo meno al suo dovere.E’ proprio il dolore per il tradimento – quello del principe che gli ha sedotto la figlia – a scatenare la furia del feudatario valsusino: il Delfino francese ha calpestato le regole, su cui si regge la civiltà medievale del “paratge”, l’onore tra uomini liberi che accettano volontariamente di mettersi al servizio l’uno dell’altro. E’ la “civiltà mediterranea”, nella quale Simone Veil individua l’ultima reincarnazione dell’Atene di Pericle (il culto della bellezza) prima che le forze più aggressive della storia spegnessero la luce, dalle legioni conquistatrici alla sanguinosa repressione delle eresie libertarie. Se oggi i critici più intransigenti puntano il dito contro il nazi-capitalismo finanziario che muove i burattini di Bruxelles imponendo la “desmisura” di condizioni-capestro assolutamente insostenibili per il 99% dei cittadini, i territori riscoprono il valore dimenticato della comunità solidale, come dimensione indispensabile non solo per l’autodifesa, ma anche per la coltivazione di quell’umanesimo in mancanza del quale non potremmo vivere. Anche così si può rileggere la vicenda di François: senza il coraggioso sostegno della sua gente non sarebbe mai riuscito a ribellarsi né a evadere dal carcere, né tantomeno a resistere così a lungo tra le nevi delle sue montagne.E’ esattamente questo tipo di bellezza che il film è ansioso di esprimere, nel silenzio incantato delle foreste. C’è anche una salutare nostalgia per il “mondo bambino” del medioevo più luminoso, la civiltà di uomini e donne che sapevano gioire, piangere, commuoversi, tra montagne che – per secoli – tennero in vita la Repubblica degli Escartons, straordinario esperimento di autogoverno cantonale, nel cuore dell’Europa. Si parlava occitano, la lingua di François, quella in cui Dante avrebbe voluto scrivere la Commedia, perché solo i trovatori provenzali – i primi, dall’avvento della cristianità – avevano riscoperto la tenerezza dell’amore, quella dei lirici greci, e avevano cominciato a cantarla, sfidando l’oscurantismo vaticano grazie alla protezione di autorità politiche tolleranti. «Il film – dice oggi Carlo Grande – sarebbe un fecondo generatore di bellezza, un balsamo alla solitudine morale: credo in questo film perché credo in questa storia, in questo libro, in tempi di carestia fisica (di aria, di acqua, di terra) e spirituale (etica ed estetica)». Il cinema italiano non è in grado di produrre il film, per questo si pensa a Hollywood. Un percorso da fare insieme, appropriandosi della causa. Basta anche solo un piccolo tributo d’onore, per co-finanziare l’adattamento in inglese. E far sentire che la comunità non se la sente di abbandonare il suo antico eroe: oggi come allora, il vecchio François – guerriero riluttante, partigiano della libertà – per tornare a lottare sulla “via dei lupi” ha davvero bisogno di noi.(Per aderire alla sottoscrizione è sufficiente prenotarsi, senza alcun anticipo di denaro, sulla piattaforma di social crowdfundig “Produzioni dal basso”, dichiarando la propria disponibilità a sostenere il progetto, anche solo con la quota minima di 20 euro. Più quote danno diritto alla presenza nei titoli coda, al dvd e all’invito a proiezioni nei cinema. L’obiettivo è vicino: ancora pochi click e si raggiungeranno i 4.000 euro necessari a finanziare la revisione della sceneggiatura, che consentirà di impostare la produzione del film).Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.
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Gallino: banche e governi, colpo di Stato contro di noi
Curare la recessione con diktat recessivi? E’ il paradosso dell’Unione Europea, dal 2010 in poi: costringere le vittime della crisi – milioni di cittadini – a pagare i danni che la stessa crisi ha provocato. Una colossale serie di errori commessa da governi ottusi? No, purtroppo: impossibile pensare che non sapessero che l’austerità sarebbe stata «una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico». In realtà, accusa Luciano Gallino, i governanti europei «sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata». Il problema è un altro: «Il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia: è piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto». Un meccanismo spietato, «in corso da oltre trent’anni». Gallino lo chiama: il colpo di Stato di banche e governi.Il nemico da smascherare è proprio l’élite, «messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2007». I cittadini europei e americani, scrive Gallino nel suo ultimo libro pubblicato da Einaudi e anticipato da “Micromega”, hanno già sopportato pesanti oneri, «prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti», e in seguito «per le conseguenze dirette della crisi». Il problema dei governi è diventato: stroncare qualsiasi opposizione allo smantellamento del welfare. Due le mosse decisive: incolpare lo Stato (spesa pubblica) per i guasti di una crisi innescata in realtà dal sistema bancario, e inchiodare i cittadini alla paura, nella logica dell’emergenza. «Così come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all’emergenza denominata “debito eccessivo dei bilanci pubblici” le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio Europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri».Al “piano di guerra” collaborano la Commissione Europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e naturalmente la Bce, con l’immancabile apporto del Fmi. In altre parole, la Troika: quella che emana diktat che i governi dovranno semplicemente ratificare ed eseguire. «Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia, il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus, il cosiddetto “patto fiscale” ovvero Trattato sulla stabilità, la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità». Il trucco: «Essendo l’approvazione “chiesta dall’Europa”, i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza». Così, grazie a una super-casta composta da «poche dozzine di persone», la democrazia in Europa è «in corso di rapido svuotamento».Persino il Trattato della Ue, più attento al “libero mercato” che non alla democrazia, ormai «appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika». La libertà è finita: «Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato come “alternativlos”, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani, dell’intera economia europea». Di fronte a simili minacce, «che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente», i cittadini degli Stati-cardine della Ue hanno finora «subito a capo chino gli interventi dell’autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles», che ormai stanno assumendo il profilo di «un colpo di Stato a rate».Curare la recessione con diktat recessivi? E’ il paradosso dell’Unione Europea, dal 2010 in poi: costringere le vittime della crisi – milioni di cittadini – a pagare i danni che la stessa crisi ha provocato. Una colossale serie di errori commessa da governi ottusi? No, purtroppo: impossibile pensare che non sapessero che l’austerità sarebbe stata «una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico». In realtà, accusa Luciano Gallino, i governanti europei «sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata». Il problema è un altro: «Il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia: è piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto». Un meccanismo spietato, «in corso da oltre trent’anni». Gallino lo chiama: il colpo di Stato di banche e governi.
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Cremaschi: mentono sulla ripresa, ci vogliono rassegnati
Dopo la pubblicazione degli ultimi dati Istat, che aggravano la portata della crisi rispetto alle previsioni del governo, è legittimo chiedersi se i nostri governanti siano soprattutto incompetenti o soprattutto bugiardi. Per me sono soprattutto bugiardi, perché è davvero difficile credere che dopo tre anni nei quali l’intreccio tra crisi e austerità ha prodotto il disastro sociale in cui viviamo, essi possano ancora sbagliarsi nelle previsioni e nelle decisioni. Secondo l’Istat anche quest’anno avremo una recessione di quasi due punti, che sommata a quella degli anni precedenti porta la caduta complessiva della nostra economia a sfiorare il 10% del Pil. L’anno prossimo, sempre secondo l’istituto di statistica, si dovrebbe crescere dello 0,7%. Quindi, ammesso che il dato sia vero e che segni una svolta duratura, abbiamo di fonte a noi una dozzina di anni prima di tornare ai livelli di Pil del 2007-2008.D’altra parte già oggi ci si dice che in ogni caso questa crescita non riassorbirà la disoccupazione provocata dalla crisi, anche perché nel frattempo chi ha la fortuna di mantenere un lavoro opera molto più intensamente e per più ore di prima. Quindi tra dodici anni, ammesso che davvero si sia recuperato il Pil perduto, la disoccupazione sarà più o meno quella di oggi e la precarietà di chi lavora ancora maggiore. Possibile che Letta e Saccomanni, non discuto di Alfano che magari è davvero incompetente, non sappiano nulla di tutto ciò e credano sul serio che agganciando non si sa quale mitica ripresa internazionale, attirando misteriosi investitori finanziari, si riduca la disoccupazione? Perché questo si avverasse, l’economia italiana dovrebbe crescere del 4% all’anno: solo così potrebbe riassorbire almeno in parte la disoccupazione e continuare a fare fronte ai vincoli di bilancio imposti dalla Troika europea e finanziaria. Ma simili tassi di crescita sono pura fantascienza non solo per il nostro paese, ma persino per la vincente Germania.E allora? Ripeto, è possibile che Letta e Saccomanni, pieni di titoli e riconoscimenti sulle competenze economiche, non sappiano ciò che è ovvio per uno studente ai primi anni di economia? Non ci credo e dunque avanzo l’ipotesi che essi sappiano benissimo che dalle loro politiche di austerità sortiscono gli effetti che vediamo, ma che con le loro bugie vogliano farceli accettare. Le chiacchiere sulla ripresa, sul miglioramento inesistente della economia, sui frutti della stabilità, servono soprattutto a prendere tempo e a farci abituare a vivere così. Più ci adattiamo a vivere nella recessione e nella disoccupazione di massa, più ci sembreranno un risultato le 14.000 assunzioni di giovani che Letta vanta all’attivo, mentre al passivo, ce lo ricorda ancora l’Istat, ci sono un milione e duecentomila licenziamenti. Letta e Saccomanni, e tutti i governanti che si ispirano all’austerità europea, sanno perfettamente che quello che fanno ha prodotto, produce e produrrà disoccupazione di massa, ma vogliono solo, con chiacchiere e vane promesse, abituarci ad essa e indurci alla rassegnazione. Speriamo che sulla rassegnazione sociale abbiano sbagliato i conti, come rispetto ai dati dell’Istat.(Giorgio Cremaschi, “Ma ci fanno o ci sono?”, da “Micromega” del 4 novembre 2013).Dopo la pubblicazione degli ultimi dati Istat, che aggravano la portata della crisi rispetto alle previsioni del governo, è legittimo chiedersi se i nostri governanti siano soprattutto incompetenti o soprattutto bugiardi. Per me sono soprattutto bugiardi, perché è davvero difficile credere che dopo tre anni nei quali l’intreccio tra crisi e austerità ha prodotto il disastro sociale in cui viviamo, essi possano ancora sbagliarsi nelle previsioni e nelle decisioni. Secondo l’Istat anche quest’anno avremo una recessione di quasi due punti, che sommata a quella degli anni precedenti porta la caduta complessiva della nostra economia a sfiorare il 10% del Pil. L’anno prossimo, sempre secondo l’istituto di statistica, si dovrebbe crescere dello 0,7%. Quindi, ammesso che il dato sia vero e che segni una svolta duratura, abbiamo di fonte a noi una dozzina di anni prima di tornare ai livelli di Pil del 2007-2008.
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Krugman: complotto contro Hollande, che sfida la Troika
Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.Per Krugman, il declassamento della solvibilità francese è una «manovra politica destabilizzante»: Wall Street punisce Hollande per aver “osato” salvaguardare il welfare francese. «E’ la prima volta che un economista di punta americano, nonché consulente della Casa Bianca, professore e maestro di colei che andrà a guidare la Federal Reserve Usa, sbugiarda i rating americani denunciandone l’uso politico», scrive Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog. Per il “maestro” di Janet Yellen, erede di Benanke alla Fed, «la Repubblica di Francia e monsieur Hollande sono vittime di un complotto del mondo della finanza e delle oligarchie politiche europee perché la Francia è l’unica nazione d’Europa che sta diminuendo il proprio disavanzo pubblico, sta migliorando i propri conti, è perfettamente in linea con i parametri europei, ma ha un difetto grave che nessuno gli perdona: ha salvato, sta salvando e intende salvare lo Stato Sociale della sua nazione».Black out totale, in Italia, sulle enormi ripercussioni dello scontro: da noi, scrive Di Cori Modigliani, si è sorvolato sull’incontro tra Hollande e la Troika nel corso del quale il presidente francese ha chiesto (e ottenuto) il permesso di sforare il tetto del 3% della spesa pubblica «fino alla cifra che riterremo opportuna per gli interessi della Francia», rimandando il pareggio di bilancio al 2015. «L’ha fatto Hollande, lo potevano fare Mario Monti ed Enrico Letta: sarebbe stato sufficiente convocare la Troika, un mese fa – invece che farsi convocare – pretendere di rimandare la scadenza europea al 2015 avvalendosi del precedente francese e sostenere “o ci date una deroga e ci consentite quindi di investire 100 miliardi di euro per pagare i debiti alle piccole e medie imprese immediatamente oppure noi usciamo dall’euro domattina”». Per il blogger, «la Troika si sarebbe arresa». Ma, ovviamente, sarebbero stati necessari «attributi solidi, non quelli di plastica di cui è fornita la nostra classe dirigente», in realtà perfettamente organica (Bilderberg, Goldman Sachs) al “cerchio magico” del super-potere mondiale.In un incontro pubblico all’università di New York, lo stesso Krugman ha rivelato con dovizia di particolari i retroscena del «tragico incontro» che, circa due mesi fa, François Hollande ha avuto con Herman Van Rompuy e Olli Rehn, due sbiaditi politici europei (Belgio, Finlandia) trasformati in “serial killer politici” dal potere non-democratico di Bruxelles. La Francia aveva appena presentato i propri conti alla famigerata Commissione Europea: erano tutti a posto e in linea con le richieste. Ma sia Van Rompuy che Olli Rehn, rispettivamente presidente del Consiglio d’Europa e super-commissario all’economia Ue, contestarono le misure “per come erano state fatte”. Perché Hollande, dice Modigliani, «aveva alzato le tasse ai super-ricchi e quelle sulle rendite finanziarie, aveva dimezzato i costi della politica, aveva aggredito (decurtandoli) gli stipendi dei grossi manager pubblici». E il risparmio così ottenuto, «invece di investirlo per rifinanziare le proprie banche lo aveva dirottato nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica, nella salvaguardia e cura del patrimonio artistico nazionale, avviando un piano di recupero del territorio e di sostegno per la disoccupazione intellettuale, quest’ultima (per la Francia) una priorità assoluta di cui occuparsi». Attenzione alla perversa sottigliezza della Troika: «Non vennero contestati i conti, che erano a posto, ma venne contestato il principio sulle modalità usate per ottenere il beneplacito della Commissione Europea».Per la Troika «non era accettabile l’idea che lo stato sociale venisse salvaguardato, addirittura implementato». Quindi, non c’entra lo stato di salute del bilancio: quello che davvero importa è che i conti siano a posto «solo e soltanto se contemporaneamente aumenta la disoccupazione e le risorse non vengono investite nei campi dell’istruzione pubblica, della sanità pubblica, della ricerca scientifica». In Italia il Movimento 5 Stelle spiega come e dove trovare in soldi per i 600 euro mensili del “reddito di cittadinanza”? Una proposta sicuramente indigesta, per figuri come Rehn e Van Rompuy: ecco perché Letta & colleghi non la prendono nemmeno in considerazione. «La vera guerra in corso – conclude Modigliani – è tra gli oligarchi del privilegio e la cittadinanza che lavora: il mondo ormai si divide tra chi fa la guerra contro i poveri e chi fa la guerra contro la povertà». Hollande sa che i francesi non accetterebbero di veder cancellato il proprio welfare? E allora la Troika lo fa “bastonare” dalle agenzie di rating. Ora lo difende Krugman, ben sapendo che in panchina si sta già scaldando madame Le Pen: in viste delle europee, il Front National annuncia che, di questo passo, per rimettere piede in Francia, personaggi come Rehn e Van Rompuy dovranno esibire i loro documenti alla polizia di frontiera.Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.