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Notte della sinistra? Troppo americana la verità di Rampini
Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo («uno spettro che si aggira per l’Europa» lo ha definito il “New York Times”, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare. L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.Il libro contiene una serie di feroci critiche nei confronti delle sinistre “fighette”, tali da far impallidire quelle che il sottoscritto ha rivolto contro lo stesso bersaglio (Vedi “Il socialismo è morto. Viva il socialismo”, Meltemi): la sinistra che ha abbandonato al loro destino i deboli, si salva l’anima impegnandosi a proteggere gli ultimi solo se e quando sono immigrati stranieri (regalando alle destre la rappresentanza della rabbia degli autoctoni poveri); la sinistra “cosmopolita” esalta l’apertura dei mercati finanziari, rinunciando a proteggere l’economia nazionale dalla colonizzazione straniera (spalancando ponti d’oro alla propaganda “sovranista”); la sinistra “politicamente corretta”, relegati in soffitta Gramsci e Pasolini, elegge a propri eroi intellettuali star hollywoodiane e boss della canzone e dello spettacolo, gente che esibisce sgargianti divise femministe e antirazziste confezionate dai loro consulenti di marketing; la sinistra “ecologista”, che viaggia su auto elettriche da centomila euro, pretende che gli sfigati che circolano su sgangherate utilitarie finanzino le politiche ambientaliste pagando tasse sul carburante “sporco” (innescando la rabbia dei gilet gialli contro Parigi).Rampini è passato dalla parte del popolo e chiama alla rivoluzione? Non proprio, come vedremo. La sua indignazione nei confronti del “buonismo” dei militanti no border, per esempio, è compatibile con un atteggiamento apologetico nei confronti di vecchi e nuovi colonialismi. La sinistra recita il mea culpa per i crimini occidentali che provocano la miseria degli altri popoli, costringendoli a migrare? Così rimuove colpe e responsabilità delle presunte “vittime”, sentenzia Rampini, che poi aggiunge: bene e male sono equamente distribuiti e noi non siamo l’ombelico del mondo. Curiosa critica dell’eurocentrismo, visto che non contesta la missione “civilizzatrice” dell’Occidente, purché affidata al comando imperiale americano, orientato – beninteso – in senso progressista, “di sinistra”. La polemica di Rampini contro le sinistre radical chic, si accompagna infatti al sogno di rilanciare la vecchia, cara sinistra del trentennio glorioso, quella sinistra keynesiana/kennediana che gestiva il compromesso fra capitale e lavoro, assicurava welfare, occupazione e salari decenti e cooptava le classi subalterne nella lotta contro la minaccia sovietica.Nostalgia delle sinistre socialdemocratiche al tempo della guerra fredda, che mai si sarebbero sognate di mettere in discussione l’egemonia americana, né avrebbero imboccato la via dell’austerità, suscitando la reazione populista. Nostalgia di politiche che solo la guerra fredda, evocando lo spettro di un’alternativa globale al sistema capitalista, aveva reso possibili. Ecco perché Rampini fa di tutto per resuscitare quello spettro, coltivando un’ideologia che potremmo definire “anticomunismo senza comunisti”. Così la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping vengono arruolati per evocare l’immagine di un nuovo “Impero del male”, sorvolando sul fatto che a giocare il ruolo di aggressore e provocatore, in questa nuova sfida planetaria, sono gli Stati Uniti assai più di questi paesi. Così il tentato golpe contro Maduro, ispirato da Washington e affidato a una figura priva di ogni legittimazione democratica, viene presentato come un intervento “umanitario” per restaurare la democrazia, e non come l’ennesima interferenza in un Paese latinoamericano per mantenere il controllo sul “cortile di casa” senza sottilizzare sui mezzi (do you remember Allende?). Così Snowden e Assange, da eroi della lotta per la trasparenza dell’informazione (come venivano descritti fino a qualche anno fa anche dalla maggior parte dei media occidentali), diventano infami spie russe.Concludo osservando che il libro di Rampini è stato fin troppo profetico in merito all’ultimo punto, tanto che – a costo di apparire “complottista” – mi sorge il dubbio che disponesse di informazioni riservate sull’imminenza del blitz nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per catturare Assange. In ogni caso, il libro ha anticipato la campagna denigratoria che i media hanno scatenato contro i “traditori” dell’Occidente, con toni da propaganda prebellica. Vedi quanto scrive Beppe Severgnini sul “Corriere della Sera”: «È vero: gli Stati Uniti hanno abusato della propria supremazia tecnologica per infiltrarsi nella vita di troppe persone, negli Usa e all’estero. Ma è lecito istigare una fonte a commettere un reato, come ha fatto Assange con Chelsea Manning, che sottrasse migliaia di documenti segreti? È giusto che tutto sia sempre noto a tutti?». Traduco: è giusto che i cittadini sappiano cosa succede nel segreto dei comandi militari? Non è meglio tenerli all’oscuro sui crimini commessi dal proprio campo, in modo che continuino a credere che il male sta tutto dall’altra parte?(Carlo Formenti, “Rampini, Assange e la notte della sinistra”, da “Micromega” del 15 aprile 2019).Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo («uno spettro che si aggira per l’Europa» lo ha definito il “New York Times”, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare. L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.
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La grande menzogna del Pd, che vive senza un programma
Non so se vi rendete conto che il Partito Democratico non ha un programma, eppure questa non è una novità. Per anni e anni, centrosinistra e centrodestra si sono alternati al potere; tutto l’arco parlamentare si divideva in pro e contro Berlusconi e sul conflitto d’interessi delle Tv (poi ci ha pensato Internet) ma di sensibile non cambiava mai niente, e i cittadini venivano distratti come tanti polletti con argomenti secondari, mentre il lavoro veniva sistematicamente precarizzato dai partiti di entrambi gli schieramenti, tutti insieme, appassionatamente. Qualcos’altro ci hanno lasciato in dote: Berlusconi soffocò l’economia passando dalla lira all’euro in modo troppo repentino (il doppio prezzo lira-euro andava mantenuto per molti più anni) colpendo in tal modo i lavoratori a paga fissa. Il centrosinistra da parte sua si è votato al neoliberismo sin dal 1981 e con Ciampi e Andreatta (col divorzio Bankitalia/Tesoro) ha indebitato il paese verso le banche italiane, mentre Monti, Draghi, Prodi, Amato, D’Alema e sempre Ciampi ci hanno incatenato nella moneta unica col rapporto di ingresso troppo forte (marco-lira 990) creando debito estero; un cambio che fu drogato da repentini scambi monetari ad hoc realizzati dalle banche europee e italiane (vendettero marco per comprare lira).Per questo vi parlano di Europa a sproposito, quando il tema è monetario; e per questo vi citano il fascismo, il nazismo, il populismo, il sovranismo, ecc, ogni volta che si accenna a questi temi. E’ una tecnica subliminale conosciutissima (si chiama associazione) ma che fa effetto, ed è l’unico argomento della campagna elettorale del Pd da anni (adesso speculano anche sulla morte di un giornalista radio). Io non sono sovranista ma chiedo che, “per cortesia”, si faccia qualcosa, e possibilmente in modo ragionevole e concordato, per riavere un cambio flessibile tra noi ed i tedeschi (ovviamente ciò è possibile con due monete diverse). Non voler ottenere ciò, temendo di essere spendaccioni, equivale a tagliarsi qualcosa per far dispetto alla moglie, soprattutto in virtù del fatto che la nostra spesa pubblica in beni e servizi è bassa da 40 anni, e che ciò che ha creato debito pubblico estero sono gli interessi passivi reali, conseguenza della moneta unica per noi troppo forte (che ha favorito e favorisce i nostri competitors) per non parlare della assenza di una vera banca centrale.La moneta troppo forte per una economia non equivale ad essere forti, ma anzi a diventare più deboli. Moneta troppo forte equivale ad alta disoccupazione, a bassi salari e alla ben nota desertificazione industriale. Forte devi diventarlo, la moneta forte non è lo strumento ma la conseguenza! Ci diventi se il mondo scambia la sua moneta per la tua, cioè se esporti più di quanto importi (e la tecnologia ti permette di farlo a lungo termine) e se richiami turisti. La Cina, ad esempio, molto presto avrà una classe media benestante che comprerà i prodotti stranieri nei supermarket. Sono centinaia di milioni di persone… Ecco spiegate le ragioni per cui il partito di Zingaretti non ha un programma. Il Pd è il partito dell’austerity e non può rivelare cosa ha intenzione di fare, perché ciò sarebbe controproducente a livello di consenso: sarebbero tagli e tasse, con qualche favore al proprio bacino elettorale. Non lo dico polemicamente, lo ha sempre fatto.Nel 2013, ricordo, prima del voto, Nessuno (nemmeno Berlusconi, peraltro) aveva inciso nel programma la modifica della Costituzione mediante pareggio di bilancio e Fiscal Compact; eppure, una volta presi i voti, questo Nessuno edificò il primo Nazareno (Bersani, Casini, Monti e Alfano come testimonial di Silvio Berlusconi, in foto al focolare) stravolgendo il senso più profondo della Costituzione nella componente economica (con un Parlamento illegittimo, vedasi Porcellum). Questo è solo un drammatico epilogo recente, un palo rovente nell’occhio della cittadinanza. Quindi i Dem, ancora oggi, restano nel vago, alzano cortine fumogene su questioni secondarie, si gettano nel marketing politico con polemiche strumentali e simboli, simboletti e sorrisi, e urlano contro ciò che viene approvato dal governo attuale. Cosa ha approvato questo governo? Qualcosa che sin dagli anni ‘90 (prima ero troppo piccolo) avrebbe fatto piangere di felicità qualsiasi elettore del Pds!Il mio libro del 2014, sul cui programma lavoravo sin dal dicembre 2011 (“Il neoliberismo che sterminò la mia Generazione”, edito da Andromeda: per chi volesse consultare in merito questo è il video nella Sala Conferenze della Camera) nel fondamentale paragrafo – un tantino predittivo? – “Come un cittadino informato rilancerebbe l’Italia”, conteneva questi punti (in neretto quelli realizzati o prossimi alla realizzazione da parte del governo): 3) Riconversione industrie verso settori tecnologici; 4) Riprofessionalizzazione della forza lavoro mediante corsi gratuiti; 5) Nuovo piano industriale (energia e ristrutturazione preesistente); 7) Messa in sicurezza del territorio investendo nell’idrogeologico; 9) Blocco privatizzazioni assets industriali; 18) Pensioni minime a 780 euro; 19) Tetto massimo alle pensioni (è stato fatto in questo caso qualcosa di temporaneo ma comunque lodevole); 20) Separazione banche di investimento da quelle commerciali; 21) Reddito di cittadinanza; 22) Salario orario minimo garantito.Il paragrafo seguente descriveva il modello danese alla perfezione, con contributi direttamente ottenuti dal ministero della Danimarca, cosa che fu “casualmente” ripresa in un articolo sul blog di Grillo qualche tempo dopo… non me ne voglia, ma successe anche con inceneritore, Bce prestatore di ultima istanza, Roosevelt, Benigni e Landini, vedasi Lalla, ecc. Aggiungendo che, come la senatrice Catalfo (5S) sa, fui il primo in assoluto ad accorgermi e denunciare/diffondere il legame tra Jp Morgan e le intenzioni “costituzionicide” del Nazareno, la componente predittiva del mio lavoro di cittadino informato raggiunge il top. Ai giornali dà fastidio affermare che i punti sono stati ottenuti dai 5S, e preferiscono parlare del leale (lo dico senza ironia) alleato monotematico leghista? Do loro uno spunto… dicano che l’ho ottenuto io! Marco Giannini, il Grillin Fuggiasco. Più seriamente, capisco che il 5S non sia perfetto, che non segua quelle logiche meritocratiche come credevo anni fa (con Di Maio però ciò sta migliorando sensibilmente), ma è un vanto avere in Parlamento persone che si sono migliorate e hanno “fatto tesoro” di tutto un certo tipo di lavoro.In conclusione (mi piacerebbe che per rispetto della onestà intellettuale questo pezzo venisse condiviso da tutti, da 5S, Pd, Fi, ecc) l’unico interesse di Zingaretti pare essere la redistribuzione delle poltrone e del potere all’interno dell’apparato; un apparato spezzettato in correnti forgiate sull’interesse della carriera personale (e non mi interessa parlare del fatto che Zingaretti sia indagato e prescritto; mi pare molto più importante evidenziare la mancanza di spessore). L’interesse di Di Maio, solo contro tutti, è continuare a riconsegnare al paese una soglia minima di sicurezza sociale (e deve riuscirci con la Lega, non avendo il 50%+1 purtroppo). Tutto il resto sono chiacchiere.(Marco Giannini, il Grillin Fuggiasco, “La menzogna più grossa del Pd, ovvero il partito che non ha mai avuto un programma”, da “Come Don Chisciotte” del 19 aprile 2019).Non so se vi rendete conto che il Partito Democratico non ha un programma, eppure questa non è una novità. Per anni e anni, centrosinistra e centrodestra si sono alternati al potere; tutto l’arco parlamentare si divideva in pro e contro Berlusconi e sul conflitto d’interessi delle Tv (poi ci ha pensato Internet) ma di sensibile non cambiava mai niente, e i cittadini venivano distratti come tanti polletti con argomenti secondari, mentre il lavoro veniva sistematicamente precarizzato dai partiti di entrambi gli schieramenti, tutti insieme, appassionatamente. Qualcos’altro ci hanno lasciato in dote: Berlusconi soffocò l’economia passando dalla lira all’euro in modo troppo repentino (il doppio prezzo lira-euro andava mantenuto per molti più anni) colpendo in tal modo i lavoratori a paga fissa. Il centrosinistra da parte sua si è votato al neoliberismo sin dal 1981 e con Ciampi e Andreatta (col divorzio Bankitalia/Tesoro) ha indebitato il paese verso le banche italiane, mentre Monti, Draghi, Prodi, Amato, D’Alema e sempre Ciampi ci hanno incatenato nella moneta unica col rapporto di ingresso troppo forte (marco-lira 990) creando debito estero; un cambio che fu drogato da repentini scambi monetari ad hoc realizzati dalle banche europee e italiane (vendettero marco per comprare lira).
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Economia tedesca a picco, ecco perché l’Ue teme la Brexit
La Germania è decisiva per l’economia Ue. Non è una novità. La novità è che l’economia tedesca sta collassando. Non rallentando… nemmeno attraversando delle turbolenze. I tedeschi sono una potenza industriale ed esportatrice. E il trend di queste due cose è in declino da più di un anno. La bilancia commerciale degli ultimi due trimestri è stata la peggiore dal 2016. E l’euro si è deprezzato del 13% da gennaio 2018. Questo è possibile perché gran parte delle esportazioni tedesche sono dirette agli altri paesi Ue e questi sono pieni di debiti fin sopra i capelli. Inoltre, il dato di marzo del Pmi tedesco (Indice gestionale per gli acquisti manifatturieri), ben al di sotto delle attese, è stato confermato questa settimana dai numeri di aprile, che sono semplicemente orribili. La previsione del 22 marzo ha sbagliato di più di 3 punti, il dato è del 44,7 contro aspettative del 48,0 (qualunque dato sotto il 50 significa una contrazione). Una contrazione si è verificata (sorprendendo ancora una volta i mercati) anche a febbraio. Infatti, non ci sono stati che dati in ribasso, alcuni dei quali analogamente orribili, a partire dall’inizio dello scorso anno.Questo è soltanto il più drammatico tra gli gli indici economici tedeschi. Ma i dati sono tutti pessimi. Ciò mette la Germania sulla via della recessione. Di nuovo, non è una novità per chiunque stesse guardando attentamente i mercati. Ne parlo per smascherare la follia che circonda la Brexit e fornire un contesto sensato. Ho definito la Brexit una minaccia esistenziale per la Ue. Lo è, e anche di più. Questo è il motivo per cui tutti, su entrambe le sponde della Manica, stanno lavorando alacremente per sabotarla. Nel mio ultimo articolo per “Strategic Culture” faccio i nomi dei responsabili. L’Ue non vuole la Brexit e se dovesse accadere, infliggerebbe un danno incredibile al sistema politico britannico e alla sua integrità. Non c’è alcuna vera differenza rispetto a quanto accaduto in Grecia nel 2015. Tutto fu pilotato da Angela Merkel allora ed è pilotato dalla Merkel oggi. L’intransigenza della Ue nelle negoziazioni, a parte non avere altre alternative, è un bluff elaborato per separare e dividere la classe politica britannica, ora che il popolo ha votato per l’uscita.Trovo patetico vedere la Merkel impegnata questa settimana in un affascinante tour in Irlanda per presentare il suo lato materno e contribuire ad alleviare il dolore dell’aperto tradimento del sistema politico britannico da parte di Theresa May. Ora che la soluzione si avvicina, la Merkel e Donald Tusk stanno giocando la parte del poliziotto buono, mentre Guy Verhofstadt interpreta il poliziotto cattivo con la bava alla bocca. La discesa tedesca nei guai economici è ora il principale problema per la Merkel, anche se dubito che lei sia pienamente consapevole delle implicazioni. Tutti tendono a giudicare erroneamente normale la situazione, e per lei il Progetto Europeo dovrebbe essere abbastanza forte da superare qualsiasi tempesta. Ma se non dovesse esserlo? L’opinione diffusa è che tenere il Regno Unito nella Ue, nel ruolo di mucca da mungere, sia importante per assicurare il prolungarsi del dominio tedesco sull’Unione. E penso che questo sia quello di cui sono convinti a Bruxelles. Tuttavia, inizio a credere che la realtà sia differente da quello che pensano i burattinai.Quindi, sostengo che, di fatto, la Germania e la Merkel hanno già perso la guerra per tenere insieme la Ue, a prescindere dalla Brexit. La distruzione del sistema politico britannico non renderà gli inglesi più facili da controllare, ma più difficili. Non spaventerà i recalcitranti come l’italiano Matteo Salvini o Marine Le Pen in Francia. Li farà infuriare. Il fallimento dell’economia tedesca nel tenere insieme l’Unione colpirà molto velocemente e come un boomerang la leadership tedesca della Ue. Già lo vediamo quando il presidente francese Emmanuel Macron si discosta apertamente dalla Germania sulla Brexit. Moltissime persone, inclusi i Remainer di Londra, sostengono di non poter sopravvivere contro un’economia più grande, più forte come quella della Ue, ossia della Germania. Molto di quello che tiene insieme la Ue è la volontà di tutti gli altri di sopportate la visione tedesca dell’integrazione fino a quando la Germania è disposta a metterci i soldi. Tuttavia, sembra sempre più che questo non avverrà in futuro. L’Ue ha quasi raggiunto il limite sui trasferimenti interni, il che testimonia quanto deboli siano le prospettive economiche di lungo termine per la Germania sotto l’attuale agenda politica.Arriverà un momento in cui una semplice ricaduta in recessione non sarà più un’altra fase ciclica di ribasso che può essere risolta dalla stampante e dalle magie della banca centrale. Diventerà qualcosa che i politici non potranno imporre con la forza e i media non potranno addolcire. La recessione tedesca è arrivata a causa dei problemi strutturali del buco nero fiscale che è la Ue. Sta causando ovvie fughe di capitale verso gli asset Usa – il dollaro, le azioni e le obbligazioni, tutte insieme. Ha fatto alzare il prezzo degli asset sicuri in Europa a livelli oltre l’assurdo. E ancora, nessuno ha il coraggio di dire che c’è una crisi! Siccome esiste ancora un po’ di margine nell’economia tedesca, ancora non si sono visti gli effetti sui consumatori. Pertanto, esiste sufficiente spazio per tutti per raccontare ancora frottole. Ma i risparmi stanno salendo rapidamente, mentre la spesa dei consumatori è in diminuzione. Le notizie sono ancora sufficientemente contrastanti da non aver ancora iniziato a inguaiare ulteriormente la Merkel a livello politico. Ma aspettate. Succederà.(Tom Luongo, “L’economia tedesca è un morto che cammina”, da “Voci dall’Estero” del 6 aprile 2019).La Germania è decisiva per l’economia Ue. Non è una novità. La novità è che l’economia tedesca sta collassando. Non rallentando… nemmeno attraversando delle turbolenze. I tedeschi sono una potenza industriale ed esportatrice. E il trend di queste due cose è in declino da più di un anno. La bilancia commerciale degli ultimi due trimestri è stata la peggiore dal 2016. E l’euro si è deprezzato del 13% da gennaio 2018. Questo è possibile perché gran parte delle esportazioni tedesche sono dirette agli altri paesi Ue e questi sono pieni di debiti fin sopra i capelli. Inoltre, il dato di marzo del Pmi tedesco (Indice gestionale per gli acquisti manifatturieri), ben al di sotto delle attese, è stato confermato questa settimana dai numeri di aprile, che sono semplicemente orribili. La previsione del 22 marzo ha sbagliato di più di 3 punti, il dato è del 44,7 contro aspettative del 48,0 (qualunque dato sotto il 50 significa una contrazione). Una contrazione si è verificata (sorprendendo ancora una volta i mercati) anche a febbraio. Infatti, non ci sono stati che dati in ribasso, alcuni dei quali analogamente orribili, a partire dall’inizio dello scorso anno.
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Che bel regalo, Draghi senatore a vita e poi al Quirinale
Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.Folgorante, l’ascesa di Draghi nell’élite finanziaria mondiale: dal vertice di Bankitalia a quello della Bce, la mega-banca che emette l’euro, cioè la moneta che sarebbe stata “impossibile” e letteralmente insostenibile, per il giovane studente Mario. Determinante, si dice, il transito negli Usa: Draghi è stato uno stratega della Goldman Sachs, la banca speculativa più temuta al mondo: quella che, tra l’altro, truccò i bilanci della Grecia, creando le premesse per il crollo di Atene. A disastro avvenuto, Draghi si occupò dei greci anche nelle vesti di inflessibile censore della Troika europea, in rappresentanza della Bce. Una conversione, la sua – da Keynes al neoliberismo – che lascia stupefatti: il geniale economista inglese aveva ispirato le politiche espansive che hanno arricchito l’Europa, mentre i suoi avversari (da Von Hayek a Friedman) hanno impoverito i nostri popoli, espropriandoli del potere statale di spesa a beneficio dell’oligarchia finanziaria, divenuta l’unica padrona del denaro. Come si spiega, un simile voltafaccia, da parte di quello che, ai tempi di Caffè, si presentava come un promettente economista post-keynesiano? L’immenso potere del denaro, certo: il dominio di Wall Street è divenuto assoluto, specie dopo che Clinton abolì il Glass-Stegall Act, la norma con la quale Roosevelt aveva tagliato le unghie alla speculazione (separazione netta tra banche d’affari e credito alle imprese). Franata la diga, la finanza predatoria è diventata una lotteria perversa, capace di piegare gli Stati. E oggi infatti eccoci qui, a elemosinare decimali di deficit, implorando una tecnocrazia di non-eletti.Ma non è tutto. Nel suo saggio, Magaldi svela un retroscena illuminante: il massone Draghi milita in ben 5 Ur-Lodges. Le superlogge sovranazionali sono in tutto 36 organismi occulti e molto trasversali, in grado di controllare il pianeta, ben al di sopra dei governi. Per la cronaca, il presidente della Bce sarebbe affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa” e alla “Der Ring”, nonché alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Three Eyes”, veri e propri santuari della supermassoneria “neoaristocratica”, protagonista dell’attuale globalizzazione finanziaria e post-democratica imposta a mano armata anche con la guerra e, all’occorrenza, persino il terrorismo e la strategia della tensione, oltre che con l’arma dell’austerity che ha precarizzato il lavoro e impoverito le popolazioni occidentali. Tutto merito loro: a imporre le durezze della crisi sono i signori del “back office” supermassonico. Sono questi, dice Magaldi, i veri “azionisti” di Mario Draghi, comicamente celebrato – dai media – come una specie di salvatore della patria. E’ vero l’esatto contrario: l’Italia ha patito le conseguenze dell’azione di Draghi, che appartiene a un’oligarchia apolide, senz’altra patria che il denaro. «Viene presentato come il santo protettore dell’Italia? Mettetelo a Palazzo Chigi, e poi vedrete di che pasta è fatto», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Certo, visto dall’Italia oggi sembra remotissimo, Super-Mario, impegnato a vegliare sull’Europa dall’alto dell’Eurotower di Francoforte. Per questo, gli italiani riescono a bersi la versione del mainstream, che poi è questa: se non ha potuto fare abbastanza, per l’Italia, è perché il povero Draghi «aveva le mani legate dalle presunte regole della Banca Centrale Europea», e magari «era costretto a mediare con Jens Weidmann della Bundesbank». Tutte storie: «Fatelo governare, e vedrete di cosa sarà capace». Quanto sono fondate, le voci secondo cui Mattarella lo promuoverebbe senatore a vita, come già fece Napolitano con Monti, per poi proiettarlo a Palazzo Chigi? L’incarico alla Bce scadrà in autunno, e si sa che Draghi ambirebbe a prendere il posto di Christine Lagarde al vertice del Fmi. Secondo Magaldi, potrebbe anche concedersi un periodo sabbatico. Certo è che qualsiasi decisione sarà come sempre concertata con il super-potere finanziario, di cui Draghi resta una pedina di prima grandezza a livello mondiale. Senatore a vita, dunque? Non è dato saperlo. Probabilmente, dice Magaldi, la nomina potrebbe gradirla non tanto come “ascensore” verso la guida del governo, ma come viatico per un obiettivo più ambizioso: la presidenza della Repubblica. In ogni caso, aggiunge Magaldi, se mai dovesse fare il premier «sarebbe un regalo, per noi che combattiamo contro ciò che Mario Draghi rappresenta».Un simile esito sarebbe perfettamente speculare rispetto all’esperienza di Monti, che nel 2011 era osannato dai media, quando dalle pagine del “Corriere della Sera” «dispensava saggi consigli, ma non aveva mostrato come li avrebbe messi in pratica». Duro l’impatto con la realtà: «Averlo visto governare ci ha liberato per sempre dall’idea che Monti sia un uomo saggio e soprattutto preoccupato del bene collettivo degli italiani». Non pensate che con Draghi sarebbe diverso, chiarisce Magaldi, dal 2015 presidente del Movimento Roosevelt e ora promotore del “Partito che serve all’Italia”, per recuperare la perduta sovranità democratica. Draghi? Tuttora, viene proposto dal mainstream come il paladino degli interessi italiani, «l’uomo che ha risolto la crisi economica e che dalla Bce ha assicurato il “quantitative easing”, salvando le banche». Tutto falso: «Come banchiere centrale, è intervenuto quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando l’economia europea era in picchiata e parecchi paesi erano ormai stati commissariati con l’avvento dei tecnocrati al governo». A quel punto, «Draghi ha fatto in modo che i denari arrivassero alle banche e non all’economia reale, per aiutare la quale non ha mosso un dito».Severo il giudizio di Magaldi sul super-banchiere europeo: «Mario Draghi è fra i registi di questa pessima governance post-democratica europea. E’ colui che ha detto che il “pilota automatico” è inserito nel sistema di gestione dell’economia dei vari paesi europei, e quindi non importa chi viene eletto: o aderisce alle indicazioni di questo “pilota automatico”, o viene delegittimato». In più c’è l’ombra, imbarazzante, della crisi Mps: «Insieme ad Anna Maria Tarantola, che all’epoca guidava la vigilanza di Bankitalia – continua Magaldi – Draghi è anche responsabile, per l’Italia, di quello che è accaduto nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena». Quindi, non dovrebbe essere gratificato di un posto di senatore a vita: «Semmai – dice Magaldi – dovrebbe essere messo sotto processo, anche per i danni che ha fatto, nella gestione delle privatizzazioni all’italiana, come direttore generale del ministero del Tesoro, carica rivestita ininterrottamente dal 1992 al 2001». Purtroppo viviamo in un mondo orwelliano, che ribalta la verità: e così Mario Draghi, «che è stato tra i personaggi più funesti, per il destino d’Europa e d’Italia», oggi «viene santificato dai media mainstream».“Mister Euro” direttamente al comando dell’Italia, una volta rottamata la deludente esperienza gialloverde? Niente paura, dice Magaldi: «Questa situazione ci deve mettere di buon umore». E perché mai? «Perché è tipica dei momenti pre-rivoluzionari: alla vigilia di ogni rivoluzione, da chi occupa poltrone che stanno per franare miseramente proviene sempre un sussulto di arroganza, di disprezzo della verità, di imbroglio della comunicazione». Draghi a Palazzo Chigi? «Sarebbe un ottimo modo per vedere il suo vero volto, perché in questo mondo così veloce ormai le menzogne e i bluff durano poco. Dategli anche la presidenza della Repubblica, e poi ci divertiremo: perché ormai siamo arrivati alla frutta». Sulla crisi in corso, Magaldi è nettissimo: «L’Italia è stanca di essere malata, e ormai vede che non c’è stata nessuna cura». Pie illusioni, quelle alimentate dai gialloverdi: «Ignominiosa la rinuncia a lottare per il deficit, e vergognosa le genuflessione di Di Maio davanti alla Merkel». Tradotto: l’Italia ha perso un anno di tempo, dando credito a Lega e 5 Stelle. Domani il super-potere oserà schierare addirittura Draghi per spegnere gli ultimi focolai di ribellione, disinnescando la speranza che dall’Italia possa partire il riscatto democratico europeo? Quello, scommette Magaldi, sarà il segnale: di fronte a tanta arroganza, gli elettori finalmente insorgeranno. Primo passo: licenziare i finti rivoluzionari gialloverdi, che si sono fatti prendere a sberle dai signori di Bruxelles e dal loro nume tutelare, il potentissimo Mario Draghi.Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.
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Sapelli: l’Italia si salva con Roosevelt, fuori dal rigore Ue
La Flat Tax voluta dalla Lega è una misura sensata perché espansiva, ma da sola non basta. Andrebbe fatta insieme alle sburocratizzazione, e su questo punto l’avvocato e premier Conte dovrebbe essere d’accordo. Dopo quello destinato alle partite Iva, adesso Salvini chiede l’introduzione di un secondo modulo: tassa del 15% per i redditi di lavoratori dipendenti e famiglie fino a 50.000 euro. La Flat Tax per le partite Iva è stata un passo avanti importante. Anche questa seconda detassazione mi pare equa, progressiva. Per capirci: i ricchi continuano a pagare le tasse. È quello che preme a Di Maio? Ho letto. In ogni caso, il vecchio vocabolario politico l’avrebbe definita una misura socialdemocratica. È molto significativo dei tempi che corrono. Questo depone a favore della Lega. Con l’economia ferma, può aiutare i consumi e quindi la produzione e il lavoro? Quando c’è una crisi si devono fare misure espansive. Non come fece Hoover, che subito dopo il ’29 aumentò le tasse, ma come fece Roosevelt, che le diminuì e aumentò invece la spesa pubblica. Perché la Flat Tax funzioni, però, ci vuole tempo. Tempo per introdurre altre misure di politica economica che funzionino.Penso per esempio a ciò che occorre perché le famiglie investano di più nell’educazione dei figli. Una famiglia italiana non dovrebbe vedersi precluse delle scuole di qualità perché costano troppo. Serve un disegno più ampio di politica economica, ma non lo vedo. Da un lato perché il pensiero economico non esiste più; a Bruxelles governa quello algoritmico. Dall’altro perché occorrerebbe anche essere favorevoli alle infrastrutture, alle opere pubbliche. E contrari a una commissione parlamentare permanente di inchiesta sulle banche, altrimenti nessuno investirà più in questo paese. Si dice che Mattarella sarebbe pronto a nominare Draghi senatore a vita, come per un Monti-bis? Non voglio nemmeno pensarci. Ho troppa stima del presidente della Repubblica, della sua persona oltre che del suo ruolo istituzionale, per immaginare che possa avere in mente una cosa simile. E mi sembra anche incredibile che qualcuno dotato di buon senso possa pensare che lui lo pensi. Perché vorrebbe dire non avere proprio imparato nulla. Abbandonare il regime parlamentare per instaurare di fatto un sistema neo-presidenziale e tecnocratico ha ridotto l’Italia a un cumulo di macerie. Sarebbe l’epilogo di una deriva sbagliata, iniziata con Carli e proseguita con Ciampi. Un volta, quando i governatori avevano finito il loro mandato, stavano a casa. Magari a scrivere libri, come Paolo Baffi.Di Maio ha scritto una lettera al “Corriere” in cui, da alleato di governo di Salvini, fa professione di europeismo. È solo campagna elettorale? Anche se lo fosse, sarebbe comunque nell’ordine delle cose. Il M5S sta svolgendo lo stesso compito assolto in Grecia da Tsipras e si va sempre più caratterizzando come movimento alla Boulanger. Non mi stupisce: la base è formata dal “popolo degli abissi”, ma la cuspide, il gruppo dirigente, è neoliberista, e come tale incorpora l’ordoliberismo, come Orbán e compagnia. Dicono di fare una battaglia per l’Europa sociale, poi appena possono si adeguano alle regole europee. E pian piano si dimenticano di essere stati eletti per rinegoziare i trattati, se mai ne sono stati consapevoli. Dunque il M5S non è l’alleato giusto per la Lega? Io ho sempre pensato che il rapporto fosse innaturale. La Lega potrebbe e dovrebbe diventare il partito della borghesia nazionale, fatta di piccole-medie imprese e di lavoratori. Per questo Salvini farebbe bene a non andare con Marine Le Pen.Salvini ha riunito a Milano esponenti di partiti “sovranisti” europei come Afd, Finns Party e Dansk Folkeparti. Molti sottolineano le contraddizioni tra la Lega e il rigore sui parametri che alcuni di questi alleati pretenderebbero dall’Italia dopo il voto? Non uso la parola “sovranismo” perché non vuol dire nulla. Dico però che la Lega è stata l’unico partito a non votare il Fiscal Compact nel 2012. In Europa ci sono contrari al Patto di stabilità a sinistra, al centro e a destra. La Lega deve essere coerente con quello che ha fatto e privilegiare le alleanze con chi è d’accordo su questo punto. Purtroppo non sappiamo cos’avrebbero fatto i 5 Stelle. Cosa dovrebbe fare Salvini? Guardare al Ppe. Se si cambieranno le regole europee, si farà perché lo vuole la Germania. Occorre parlare con i tedeschi. Manfred Weber è bavarese, non prussiano. Mi sembra una persona ragionevole. Ha detto che alleanze con Salvini non ne vuol fare? Non importa. In Parlamento si va per fare politica, non per seguire la “tradizione” di chi rema all’indietro.E il Pse? Il Partito socialista è perduto, è fuori dalla storia. Il socialismo francese è morto, anche se io sono convinto che in qualche modo risorgerà. In giro, però, ci sono uomini più vicini alla Lega di quanto non si creda: Chevènement, Mélenchon… Leghisti in pectore? Difendere la nazione oggi ha senso non per rinchiudersi in un mandato nazionalistico, che non a caso è l’accezione deformante confezionata su misura dagli avversari del “sovranismo”, ma per tornare ad impossessarsi della politica economica. Questo bisogna fare, non affidarsi ad alleati che non si sa dove portano. Un suggerimento a Giovanni Tria? Si ricordi che suoi colleghi come Baldassarri e Paganetto hanno avuto molti dubbi sul Fiscal Compact. Manifesti anche i suoi, di dubbi. Continui a mediare tra le istanze politiche e le esigenze che abbiamo di non spaventare i mercati. E faccia di tutto per impedire una stoltezza come la Commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. Il paese uscirebbe dal consesso civile.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Europee 2019: non basta un Def, l’Italia si salva se cambia i trattati Ue”, pubblicata su “Il Sussidiario” il 9 aprile 2019).La Flat Tax voluta dalla Lega è una misura sensata perché espansiva, ma da sola non basta. Andrebbe fatta insieme alle sburocratizzazione, e su questo punto l’avvocato e premier Conte dovrebbe essere d’accordo. Dopo quello destinato alle partite Iva, adesso Salvini chiede l’introduzione di un secondo modulo: tassa del 15% per i redditi di lavoratori dipendenti e famiglie fino a 50.000 euro. La Flat Tax per le partite Iva è stata un passo avanti importante. Anche questa seconda detassazione mi pare equa, progressiva. Per capirci: i ricchi continuano a pagare le tasse. È quello che preme a Di Maio? Ho letto. In ogni caso, il vecchio vocabolario politico l’avrebbe definita una misura socialdemocratica. È molto significativo dei tempi che corrono. Questo depone a favore della Lega. Con l’economia ferma, può aiutare i consumi e quindi la produzione e il lavoro? Quando c’è una crisi si devono fare misure espansive. Non come fece Hoover, che subito dopo il ’29 aumentò le tasse, ma come fece Roosevelt, che le diminuì e aumentò invece la spesa pubblica. Perché la Flat Tax funzioni, però, ci vuole tempo. Tempo per introdurre altre misure di politica economica che funzionino.
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Rampini: la notte della sinistra, che ha tradito gli italiani
«Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla “Città Futura”. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini – oggi firma di punta di “Repubblica” – ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, “La notte della sinistra”, dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «Dall’immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la sinistra. L’autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un’orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero… Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)».Poi l’autore ricorda le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove «gli estremisti decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. “Fascisti”, urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L’élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori». Attualmente sembra si sia disinvoltamente cambiato tutto, ma «nel politically correct di oggi sono cambiate solo le apparenze, il linguaggio, le mode. Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo». Le parole d’ ordine e gli slogan dell’attuale sinistra vengono demoliti con chirurgica precisione. I sovran-populisti sono accusati di alimentare la paura? «Da quando in qua», si chiede Rampini, «la paura è una cosa di destra, anticamera del fascismo? Deve vergognarsi chi teme di diventare più povero? Chi patisce l’insicurezza di un quartiere abbandonato dallo Stato?».E le parole identità, patria, interesse nazionale? Rampini, sconsolato, scrive: «Dobbiamo smetterla di regalare il valore-nazione ai sovranisti». A loro, dice, «abbiamo lasciato» la parola Italia: «Certi progressisti» si commuovono per le grandi cause come «Europa, Mediterraneo, Umanità», mentre ritengono la nazione «un eufemismo per non dire fascismo». Solo che la liberal-democrazia è nata proprio «dentro lo Stato-nazione», e Mazzini e Garibaldi «erano padri nobili della sinistra», la quale peraltro ha «venerato tanti leader del Terzo Mondo – da Gandhi a Ho Chi Minh a Fidel Castro – che erano prima di tutto dei patrioti». La sinistra nostrana si entusiasma solo per il sovranismo altrui. Rampini osserva: «Non si conquistano voti presentandosi come “il partito dello straniero”. Negli ultimi tempi in Italia il mondo progressista ha sistematicamente simpatizzato con Macron quando attaccava Salvini e con Juncker quando criticava il governo Conte». Così si conferma «il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Ed è un’illusione anche scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell’Europa si serve finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi».Su Juncker poi Rampini è durissimo, ricordando che faceva parte del governo del Lussemburgo quando adottava certe politiche fiscali, cioè offriva «privilegi fiscali alle multinazionali di tutto il mondo: uno dei principali meccanismi di impoverimento del ceto medio e delle classi lavoratrici di tutto l’Occidente». Secondo Rampini «uno che ha governato il Lussemburgo» non dovrebbe essere «promosso» a dirigere la Commissione Europea. L’autore trova incredibile che «opinionisti di sinistra abbiano tifato per Juncker». E poi si chiede: «Perché solo gli italiani dovrebbero vergognarsi di avere cara la propria nazione? Definirsi europeisti in chiave antinazionale, il vezzo attuale della nostra sinistra, è un errore grave: a Bruxelles né i tedeschi né i francesi dimenticano mai per un solo attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese».Il primo capitolo del libro s’intitola “Dalla parte dei deboli solo se stranieri”. La fissazione delle élite progressiste per gli immigrati (che sono utilissimi a un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la dimenticanza della stessa sinistra per i nostri poveri e il nostro ceto medio impoverito. Qui l’analisi di Rampini si fa spietata per moltissime pagine. E fa capire perché il popolo e i lavoratori hanno divorziato dalla sinistra e questa è diventata il partito delle élite e dei quartieri-bene: «L’Uomo di Davos ha plagiato la sinistra, i cui governanti si sono alleati proprio con quelle élite». La conclusione di Rampini è questa: «Non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi».(Antonio Socci, “La confessione di Federico Rampini sulla sinistra: i veri fascisti siamo noi”, dal quotidiano “Libero” del 2 aprile 2019).«Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla “Città Futura”. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini – oggi firma di punta di “Repubblica” – ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, “La notte della sinistra”, dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «Dall’immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la sinistra. L’autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un’orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero… Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)».
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Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State
Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di visione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democrazia comunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi e Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha chiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Magaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della destra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.Il succo non cambia: Stato minimo. Il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globablizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato a salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.(Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
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Bannon: son stato io a frenare Salvini sul patto con la Cina
«Trump, Bolsonaro e Salvini sono i politici più importanti al mondo». Nella santissima trinità sovranista dell’ex consigliere di Donald Trump Steve Bannon, l’europeista Carlo Calenda non compare – nonostante la foto in costume postata su Twitter. Il dibattito “Sovranismo vs Europeismo” andato in scena tra i due nella sede dell’agenzia “Comin&Partners” ha raccolto nel cuore di Roma giornalisti, uomini delle istituzioni, da Equitalia a Bankitalia, e pure qualche volto politico dei Cinque Stelle della passata legislatura. Tutti accorsi a sentire le teorie della star del sovranismo venuto dagli States, che ora punta a riorganizzare la destra nazional-populista per conquistare Bruxelles. «Ho lavorato al progetto di un movimento populista negli ultimi dieci anni, per questo Trump mi ha chiamato per la sua campagna. E l’Italia, con la Lega e i Cinque Stelle, in questo progetto è centrale», spiega Bannon. «Il sovranismo non fa paura. Gli italiani rimangono fortemente europeisti», esordisce Calenda, a pochi giorni dall’annuncio della sua candidatura come capolista Pd del Nord-Est. Ma controbattere, difendendo l’Europa, agli slogan antieuropeisti che hanno fatto il successo dei partiti populisti, è impresa ardua. «I tecnocrati di Bruxelles e di Francoforte hanno distrutto un’intera generazione di italiani», ripete più volte Bannon. «La Bce con il Quantitative Easing ha salvato l’Italia», spiega Calenda.L’“America First” isolazionista da una parte. La «globalizzazione con delle regole» e gli accordi commerciali dall’altra. È una sorta di derby. Bannon cita più volte Salvini (che è «più populista di Trump», come ha spiegato a “El País”), molto meno i Cinque Stelle. Racconta di essere in contatto continuo con i membri della Lega. E di aver sconsigliato loro di firmare il memorandum con la Cina. «È un terreno scivoloso, la Cina pratica un capitalismo predatorio per creare delle colonie», dice Bannon. «Ma è solo un memorandum of understanding, che ora va riempito. Se Luigi Di Maio ha detto che porrà cento domande sulla due diligence, io dico che dovrà porne mille». Il disaccordo sull’intesa Italia-Cina è l’unico punto d’incontro con Calenda, che lo critica però da un altra prospettiva: per «la rottura del fronte europeo, perché non possiamo contenere la Cina se va a pezzi l’Europa. Di fronte all’espansione cinese, gli Stati da soli collassano». Ma è proprio «la necessità di Stati più forti» e di una «Europa delle nazioni» quello che Bannon ribadisce più volte nel corso del dibattito, continuando a sorseggiare la sua Redbull anche quando la discussione si accende.L’ex consigliere di Trump sfodera uno a uno gli slogan contro la «dittatura di Bruxelles e Francoforte» e il «neofeudalismo del partito di Davos». «I cittadini scelgono il primo ministro», ha detto, «ma poi tutto il resto lo decidono i tecnocrati di Bruxelles, rigettando le volontà democratiche degli italiani. Se l’Italia non cresce e i giovani vanno via è colpa dell’Europa. L’unica cosa da fare è riprendersi la libertà e far tornare il potere nelle mani degli italiani». Da parte sua, Calenda sarcastico esorta Bannon a «studiare di più», se vuole diventare “l’advisor” dei nazionalisti, ricordandogli come l’Italia in realtà «non deve chiedere nessuna competenza indietro» («fammi un solo esempio», gli chiede più di una volta, senza avere risposta). «Possiamo fare anche più deficit, ma poi nessuno compra il nostro debito». Eppure la stessa Lucia Annunziata, direttrice dell’“Huffington Post”, che modera l’incontro, fa notare come «molto di quello che dice Steve Bannon incontra la percezione di moltissimi italiani. Molte delle cose che ripete sono il pane e il burro del cambiamento che c’è stato in Italia».Loro, ammette Calenda, sono stati «molto smart a cavalcare alcuni problemi. Noi siamo stati molto ingenui a non accorgercene prima. Ma non hanno alcuna soluzione». E rivolgendosi a Bannon: «Non stai più all’opposizione, stai al governo. Come risolvete i problemi? Non certo tagliando le tasse ai più ricchi come ha fatto Trump». Ma con le elezioni europee dietro l’angolo, Bannon prevede un «terremoto». I «partiti sovranisti potranno arrivare fino al 50% del Parlamento Europeo». Calenda si tiene su un più basso 10-15%: «Non saranno in grado di fare assolutamente niente e continueranno a dire che è tutta colpa dell’Europa». Ma sulle ricette economiche sovraniste, Bannon ammette che «queste forze non hanno ancora un piano focalizzato», illustrando vagamente un programma di vendita di asset e privatizzazioni. Ma, precisa, «credo che nessun leader voglia uscire dall’Europa». Però la prima cosa da fare sarà una “deregulation”, tagliando «le 35mila pagine di regolamenti europei» perché il potere «possa tornare nelle mani degli Stati-nazione, a partire dall’immigrazione». Senza sapere che, in realtà, sull’immigrazione già oggi sono gli Stati che decidono, e non l’Europa. E questo è il problema. «Quindi», conclude Calenda, «mi stai dicendo che se Salvini e Orban vinceranno, lasceranno le cose esattamente come stanno. Perché già oggi abbiamo l’Europa delle nazioni».(Lidia Baratta, “Steve Bannon, il populismo degli slogan senza soluzioni – che però funziona”, da “Linkiesta” del 26 marzo 2019).«Trump, Bolsonaro e Salvini sono i politici più importanti al mondo». Nella santissima trinità sovranista dell’ex consigliere di Donald Trump Steve Bannon, l’europeista Carlo Calenda non compare – nonostante la foto in costume postata su Twitter. Il dibattito “Sovranismo vs Europeismo” andato in scena tra i due nella sede dell’agenzia “Comin&Partners” ha raccolto nel cuore di Roma giornalisti, uomini delle istituzioni, da Equitalia a Bankitalia, e pure qualche volto politico dei Cinque Stelle della passata legislatura. Tutti accorsi a sentire le teorie della star del sovranismo venuto dagli States, che ora punta a riorganizzare la destra nazional-populista per conquistare Bruxelles. «Ho lavorato al progetto di un movimento populista negli ultimi dieci anni, per questo Trump mi ha chiamato per la sua campagna. E l’Italia, con la Lega e i Cinque Stelle, in questo progetto è centrale», spiega Bannon. «Il sovranismo non fa paura. Gli italiani rimangono fortemente europeisti», esordisce Calenda, a pochi giorni dall’annuncio della sua candidatura come capolista Pd del Nord-Est. Ma controbattere, difendendo l’Europa, agli slogan antieuropeisti che hanno fatto il successo dei partiti populisti, è impresa ardua. «I tecnocrati di Bruxelles e di Francoforte hanno distrutto un’intera generazione di italiani», ripete più volte Bannon. «La Bce con il Quantitative Easing ha salvato l’Italia», spiega Calenda.
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Brava Cina: capitalismo sociale, da noi inventato e perduto
Noi siamo abituati a pensare in termini eurocentrici, ma il mondo non è l’Europa, e lo sarà sempre meno se non capiamo politiche economiche che noi stessi abbiamo inventato, ma abbiamo abbandonato. In Cina c’è una “festa salariale”: il governo ha deciso di non tassare stipendi fino a 5.000 Yuan. Ha deciso di inserire detrazioni fiscali importanti se si hanno figli a scuola o genitori a carico. Ha deciso di poter detrarre spese mediche fino a 6.0000 Yuan l’anno (7.500 euro). Facciamo degli esempi: un operaio, da 4.500 Yuan ne prenderà 5.000 (prima era tassato al 10%). Un’impiegata, da 6.000 Yuan ne prenderà 8.000, perché ha figli a scuola e genitori a carico. Un responsabile da 9.300 Yuan che pagava il 25% di tasse avrà solo 31 Yuan di trattenute, perché ha un figlio a scuola e sta pagando un mutuo. Queste detrazioni diminuiranno se gli stipendi saranno accumulati oltre una certa misura, invogliando i lavoratori a fare spese per la propria famiglia. Cosa sta veramente facendo il governo cinese? Sta ponendo le basi per un welfare, attraverso la leva fiscale, che ha come scopo dare tranquillità salariale ai lavoratori cinesi.I cinesi non dovranno più preoccuparsi di aumentare il risparmio precauzionale. Stanno, in questo modo, orientando i consumi verso il mercato interno; e di conseguenza, anche il lavoro e la produzione saranno dedicati a questo mercato. Far crescere il salario sociale delle varie classi di lavoratori ha lo scopo di proteggersi dalle crisi sistemiche tipiche dell’Occidente, attraverso la crescita della domanda interna e un minor apporto di lavoro per le esportazioni. Cioè l’esatto contrario della strategia ordoliberista dell’Unione Europea. Il governo, con queste misure, aumenterà il rapporto deficit/Pil al 2,8%, ma molti analisti pensano che il Consiglio di Stato porterà il deficit/Pil al 5%, per rispondere alle crisi mondiali che sembrano convergere fra loro, in una specie di super-massa, o super-bolla.Aumentando il debito pubblico e diminuendo il risparmio precauzionale depositato dai cittadini, la banche pubbliche dirotteranno i loro enormi attivi verso la spesa pubblica e non più a investimenti privati che provocano, ormai da tempo, sovrapproduzione. L’impatto delle misure lo vedremo nei prossimi mesi. In buona sostanza, il governo cinese vuole evitare i danni che il capitalismo spinto produce, vuole distribuire i suoi frutti e armonizzarlo in un capitalismo più sociale, cosa che nel laboratorio-Italia si stava facendo, negli anni ‘60 del secolo scorso. Questa dinamica di crescita del mercato interno cinese potrebbe generare una crescita anche nel resto del mondo, in quota parte, per i prodotti che importeranno. Gli Usa hanno capito la posta in gioco, e non a caso premono per entrare in questo mercato. In Europa invece sono tutti intenti a varare norme e regole che strozzano i salariati: un continente che ormai vive in un altro mondo, e dallo stesso sarà buttato fuori.(Roberto Alice, “Mercato interno”, dal blog del Movimento Roosevelt del 4 marzo 2019. Appassionato studioso di economia e collaboratore del blog “Scenari Economici” diretto da Antonio Maria Rinaldi, Roberto Alice sarà tra i candidati del Movimento 5 Stelle alle elezioni regionali del Piemonte, maggio 2019).Noi siamo abituati a pensare in termini eurocentrici, ma il mondo non è l’Europa, e lo sarà sempre meno se non capiamo politiche economiche che noi stessi abbiamo inventato, ma abbiamo abbandonato. In Cina c’è una “festa salariale”: il governo ha deciso di non tassare stipendi fino a 5.000 Yuan. Ha deciso di inserire detrazioni fiscali importanti se si hanno figli a scuola o genitori a carico. Ha deciso di poter detrarre spese mediche fino a 6.0000 Yuan l’anno (7.500 euro). Facciamo degli esempi: un operaio, da 4.500 Yuan ne prenderà 5.000 (prima era tassato al 10%). Un’impiegata, da 6.000 Yuan ne prenderà 8.000, perché ha figli a scuola e genitori a carico. Un responsabile da 9.300 Yuan che pagava il 25% di tasse avrà solo 31 Yuan di trattenute, perché ha un figlio a scuola e sta pagando un mutuo. Queste detrazioni diminuiranno se gli stipendi saranno accumulati oltre una certa misura, invogliando i lavoratori a fare spese per la propria famiglia. Cosa sta veramente facendo il governo cinese? Sta ponendo le basi per un welfare, attraverso la leva fiscale, che ha come scopo dare tranquillità salariale ai lavoratori cinesi.
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Magaldi: Grillo in declino, senza idee. Orfano di Casaleggio
Bei tempi, quando Beppe Grillo attraversava a nuoto lo Stretto di Messina. Grande performance da sempre, lo spettacolo del vitalismo anche fisico del leader, come già Mao nello Yangtze. Era il 12 ottobre 2010, e l’autoironico Vaffa-man aveva 64 anni. Poco prima, ai NoTav “assediati” dalla polizia in valle di Susa, aveva detto: «Un bel giorno, un pugno di cinesi si misero in marcia e alla fine la vinsero, la loro rivoluzione. Bene, ascoltate: voi oggi siete quei cinesi». Era il Grillo che nel 2008 aveva tentato di concorrere alle primarie del Pd, rimediando le pernacchie del profetico Fassino: «Se vuol fare politica, Grillo si accomodi: può sempre fondare un suo partito». Detto fatto: l’ha fondato, ha battuto il Pd nel 2013 alla Camera e adesso, dopo l’alluvione di voti del 2018, è addirittura al governo (dopo aver sfrattato Fassino persino dal Comune di Torino). Ma a quanto pare, l’unica traccia della ventilata rivoluzione, ben poco “cinese”, è la lealtà dei 5 Stelle verso i NoTav, contro la grottesca Torino-Lione. Tutto il resto è evaporato nello zero-virgola del governo gialloverde, dopo le roboanti promesse della vigilia. Ecco perché oggi Grillo deve affrontare la peggiore delle nemesi, con gli ex supporter che bruciano le bandiere grilline davanti al teatri dove l’ex comico si esibisce. Tradimento? Questione di termini. Ma come chiamarla, la burla del finto reddito di cittadinanza, il sussidio nel quale il Sud aveva creduto in massa? L’altro guaio è che il nuotatore dello Stretto è rimasto solo, dopo aver perso Gianroberto Casaleggio.Tra chi se l’aspettava, la grigia parabola pentastellata, c’è il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, osservatore privilegiato della scena italiana e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) che fotografa l’identità supermassonica dei peggiori globalizzatori. Una cupola reazionaria, che ha fondato l’attuale oligarchia del denaro chiamata neoliberismo: pochi ricchissimi, a spese della classe media che si sta impoverendo ovunque. O si cambia radicalmente paradigma, riesumando Keynes – con lo Stato che torna a investire massicciamente, non certo con deficit ridicoli come quello messo insieme dal governo Conte – o prima o poi assisteremo a una ribellione turbolenta e pericolosa. E a bruciare bandiere potrebbero non essere più solo i grillini delusi. In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi evoca scenari cupi: dato che in Europa la maggioranza della popolazione sta sempre peggio, precarizzata e terremotata dalle politiche di rigore, è impensabile che si continui così, cioè raccontando – all’infinito – che lo Stato deve “risparmiare”. Prendiamo l’Italia, in avanzo primario da anni: il governo toglie ai cittadini (con le tasse) più soldi di quanti ne conceda in servizi (spesa pubblica). Il saldo, per i contribuenti, è negativo. Risultato: disoccupazione record, Pil crollato, perso il 25% del potenziale industriale. Di fronte a questo, valgono poco i minuetti di Di Maio e le ciance bellicose e velleitarie di Di Battista.Solo teatro, per canalizzare il dissenso dirottandolo verso obiettivi innocui? Secondo Magaldi, la storia poteva finire diversamente se Gianroberto Casaleggio non fosse prematuramente scomparso, nel 2016. L’ideologo grillino aveva quello che agli altri manca: una visione. Era persino riuscito a convertire al messianismo del web un uomo come Grillo, che un tempo – nei suoi show – fracassava i computer. Non è il caso di santificarlo, Casaleggio senior: aveva i suoi difetti, ammette Magaldi. Per esempio: lo slogan fondante dell’identità grillina, l’idolatria dell’onestà, «ricorda da vicino la “questione morale” agitata dal Berlinguer che convise gli operai a ingoiare l’austerità, la rinuncia ai loro diritti sociali». Per intenderci: «L’onestà non può essere un valore politico: chi ruba deve vedersela coi magistrati, prima che con gli elettori». Una falsa pista, che avvelena l’aria: «La pretesa “diversità morale” dei comunisti italiani, sempre pronti a presentarsi come gli unici onesti in un mondo politico corrotto – dice Magaldi – rivela il vizio storico di quel comunismo che poi, ovunque sia salito al potere, ha creato oligarchie autoritarie e antidemocratiche».Se non altro, al di là delle fascinazioni berlingueriane – aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt – Casaleggio si sforzava di proiettare l’oggi nel domani, sulla base di una precisa visione del futuro. Fino a “fabbricare” da zero una nuova leva della politica italiana, spinta da speranze pulite. E’ un fatto innegabile, e si è verificato grazie al coraggio dello stesso Grillo, pronto a sparare i suoi “vaffa”– in assoluta solitudine – contro una casta impresentabile e decadente, avvinghiata ai propri privilegi mentre il paese scivolava verso il baratro della crisi. Poi, però, alla prova dei fatti, l’alternativa ha rivelato giorno per giorno la sua inconsistenza. Programmi deboli, poche idee, città come Roma amministrate in modo inguardabile. Idem il governo: ordinaria amministrazione, sotto la scure di Bruxelles. Cos’è mancato? «Un impianto ideologico solido, alternativo al dogma neo-aristocratico del neoliberismo». Casaleggio avrebbe potuto cambiare il corso delle cose? Forse sì, sostiene Magaldi, anche in base a un indizio rivelatore: «Aveva disposto che il mio saggio, “Massoni”, venisse presentato col massimo risalto sul web grillino. Obiettivo: insegnare ai pentastellati a distinguere tra massoni corretti e massoni sleali, senza sparare nel mucchio. Oggi invece il Movimento 5 Stelle demonizza la massoneria nel suo insieme, con una discriminazione che è pure incostituzionale. E lo fa in modo spregevolmente ipocrita: sa benissimo, infatti, che il governo gialloverde pullula di massoni, sia tra i ministri che tra i sottosegretari».Per inciso: era massone anche Gianroberto Casaleggio, spiega Magaldi, che in un libro di prossima uscita dettaglierà l’identità massonica dell’ideologo pentastellato. «Il problema – dice – è che la massonofobia è indice di fragilità: se sei debole, cioè senza veri argomenti, hai paura del massone, perché temi che sia più forte di te, in quanto dotato di una maggiore solidità ideologica». E non è vero nemmeno questo: «Oggi, purtroppo, le obbedienze massoniche italiane sono piene di “peones” confusi, che non rappresentano un pericolo per nessuno». La vera massoneria che conta è quella delle Ur-Lodges sovranazionali, che colonizzano le istituzioni italiane, europee e mondiali. Nel suo libro, Magaldi ne smaschera le trame, facendo nomi e cognomi e mettendo alla berlina i supermassoni neo-feudali. E questo, a Gianroberto Casaleggio piaceva: «Ebbi con lui uno scambio breve ma intenso», rivela l’autore. «Resto convinto che sarebbe stato proficuo, il nostro incontro, a partire dal banco di prova delle elezioni comunali di Roma, dove avevamo proposto di affiancare, al gruppo di Virginia Raggi, l’esperienza e la capacità di un economista post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt». Forse ci sarebbe stato il tempo di arrivare alle politiche 2018 con programmi meno volatili e con basi economiche assai più solide, da contrapporre all’ordoliberismo disonesto di Bruxelles, incarnato dai tecnocrati della Disunione Europea, tutti al servizio di inconfessabili interessi privatistici.Invece siamo arrivati al rogo delle bandiere grilline, in Puglia: «Piuttosto ovvio, se avevi promesso un vero reddito di cittadinanza. Cioè, tecnicamente: soldi che lo Stato dovrebbe assegnare a chiunque, a prescindere dal reddito». Una selva di contraddizioni: «Al Sud è molto rilevante l’economia sommersa: il sussidio elargito da Di Maio potrebbe finire a famiglie che campano di lavoro nero, a scapito di famiglie – magari meno abbienti – che invece le tasse le pagano». Meglio, sostiene Magaldi, l’alternativa proposta dal Movimento Roosevelt: il diritto al lavoro sancito per legge dalla Costituzione. Ovvero: lo Stato sarebbe obbligato ad assorbire la disoccupazione. Si parlerà anche di questo, il 30 marzo a Londra, al convegno internazionale promosso alla Westminster University. Tra i relatori lo stesso Galloni, accanto a Ilaria Bifarini, Antonio Maria Rinaldi, Danilo Broggi, Guido Grossi. «Ci sarà anche Pino Cabras, deputato 5 Stelle», annuncia Magaldi: «Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras fece un’ottima presentazione del libro “Massoni” in Sardegna. Qualcuno, nel Movimento 5 Stelle, lo ha dissuaso dal partecipare all’evento di Londra. Ma lui ha la schiena diritta, e sa bene che vale la pena misurarsi con noi: insieme a svariati interlocutori europei, nella capitale britannica avremo modo di mettere a fuoco un vero piano per l’uscita strutturale dall’euro-crisi, che viene presentata come economica e invece è interamente politica».C’è bisogno di tutte le forze spendibili, insiste Magaldi, per rompere l’incantesimo della paura: la demonizzazione del deficit porta direttamente al declino, attraverso l’austerity. Il che è folle, in un mondo che non è mai stato così ricco di risorse e tecnologie. Quello che serve è “un New Deal rooseveltiano per l’Europa”, ispirato a Keynes: è il modello che – espandendo la spesa strategica – ha storicamente prodotto benessere diffuso, in tutto l’Occidente. Passaggio obbligato: trovare il coraggio politico di dire “no” al pensiero unico che ha inquinato cancellerie, ministeri e tecnocrazie, trasformando la governance europea in un incubo orwelliano fondato sulla post-verità. Verrà il giorno, dice Magaldi, in cui gli oligarchi soccomberanno. «E alla fine ci ringrazieranno – aggiunge – perché, senza un’inversione di rotta, la situazione sociale in tutta Europa si farà insostenibile», come dimostrano in modo squillante gli stessi Gilet Gialli in Francia. Certo, la rivoluzione della trasparenza ha un costo: ne sapeva qualcosa il leader svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986. Voleva un’Europa libera e socialdemocratica, con pari opportunità per tutti. Valori fondanti: come il socialismo liberale di Carlo Rosselli, assassinato dai fascisti e detestato dai comunisti, e il sovranitarismo panafricano per il quale perse la vita Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso, portavoce della ribellione contro la schiavitù neo-coloniale del debito.Rosselli, Palme e Sankara sono le tre icone che il Movimento Roosevelt ha scelto di illuminare, al convegno in programma il 3 maggio col patrocinio del Comune di Milano, alla vigilia delle europee: un’occasione – anche – per pesare le intenzioni dei candidati dei vari schieramenti politici in rotta verso Strasburgo. A che punto è la notte del neoliberismo? Lo capisce, il Pd zingarettiano, che per aiutare l’Italia deve buttare a mare 25 anni di fallimentare centrosinistra? Si rende conto, la Lega di Salvini, che non basta alzare dighe contro i disperati che arrivano dall’Africa? E i 5 Stelle, a loro volta, che intenzioni hanno? In Europa pensano di fare la stessa melina che stanno inscenando a Roma – ottenendo il falò delle loro bandiere e il tracollo dei consensi alle regionali – o comprendono che è il caso di compiere un drastico cambio di passo, come forse lo stesso Casaleggio avrebbe raccomandato? Magaldi ha idee terribilmente chiare: serve un network trasversale di politici “bonificati” dalla bugia neoliberista. Un’Europa democratica, sovrana, liberalsocialista. Investimenti robusti, epocali, per relegare il fantasma dello spread nella spazzatura della storia. Come ci si può arrivare? Formando politici nuovi, in tutta Europa. La consapevolezza del cambiamento crescerà in modo inesorabile, sostiene Magaldi. Fino al bel giorno in cui qualcuno dovrà mandare a stendere i signori di Bruxelles. Con ben altro coraggio che quello sin qui dimostrato dal governo Conte, e dai 5 Stelle smarriti e orfani di Casaleggio.Bei tempi, quando Beppe Grillo attraversava a nuoto lo Stretto di Messina. Grande performance da sempre, lo spettacolo del vitalismo anche fisico del leader, come già Mao nello Yangtze. Era il 12 ottobre 2012, e l’autoironico Vaffa-man aveva 64 anni. Poco prima, ai NoTav “assediati” dalla polizia in valle di Susa, aveva detto: «Un bel giorno, un pugno di cinesi si misero in marcia e alla fine la vinsero, la loro rivoluzione. Bene, ascoltate: voi oggi siete quei cinesi». Era il Grillo che nel 2008 aveva tentato di concorrere alle primarie del Pd, rimediando le pernacchie del profetico Fassino: «Se vuol fare politica, Grillo si accomodi: può sempre fondare un suo partito». Detto fatto: l’ha fondato, ha battuto il Pd nel 2013 alla Camera e adesso, dopo l’alluvione di voti del 2018, è addirittura al governo (dopo aver sfrattato Fassino persino dal Comune di Torino). Ma a quanto pare, l’unica traccia della ventilata rivoluzione, ben poco “cinese”, è la lealtà dei 5 Stelle verso i NoTav, contro la grottesca Torino-Lione. Tutto il resto è evaporato nello zero-virgola del governo gialloverde, dopo le roboanti promesse della vigilia. Ecco perché oggi Grillo deve affrontare la peggiore delle nemesi, con gli ex supporter che bruciano le bandiere grilline davanti al teatri dove l’ex comico si esibisce. Tradimento? Questione di termini. Ma come chiamarla, la burla del finto reddito di cittadinanza, il sussidio nel quale il Sud aveva creduto in massa? L’altro guaio è che il nuotatore dello Stretto è rimasto solo, dopo aver perso Gianroberto Casaleggio.
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Fake-Tav, Airola: tutto inventato, dai fondi Ue alle penali
Eccoci a parlare di Tav: finalmente una discussione, visto che quando abbiamo votato la verifica degli accordi con la Francia nel 2017 i tempi degli interventi erano stati contingentati incostituzionalmente – giusto per chiarirlo a chi si lamentava che si parlasse poco di quest’opera, nell’aula. Parliamone. Questa storia del Tav è intrisa di anomalie gravissime e regole calpestate, a cominciare dalla repressione violenta attuata dai governi precedenti a danno dei cittadini della val Susa. C’è da domandarsi come mai un popolo si compatti in questo modo, trasversalmente – giovani e anziani, dal vigile al sindaco – contro un’opera che voi definite fondamentale; un popolo che da vent’anni non si arrende, ma continua a lottare. Avete mai ascoltato le loro ragioni? No, non l’avete mai fatto: forse per paura della loro competenza, o perché sapete bene che le argomentazioni pro-Tav, SìTav, come minimo sono spesso delle “fake news”, sono delle menzogne: primo, perché l’accordo di base tra Italia e Francia nel 2001 prevedeva (all’articolo 1) che i lavori partissero a saturazione della linea esistente, che attualmente è utilizzata per meno del 15% della sua capacità di trasporto.Quindi dove stanno questi enormi flussi di merci tra noi e Lione? Le proiezioni di aumento del traffico (fatte vent’anni fa) sono miseramente crollate, come confermato recentemente dallo stesso Osservatorio della Torino-Lione. Inutile, quindi, far andare un treno merci – non passeggeri – in una galleria da 57 chilometri alla velocità di 160 all’ora, guadagnando una manciata di minuti, rispetto all’attuale linea. Secondo: perché non è mai partita, l’opera? Non c’è un centimetro – dico, un centimetro – di tunnel di base realizzato. Quest’opera non ha un centimetro di “buco”: sono state realizzate solo attività di riconoscimento geologico, comprese quelle in Francia. Perché più volte anche la Francia ha fatto un passo indietro: la Corte dei Conti francese, molto chiaramente, ha detto che l’opera è troppo cara, e quindi consiglia di ammodernare la linea esistente. In più ha ricordato che anche altri paesi, come Slovenia e Ungheria, hanno preferito migliorare l’esistente, piuttosto che imbarcarsi in opere costosissime e inutili. Più volte la stessa Europa ha scartato progetti, modificando la destinazione dei fondi. Inoltre, il Portogallo ha rinunciato all’opera senza pagare un centesimo di penale, pur avendo già ricevuto parte dei finanziamenti.Quindi, per favore, non parlateci più della grande linea Kiev-Lisbona, perché vi fareste ridere dietro: quella è roba da Ottocento, da Michele Strogoff. Oggi il traffico di merci viaggia prevalentemente sulla direttrice nord-sud, non su quella est-ovest. Assodato che non ci sono flussi di merci che giustifichino quest’opera, sappiate che la linea attuale può tranquillamente trasportare Tir e container: ma pochissimi la usano. Anche la storia dell’inquinamento si può risolvere con una tassa sul trasporto su gomma, come fanno gli svizzeri. E allora parliamo dello spauracchio sventolato continuamente: le penali. Vi voglio svelare un segreto: non ci sono penali da pagare. In riferimento agli appalti attribuiti, non sussiste alcun diritto a richiedere penali, come recita l’articolo 2, comma 2 e 3, lettera C, della legge 191 del 2009 (era la finanziaria 2010). La norma stabilisce che il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualsiasi pretesa risarcitoria in relazione alle opere individuate: deve rinunciare a qualunque pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera e di lotti successivi.Viene ribadito, questo, anche all’articolo 3 della legge di ratifica del 5 gennaio 2017, quella precedentemente citata; identica previsione è contenuta nella delibera Cipe numero 67 del 2017, nel combinato disposto degli articoli 1 e 6 del deliberato. Io parlo di cose vere, scritte nero su bianco. Penali nei rapporti internazionali? Si tratta di decisioni rimesse agli Stati sovrani, come ricorda anche l’avvocatura dello Stato nella sua relazione giuridica, che deve essere solidamente ancorata alla sostenibilità socio-economica e finanziaria dell’intera opera secondo le stesse norme europee. Non si vede come possano imputarsi responsabilità gravi in capo agli Stati, quando questi presupposti mancano (cioè quando mancano i soldi). Esiste infine un precedente: quello del Portogallo, che nel 2012 cancellò la propria tratta ad alta velocità da Lisbona a Madrid. E non ci fu alcuna richiesta di indennizzo, o altra compensazione, da parte della Commissione Europea e della Spagna. Quindi nessuna penale, tranne le inutili minacce di Telt e il diktat dell’Unione Europea.Parliamo dei costi. La Torino-Lione è una linea che dovrebbe costare 9,6 miliardi di euro (attualizzati al 31 dicembre 2017) più 1,4 miliardi già spesi tra studi preliminari, indagini e gallerie geognostiche. Arriviamo a oltre 11 miliardi, considerato che per adesso – da parte dell’Unione Europea – c’è un solo impegno verbale per l’incremento del suo contributo dal 40 al 50%. Quindi potremmo anche non riceverlo. Il finanziamento del tunnel è di fatto rinviato all’approvazione del bilancio pluriennale dell’Unione Europea del 2021. I fondi già stanziati nel Grant Agreement non potranno essere utilizzati a causa dei ritardi, ma soprattutto perché l’articolo 16 dell’accordo del 2012 impone a Italia e Francia la disponibilità certa del finanziamento di tutta l’opera, compreso l’importo del 40%: quindi quei soldi non arriveranno. Contributo solo promesso, dunque, ma non ancora approvato dall’Unione Europea, quale requisito indispensabile per avviare la costruzione del tunnel di base: quindi il tunnel non può partire. Questa disponibilità di fondi non esiste: la Francia non ha stanziato un solo euro, per il tunnel di base.Ricapitolando: arriviamo a un costo superiore ai 13 miliardi, di cui più di 11 ancora da spendere. Inoltre, la tratta francese (che costava 7,7 miliardi nel 2011) oggi costerebbe circa 9 miliardi. Voilà: superati i 20 miliardi. Tutto ciò non servirebbe, ripeterlo, perché c’è scritto nero su bianco nell’analisi costi-benefici che l’opera non conviene: non è una fake news, la commissione ha impiegato tanto tempo, proprio per approfondire adeguatamente la materia. Non dimentichiamo che, per di più, c’è una ripartizione asimmetrica dei costi: oggi è indispensabile che la ripartizione sia riiscussa, tra Italia e Francia, alla luce del fatto che i due paesi non vogliono più fare le linee di accesso al tunnel: decisione che modifica questa partizione asimmetrica. Cioè: un chilometro italiano costerebbe 280 milioni, un chilometro francese 60. Quindi, chi insiste su quest’opera non ha a cuore l’interesse del popolo, ma quello di multinazionali ed euro-mafie che non aspettano altro che aggiudicarsi ricchi appalti. Peraltro, essendo giuridicamente territorio francese (anche il cantiere italiano sarebbe in territorio francese) gli appalti se li aggiudicherebbero senza leggi antimafia. Dovranno però aspettare un po’, perché sull’intera fattibilità la Francia deciderà soltanto nel 2038. Capito?Ma come potete pensare di spendere miliardi per un’opera inutile che, se tutto procede come desiderato dei promotori, potrebbe essere terminata fra trent’anni? E oggi mi dovete spiegare come andrete a Matera, “città della cultura” 2019. Questo paese è stanco di veder sprecare i soldi. Questo paese vuole strutture adeguate a muoversi, a viaggiare su strade locali e non andare a lavorare stipati come sardine in carri bestiame; vorrebbe poter farsi una gita senza dover prendere due bus e un taxi. Telt non ha alcun titolo o via libera, ancorché silenzio-assenso, al lancio delle gare Tav. Qualora Telt procedesse in tal senso, questo comporterebbe una grave e diretta violazione degli accordi Italia-Francia, che sono legge vigente dello Stato italiano. Il governo è direttamente responsabile dell’operato di Telt. E i residui fondi dell’Unione Europea attualmente a disposizione sono già persi, anche in presenza di proroga del Grant Agreement al 2020. Le attività finanziate sono in grave ritardo danni a causa di comprovate inefficienze di Telt. La Commissione Europea e l’Inea sono perfettamente a conoscenza di ciò. A prescindere dal lancio delle gare Telt, la Commissione Europea vorrebbe decurtare oltre 300 milioni di sovvenzioni assegnate (ma la stessa Commissione non può imporre un calendario).Tale situazione è l’esatta replica di quanto già visto il 2013 col governo Monti. Il grave ritardo a cui assistiamo è diretta responsabilità chi doveva agire per tempo e non ha agito, a cominciare dai commissari dei governi passati. Ma qui non ci sono in gioco solo miliardi sottratti a scuola, ospedali e ferrovie utili. C’è una questione di ordine etico e morale. Lo Stato ha spianato la volontà popolare con la violenza. Lo Stato non ha ascoltato i cittadini. Lo Stato si è comportato da dittatore, calpestando tutto e tutti per il Tav. Ed è scoccata l’ora di dare giustizia al popolo valsusino, e di riconoscere – dopo quasi 30 anni – che avevano ragione loro, i valsusini. Non solo vogliamo mantenere una promessa fatta tanto tempo fa da Beppe Grillo e da tutti noi, ma li ringrazieremo per quello che hanno fatto per il paese, e soprattutto per l’esempio che ci hanno dato. La sovranità appartiene al popolo. E quando il popolo è unito, nessuno può batterlo.(Alberto Airola, intervento al Senato il 7 marzo 2019. Senatore piemontese del Movimento 5 Stelle, Airola è un severo oppositore del progetto Tav Torino-Lione, fondato essenzialmente su dati gonfiati e proiezioni illusorie).Eccoci a parlare di Tav: finalmente una discussione, visto che quando abbiamo votato la verifica degli accordi con la Francia nel 2017 i tempi degli interventi erano stati contingentati incostituzionalmente – giusto per chiarirlo a chi si lamentava che si parlasse poco di quest’opera, nell’aula. Parliamone. Questa storia del Tav è intrisa di anomalie gravissime e regole calpestate, a cominciare dalla repressione violenta attuata dai governi precedenti a danno dei cittadini della val Susa. C’è da domandarsi come mai un popolo si compatti in questo modo, trasversalmente – giovani e anziani, dal vigile al sindaco – contro un’opera che voi definite fondamentale; un popolo che da vent’anni non si arrende, ma continua a lottare. Avete mai ascoltato le loro ragioni? No, non l’avete mai fatto: forse per paura della loro competenza, o perché sapete bene che le argomentazioni pro-Tav, SìTav, come minimo sono spesso delle “fake news”, sono delle menzogne: primo, perché l’accordo di base tra Italia e Francia nel 2001 prevedeva (all’articolo 1) che i lavori partissero a saturazione della linea esistente, che attualmente è utilizzata per meno del 15% della sua capacità di trasporto.
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Povera Italia: giù i salari, ai dipendenti 1000 euro in meno
L’austerity ha devastato i salari italiani, che hanno perso mille euro di potere d’acquisto negli ultimi sette anni. Se n’è accorta la Fondazione Di Vittorio, centro studi della Cgil che mette a confronto le retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti italiani con quelle del passato, paragonandole a quelle degli altri grandi paesi europei. Risultato sconfortante: in Italia gli stipendi si sono “ristretti”, mentre all’estero – in particolare in Germania e Francia – sono saliti. Il report della Fondazione Di Vittorio rileva le retribuzioni lorde (dati Ocse) dal 2001 al 2017. Sorpresa: in Italia c’è stata una sostanziale “stazionarietà” dei salari, mentre dal 2010 al 2017 si è verificata una perdita di 1.059 euro, circa il 3,5%. L’analisi, scrive “Repubblica”, è basata sui salari reali, cioè «aumentando “virtualmente” le retribuzioni di allora, come se i prezzi del 2010 fossero stati gli stessi di oggi». Se nel 2010 la retribuzione media in Italia era di 30.272 euro, sette anni dopo è scesa a quota 29.214. Ovvero: possiamo comprare 1.000 euro di beni e servizi in meno. Tutt’altra musica in Germania: il lavoratore dipendente tedesco, che già nel 2010 era pagato meglio del collega italiano (35.621 euro), nel 2017 riceveva 39.446 euro, cioè 3.825 euro in più. In crescita anche i salari francesi: circa 2.000 euro in più: il 5,3% (da 35.724 euro a 37.622).Evidente che il sistema-Italia è quello che più ha sofferto delle politiche di rigore indotte dall’Eurozona. La fondazione della Cgil punta il dito contro i contratti-pirata che tengono i salari sotto al minino, ma l’analisi – firmata da Lorenzo Birindelli – denuncia soprattutto il part-time e i lavori discontinui, che l’Ocse include nella rilevazione, considerandoli come prestazioni full time. Le nostre retribuzioni per i lavoratori a tempo parziale sono più basse della media dell’Eurozona: da noi valgono il 70,1% del full time, mentre nel resto d’Europa l’83,6%. Grave la carenza di “capitale umano” nel nostro paese: in calo la quota di dirigenti e di professioni tecniche. In sostanza, «in Italia si è ridotta la presenza delle alte qualifiche (7 punti percentuali in meno in questo ultimo ventennio) mentre sono aumentate di 2 punti percentuali le basse qualifiche». Come rimediare? Secondo Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, serve un intervento su qualità e quantità dell’occupazione, ma anche «una nuova fase di contrattazione a tutti i livelli», nonché «una vera e propria riforma fiscale in senso progressivo, che recuperi risorse verso le retribuzioni».La radiografia complessiva realizzata dal rapporto della Fondazione non conforta, sottolinea “Repubblica”: su 15 milioni di lavoratori dipendenti, nel solo settore privato, ben 12 milioni hanno una retribuzione lorda sotto i 30.000 euro. Di questi, circa 4,3 milioni sono sotto i 10.000 euro annui lordi. «Del resto, altri recenti dati Eurostat confermano la caduta della quota dei salari sul Pil: nel 2019 siamo al 59,9%, uno dei rapporti più bassi in Europa, in discesa dal 2012». Avverte Maurizio Landini, neo-segretario della Cgil: «La stagione dei rinnovi contrattuali del 2109 deve affrontare, prima di tutto, la questione salariale». Evidente: «In Italia si continuano a pagare salari troppo bassi ai lavoratori». In questi anni, come leader della Fiom, Landini è stato l’unico – nella Cgil – ad alzare i toni, specie contro la Fiat di Marchionne. Largamente silente, invece, il resto della Cgil, così come Cisl e Uil, di fronte alla devastazione strutturale inferta all’economia dal governo tecnico di Mario Monti, imposto all’Italia nel 2011 dai poteri forti Ue con la collaborazione di Giorgio Napolitano. Operazione costata carissima, ai lavoratori: se ne accorge – nel 2019 – persino la Cgil, che tuttavia non ha mosso un dito per difendere il governo Conte nel momento in cui chiedeva di poter almeno innalzare al 2,4% il deficit, per sostenere l’occupazione.L’austerity ha devastato i salari italiani, che hanno perso mille euro di potere d’acquisto negli ultimi sette anni. Se n’è accorta la Fondazione Di Vittorio, centro studi della Cgil che mette a confronto le retribuzioni medie dei lavoratori dipendenti italiani con quelle del passato, paragonandole a quelle degli altri grandi paesi europei. Risultato sconfortante: in Italia gli stipendi si sono “ristretti”, mentre all’estero – in particolare in Germania e Francia – sono saliti. Il report della Fondazione Di Vittorio rileva le retribuzioni lorde (dati Ocse) dal 2001 al 2017. Sorpresa: in Italia c’è stata una sostanziale “stazionarietà” dei salari, mentre dal 2010 al 2017 si è verificata una perdita di 1.059 euro, circa il 3,5%. L’analisi, scrive “Repubblica”, è basata sui salari reali, cioè «aumentando “virtualmente” le retribuzioni di allora, come se i prezzi del 2010 fossero stati gli stessi di oggi». Se nel 2010 la retribuzione media in Italia era di 30.272 euro, sette anni dopo è scesa a quota 29.214. Ovvero: possiamo comprare 1.000 euro di beni e servizi in meno. Tutt’altra musica in Germania: il lavoratore dipendente tedesco, che già nel 2010 era pagato meglio del collega italiano (35.621 euro), nel 2017 riceveva 39.446 euro, cioè 3.825 euro in più. In crescita anche i salari francesi: circa 2.000 euro in più: il 5,3% (da 35.724 euro a 37.622).