Archivio del Tag ‘tangentopoli’
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Ecco chi costrinse Craxi a morire senza poter essere curato
Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo paese.Si ragiona, ad Hammamet, a Roma e a Milano, attorno a tre strumenti: grazia, amnistia, salvacondotto umanitario. Per un’amnistia generalizzata non ci sono le condizioni politiche, la famiglia stessa se ne rende conto: Tangentopoli è ancora lì e le reazioni dell’opinione pubblica sarebbero molto ostili, controproducenti per tutti: per l’etica collettiva e alla fin fine per lo stesso Craxi. Restano il salvacondotto e la grazia. Stefania Craxi chiede a Giuliano Ferrara di sondare il presidente del Consiglio Massimo D’Alema. La reazione non si fa attendere: ad appena 72 ore dalla sentenza Andreotti, Palazzo Chigi fa diffondere una nota che informa come il governo non abbia «certamente nulla in contrario» a un «atto umanitario» che consenta a Bettino Craxi di tornare in Italia per curarsi. Si aggiunge che non spetta al governo «decidere in materia di sospensione o differimento della pena per chi sia stato condannato con sentenze passate in giudicato», perché questa facoltà spetta alla magistratura. Una presa di posizione che ha un nesso diretto con quanto dichiarato in quelle stesse ore dal procuratore capo di Milano Gerardo D’Ambrosio, che aveva annunciato il parere favorevole della Procura a un differimento della pena per motivi di salute.A quel punto, siamo alla fine di settembre, si apre uno spiraglio sul quale lavoreranno per tre mesi gli amici e i figli di Craxi. Per trasformare quello spiraglio in un varco servivano atti di volontà, strappi, gesti impopolari. E bisognava convivere con l’irriducibile orgoglio di Bettino Craxi, che non era un malato qualunque: era un uomo pubblico che si sentiva vittima di una persecuzione politica e giudiziaria e dunque, al suo eventuale ritorno in Italia, non intendeva sottoporsi ad uno stato di arresto, seppur temporaneo. Il presidente del Consiglio D’Alema, lontano dai riflettori, tratta con la Procura e la risposta del procuratore Borrelli è chiara ed è la stessa contenuta in una lettera a Don Verzé, dominus del San Raffaele: «Il rientro volontario dell’onorevole Craxi comporterebbe il suo assoggettamento ai titoli di restrizione della libertà formatisi contro di lui». Diciotto anni dopo sarà D’Alema stesso a confermare una trattativa in una intervista del 2017 al “Corriere della Sera”: «Negoziai perché non lo arrestassero. Non fu possibile».In quell’autunno del 1999 ci si muove a tentoni. Per capire se sia percorribile la strada di una grazia presidenziale viene mobilitato Giuliano Vassalli, che chiarisce come stiano le cose: la grazia risolverebbe il problema solo a metà, perché rimuoverebbe gli effetti delle due sentenze che erano già passate in giudicato, ma senza cancellare i procedimenti ancora in corso, per i quali pendevano ordini di cattura non eseguiti. È in quel momento che si accarezza una suggestione, l’unica che avrebbe potuto concretizzarsi: spingere per la grazia, atto simbolico fortissimo, e su quella “costruire” una sospensione della pena per i processi ancora in corso. Per la grazia si muove Don Verzè, che scrive al capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi: «Craxi è condannato a morte vicina», e privarlo della possibilità di tornare in Italia «equivale a spingerlo nella fossa». Ma su questa fragile ipotesi irrompe Silvio Berlusconi. Il 19 novembre, davanti alla platea del congresso dei socialisti di Gianni De Michelis, pronuncia queste parole: «Credo che il capo dello Stato, che noi abbiamo contribuito a eleggere, possa mettere in campo ciò che la Costituzione assegna a lui, affinché questa vicenda possa risolversi presto. Altrimenti rimarrà una macchia sulla storia d’Italia, ma per fortuna non sulla nostra».Bobo Craxi capisce che Berlusconi l’ha fatta grossa: «La grazia non la concede il capo dell’opposizione». Ma la frittata, come suol dirsi, è fatta. E infatti Ciampi, tirato nella mischia, è costretto ad esporsi con una nota: «Ferma restando l’attenzione agli aspetti umanitari della vicenda, la posizione del Capo dello Stato impone il rispetto pieno, formale e sostanziale, delle leggi della Repubblica e delle procedure che le applicano». Nel frattempo c’è da allungare la vita a Craxi. I famigliari, costretti a restare in Tunisia, pensano di utilizzare una struttura privata, ma c’è un ostacolo: non si possono offendere i governanti tunisini, che offrono l’ospedale militare, che non garantisce standard accettabili. I medici italiani del San Raffaele di Milano, che inizialmente avevano resistito all’ipotesi di intervenire in condizioni approssimative, alla fine accettano: il 30 novembre l’intervento viene realizzato in condizioni di fortuna – una lampada è tenuta a mano da un medico – ma il paziente ne esce vivo. E anche molto provato, in particolare nell’apparato cardiaco, che secondo alcuni avrebbe dovuto essere risanato prima. Craxi è provatissimo. Per alleviarne le ultime sofferenze, non resta che farlo rientrare in Italia.Nelle ultime settimane del 1999 in Italia si lavora ad un’ultima ipotesi, che sarebbe rimasta sconosciuta anche in seguito: Craxi sarebbe dovuto rientrare a Fiumicino, di lì sarebbe stato trasportato nel carcere di Viterbo (appositamente scelto perché lontano dai riflettori), restando il tempo necessario agli arresti in infermeria, uno o due giorni, per accettare una domanda per i domiciliari. A quel punto sarebbe stato trasferito al San Raffaele di Milano. Conferma Marco Minniti, allora braccio destro di D’Alema: «Sì, esisteva un’ipotesi di quel tipo. Tutti i margini furono esplorati senza confliggere con l’ordinamento del paese». Quel corridoio non si aprì, ma fu proprio Craxi – pur non conoscendo nei dettagli il piano che era stato preparato – a dire no ad un rientro “condizionato”. Uno degli ultimi giorni dell’anno, con una voce flebile, telefonò a Donato Robilotta, un compagno socialista che lavorava a Palazzo Chigi, e gli disse: «Sono Bettino, dillo a quelli là, che io in Italia ci torno soltanto da uomo libero… Piuttosto muoio qui, in Tunisia…». E in quel no finale c’è tutto Craxi. Piaccia o no, un uomo tutto d’un pezzo. Pronto a mettere in gioco la sua stessa vita, pur di non subire l’umiliazione di una carcerazione, anche di una sola notte, su mandato di quei magistrati di cui non riconosceva l’autorità. Protagonisti, a suo avviso, di un «complotto giudiziario».Ma rinunciando a qualsiasi via d’uscita, Craxi era pienamente consapevole a cosa stesse andando incontro. Francesco Cossiga era andato a trovarlo il 18 dicembre e da lui Bettino si era congedato al solito modo, facendo finta di avere altro da fare. Ma quella volta, con le forze che gli restavano, mentre l’altro stava uscendo, richiamò ad alta voce l’ospite oramai sulla porta: «Francesco!». Quello rientrò e Craxi disse: «Tu lo sai, vero, che questa è l’ultima volta che ci vediamo…». Era vero. Il 19 gennaio del 2000, verso le 5 della sera, la figlia Stefania, inquietata dal prolungarsi del pisolino pomeridiano del padre, entra in stanza e lo trova senza vita, con un grosso ematoma all’altezza del cuore e una smorfia di dolore sul viso, angosciosa e indimenticabile per tutti quelli che la videro anche nelle ore successive, perché risultò irriducibile per chi ricompose la salma. Era stata «una morte amarissima, senza riscatto, profondamente disperata», come scrisse Giuliano Ferrara. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema offrì i funerali di Stato, la famiglia li rifiutò; e dal giorno del funerale nella cattedrale di Tunisi, Bettino Craxi riposa nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, in una tomba scavata nella sabbia e dominata da un eloquente epitaffio: «La mia libertà equivale alla mia vita».(Estratto da “Controvento”, libro di Fabio Martini su Craxi, uscito all’inizio del 2020 e pubblicato in anteprima dall’Huffington Post l’8 gennaio 2020. Il libro: Fabio Martini, “Controvento, La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino, 15 euro).Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo paese.
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‘Mani Pulite, su Craxi inchiesta illegale avviata 6 anni prima’
Il film “Hammamet” e nuovi libri su Craxi, con documenti inediti: tutto questo servirà a ristabilire un po’ di verità? Purtroppo, ci sono poteri forti che non hanno interesse a ristabilire la verità, perché dovrebbero auto-accusarsi di cose piuttosto gravi. Il tempo trascorso non è sufficiente, devono passare ancora una decina d’anni. Anche perché c’è una famosa stanza, nell’archivio del tribunale di Milano, che contiene una decina di fascicoli che tuttora non sono visibili e consultabili: e la gente non sa neanche che esistano. Sono lì, e nessuno può entrare in quella stanza dell’archivio senza l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, nonostante non ci sia alcuna indagine in corso. Questi documenti contengono dati relativi alla nascita dell’inchiesta Mani Pulite, che è nata sei anni prima di quanto la gente sappia. E’ stata fatta andare avanti sottotraccia, contro ogni normativa prevista dalla legge, finché è convenuto farla esplodere. Se ci sarà un’inchiesta, su questo, uno dei testimoni sarò io. Cinque-sei anni prima dell’inchiesta Mani Pulite ricevetti una visita, nel mio studio. Venne a trovarmi un magistrato, e ci fu questo tipo di chiacchierata. Io andai da Bettino, a dirgli “guarda che succede questa cosa”, ma lui disse “freghiamocene”. Tutti possiamo fare errori di sottovalutazione.Non aggiungo altro, ma se ci sarà un’inchiesta io andrò a parlare sotto giuramento. Il magistrato che parlò con me era relativamente famoso, ma non sarebbe salito alla ribalta mediatica perché, successivamente, non avrebbe fatto parte del pool Mani Pulite. Se la magistratura italiana è pilotata da poteri esteri? Anche, ma non solo. Per esempio, Di Pietro aveva contatti con servizi segreti di altre nazioni: questo è emerso. Ha avuto incontri anche col servizio bulgaro, con quello turco, con quello americano. Mi domando perché un magistrato debba incontrare questo tipo di personaggi. Non si pensi, però, che la successiva entrata in politica, da parte di Di Pietro, facesse parte del medesimo persorso: al contrario, non era stata ben vista, da quelli che lo avevano aiutato. Del resto, il percorso è sempre lo stesso: uno va al potere con l’appoggio dei poteri della sovragestione; ma quando poi pensa di poter utilizzare questo per una leadership personale, accentrando troppa attenzione su di sé e su quello che rappresenta, alla sovragestione questo non piace: è accaduto anche a un certo Monti.Mi si chiede se non ho paura, a dire queste cose? Certo che ho paura. Tutti ne abbiamo, benché la paura sia un sentimento che pratico poco. La sensazione che mi possa capitare qualcosa posso anche averla, ma sapete: ho sessant’anni, figli non ne ho fatti, tutto quello che mi doveva capitare mi è capitato. L’unica paura che ho è che possa finire su una sedia a rotelle, diventando un peso per le persone che mi vogliono bene. Se invece mi fanno fuori, che volete che dica: quasi tutto quello che potevo fare, l’ho fatto. L’esplosione pubblica dell’inchiesta Mani Pulite, sei anni dopo? Semplicemente, era stato scarcerato (e non era più processabile) il senatore-chiave per Craxi, Antonio Natali, ex presidente della Metropolitana, che avrebbe dovuto costituire l’affossamento di Craxi sei anni prima. Credo che un po’ di persone siano a conoscenza di questi documenti inaccessibili. Non chiedono che vengano mostrati, perché non ne hanno il potere. La famiglia Craxi? Non so ne sia al corrente. Io comunque queste cose le avevo già dette dieci anni fa, e non è successo nulla.C’è chi si domanda come abbia fatto, un politico arguto e intelligente come Craxi, a non rendersi conto dell’ondata che lo stava per travolgere. Craxi ha sempre avuto una fiducia, nel popolo italiano, molto superiore a quella di qualunque altro uomo politico. Quindi ha sempre pensato che, alla fine, il popolo italiano riconoscesse le sue capacità di governo e gli facesse governare l’Italia con una maggioranza sufficiente. Solo dopo le ultime elezioni (e io già non parlavo più con lui da un po’ di tempo), ha capito che quella fiducia era mal riposta, e non ha potuto fare più niente. Lui doveva vincere le elezioni – anzi, stravincerle – e credeva di riuscirci. Ma non conosceva il popolo italiano. Se Craxi avesse vinto, l’Europa e l’euro avrebbero preso altre strade, e oggi saremmo una nazione più forte e competitiva? Ovviamente sì. Ma scusate, gli italiani non l’hanno votato, Craxi. In un qualunque altro paese al mondo, uno che fa quello che Craxi ha fatto a Sigonella piglia l’80% dei voti. Tutti questi antimericani, che sputano veleno sull’America, quando si trattava di votare Craxi dov’erano? Buoni solo a sciacquarsi la bocca di insulti: buoni a nulla.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Carpeoro Racconta” del 5 gennaio 2020. Simbologo, saggista, giornalista e romanziere, Carpeoro – all’anagrafe, Pecoraro – ha svolto per trent’anni la professione di avvocato, collaborando strettamente anche con Craxi).Il film “Hammamet” e nuovi libri su Craxi, con documenti inediti: tutto questo servirà a ristabilire un po’ di verità? Purtroppo, ci sono poteri forti che non hanno interesse a ristabilire la verità, perché dovrebbero auto-accusarsi di cose piuttosto gravi. Il tempo trascorso non è sufficiente, devono passare ancora una decina d’anni. Anche perché c’è una famosa stanza, nell’archivio del tribunale di Milano, che contiene una decina di fascicoli che tuttora non sono visibili e consultabili: e la gente non sa neanche che esistano. Sono lì, e nessuno può entrare in quella stanza dell’archivio senza l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, nonostante non ci sia alcuna indagine in corso. Questi documenti contengono dati relativi alla nascita dell’inchiesta Mani Pulite, che è nata sei anni prima di quanto la gente sappia. E’ stata fatta andare avanti sottotraccia, contro ogni normativa prevista dalla legge, finché è convenuto farla esplodere. Se ci sarà un’inchiesta, su questo, uno dei testimoni sarò io. Cinque-sei anni prima dell’inchiesta Mani Pulite ricevetti una visita, nel mio studio. Venne a trovarmi un magistrato, e ci fu questo tipo di chiacchierata. Io andai da Bettino, a dirgli “guarda che succede questa cosa”, ma lui disse “freghiamocene”. Tutti possiamo fare errori di sottovalutazione.
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Dalla mafia soldi in Ue contro l’Italia: il segreto di Borsellino
«Soldi della mafia a fior di politici europei». A che scopo, negli anni Novanta? Inguaiare l’Italia, già terremotata da Tangentopoli, in vista della nascita dell’Ue? Era il grande segreto di Paolo Borsellino, assassinato a Palermo il 19 luglio 1992. Chi lo dice? Gianfranco Carpeoro, saggista e osservatore privilegiato dell’attualità in virtù del suo curriculum: per trent’anni avvocato (vero nome, Pecoraro) e a lungo “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. E come sa, Carpeoro, che Borsellino aveva scoperto l’indicibile? «Sono cose che leggo e che sento», taglia corto, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’8 dicembre. Già vicino a Craxi, Carpeoro – benché fuoriuscito dal mondo delle logge – coltiva una sua riservatissima diplomazia massonica, estesa in Italia e all’estero. Nell’estate 2018 le sue affermazioni, di fatto, sventarono il complotto ordito dal francese Jacques Attali, mentore di Macron, per impedire l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai (beffando Salvini, che l’aveva candidato). Operazione, secondo Carpeoro, architettata con la collaborazione di Napolitano, Tajani e Berlusconi, ma poi sfumata dopo le esternazioni dell’avvocato, riprese dal quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro.
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L’inutile fine del depistatore Di Maio, all’ombra del potere
Massacrato in pubblico, esibito da Grillo che ne agita lo scalpo senza che la vittima accenni a sottrarsi al suo destino, più che segnato. La demolizione di Luigi Di Maio, peraltro abilissimo nell’arte di demolirsi da solo, diventa uno spettacolo pressoché quotidiano, nella cornice generale della rottamazione del fu Movimento 5 Stelle. Una fabbrica di sogni e promesse a vuoto che hanno imbambolato milioni di italiani proprio quando sarebbero serviti, quegli italiani, a supportare una politica di riscatto nazionale che impedisse a Merkel e Macron (leggasi, ai poteri retrostanti) di vessare il Belpaese utilizzando la burocrazia di Bruxelles. Giorno per giorno, l’Elevato getta la maschera: l’ex finto rivoluzionario dei Vaffa-Day non si premura neppure più di sembrare qualcosa di diverso da un servitore di poteri esterni, superiori. Un pifferaio, cui è stato evidentemente chiesto di distrarre gli spettatori per congelare la protesta in attesa che l’establishment superasse la momentanea impasse e avesse il tempo di congegnare un’opportuna risistemazione, con volti nuovi e nuove narrazioni. Un quadro in cui, l’hanno capito tutti, non ci sarà più posto per l’ormai inutile Di Maio, fatto a pezzi e umiliato in diretta, senza anestesia.Crolla e si estingue, il Movimento 5 Stelle, perché in dieci anni non ha messo sul piatto una sola proposta praticabile, risolutiva, figlia di una visione precisa e pragmatica del domani. La sua unica vera battaglia, quella contro la minuscola “casta” nazionale (e solo la sua parte visibile, oltretutto, la meno importante) lo ha portato a falciare il Parlamento, rendendo così il potere legislativo ancora più debole, a disposizione della vera “casta”, quella che conta, cioè la super-lobby dei cosiddetti poteri forti internazionali, coi loro terminali italiani (che notoriamente non siedono alla Camera o al Senato). Oggi, disperato, Di Maio ha l’impudenza di attribuire a Salvini la responsabilità politica del crollo del viadotto Morandi, insinuando l’idea che la Lega proteggesse in qualche modo i Benetton e le loro eventuali “distrazioni”, in materia di manutenzione autostradale. Evita di ricordare, Di Maio, che fu il centrosinistra a regalare ai privati le autostrade italiane. E soprattutto, Di Maio finge di non sapere che i Benetton sarebbero solo una piccola parte del problema, visto che la galassia Atlantia è composta da poteri smisurati che si chiamano BlackRock, per esempio, e portano lontanissimo da Genova, fino alle residenze statunitensi della famiglia Clinton.A cosa è servito, all’Italia, un personaggio come Di Maio? Semplice: a non sapere, non capire, non pensare. A prendersela col primo che passa, con l’ultimo malcapitato parlamentare, col piccolo ministro e la sua piccola auto blu. Oggi, Di Maio è nella polvere. Ieri toccò a Renzi, prima ancora a Berlusconi. Il primo in assoluto fu Craxi, dipinto come il male assoluto, l’incarnazione di un sistema marcio. Archiviati Craxi, Berlusconi e Renzi (l’originale, non il replicante di oggi), è cambiato qualcosa, per l’Italia? Figurarsi: siamo arrivati a Salvini e alle Sardine. Poi ci sono i fantasmi, dietro le quinte: Prodi e Draghi, Grillo e Conte. Player veri, figuranti, comparse. E piazze piene, nel dubbio, in attesa di menare le mani contro l’Uomo Nero di turno. La personalizzazione della politica (in assenza di idee) serve solo ad abbagliare il pubblico, mettendo la politica al servizio di qualcuno che non sia il cittadino, l’elettore. Gli slogan funzionano meglio delle idee, che richiedono tempo e attenzione, ragionamento, analisi. La parola “ideologia” è diventata un insulto: “ideologico”, ormai, vuol dire cieco. E’ così che stravince a mani basse l’unica ideologia al potere, quella che declassa la politica e la democrazia come orpelli del passato. Di fronte a questo, non servirà neppure il funerale politico dell’ennesimo prestanome, Di Maio. Via lui, avanti un altro.(Giorgio Cattaneo, “L’inutile fine del depistatore Di Maio”, dal blog del Movimento Roosevelt del 25 novembre 2019).Massacrato in pubblico, esibito da Grillo che ne agita lo scalpo senza che la vittima accenni a sottrarsi al suo destino, più che segnato. La demolizione di Luigi Di Maio, peraltro abilissimo nell’arte di demolirsi da solo, diventa uno spettacolo pressoché quotidiano, nella cornice generale della rottamazione del fu Movimento 5 Stelle. Una fabbrica di sogni e promesse a vuoto che hanno imbambolato milioni di italiani proprio quando sarebbero serviti, quegli italiani, a supportare una politica di riscatto nazionale che impedisse a Merkel e Macron (leggasi, ai poteri retrostanti) di vessare il Belpaese utilizzando la burocrazia di Bruxelles. Giorno per giorno, l’Elevato getta la maschera: l’ex finto rivoluzionario dei Vaffa-Day non si premura neppure più di sembrare qualcosa di diverso da un servitore di poteri esterni, superiori. Un pifferaio, cui è stato evidentemente chiesto di distrarre gli spettatori per congelare la protesta in attesa che l’establishment superasse la momentanea impasse e avesse il tempo di congegnare un’opportuna risistemazione, con volti nuovi e nuove narrazioni. Un quadro in cui, l’hanno capito tutti, non ci sarà più posto per l’ormai inutile Di Maio, fatto a pezzi e umiliato in diretta, senza anestesia.
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Carpeoro: grillini ko, governo Draghi o elezioni anticipate
«Se la candidatura Draghi si profila nel modo giusto, spacca i 5 Stelle e nasce il governo Draghi». Se invece l’ex presidente della Bce non riuscirà a “profilarsi nel modo giusto”, a quel punto «si andrà alle elezioni». E Draghi è più probabile che faccia il presidente del Consiglio o della Repubblica? «Prima l’uno e poi l’altro, direi». Parola di Gianfranco Carpeoro, saggista e acuto osservatore della politica italiana. Era stato il primo, l’8 settembre scorso, a scommettere sulla vita brevissima del Conte-bis, destinato a cadere «entro 90 giorni». Sostituito da un altro esecutivo, dominato da una figura di garanzia per l’establishment? Già allora, Carpeoro non escludeva neppure il voto anticipato: a certe condizioni, disse, «lo scenario-elezioni diventerà probabile al 99%». Ci siamo? «La fibrillazione dei 5 Stelle è molto importante, per cui non so se reggono: credo che la mia previsione sui 90 giorni si avvererà», conferma oggi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming su YouTube. «Col tipo di contrapposizione che ha avuto col Pd in tutti questi anni, il Movimento 5 Stelle non poteva reggere un’alleanza».Mentre il governo annaspa tra Ilva, Mes ed emergenza-Venezia, i 5 Stelle (umiliati in Umbria) ora vengono dati al 5% in Emilia, ma sulla piattaforma Rousseau sconfessano Di Maio, che proponeva di non partecipare alle regionali emiliane, per evitare l’ennesima débacle. La scadenza dei “90 giorni” per il Conte-bis, insediato a inizio settembre, ormai è vicinissima. Superata la manovra finanziaria (riallineata all’Ue), si accettano scommesse sulla longevità politica di Conte: che cada prima o dopo Natale, poco cambia. A spaventare i “giallorossi” è il voto regionale in Emilia, il 26 gennaio, col rischio che la Lega possa strappare la Pd la storica roccaforte “rossa”. In ogni caso, i grillini si avvicinano alla meta sconfitti in partenza: sondaggi impietosi, per loro, a prescindere dal nome del futuro presidente della Regione. Dal quasi 33% ottenuto alle politiche del 2018, un anno dopo i penstellati erano precipitati al 17% alle europee, dimezzando i voti. E ora, dopo soli tre mesi al governo col Pd, stanno letteralmente sparendo insieme al loro portavoce, Di Maio.Colpa essenzialmente di un colossale flop politico: il reddito di cittadinanza ridotto a parodia di welfare, e il tradimento (spettacolare) di tutte le promesse elettorali. Ilva e Tap, trivelle in Adriatico, Muos e F-35, Tav Torino-Lione. Capitolo pietoso, i vaccini: confermato l’obbligo vaccinale istituito da Beatrice Lorenzin. Peggio: in primavera, lo stesso Grillo firmò (con Renzi) il “patto per la scienza” redatto dal vaccinista Claudio Burioni, per tagliare le gambe alla libera ricerca sui danni da vaccino. Sempre da Grillo, in agosto, il via libera all’accordo col nemico storico dei 5 Stelle, il Pd, siglato con la benedizione di Renzi. All’ex rottamatore, secondo Carpeoro, i grandi poteri hanno proposto un accordo: se ci aiuti a mettere in piedi il Conte-bis, ti faremo finalmente entrare nel salotto buono. Indizio: l’invito al meeting 2019 del Bilderberg, che pure resta una semplice vetrina. «In realtà – afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” – Renzi aveva ripetutamente bussato, ma senza esito, alla superloggia internazionale Maat, quella di Barack Obama». Sul suo rientro in campo, prudenza: Italia Viva è ferma al 5%. «Improbabile che i grandi gestori supermassonici del consenso intendano investire davvero su di lui», dice Magaldi.Altro attore in primo piano sulla scacchiera italiana, il premier Conte: non è affatto “venuto dal nulla”, ma «è l’espressione dello stesso potere vaticano a lungo incarnato dal cardinale Achille Silvestrini», sostiene Fausto Carotenuto, già analista dell’intelligence Nato: «E’ il network che garantì per decenni il potere di Giulio Andreotti». Ma il vero convitato di pietra è Mario Draghi, più che controverso protagonista della storia italiana recente: tecnocrate di prima grandezza, già dirigente della Goldman Sachs e poi di Bankitalia, prima ancora che della Bce. Da direttore generale del Tesoro, dopo la visita al panfilo Britannia il 2 giugno 1992 (dove il gotha della finanza anglosassone progettò la svendita di un’Italia terremotata da Mani Pulite e minata dallo smembramento dell’Iri affidato a Prodi), Draghi “lubrificò” la grande privatizzazione del paese, che raggiunse il suo culmine col governo D’Alema. Nel suo saggio, Magaldi presenta il super-banchiere come affiliato a 5 influenti Ur-Lodges, tutte di stampo reazionario: punta di lancia del potere neoliberista, post-democratico e neo-feudale che ha varato la spietata austerity europea.Ora, la sorpresa: insieme a Christine Lagarde, che ne ha preso il posto alla Bce (invocando il ritorno alla “moneta del popolo”), lo stesso Draghi ha evocato la Modern Money Theory, cioè il ritiorno alla piena sovranità monetaria, senza più vincoli al deficit. Per Magaldi si tratterebbe di un segnale preciso: Draghi e Lagarde, «già massoni neoaristicratici», avrebbero addirittura «chiesto di entrare nei circuiti della massoneria progressista, rooseveltiana e post-keynesiana, che preme per la riconquista della democrazia sostanziale», anche restituendo agli Stati il loro potere illimitato di spesa a beneficio di cittadini e aziende. Sarà questo il “modo giusto” in cui potrebbe “profilarsi” l’eventuale candidatura di Draghi, cui allude Carpeoro? Un Draghi “pentito” del rigore finora inflitto, dal massacro sociale impartito alla Grecia fino al pareggio di bilancio rifilato all’Italia, tramite Monti e Napolitano? Un Super-Mario dalle mille vite, capace di convincere persino gli smarriti grillini a evitare le elezioni anticipate, di cui peraltro hanno il terrore?Un conto però è profilare ipotesi, un altro è schematizzare impropriamente un quadro che resta fluido e contraddittorio. Sulla carta, l’alternativa è rappresentata dalla Lega di Salvini, che però – tramite Giorgetti – avrebbe fatto sapere di essere pronta ad appoggiare Draghi al Quirinale, dopo Mattarella, se l’ex capo della Bce (pezzo da novanta dell’establishment che “sovragestisce” l’Italia) non si opponesse a un governo Salvini, nel caso in cui la situazuione, magari dopo il voto emiliano, precipitasse verso le elezioni anticipate. Fabio Frabetti annota: Salvini, come un tempo Berlusconi, ha presenziato al rito della presentazione ufficiale dell’ultimo libro di Bruno Vespa. Carpeoro invita a non enfatizzare l’episodio: è vero, «Vespa è il cerimoniere di un certo establishment, che sfrutta il cavallo che più gli conviene al momento, per poi buttarlo via». Ma intanto «è interessato innanzitutto a vendere i suoi libri, utilizzando allo scopo il politico più à la page». Se proprio c’è da spendere un nome, per il futuro immediato, non c’è storia: Carpeoro indica Mario Draghi.«Se la candidatura Draghi si profila nel modo giusto, spacca i 5 Stelle e nasce il governo Draghi». Se invece l’ex presidente della Bce non riuscirà a “profilarsi nel modo giusto”, a quel punto «si andrà alle elezioni». E Draghi è più probabile che faccia il presidente del Consiglio o della Repubblica? «Prima l’uno e poi l’altro, direi». Parola di Gianfranco Carpeoro, saggista e acuto osservatore della politica italiana. Era stato il primo, l’8 settembre scorso, a scommettere sulla vita brevissima del Conte-bis, destinato a cadere «entro 90 giorni». Sostituito da un altro esecutivo, dominato da una figura di garanzia per l’establishment? Già allora, Carpeoro non escludeva neppure il voto anticipato: a certe condizioni, disse, «lo scenario-elezioni diventerà probabile al 99%». Ci siamo? «La fibrillazione dei 5 Stelle è molto importante, per cui non so se reggono: credo che la mia previsione sui 90 giorni si avvererà», conferma oggi a Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming su YouTube. «Col tipo di contrapposizione che ha avuto col Pd in tutti questi anni, il Movimento 5 Stelle non poteva reggere un’alleanza».
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Toghe e 007: perché condizionano l’agenda politica italiana
Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).Richiedere a un partito 49 milioni di euro, oggi, significa esporlo al rischio di non poter più svolgere l’attività politica (restringendo in tal modo la libertà costituzionale relativa all’offerta democratica garantita dalle elezioni). Ad Agrigento invece il pm sembra aver trattato Salvini – contrario agli sbarchi – alla stregua un bandito dell’anonima sarda, imputandogli addirittura l’ipotetico “sequestro di persona” a danno dei migranti, come se i profughi fossero stati tenuti prigionieri della nave che li aveva raccolti (e non fossero invece liberissimi di salpare, per poi sbarcare altrove). Ma il colpo più duro, alla Lega, lo hanno assestato i servizi segreti – non si sa di quale paese – che hanno intercettato e registrato a Mosca il famoso colloquio tra l’esponente leghista Gianluca Savoini e alcuni emissari di secondo piano del potere russo. Tema della conversazione: una ipotetica fornitura di petrolio e gas, sulla quale – hanno riferito giornali come “L’Espresso” – lo stesso Savoini (a che titolo, non si sa) avrebbe discusso la possibilità ipotetica di ricevere una percentuale sull’eventuale affare, peraltro non andato in porto e mai neppure avviato. Salvini si è difeso dichiarandosi più che tranquillo, evitando però di rispondere nel merito: del caso si sta occupando la magistratura milanese, a cui qualcuno (chi?) ha inviato l’audio della conversazione all’Hotel Metropol.Infastidito per l’insistenza dei giornalisti italiani che hanno seguito la vicenda (testate che contro l’ex Carroccio hanno condotto una vera e propria crociata politica), il leader lehista è apparso evasivo: ha detto di non essere stato messo al corrente di quell’incontro. In ogni caso, Savoini non rappresentava in alcun modo il governo italiano (all’epoca, ottobre 2018, Salvini era vicepremier, oltre che ministro dell’interno). Peraltro è noto a tutti che la Lega, alla luce del sole, ha sempre avuto ottimi rapporti politici con Mosca e col partito “Russia Unita”, fondato da Putin. Salvini giudica l’uomo del Cremlino uno statista di prima grandezza, e ritiene che l’Italia possa e debba riavvicinare la Russia all’orbita Nato, per ragioni geopolitiche e commerciali, dato anche il valore dell’export italiano verso Mosca. Non solo: dai tempi di Bossi, il Carroccio non è mai stato pregiudiziale nei confronti del mondo slavo. Durante la guerra civile nei Balcani, la Lega Nord fu l’unico partito italiano ad allacciare un dialogo anche con la Serbia filo-russa di Milosevic, bombardata dalla Nato e criminalizzata dalla disinformazione occidentale come unico “cattivo soggetto” dell’area balcanica. Una regione devastata dagli opposti nazionalismi e dal cinismo dei vari leader, come svelato nel memorabile saggio “Maschere per un massacro”, di Paolo Rumiz. Sullo sfondo, il ruolo occulto delle potenze egemoni (Occidente cristiano e Turchia islamica) nella “guerra per procura”, dopo la caduta dell’Urss, contro la residua influenza russa, attraverso il regime serbo, ai confini occidentali dell’Europa.Tornando a Salvini, è evidente lo stato di imbarazzo generato – a torto o a ragione – dal cosiddetto Russiagate. E’ pensabile che l’incidente non abbia inciso, nella scelta di “staccare la spina” dal governo gialloverde nel fatidico agosto 2018? Certo, a Bruxelles la Lega aveva appena incassato il “tradimento” di Conte e dei 5 Stelle, decisivi per l’elezione alla guida della Commissione Europea di Ursula von der Leyen, simbolo del rigore più estremo, di marca tedesca. Un vero e proprio affronto, per l’alleato leghista dichiaratamente impegnato (come un tempo anche i grillini) a pretendere un cambio di paradigma nella governance europea. Va aggiunto che Salvini aveva più di una ragione per pretendere il divorzio dai pentastellati: Conte, il misterioso premier indicato dai grillini ma teoricamente “venuto dal nulla”, aveva sostanzialmente insabbiato i referendum di Lombardia e Veneto per le autonomie regionali differenziate. Ma era stato ancora una volta uno dei consueti player istituzionali (la magistratura, in questo caso) a speronare indirettamente il progetto di Flat Tax, facendo piovere un avviso di garanzia sul suo ispiratore, il sottosegretario leghista Armando Siri. Effetti politici collaterali, certo. Ma intanto, una volta di più, è stato un soggetto terzo – non elettivo – a condizionare l’agenda politica italiana, esattamente come ai tempi di Mani Pulite e poi di Berlusconi.Se qualche potere sovrastante, non istituzionale, ha voluto provare a “togliere di mezzo” Salvini pensando di “utilizzare” apparati statali magari per fare un favore a Conte, oggi è lo stesso premier ad essere costretto (da altri poteri sovrastanti?) a rendere conto del suo operato, presso analoghi organi statali, in merito alla vicenda dell’ipotetico impegno “irrituale” dei servizi segreti italiani in favore di settori dell’intelligence statunitense. Si sospetta cioè che Conte, in modo indebito, abbia messo i servizi italiani a disposizione di quelli di Trump, a sua volta impegnato a difendersi dai vari Russiagate che gli sono stati addebitati: in questo caso, la Casa Bianca avrebbe richiesto l’aiuto italiano per “incastrare” il rivale Joe Biden, accusato di malversazioni in Ucraina. Qualcosa del genere aveva coinvolto anche Renzi: quando era primo ministro, Barack Obama gli avrebbe chiesto di mobilitare gli 007 italiani per aiutare Hillary Clinton ad azzoppare Trump, sempre attraverso indiscrezioni provenienti dalla sfera russa. In attesa che i fatti possano eventualmente chiarirsi (dopo le prime vaghe rassicurazioni rese dal premier al Copasir, ora presieduto dal leghista Raffaele Volpi) resta il fatto che Conte oggi è al governo proprio con Renzi, mentre a Salvini non resta che fare da spettatore.Sarebbe il colmo se lo stesso Conte, domani, fosse costretto a farsi da parte proprio a causa del suo ruolo nella gestione dell’intelligence, che stranamente ha voluto tenere per sé. Per coincidenza, negli ultimi giorni si rincorrono voci di corridoio proprio sull’eventuale sfratto dell’inquilino di Palazzo Chigi. Non durerà a lungo, profetizza Paolo Mieli. Potrebbe venir sostituito da Draghi, ipotizza Augusto Minzolini, interpretando i desiderata del redivivo Renzi. Secondo il saggista Gianfranco Carpeoro, a Renzi i “sovragestori” avevano dato un’ultima chance: rientrare in gioco, se fosse riuscito a silurare Salvini. Detto fatto: d’intesa con Grillo, il fiorentino è stato capace di digerire all’istante persino gli odiati 5 Stelle. In cambio di cosa? Il premio, pare, sarebbe il sospirato accesso al gotha supermassonico, quello da cui proviene il Draghi che oggi prova a dipingere se stesso come una specie di Robin Hood (evocando il ritorno alla sovranità monetaria) dopo aver interpretato per decenni il ruolo spietato dello Sceriffo di Nottingham.A Palazzo Chigi sta davvero per arrivare Super-Mario, che in realtà sarebbe propenso a puntare direttamente al Quirinale evitando la fatale impopolarità che attende chiunque si metta alla guida di un governo? Difficile dirlo. Certo, è impossibile non osservare il basso profilo ora adottato da Salvini: cauto e attendista, più moderato nei toni, concentrato sull’agevole partita tattica delle regionali. Come se sapesse che, a monte, restano da sciogliere nodi assai più grandi della Lega, fuori dalla portata dei comuni elettori. Svolte, scossoni e colpi di scena verranno, ancora una volta, da poteri non elettivi e organi istituzionali non politici? Un certo complottismo indiscriminato tende a mettere in cattiva luce sia i magistrati che gli 007, accusando gli uni di faziosità e gli altri di doppiogiochismo, come se non si trattasse di organismi che (salvo eccezioni) fanno semplicemente rispettare le leggi e vigilano sulla sicurezza del sistema-paese. Semmai, la lente andrebbe puntata su poteri elusivi e superiori, non solo italiani, che ne sfruttassero le prerogative per deviarne l’azione su obiettivi contingenti, condizionando – di fatto – l’agenda nazionale e le sue dinamiche politiche, al di sopra della volontà popolare espressa dai risultati elettorali.Secondo lo stesso Carpeoro, questa particolare fragilità italica ha radici antiche: già in epoca medievale e rinascimentale, Comuni e signorie ricorrevano regolarmente all’aiuto straniero (pagandone poi il prezzo in termini “coloniali”) per sbarazzarsi dei vicini di casa. L’Italia non è riuscita a proteggere né Enrico Mattei dai suoi sicari, né Adriano Olivetti dalla concorrenza industriale, di marca Fiat e statunitense. Travolta giudiziariamente la leadership dei vari Craxi e Andreotti, e scomparso un politico della caratura di Enrico Berlinguer, il Belpaese si è sorbito Berlusconi, Prodi, Grillo e Renzi. Così, Germania e Francia hanno fatto quello che hanno voluto, nella Penisola: Macron ha persino reclutato un esponente del Pd, Sandro Gozi, per farne una sorta di alfiere anti-italiano in sede europea, quand’era ancora in carica il governo gialloverde. Del resto, ormai, da noi vota solo un elettore su due. E quelli che tornano alle urne – nella maggior parte dei casi – lo fanno per votare contro qualcuno, più che per qualcosa. Se questo è il quadro, il meno che ci si possa aspettare è che poteri esterni cerchino di sfruttare le nostre istituzioni, con ogni mezzo, per insediare a Roma il governo più comodo per loro, non certo progettato per il benessere degli italiani. Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se fossero ancora le sentenze, gli avvisi di garanzia e le imprese degli 007 a scegliere tempi, modi e personaggi della politica italiana.Servizi segreti e magistratura: due player decisivi, ancora una volta, nel destino italiano? Solo grazie ai cosiddetti “servizi deviati” fu possibile trasformare in catastrofe nazionale gli anni di piombo, rendendo quasi invincibile il terrorismo rosso-nero. Più tardi, analoghe “manine” contribuirono ad agevolare l’eliminazione degli scomodissimi Falcone e Borsellino. Quanto alle toghe, è ormai storicamente accertato (e ammesso dallo stesso Francesco Saverio Borrelli) l’effetto politico dell’azione giudiziaria del pool Mani Pulite. Fu decapitata la classe dirigente della Prima Repubblica, con l’eccezione non casuale del Pci-Pds, proprio mentre il paese stava affrontando lo spinoso negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea. Oggi, in un’Italia alle prese con tutt’altri tornanti della storia – le macerie dell’anomalia gialloverde sorta del 2018 dopo la lunga austerity eurocratica imposta da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni – tornano protagonisti, in fondo, sempre gli stessi organi istituzionali: da un lato gli 007, dall’altro i magistrati. Codice alla mano, alcune Procure hanno inquadrato nel mirino la Lega di Salvini, invisa ai poteri Ue: a Genova – l’ha spiegato bene Luca Telese, in un video-intervento – il giudice ha inflitto all’ex Carroccio un risarcimento inconsueto, sostanzialmente forfettario (sulla base di un calcolo presuntivo delle irregolarità gestionali attribuite a Bossi).
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Il cinismo della disperazione: Di Maio svuota la democrazia
Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?Ci rimette anche la Lega, rimasta «imbottigliata per una anno e mezzo sullo scambio tra autonomia differenziata e riduzione del numero dei parlamentari». Già, l’autonomia per il Nord-Est: «Per mesi è stata avvolta da una nebbia fittissima», e oggi «non se ne vede nemmeno l’ombra». Innanzitutto, osserva Mangia nella sua analisi offerta a Ferraù sul “Sussidiario”, si dovrebbe aver capito che il taglio dei parlamentari «è un modo per bloccare il funzionamento del sistema elettorale, rendere impossibili elezioni a breve e creare le premesse per un dialogo infinito sulla legge elettorale prossima ventura». Che dovrà essere infinito, «perché altrimenti questa situazione di democrazia sospesa, che permette di evitare le elezioni, finisce». E se Lega e Pd assecondano il populismo di Di Maio, a “vincere” è il Movimento 5 Stelle: «Il dato veramente incredibile è che i 5 Stelle siano riusciti, in momenti diversi, e per una serie di casi fortunati, a portare prima la Lega e poi il Pd su un progetto tanto inutile e pretestuoso rispetto agli obiettivi dichiarati». Di Maio parla di un risparmio di 100 milioni all’anno. «Appunto: roba che uno Stato con un bilancio di 800 miliardi nemmeno se ne accorge», sottolinea Mangia. L’Osservatorio di Cottarelli, poi, parla di un risparmio reale di appena 57 milioni all’anno, cioè la metà di quanto propagandato.Ma il vero pericolo è più serio: «Se il parlamentare oggi si concepisce come uno schiacciabottoni, tanto da dirlo apertamente – osserva il professore – significa che il problema non è il taglio dei parlamentari, ma l’involuzione della classe politica nel suo complesso, tanto da arrivare per prima a concepirsi come inutile. Tanto da credere di potersi rigenerare attraverso un’automutilazione». È un atteggiamento che ricorda da vicino la riforma delle immunità del 1993 votata in piena Tangentopoli, sotto la pressione di Mani Pulite. «Anche allora si pensava che spogliando il parlamentare dell’immunità, e denudandolo di fronte alla magistratura, la classe politica si sarebbe rigenerata». E invece, «quell’automutilazione non solo ha cambiato gli equilibri tra i poteri dello Stato, ma ha spianato la strada alla dissoluzione di una classe politica, dopo la quale non ce ne è mai stata un’altra». Ma a quel punto, allora, «perché non risolvere tutto in un vertice tra segretari di partito, dove ciascuno pesa in ragione del pacchetto di azioni che rappresenta, come in un’assemblea degli azionisti?».Qualcuno potrebbe dire: sapete quanti soldi continuano a costare 400 deputati e 200 senatori? «Se si sfonda una linea, trovare poi un limite davanti al quale fermarsi diventa difficile», avverte Mangia. «Tant’è vero che da allora, e cioè da Tangentopoli, si è sempre andati avanti nella stessa direzione in un gioco di delegittimazioni reciproche». Una classe politica «ha coscienza di sé e del suo ruolo, e la coscienza del ruolo ha un implicito effetto di legittimazione». Non a caso, in altri tempi, «i re non tagliavano la testa agli altri re, perché se no passava l’idea che ai re si poteva tagliare la testa e il sistema crollava». Se manca la consapevolezza di un ruolo – dice il costituzionalista – alla fine di quel ruolo manca anche la percezione tra chi lo deve rispettare. Dunque: parlamentari tagliati «non perché siano troppi, ma perché, tutti assieme, non fanno una classe politica». Fermare lo scempio con un referendum? Il professor Mangia è scettico: «Dopo 25 anni di delegittimazione della classe politica, chi andrebbe oggi a dire ai cittadini che lasciare il Parlamento così com’è non sarebbe affatto un male? Ci si esporrebbe alla solita obiezione del voler salvare le poltrone».Secondo il professore «si congelerà la situazione per un po’ e ci si sposterà sulla legge elettorale». Su quella non c’è accordo, perché i leader «si sono accorti che il proporzionale enfatizzerebbe a dismisura quanto sta accadendo: l’imperversare di Renzi e forse, un domani, dell’amico-nemico Di Maio». Cosa fare? «Non lo sa nessuno. Qualcuno vuole un proporzionale puro; altri lo vogliono con lo sbarramento “alto” per mettere in difficoltà Renzi; altri lo sbarramento alto con la sfiducia costruttiva; qualcuno parla di doppio turno da vent’anni e continua a farlo oggi». Per prendere tempo «si allargherà il campo e si giocherà sull’abbassamento dell’età per votare, sulla base regionale per l’elezione del Senato, sui regolamenti parlamentari». Secondo Mangia, «è il solito armamentario delle riforme che gira da vent’anni senza però riuscire a cambiare granché, se non in peggio». Perché quell’armamentario «è il figlio dell’illusione che basti cambiare le regole per cambiare la politica: un’illusione che ha guidato la fase dello sperimentalismo costituzionale». Adesso è solo «materiale per una tattica parlamentare che usa spregiudicatamente la Costituzione per comprare tempo. È il cinismo della disperazione», sintetizza il professore.Alessandro Mangia inquadra con precisione il disegno politico dei 5 Stelle: «Ridurre il peso politico del Parlamento, spostare quel peso sulle consultazioni dirette – e cioè Twitter, referendum e Rousseau: tanto nella loro ottica è tutto uguale». In questo modo, si finisce per cambiare il funzionamento delle istituzioni. «Non a caso le due riforme, taglio dei parlamentari e riforma del referendum, sono sempre andate di pari passo». Tant’è vero che ora se n’è ricominciato a parlare: «Sarà la prossima frontiera». Altra mina, i cambi di casacca: il vincolo di mandato. Limitazioni che i 5 Stelle erano già riusciti a inserire nel “contratto di governo” con la Lega, e che hanno cercato di introdurre con le sanzioni ai dissidenti che abbandonano il gruppo. Il tribunale di Roma le ha già dichiarate nulle, «come è nullo ogni contratto contrario a norme imperative». Ma il rischio è dietro l’angolo: «Credete che sarebbe difficile, volendo, far partire una campagna contro i parlamentari voltagabbana che si staccano e fanno un loro gruppo o che passano da una maggioranza all’altra? È la stessa tecnica usata per il taglio ai parlamentari». Fatto quello, a che serviranno deputati e senatori? «Più a nulla. Nemmeno a schiacciare il bottone. Basterà il palmare o il telecomando». Del resto, chiosa Mangia, se è vero che se “uno vale uno”, allora “uno vale l’altro”, a prescindere dalla volontà degli elettori.Lo scellerato auto-affondamento del Parlamento, voluto da un Di Maio ridotto alla disperazione, produrrà danni incalcolabili al sistema democratico italiano. Prossimo colpo, magari: il divieto di cambiare casacca, riducendo il parlamentare a burattino. La primogenitura dell’attacco alla rappresentanza popolare «va molto più in là del governo gialloverde». Secondo Federico Ferraù «arriva fino ai “politici ladri” degli anni di Tangentopoli, passando per la “casta”, indimenticata bandiera antipolitica che tanto senso comune ha prodotto negli anni novanta e duemila». Gioele Magaldi va ancora più indietro: evoca il Piano di Rinascita Democratica della P2 e, prima ancora, il “dimagrimento” delle Camere voluto da Mussolini. «Ovvio: se i parlamentari sono pochi, il potere oligarchico nemico della democrazia li controlla più facilmente». Secondo il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano, è penoso lo spettacolo dei parlamentari che corrono a decurtare le proprie file: «Siamo al cinismo della disperazione», all’autoliquidazione di chi non è più classe politica e pertanto non ha più ragione di esistere. Perché mantenerlo in vita, un Parlamento, se è solo un peso?
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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A chi obbediscono le docili istituzioni del Protettorato Italia
Finalmente anche all’opinione pubblica è arrivato il problema della condizione internazionale dell’Italia come paese dominato da altri paesi – Francia e Germania – che sono in grado di imporre, anche con l’aiuto della Ue e della Bce che stringono o allargano la borsa all’Italia secondo le convenienze di Parigi e Berlino, politiche e governi contro l’interesse e la volontà nazionale. Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del Presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale – è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive. Affinché possa svolgere cotale ruolo contrario al bene della nazione, il Presidente, nella struttura costituzionale, è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche. Grazie a ciò può metter su governi che sa benissimo non avere il consenso del popolo, bensì quello di potentati stranieri portatori di interessi contrapposti a quelli italiani e ammantati di falso europeismo. Sia pure con differenziazioni tra loro, i sociologi della scuola italiana (Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Robert Michels) ravvisano una costante, ossia una legge empirica, nella strutturazione sociale: ogni società è dominata da una élite od oligarchia e non si governa da sé.
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De Magistris, giustizia militante: un politico del medioevo
L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».Da Rold polemizza col nostro sistema giudiziario: i Pm: sono rimasti gli ultimi, negli ordinamenti democratici occidentali, a essere ancora parificati ai giudici. E in più «si rifiutano di seguire la grande separazione di tutti i poteri che, sin dal Settecento, si teorizzava anche nella distinzione tra giudice e pubblica accusa». È vero che va di moda Jean-Jacques Rousseau, il filosofo radicale “adottato” da Casaleggio, «ma Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, appunto noto come Montesquieu, precisava con forza che se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore sarebbe un abuso». La prova del nove? «Le democrazie di quasi tutto il mondo seguono Montesquieu». Famosi nemici della separazione tra magistratura inquirente e giudicante, due personaggi non proprio democratici: il leader fascista Dino Grandi e il dittatore portoghese António de Oliveira Salazar, «anche lui appassionato dell’unicità di vedute tra accusa e chi formula il giudizio». I tempi cambiano, ma non per tutti: «Ora anche il Portogallo ci ha ripensato; l’Italia invece difende combattiva la non-separazione».Tornando alla cronaca: la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Salerno che dichiarava prescritti i reati contestati all’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Salvatore Murone, e all’avvocato generale Dolcino Favi, che avevano avocato i fascicoli sottraendoli all’attuale sindaco di Napoli. Resta dunque valida la sentenza di primo grado del tribunale di Salerno, che aveva assolto i due magistrati di Catanzaro. E l’assoluzione riguarda anche l’ex senatore e avvocato Giancarlo Pittelli, il procuratore Mariano Lombardi (nel frattempo deceduto) e l’imprenditore Antonio Saladino, assolti «per insussistenza del fatto, così come avvenuto in primo grado». A parole, de Magistris (due volte sconfitto) non si arrende: «Continuerà probabilmente a parlare di complotti», avverte Da Rold. «Ma tutta la sua vicenda – aggiunge – è degna di un libro (che infatti è in gestazione) per dimostrare lo strapotere, o forse l’unico potere forte, che è rimasto oggi in Italia: quello della magistratura, gestita principalmente – per un lungo periodo – proprio dai Pm alla de Magistris».Per rendersi conto di quanto capitato, continua Da Rold, vale la pena di vedere quale autogol de Magistris ha fatto in Cassazione e leggere la dichiarazione rilasciata dall’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, Murone: «La Cassazione ha finalmente e definitivamente chiuso a mio favore la vicenda “Why not”. Tutte le mistificazioni, le bugie, le cattiverie sono finite. L’assoluzione di primo grado è stata ribadita, a dimostrazione che le vicende successe al signor de Magistris non sono il frutto di congiure e complotti, di poteri forti a livelli superiori, ma solo il suo modo di fare il pubblico ministero, già stigmatizzato dai provvedimenti di carriera che lo hanno colpito, portandolo fuori dalla magistratura». Insomma: per Da Rold, «Luigi de Magistris, tonitruante sindaco di Napoli, non rispettava neppure le regole della pubblica accusa su un impianto procedurale discutibile, come più volte hanno ricordato tanti uomini politici». Marco Pannella fece addirittura della battaglia per la separazione delle carriere una missione della sua vita e portò Enzo Tortora al Parlamento Europeo. «Ma la vocazione inquisitoria della tradizione italiana resiste», anche se «tutti sanno quanto è causa di autentici drammi umani».“Why not” è durata dodici anni. L’imprenditore Tonino Saladino ha visto sua moglie ammalarsi e i suoi figli storditi dalla sua vicenda umana, annota Da Rold. «Ogni tanto si ricorda sbigottito e sgomento il 12 marzo 2007, quando alle sette di mattina gli piombarono in casa i carabinieri per un’ispezione alla ricerca di carte che neppure sapevano che cosa fossero o rappresentassero». Tutta quella storia di “Why not” fu «uno scontro durissimo che coinvolse il governo dell’epoca, quello di Romano Prodi, che alla fine andò in crisi», travolgendo il ministro della giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie. «Per placare le acque all’interno della magistratura e nel perenne scontro tra magistratura e politica dovette intervenire nel 2008 anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano». Non era una novità, in quegli anni della già affermata Seconda Repubblica: l’Italia, ricorda Da Rold, era un paese «destabilizzato da svendite di grandi aziende pubbliche, da una cronica mancanza di crescita e da una confusione demenziale della classe dirigente, politica e imprenditoriale», con i magistrati inquirenti spessissimo sopra le righe.Una fenomenologia cominciata in realtà nel 1992, quando la magistratura italiana, «risvegliatasi dal suo torpore, aveva “scoperto” le tangenti politiche, che esistevano dal 1946». Senza contare i circa 1.000 miliardi di lire (secondo Stéphane Courtois) che affluivano al Pci dall’Urss, «potenza ufficialmente nemica». E tutto poi «amnistiato, naturalmente». In fondo, continua Da Rold, la vicenda di “Why not” era il seguito inevitabile delle apparizioni televisive, in gruppo, del pool Mani Pulite: giornate scandite dalle “sensazionali rivelazioni” che qualche talpa del Palagiustizia passava sottobanco ai giornali. «È stata una lunga cavalcata non molto edificante, con alla fine un Francesco Saverio Borrelli che confessa i suoi dubbi a Marco Damilano; con la sempre cacofonica parlata giurisprudenziale italiana del “grande manettaro” Antonio Di Pietro; con la visione del “geniale” Pier Camillo Davigo che pensa di trovarsi di fronte a 60 milioni di italiani potenzialmente colpevoli, che naturalmente devono giustificare la loro condotta». Per non parlare della battaglia delle “correnti” all’interno della magistratura, fino alla pagina nera del Csm con il clamoroso “caso Palamara”, l’inciucio col Pd, di cui si cerca di parlare il meno possibile, sui media.Teoricamante il nostro è uno Stato di diritto, eppure «la giustizia segue tempi scoraggianti, dove gli aspetti inquisitori sono sempre prevalenti». E il peggio è, scrive Da Rold, che non si ha il coraggio di riconoscere che in Italia «questa amministrazione giudiziaria è gestita da una casta feudale, dove le procure rappresentano i feudi superstiti o dei nuovi feudi, che ogni tanto si fanno pure la guerra l’uno contro l’altro, spesso in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale o secondo interpretazioni delle norme che farebbero inorridire un filosofo del diritto come Hans Kelsen». Ogni speranza di riforma finisce per naufragare, grazie anche alle “intemerate” del fedelissimo Marco Travaglio, «che spesso anticipa i tempi persino delle sentenze». Buio pesto anche dal ministro Alfonso Bonafede, devoto a Giuseppe Conte, «quindi un visconte per tradizione feudale».«E pensare che la riforma della giustizia, in agenda del nuovissimo governo, ora che i grillini sono diventati europeisti con Ursula von der Leyen, dovrebbe rispettare, o almeno tenere in considerazione, la risoluzione numero 112/97 approvata dal Parlamento Europeo il 4 luglio 1997», chiosa Da Rold. In questo si dice: «È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati – i cosiddetti “examining magistrates” – e quella del giudice, al fine di assicurare un processo giusto». Sentenze autorevolmente emesse, al termine di processi in cui si condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”. Ha voglia di scherzare, Da Rold: «Perché non si organizza su questo tema un bel convegno tra de Magistris, Davigo, Di Pietro e Travaglio come moderatore?». In questo caso, aggiunge, «lo spettacolo sarebbe assicurato, e poi si potrebbe emigrare tranquillamente».L’ultima notizia dell’infinita saga dell’inchiesta di “Why not”, una sorta di triste serial televisivo con un regista inedito (l’attuale sindaco di Napoli, Luigi de Magistris), è arrivata l’11 settembre 2019. Siamo probabilmente ai titoli finali, con un de Magistris che sembrerebbe sconfitto dopo la sua poco edificante uscita dalla magistratura. Lo afferma Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, rievocando la breve stagione politico-giudiziaria di cui si è reso protagonista il primo cittadino partenopeo, sempre alla ricerca affannosa di riflettori mediatici, ai margini della politica nazionale. “Why not”, scrive Da Rold, imperversava dal 2007, quando de Magistris, un tempo procuratore di Catanzaro, cominciò a seguire i passi della “magistratura militante”, quella che vuole contare, che vuole dettare i tempi della politica e che ha sempre aspirato a diventare famosa a colpi di comparsate televisive. De Magistris aprì un’inchiesta «basata su prove aeree», cominciata con confessioni poi ritrattate. «E naturalmente, sullo sfondo, complotti giudaico-massonici e altre amenità da “Savi di Sion” senza bisogno della polizia zarista, secondo una delle ricorrenti tendenze giuridiche dei pubblici ministeri italiani».
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Carpeoro: Salvini cala? Entro 90 giorni si torna a votare
«Il Conte-bis durerà appena tre mesi: entro 90 giorni lo scenario-elezioni diventerà probabile al 99%». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, attento osservatore dei retroscena italiani. L’indizio: l’erosione del consenso di Salvini, ora che non è più sovraesposto, sui media, come ministro dell’interno impegnato nello stop agli sbarchi dei migranti. Il ragionamento: non appena i sondaggi confermeranno il trend – sfavorevole alla Lega, e con piccoli segnali di ripresa per la concorrenza – Pd e 5 Stelle romperanno il patto per tornare alle urne. Se questo accadrà «a fine anno, o al più tardi a gennaio», sullo sfondo sarà presente un convitato di pietra, Mario Draghi, che a novembre si sarà disimpegnato dalla guida della Bce. Già nei mesi scorsi, Carpeoro aveva segnalato l’esistenza di un piano-Draghi: forti pressioni sul super-banchiere, da parte delle superlogge più reazionarie, per spingerlo verso Palazzo Chigi. Ipotesi che secondo alcune fonti Draghi non gradirebbe, mirando il realtà al Quirinale, dopo Mattarella (e un uomo accorto come Draghi sa benissimo che la guida del governo potrebbe renderlo impopolare, fino a precludergli il Colle). Per contro, con le elezioni antcipate Zingaretti si libererebbe di Renzi.Più che le trame della sovragestione internazionale – dice Carpeoro, in streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – potrebbero pesare molto, nella partita italiana, gli interessi di bottega dei partiti in lizza. «Nessuno di questi, nemmeno la Lega, ha una visione strategica della situazione: nessuno dice come vorrebbe l’Italia tra dieci anni, e il peggio è che a non chiederglielo sono proprio gli italiani, in primis, che si accontentano di aspetti superficiali e irrilevanti». Esempio: «Può spostare voti il solo fatto che Di Maio si faccia fotografare mano nella mano con la fidanzata». Idem, ieri, le “barricate” di Salvini contro gli sbarchi: «E’ semplicemente da coglioni – dice Carpeoro, letteralmente – pensare che un problema come l’immigrazione si possa risolvere solo proibendo ai migranti di sbarcare: da che mondo è mondo l’uomo si sposta, e il Sacro Romano Impero nacque dalle invasioni barbariche, che altro non erano che forme – anche violente – di immigrazione». Il problema? «Non è stata mai creata un’agenzia per gestire l’immigrazione, capendo da cosa è originata, da quali paesi, per quali motivi. I problemi vanno governati: il non-governo è la soluzione peggiore, quella che danneggia tutti, migranti e italiani».Con mesi di anticipo sui recenti sviluppi della crisi di governo, Carpeoro aveva avvertito: «C’è un piano di origine supermassonica, che coinvolge Renzi e Grillo, per far fuori Salvini». Di fronte alla rottura decisa dal leader leghista, Carpeoro non ha avuto esitazioni nell’interpretarla come una scelta obbligata: «Salvini ha capito che, se fosse rimasto al governo, l’avrebbero cucinato a fuoco lento entro la fine dell’anno». Indagini a tappeto, Russiagate, stop alla Flat Tax, niente autonomia per Lombardia e Veneto: sarebbe stato costretto a deludere i suoi elettori. Ora, Pd e M5S si sono “attovagliati” con un programma ridicolo, inconsistente, e quindi applaudito da tutti i grandi poteri europei, che fingono di scambiare Giuseppe Conte per uno statista. Prima spettacolare mossa, ampiamente sbandierata: il taglio dei parlamentari. «Quel provvedimento – ricorda Carpeoro – era incluso nel famoso Piano di Rinascita Democratica della P2 di Licio Gelli. Ma quello che non si dice – aggiunge l’avvocato – è che la riduzione dei parlamentari fu ripresa pari pari dal piano di Gelli nella proposta di riforma avanzata dai magistrati di Mani Pulite. Era stato uno di loro, Gherardo Colombo, a scoprire quel piano a Villa Wanda: e il bello è che Colombo spedì a fare la perquisizione un capitano della Guardia della Finanza, che poi risultò lui stesso membro della P2».«Il Conte-bis durerà appena tre mesi: entro 90 giorni lo scenario-elezioni diventerà probabile al 99%». Lo afferma Gianfranco Carpeoro, attento osservatore dei retroscena italiani. L’indizio: l’erosione del consenso di Salvini, ora che non è più sovraesposto, sui media, come ministro dell’interno impegnato nello stop agli sbarchi dei migranti. Il ragionamento: non appena i sondaggi confermeranno il trend – sfavorevole alla Lega, e con piccoli segnali di ripresa per la concorrenza – Pd e 5 Stelle romperanno il patto per tornare alle urne. Se questo accadrà «a fine anno, o al più tardi a gennaio», sullo sfondo sarà presente un convitato di pietra, Mario Draghi, che a novembre si sarà disimpegnato dalla guida della Bce. Già nei mesi scorsi, Carpeoro aveva segnalato l’esistenza di un piano-Draghi: forti pressioni sul super-banchiere, da parte delle superlogge più reazionarie, per spingerlo verso Palazzo Chigi. Ipotesi che secondo alcune fonti Draghi non gradirebbe, mirando il realtà al Quirinale, dopo Mattarella (e un uomo accorto come Draghi sa benissimo che la guida del governo potrebbe renderlo impopolare, fino a precludergli il Colle). Per contro, con le elezioni antcipate Zingaretti si libererebbe di Renzi.
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Sovragestione buia: Epstein sacrificato in nome della Rosa
La Rosa, l’entità, ma se vogliamo chiamarla diversamente, la sovragestione, conosce la psicologia di massa, sa come produrre casi giudiziari per celebrarsi, potenziarsi, aggiornarsi, difendersi, ed anche questa volta è riuscita nei suoi intenti. Ha volutamente abbandonato il miliardario Epstein al suo destino, favorendo il suo arresto, eliminando le sue protezioni politiche e altolocate, distogliendo l’attenzione dal vero mercato pedofilo, strutturato su base nazionale e internazionale, e infine ammonendo i suoi epigoni ricattabili, in questo caso solo di una parte politica. Due piccioni con una fava, anzi, tre piccioni, se ci mettiamo anche parte dell’opinione pubblica, che poi diventerà succube di questo marketing dell’orrore giustizialista, e sarà ovviamente incanalata politicamente verso chi saprà sfruttare la giusta propaganda del momento. Il potere pedofilo usa i social per veicolarsi giustiziere. Mentre il grande traffico criminale di bambini, il traffico di organi, di “snuff movie”, le reti statali e private che gestiscono il mercato della pedofilia si espandono a dismisura, qualcuno dall’alto ha capito come salvare l’albero secolare, sacrificando un piccolo ramoscello, con l’ausilio dei media.Dare in pasto al popolino in astinenza da rogo un singolo caso di un presunto colpevole, talvolta innocente, come fu in piccolo per il caso di Kevin Spacey, oppure, di un vero colpevole, in modo da fare distrazione di massa. La cosa importante è spostare i bersagli e l’attenzione in modo da non far percepire l’elefante in salotto, continuando ad aggiornare questo secolare sistema criminale, con il suo annesso mercato, mentre si fa credere alla massa dei sudditi che si combatte strenuamente il problema, che sia in corso addirittura una rivoluzione dei “buoni”, che interverrà la giustizia divina e sanerà tutto. E’ lo stesso semplice e basico meccanismo che avviene quando si fanno le guerre ai vertici delle mafie, che a loro volta fanno le loro guerre interne per il controllo del narcotraffico, facendo credere che si stia operando per il bene della comunità, quando invece si sacrifica il superfluo (morto un Papa…). Alcuni reparti dei servizi segreti, attigui soprattutto a una certa ala conservatrice americana, trasversale partiticamente, quelli che appunto gestiscono storicamente il narcotraffico, i colpi di Stato, il mercato di minori e la pedofilia, si sono inventati il vendicatore Q, fantomatico vendicatore degli oppressi che, curiosamente, colpisce solo una certa parte politica e determinati ambienti, salvandone altri.Il potere pedofilo usa i social per veicolarsi giustiziere, e la gente ci crede; una parte della controinformazione si affida a questo nuovo Zorro digitale 2.0, un po’ come nel film “V x Vendetta”, credendo di essere riscattata dall’oppressione dell’élite; invece, questo rappresenta il punto massimo della manipolazione che si presenta al grande pubblico con la maschera dei buoni. Epstein, il miliardario pedofilo arrestato e ucciso in carcere dallo stesso sistema di cui in piccolo faceva parte, come monito e ricatto a tutti gli altri attori coinvolti riguardo a cosa potrebbe succedere se qualcuno si esponesse malamente o rischiasse di svuotare il sacco per crisi di coscienza od opportunità, rientra in questo gioco. Sacrificato per evitare che altri parlino, ucciso perché non si sappia cosa c’è oltre al suo specifico caso giudiziario, per evitare che si vada oltre e si comprenda la vera natura sacrificale ed infernale della nostra realtà. Nessuna giustizia è stata fatta, anzi, il sistema si è parato il culo e ha fatto credere si trattasse della solita mela marcia da dare in pasto ai media e agli indignati di ogni dove, affinché le persone ingenuamente pensassero che l’autorità, lo status quo, li difende come un buon padre di famiglia è solito fare, rimuovendo, come nella sindrome di Stoccolma, il vero padre padrone pedofilo.Cambiare tutto per non cambiare nulla: Trump prova a colpire il Deep State per proteggersi dagli attacchi dei nemici e dal “fuoco amico”, c’è una guerra in atto fatta a suon di scandali sessuali; ma lo stesso Stato Parallelo lo controlla, nel senso che si aspetta proprio questo dal suo operato, essendo in qualche modo un suo prodotto o sottoprodotto. Il presidente Usa, essendo da sempre uomo di quel sistema, conoscendolo ed avendolo frequentato assiduamente in passato, ha piazzato trappole e uomini chiave in molte stanze dei bottoni, per salvarsi e difendersi dalle minacce di morte che riguardano la sua persona e anche i suoi figli. A sua volta, però, Trump è stato costretto, “convinto”, a scendere in campo, come successe in piccolo in Italia per Berlusconi, proprio perché è un prodotto di questo sistema, restituendo in questo modo favori all’entità, che sono stati parte della sua fortuna imprenditoriale. Tutti gli attori sono coinvolti loro malgrado nella stessa sceneggiatura; anche se talvolta se lo scordano o fingono di non saperlo, sono manipolabili dallo stesso network di potere.Esiste una sovrastruttura che attende in silenzio si “faccia un po’ di apparente pulizia”, tramite araldi come Trump, tramite inchieste come quella contro Epstein e altri personaggi, per aggiornare il sistema. Un po’ come per Mani Pulite, lo schema è identico; i giudici furono occultamente protetti e spinti nella loro opera di destrutturazione della 1° Repubblica dai servizi Usa, utilizzati come cavalli di Troia, strumentalmente per poter aggiornare il nostro sistema in termini più liberisti, creando i presupposti di una nuova Italia che rispondesse maggiormente ai bisogni della globalizzazione in atto. Una sovragestione “permette” si colpiscano alcuni attori, alcune comparse, alcuni più noti (per rendere credibile l’operazione), altri meno, 4 mosche in croce in una palude immensa di insetti, per cambiare alcuni vertici nelle posizioni chiave dello Stato Parallelo, per spostare in termini reazionari e sempre più antidemocratici il sistema e magari giustificare nuovi Patriot Act, leggi liberticide, implementare lo stato marziale, ove questo ancora non ci fosse.Tre sono i livelli di potere in campo. 1- Il primo livello è quello del backstage di certi poteri massonici che hanno favorito strumentalmente l’ascesa di Trump, proprio per cercare di produrre discontinuità positiva e costruttiva nel sistema, in modo da poter impostare in futuro nuove politiche keynesiane che ribaltino l’attuale paradigma neocon, ma che rischiano di aver creato un mostro che si ribella al proprio creatore e che potrebbe favorire, direttamente o indirettamente, la fazione dei poteri forti avversari. Una trappola rischiosa che, a mio avviso, si sta rivelando una fregatura. 2- Il secondo livello è quello che riguarda il Deep State, quello che controlla il traffico di bambini, la vendita illegale di organi, si occupa della gestione e delle controversie riguardo la guerra per il controllo del narcotraffico, produce conflitti e colpi di Stato, invisibili e meno invisibili, nel terzo mondo, e di cui spesso ignoriamo l’esistenza, con i relativi indotti bellici, ma anche come agenzia criminale di omicidi mediatici, politici, rituali; una sovragestione assolutamente apolitica, anche se, nel metodo, conservatrice e reazionaria.3- Infine, esiste un terzo livello che riguarda la sovragestione complessiva che “contiene” tutte le fazioni in campo e le guerre fratricide interne in atto, che permette possa accadere qualcosa, per poi raccoglierne i frutti. Questo processo occulto e magico servirà a favorire una trasformazione più dispotica e distopica dell’intera globalizzazione, colpendo il cuore delle democrazie mondiali, facendola accettare alla popolazione, attraverso i vari capri espiatori o pesci piccoli sbattuti in prima pagina, veicolandosi sistema buono e saggio dalla parte della gente. I social giocano un ruolo importante, ovvero: far credere ci sia un vero cambiamento, per far accettare nuove visioni totalitarie e incanalare il pensiero e la psicologia di massa verso altri lidi. L’avallo politico, energetico e religioso dei sudditi è fondamentale per la riuscita del progetto. L’accettazione dal basso di certe dinamiche è di primaria importanza. Ogni attore in campo lavora per il suo livello di appartenenza, spesso non conosce e non ha interesse a comprendere il progetto e la sua visione complessiva.Il 3° livello, che oltre ad essere incarnato da uomini, è anche un modello astratto e concettuale, potrebbe coincidere con tutto ciò che incarna lo schema del potere attuale e che, a mio modesto avviso, sta ben sopra le massonerie, le Ur-logge, le Corporation, l’apparato militare, i servizi segreti e ovviamente la politica, che conta poco più di zero. Vive come “idea del potere”, questa è la sua linfa vitale. Anche all’interno di questo livello di potere “arcontico” esistono scissioni dell’atomo infinite e contrapposizioni fratricide, perché esse fanno parte della natura di tutti gli esseri viventi. Questo permettere di scorgere gli scheletri nei vari armadi, di capire le contraddizioni e le dinamiche del potere al suo interno, e ci consente di sopravvivere in questo inferno. Quando non sarà più così, se un giorno mai ci sarà solo un grande vecchio al timone dell’arca – e la visione generale del progetto tende proprio a questo modello unico – saremo in pieno transumanesimo realizzato e potremo candidamente implodere. “Snowpiercer”, capolavoro del sud-coreano Bong Joon-ho, è un film che parla in termini metaforici di come la testa del serpente caldeggi e prepari il terreno per colui che lo sostituirà; con la sua morte favorirà una rinascita, nuova vita e nuova linfa allo schema del potere: quello che, in altri termini, chiamo “aggiornamento di sistema”.(“Epstein sacrificato in nome della Rosa”, post pubblicato il 29 agosto 2019 dal blog “Maestro di Dietrologia”, curato da Simone Galgano).La Rosa, l’entità, ma se vogliamo chiamarla diversamente, la sovragestione, conosce la psicologia di massa, sa come produrre casi giudiziari per celebrarsi, potenziarsi, aggiornarsi, difendersi, ed anche questa volta è riuscita nei suoi intenti. Ha volutamente abbandonato il miliardario Epstein al suo destino, favorendo il suo arresto, eliminando le sue protezioni politiche e altolocate, distogliendo l’attenzione dal vero mercato pedofilo, strutturato su base nazionale e internazionale, e infine ammonendo i suoi epigoni ricattabili, in questo caso solo di una parte politica. Due piccioni con una fava, anzi, tre piccioni, se ci mettiamo anche parte dell’opinione pubblica, che poi diventerà succube di questo marketing dell’orrore giustizialista, e sarà ovviamente incanalata politicamente verso chi saprà sfruttare la giusta propaganda del momento. Il potere pedofilo usa i social per veicolarsi giustiziere. Mentre il grande traffico criminale di bambini, il traffico di organi, di “snuff movie”, le reti statali e private che gestiscono il mercato della pedofilia si espandono a dismisura, qualcuno dall’alto ha capito come salvare l’albero secolare, sacrificando un piccolo ramoscello, con l’ausilio dei media.