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Monti fa ancora danni: 3 miliardi regalati a Morgan Stanley
Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.Simili operazioni, infatti, erano state stipulate anche con Deutsche Bank, Bnp Paribas, Dexia, Unicredit e Intesa Sanpaolo, che contribuì a limitare l’esborso nel 2012 subentrando tramite Banca Imi a Morgan Stanley. A tutte sarebbe stata concessa la clausola di estinzione anticipata. «La controparte non aveva mai esercitato questa clausola, poi, arrivati alla fine del 2011, in quel periodo particolarmente turbolento, fecero presente che dovevano farla valere», spiegò il direttore del debito pubblico Maria Cannata ai magistrati di Trani che indagano sulle agenzie di rating. Mario Monti ha sempre spiegato che l’Italia, in una fase di difficoltà come quella del 2011-12, non avrebbe potuto non onorare i contratti pena la perdita di credibilità. In ogni caso, Morgan Stanley riuscì a liquidare la posizione proprio mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s (di cui detiene una piccolissima quota tramite un fondo di investimento) declassava doppiamente il nostro paese. La tesi di Monti fu accolta anche dalla Procura di Roma con i pm Pignatone e Rossi, che archiviarono la posizione del senatore a vita in un’indagine conclusa senza esito l’anno scorso.La mossa della Corte dei Conti apre, però, uno scenario nuovo: quei contratti derivati hanno prodotto un danno erariale tanto all’apertura quanto alla chiusura. Questo vuol dire che allo stesso modo in cui le grandi banche hanno consentito a Prodi e D’Alema di portare l’Italia nell’euro così hanno avuto un ruolo determinante nella deposizione dell’ultimo premier legittimamente eletto. Basti ricordare il pessimo segnale per i mercati rappresentato nel giugno 2011 dalla vendita di tutti i Btp detenuti da Deutsche Bank. E basti ricordare che i primi due atti politici di Monti furono appunto la riforma delle pensioni chiesta dalla Germania e l’esborso verso Morgan Stanley come prova di affidabilità. Un meccanismo che aveva stritolato Silvio Berlusconi con la crisi da spread e con le pressioni di Francia e Germania al G20 di Cannes affinché l’Italia si mettesse sotto tutela della Troika. Un apparato di potere non estraneo al premier insediato a fine 2011 dall’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.(Gian Maria De Francesco, “Monti fa ancora danni: ci è costato altri 3 miliardi. Lo Stato li rivuole indietro”, da “Il Giornale” del 5 agosto 2016).Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.
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Craig Roberts: sembra Ue, ma è Cia. Il suo veleno? L’euro
“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.I paesi che hanno aderito all’euro devono fare affidamento su banche private per finanziare i loro deficit. Il risultato è che i paesi indebitati non possono più pagare i loro debiti con la creazione di denaro o sperare che questi debiti vengano abbassati a livelli che possono tenere sotto controllo. Invece, Grecia, Portogallo, Lettonia e Irlanda sono state saccheggiate dalle banche private. L’Ue ha costretto gli pseudo-governi di questi paesi a pagare le banche private del Nord Europa soffocando il tenore di vita delle loro popolazioni e privatizzando i beni pubblici svendendoli per due soldi rispetto al loro valore originale. Così le pensioni di anzianità, il pubblico impiego, l’istruzione e la sanità sono stati tagliati e il denaro reindirizzato alle banche private. Le aziende idriche municipali sono state privatizzate con il risultato che le bollette dell’acqua sono più elevate. E così via. Poiché non vi è alcuna ricompensa, solo punizioni, per essere un membro della Ue, perché i governi, nonostante i desideri espressi dei loro popoli, si uniscono?La risposta è che Washington ha voluto che non vi fossero altre possibilità. I fondatori europei della Ue sono creature mitiche. Washington ha utilizzato i politici pilotandoli nella creazione dell’Unione Europea. Alcuni anni fa sono stati rilasciati dei documenti della Cia che dimostrano che l’Ue è stata un’iniziativa della Cia stessa. Nel 1970 il presidente per la discussione della tesi del mio dottorato di ricerca, divenuto poi un funzionario di alto rango a Washington addetto al controllo degli affari di sicurezza internazionale, mi ha chiesto di intraprendere una missione delicata all’estero. Ho rifiutato. Tuttavia, egli ha risposto alla mia domanda: «Come fa Washington a fare in modo che i paesi stranieri facciano ciò che Washington vuole?». «Soldi», ha detto. «Diamo ai loro leader borse piene di soldi. Appartengono a noi». E’ chiaro che l’Ue serve gli interessi di Washington, non gli interessi dell’Europa. Ad esempio, il popolo francese e il governo sono contrari agli Ogm, ma l’Ue consente una “autorizzazione di mercato precauzionale” di introduzione degli Ogm, contando forse sulle “scoperte scientifiche” degli scienziati sul libro paga della Monsanto.Quando lo Stato americano del Vermont ha approvato una legge che impone l’etichettatura degli alimenti Ogm, la Monsanto gli ha fatto causa. Una volta che i funzionari dell’Ue, pagati di nascosto, firmeranno l’accordo Ttip scritto dalle multinazionali degli Stati Uniti, la Monsanto si impadronirà dell’agricoltura europea. Ma il pericolo per l’Europa va ben oltre la salute dei popoli europei, che saranno costretti a nutrirsi di cibi velenosi. Washington sta usando l’Ue per costringere gli europei a entrare in conflitto con la Russia, una potenza nucleare in grado di distruggere tutta l’Europa e tutti gli Stati Uniti in pochi minuti. Ciò sta accadendo perché i “leader” europei, pagati di nascosto con “borse piene di denaro”, hanno preferito avere il denaro di Washington nel breve periodo piuttosto che garantire la vita degli europei nel lungo periodo. Non è possibile che qualsiasi politico europeo sia sufficientemente idiota da credere che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina, che la Russia da un momento all’altro invaderà la Polonia e gli Stati baltici, o che Putin sia un “nuovo Hitler” che progetta di ricostruire l’impero sovietico. Queste accuse assurde non sono altro che propaganda di Washington priva di qualsiasi verità. Tutto ciò è evidente. Nemmeno un idiota potrebbe crederci. Eppure l’Unione Europea va di pari passo con la propaganda, come fa la Nato. Perché?La risposta è il denaro di Washington. L’Ue e la Nato sono assolutamente corrotte. Sono le puttane ben pagate di Washington. L’unico modo che gli europei hanno per impedire una Terza Guerra Mondiale nucleare, e continuare a vivere e godere di ciò che resta della loro cultura (che gli americani non sono riusciti a distruggere con la loro cultura di sesso, violenza e avidità) è, per i governi europei, quello di seguire l’esempio del governo inglese e uscire dall’Unione Europea creata dalla Cia. E l’uscita dalla Nato, il cui scopo è evaporato con il crollo dell’Unione Sovietica, e che ora viene usata come uno strumento di egemonia mondiale da parte di Washington. Perché gli europei vogliono morire per favorire l’egemonia mondiale di Washington? Ciò significa che gli europei stessi stanno morendo a causa di questa egemonia (esercitata allo stesso modo sull’Europa). Perché gli europei vogliono sostenere Washington, i cui alti funzionari, come Victoria Nuland, dicono “l’Unione Europea si fotta”? Gli europei stanno già soffrendo a causa delle sanzioni economiche che il loro signore a Washington li ha costretti ad applicare nei confronti della Russia e dell’Iran. Perché gli europei desiderano essere distrutti da una guerra contro la Russia? Gli europei vogliono forse morire?Sono stati americanizzati e non apprezzano più l’enorme quantità di bellezze artistiche e architettoniche, letterarie e musicali di cui i loro paesi sono custodi? La risposta è che non fa alcuna differenza che cosa pensino gli europei, perché Washington ha istituito per loro un governo che è totalmente indipendente dalla loro volontà. Il governo dell’Ue è tenuto a rispondere solo per il denaro di Washington. Alcune persone capaci di emettere editti sono sul libro paga di Washington. Gli interi popoli d’Europa sono servi di Washington. Pertanto, se gli europei rimangono i popoli creduloni, indifferenti e stupidi che attualmente sono, verranno condannati, assieme al resto di noi. D’altra parte, se i popoli europei saranno in grado di rinsavire, di liberarsi dalla Matrix che Washington ha imposto su di loro, e di rivoltarsi contro gli agenti di Washington che li controllano, i popoli europei potranno salvare la propria vita e la vita di tutti noi.(Paul Craig Roberts, “L’Ue è condannata al vassallaggio nei confronti di Washington”, dal blog di Craig Roberts del 27 luglio 2016, tradotto da “Desastrado” per “Come Don Chisciotte”. Eminente analista ed economista statunitense, Roberts è stato viceministro del Tesoro con Ronald Reagan).“Un anello per domarli tutti… e nel buio incatenarli” (J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli”). La Seconda Guerra Mondiale è finita con la conquista dell’Europa, non da parte di Berlino, ma da parte di Washington. La conquista era certa, ma non la si poteva ottenere tutta in una volta. La conquista di Washington dell’Europa è avvenuta grazie al Piano Marshall, alla paura dell’Armata Rossa di Stalin (che ha portato l’Europa a fare affidamento sulla protezione di Washington e a subordinare le forze armate europee agli Stati Uniti, all’interno della Nato), alla sostituzione della sterlina con il dollaro Usa come valuta di riserva mondiale e al lungo processo di subordinazione della sovranità dei singoli paesi europei verso l’Unione Europea, un’iniziativa della Cia attuata da Washington per controllare tutta l’Europa attraverso un solo e irresponsabile governo. Con poche eccezioni, principalmente il Regno Unito, l’adesione all’Unione Europea ha significato anche la perdita di indipendenza finanziaria. Dato che solo la Banca Centrale Europea è in grado di creare euro, quei paesi così sciocchi da accettarlo come valuta non hanno più avuto il potere di creare il proprio denaro per finanziare i deficit di bilancio.
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Euro, chi tocca muore: Finlandia ko, salve Svezia e Norvegia
Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai. Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale. Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.In Finlandia, le misure di austerità non saranno in grado né di ridurre il deficit né di far ripartire l’economia, scrive Coppola. «Al contrario, provocheranno un’ulteriore riduzione dell’economia e, di conseguenza – è una questione di semplice aritmetica – provocheranno un aumento del deficit in percentuale sul Pil». La Finlandia è stata in recessione per quasi tutti gli ultimi quattro anni: «Quello di cui ha bisogno è una politica fiscale espansiva, non di salassi». L’austerità? «E’ una strategia del tutto controproducente per un’economia che ha avuto danni sul fronte dell’offerta a causa di shock esogeni». L’unica cosa che sta impedendo all’economia finlandese di crollare è la politica monetaria espansiva della Bce: «Tassi negativi e “quantitative easing” possono essere uno stimolo debole, ma sono meglio di niente». Ma la verità è che la Finlandia, fatta passare per un paese prospero, «è molto più simile agli Stati deboli del sud Europa». E se la Finlandia sta male, neppure la Danimarca si sente molto bene.La Danimarca ha subito una profonda recessione dopo la crisi finanziaria, toccando il fondo nel secondo trimestre del 2010. Ma, a differenza della Svezia, non ha recuperato: il modello dell’andamento del suo Pil è molto più simile a quello della Finlandia, anche se non ha avuto gli shock sull’offerta subiti da Helsinki. Perché è rimasta stagnante per gran parte degli ultimi sette anni? Molte spiegazioni tendono a incolpare il welfare danese, “troppo generoso” e costoso: una tassazione elevata soffocherebbe le imprese, mentre lo stato sociale scoraggerebbe il lavoro produttivo. Tagliare il welfare, quindi? Ma no: «Anche la Svezia ha un generoso stato sociale e una tassazione relativamente elevata. E anche la Norvegia. E in effetti anche la Finlandia. Tutti gli stati nordici sono così. E tutti, negli ultimi anni, hanno fatto seri sforzi per migliorare l’efficienza dei loro sistemi di welfare e ridurne il costo». La Danimarca è addirittura in testa alla classifica dell’Ocse tra i paesi scandinavi per lo sforzo nell’azione riformatrice. Eppure i suoi risultati economici differiscono enormemente da quelli di Svezia e Norvegia.La vera ragione di questa profonda differenza non è difficile da trovare, scrive Frances Coppola: la Finlandia, quella che tra questi paesi ha le peggiori prestazioni, è un membro dell’euro. «Questo non solo le impedisce di gestire la propria politica monetaria, compresa la possibilità di svalutare per proteggere la sua economia dagli shock esogeni, ma anche incatena la sua politica fiscale alle regole del Patto di Stabilità e Crescita. La Finlandia è soggetta alla procedura prevista in caso di deficit eccessivo e, in quanto membro dell’euro, questo significa che deve conformarsi alle azioni richieste o affrontare le sanzioni – anche se le azioni previste sono direttamente nocive per la sua economia». A Parte la Finlandia, nessuno degli altri paesi scandinavi ha l’euro, ma la Danimarca è un membro del meccanismo di cambio Erm II, che è un precursore dell’euro: «E’ obbligata a mantenere il valore della propria moneta entro fasce stabilite rispetto al valore all’euro».Anche la politica monetaria danese è quindi determinata in larga misura non dalle condizioni locali, ma dalle decisioni della Bce – siano o meno appropriate per l’economia danese. «La Danimarca ha anche accettato di essere vincolata dalla forma più rigorosa del Patto di Stabilità e Crescita, il Fiscal Compact, il che significa che è soggetta alle stesse regole fiscali e alle stesse sanzioni di un membro della zona euro». Al contrario, la Svezia non è un membro dell’Erm II. «Avrebbe dovuto aderire all’euro, a un certo punto, ma – misteriosamente – persiste nel non soddisfare i criteri di convergenza. La corona svedese fluttua rispetto alle valute di tutto il mondo, tra cui l’euro, consentendo alla Svezia un controllo molto maggiore della propria politica monetaria rispetto alla Danimarca o alla Finlandia». Sul versante fiscale, «anche se la Svezia ha ratificato il Fiscal Compact, ha rifiutato di lasciarsi vincolare dalle disposizioni previste finché rimane al di fuori dell’euro. Quindi, anche se dovrebbe mantenersi entro i parametri di Maastricht, non incorre in sanzioni se non lo fa».Quanto alla Norvegia, notoriamente, non è neppure un membro dell’Ue. Dal momento che il paese è un esportatore di petrolio, la corona norvegese è una “petrovaluta”. «La Norvegia ha usato efficacemente il suo fondo sovrano per assorbire le entrate derivanti dalla produzione di petrolio e impedire che la sua moneta si apprezzasse eccessivamente», spiega Coppola. Il recente crollo del prezzo del petrolio l’ha colpita duramente? Certo: la crescita del Pil di gennaio è stata negativa. Ma attualmente la Norvegia sta attingendo al suo fondo sovrano per mantenere i programmi di bilancio. Le difficoltà momentanee sono dovute alla congiuntura globale, «non a legami con un’Eurozona depressa e ossessionata dall’austerità». Attenzione: «La capacità di gestire la propria politica monetaria e di bilancio è preziosa. Le banche centrali dell’Eurozona, bloccate in una politica monetaria uguale per tutti, hanno scarsa capacità di proteggere le loro economie dagli shock locali; con la centralizzazione della vigilanza bancaria, hanno anche in gran parte perso il controllo delle politiche di vigilanza a livello sistemico».Le autorità fiscali dell’Eurozona, a loro volta, hanno poca autonomia se un paese è entrato nella procedura per disavanzo eccessivo; mentre per quelli che ne sono rimasti fuori, evitare la supervisione di Bruxelles può diventare la preoccupazione principale. Per i paesi della zona euro, il vero obiettivo di politica monetaria non è l’inflazione, ma il rapporto deficit-Pil. «La Bce sta combattendo una battaglia persa per alzare l’inflazione, contro la determinazione della burocrazia di Bruxelles nel forzare 19 autorità fiscali a deprimere la domanda in nome dei conti in regola. E così il disastro economico della Finlandia è, almeno in parte, una conseguenza della sua appartenenza all’euro». La Danimarca, invece, «soffre per la perdita dell’autonomia monetaria a causa della sua appartenenza all’Erm II, e della perdita dell’autonomia di bilancio perché ha scelto di essere vincolata al Fiscal Compact». Al contrario, la Svezia «ha il controllo sia della politica monetaria sia di bilancio», mentre la Norvegia «non solo ha il controllo della sua politica monetaria e fiscale, ma è ulteriormente ammortizzata dal suo ampio fondo sovrano». Altro che iper-welfare: «La Grande Divergenza scandinava è principalmente causata dall’euro».Ora sappiamo che la Finlandia è nei guai. Una serie di forti shock dal lato dell’offerta ha devastato l’economia. Quando Nokia è crollata sulla scia della crisi finanziaria del 2007-2008, creando un buco enorme nel Pil del paese, il governo ha risposto con un sostanziale sostegno fiscale. Questo ha rovinato la sua già virtuosa posizione fiscale: in un anno è passata da un surplus del 6% a un deficit del 4%, e anche se il suo deficit da allora è leggermente migliorato, è ancora al di fuori dei parametri di Maastricht. A causa di questo, l’attuale governo – sotto la pressione degli eurocrati folli – sta attuando l’austerità fiscale, per portare il deficit al di sotto del 3% del Pil. Per un’economia che ha subito una grave diminuzione della sua capacità produttiva, questo è disastroso, scrive Frances Coppola, in un post ripreso su “Luogo Comune”. Che svela una verità drammatica: in Scandinavia, si salva solo chi sta lontano dall’euro, come la Svezia. E meglio ancora la Norvegia, che non è neppure nell’Ue.
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I tedeschi: fuori dall’euro la Germania crolla (e l’Italia vola)
Theo Waigel è stato per dieci anni Ministro delle Finanze di Helmut Kohl. Il 21 giugno scorso ha rilasciato un’intervista a “T-Online”. Questo è un frammento delle sue dichiarazioni. Intervistatore: «I sondaggi sull’uscita dalla Ue mostrano che se si chiedesse ai francesi e ad altri, vincerebbe chi vuole uscire, con uno scarto minimo. Secondo lei da dove viene questa disaffezione per l’Ue?». Theo Waigel: «Al grado di sviluppo della globalizzazione e dei mercati aperti cui siamo arrivati – che non è più reversibile – ci sono forze che si oppongono, sostenendo la necessità di ritornare ai confini e alle regolamentazioni nazionali, che prima funzionavano bene, per tornare ad appropriarsi delle proprie capacità decisionali». E cosa gli si può rispondere? Waigel: «Gli si può rispondere in modo del tutto chiaro quali svantaggi ne scaturirebbero. Se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20% e il 30% del marco tedesco – che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale».L’euro conviene alla Germania, ecco perché ci restiamo dentro. Va da sè che se il marco diventasse sconveniente, la lira diventerebbe conveniente per i mercati, per gli investitori e per i consumatori. Queste cose i commentatori nazionali non ve lo dicono. Queste notizie ai telegiornali non passano. Per chi lavora la stampa italiana? Per chi lavora la politica italiana? Per l’Italia o per Berlino? Se lavorasse per gli italiani, interviste come queste sarebbero in prima pagina su tutti i quotidiani, in luogo dello spettro dell’inflazione, e la gente inizierebbe a trarne le conclusioni. In Germania, invece, non si fanno problemi a dirlo con chiarezza. Anche perché hanno interessi opposti. Ci fu anche un pezzo dello “Spiegel Online”, che io riportai puntualmente sul blog, datato 13 giugno 2012 (ben 4 anni fa), che lo disse con altrettanta chiarezza:«Con un’uscita dall’euro e un taglio netto dei debiti la crisi interna italiana finirebbe di colpo. La nostra invece inizierebbe proprio allora. Una gran parte del settore bancario europeo si troverebbe a collassare immediatamente. Il debito pubblico tedesco aumenterebbe massicciamente perché si dovrebbe ricapitalizzare il settore bancario e investire ancora centinaia di miliardi per le perdite dovute al sistema dei pagamenti target 2 intraeuropei. E chi crede che non vi saranno allora dei rifiuti tra i paesi europei, non s’immagina neanche cosa possa accadere durante una crisi economica così profonda. Un’uscita dall’euro da parte dell’Italia danneggerebbe probabilmente molto più noi che non l’Italia stessa e questo indebolisce indubbiamente la posizione della Germania nelle trattative. Non riesco ad immaginarmi che in Germania a parte alcuni professori di economia statali e in pensione qualcuno possa avere un Interesse a un crollo dell’euro».(“Ministro delle finanze tedesco: se uscite dall’euro la Germania crollerà”, dal blog “Byoblu” di Claudio Messora del 9 luglio 2016).Theo Waigel è stato per dieci anni ministro delle finanze di Helmut Kohl. Il 21 giugno scorso ha rilasciato un’intervista a “T-Online”. Questo è un frammento delle sue dichiarazioni. Intervistatore: «I sondaggi sull’uscita dalla Ue mostrano che se si chiedesse ai francesi e ad altri, vincerebbe chi vuole uscire, con uno scarto minimo. Secondo lei da dove viene questa disaffezione per l’Ue?». Theo Waigel: «Al grado di sviluppo della globalizzazione e dei mercati aperti cui siamo arrivati – che non è più reversibile – ci sono forze che si oppongono, sostenendo la necessità di ritornare ai confini e alle regolamentazioni nazionali, che prima funzionavano bene, per tornare ad appropriarsi delle proprie capacità decisionali». E cosa gli si può rispondere? Waigel: «Gli si può rispondere in modo del tutto chiaro quali svantaggi ne scaturirebbero. Se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20% e il 30% del marco tedesco – che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale».
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La sinistra europeista che teme il popolo e la democrazia
Uno spettro si aggira per l’Europa: è la democrazia. Dopo il referendum greco, con il quale più del 60% della popolazione di quel paese ha detto no all’austerità imposta dalla Ue e dalla Troika, è arrivata la Brexit, che ha visto una maggioranza meno netta, ma per molti versi più significativa, di cittadini inglesi chiedere il divorzio dalle istituzioni oligarchiche di quell’Europa che impone gli interessi del finanzcapitalismo globale ai propri sudditi. In entrambi i casi non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando. In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista.In entrambi casi ciò è infatti esattamente quanto è successo. In Grecia con il ricatto che ha indotto Tsipras a calare le brache e tradire ignominiosamente il verdetto popolare. In Inghilterra con il tentativo di far pagare così cara la Brexit a coloro che l’hanno votata da dissuadere altri a imboccare la stessa strada (non a caso il risultato deludente di Podemos e la marcia indietro di 5 Stelle sull’Europa sono state accolte con soddisfazione: la lezione è servita a qualcosa…). In entrambi i casi le élite hanno dispiegato tutto il loro disprezzo nei confronti dei proletari “sporchi, brutti e cattivi“ che si sono ribellati ai loro diktat. Imitati dalle sinistre: tutte, anche quelle che si proclamano radicali e antagoniste: non si può stare dalla parte degli operai inglesi perché sono egemonizzati dalla destra razzista e xenofoba (qualche idea sul perché ciò sia avvenuto?). I peggiori sono quegli intellettuali post operaisti che ormai sono parte integrante del polo liberal chic che definisce l’essere di sinistra o di destra non in base all’appartenenza e agli interessi di classe, bensì in base all’impegno per i diritti individuali, e affida l’emancipazione sociale a un immaginario “comunismo del capitale”.Ho quindi accolto con piacere un intervento di Bifo che ha rotto il fronte “europeista”, riconoscendo che l‘aspetto dirimente del voto inglese non è il colore ideologico, ma da quali interessi di classe è stato dettato. Credo però che occorra fare altri due passi: 1) chiedersi perché i giovani “creativi” hanno votato in massa Remain; 2) ragionare concretamente sulla forma politica che oggi assume la resistenza proletaria al finanzcapitalismo e alle sue istituzioni oligarchiche. Affrontare il primo punto significa fare i conti con il mito del cognitariato, prendere atto che questo gruppo sociale non ha mai espresso, non esprime, né mai esprimerà una cultura anticapitalista, che il suo strato superiore è parte integrante delle élite e, in quanto tale, è un nemico di classe, mentre lo strato inferiore – che continua a nutrire la speranza in una illusoria mobilità sociale, benché falcidiato da precariato, redditi miserabili, condizioni di vita oscene – potrà prendere coscienza dei propri interessi solo se egemonizzato dalla spinta antagonista che viene da fuori e dal basso.Quanto al secondo punto: se è vero – come è innegabile non appena si guardi a quanto avviene negli Stati Uniti e in tutti i paesi europei – che oggi la lotta di classe assume la forma dell’opposizione alto/basso, dell’odio per le élite politiche ed economiche (que se vayan todos), del rifiuto di ogni forma di delega, che assume cioè una forma populista, occorre decidersi a prenderne atto – perché la teoria e la prassi politica rivoluzionarie sono una cosa sola, sono cioè analisi concreta della situazione concreta – e agire di conseguenza. Il populismo di destra si combatte con il populismo di sinistra, non con le ammoine radical chic. Il che vuol dire lotta per l’egemonia (cioè cambiare il senso di parole come popolo, comunità, sovranità, ecc. trasformandole in armi nella battaglia fra i flussi globali del capitale e i luoghi da cui i flussi estraggono valore), costruire blocco sociale a partire dal basso e non dall’alto delle nuove aristocrazie del lavoro, costruire organismi di democrazia diretta e riaprire la vecchia sfida, tenendo conto che l’unica cosa che oggi produce contro terrore rispetto al terrorismo psicologico delle élite è la democrazia e che, dopo la morte della democrazia rappresentativa, l’unica forma esistente di democrazia è appunto il populismo.(Carlo Formenti, “Brexit, uno spettro si aggira per l’Europa: la democrazia”, da “Micromega” del 28 giugno 2016).Uno spettro si aggira per l’Europa: è la democrazia. Dopo il referendum greco, con il quale più del 60% della popolazione di quel paese ha detto no all’austerità imposta dalla Ue e dalla Troika, è arrivata la Brexit, che ha visto una maggioranza meno netta, ma per molti versi più significativa, di cittadini inglesi chiedere il divorzio dalle istituzioni oligarchiche di quell’Europa che impone gli interessi del finanzcapitalismo globale ai propri sudditi. In entrambi i casi non ha funzionato la campagna del terrore orchestrata da partiti di centrosinistra e centrodestra, media, cattedratici, economisti, “uomini di cultura”, esperti di ogni risma, nani e ballerine per convincere gli elettori a chinare la testa ed accettare come legge di natura livelli sempre più osceni di disuguaglianza, tagli a salari, sanità e pensioni, ritorno a tassi di mortalità ottocenteschi per le classi subordinate e via elencando. In entrambi i casi la sconfitta è stata accolta con rabbia e ha indotto l’establishment a riesumare le tesi degli elitisti di fine Ottocento-primo Novecento: su certi temi “complessi”, che solo gli addetti ai lavori capiscono, non bisogna consentire alle masse di esprimere il proprio parere, se si vuole evitare che la democrazia “divori se stessa”. Ovvero: così ci costringete a imporre con la forza il nostro punto di vista.
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L’inizio della fine per l’Ue delle banche, dell’euro e del Ttip
Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.Anche in questi giorni c’è stato chi ha detto che si sta nella Ue per cambiarla, peccato che la Ue sia indisponibile a qualsiasi cambiamento vero e come tutte le tirannie può solo crollare, non cambiare. Nel no alla Ue è stato decisivo il popolo laburista, che non ha seguito le indicazioni del suo establishment politico e sindacale, ma ha premiato l’impegno di minoranze coraggiose, come il glorioso sindacato dei ferrovieri che abbiamo conosciuto come Eurostop. Minoranze oscurate dai mass media, ma che sono state determinanti. Il popolo della sinistra britannica ha chiarito che sinistra ed europeismo oggi sono incompatibili e che la battaglia contro la Ue delle banche è stata egemonizzata finora da forze di destra perché la sinistra ufficiale ha abbandonato il suo popolo. Ora questo popolo ha bisogno di altri rappresentanti, che in nome della eguaglianza sociale e della democrazia e non dei mercati, ricaccino le destre dal terreno abusivamente occupato.Ora si apre l’epoca del coraggio e tutto si rimette in moto, sarà dura ma questo voto mostra che l’epoca della globalizzazione senza diritti sociali è finita, sono gli stessi mercati a crollare sul potere di argilla che hanno costruito. Tornano i popoli, gli stati, le politiche economiche, i diritti sociali e del lavoro. Sarà dura e non sarà breve, ma c’è tutta una classe dirigente europea da rottamare. Cominciamo qui votando No al referendum di ottobre e mandiamo a casa Renzi e la sua controriforma costituzionale, voluta dalla Ue delle banche. E dopo la Renxit avanti con la Italexit. Grazie al popolo britannico che come nel 1940 dà il via al percorso di liberazione dell’Europa, gli Spitfire sono spuntati dalle urne.(Giorgio Cremaschi, “Brexit, l’inizio della fine per l’Europa delle banche”, da “Micromega” del 24 giugno 2016).Smentendo tutti i sondaggisti e tutti i palazzi del potere, e anche la prematura gioia delle Borse e le premature lacrime di chi come noi era per la Brexit, il popolo britannico ha detto basta alla Ue. Lo aveva fatto un anno fa anche il popolo greco, anche allora smentendo i sondaggi, poi il suo governo si era piegato alla tirannia della Troika. Le Borse e la finanza precipitano dalla euforia alla depressione, in misura esattamente inversa alla euforia di libertà dei popoli, dobbiamo prendere atto che il potere dei mercati e la democrazia sono incompatibili e dobbiamo stare con chi sceglie la democrazia. Con questo voto muore subito il Ttip, che lo stesso Obama aveva legato ai destini della Brexit e comincia la fine della Ue dell’Euro, delle multinazionali, delle banche e soprattutto dell’austerità. Comincia la fine di un sistema di potere europeo dove un solo parlamento è sovrano, quello tedesco, e tutti quelli degli altri paesi eseguono gli ordini della Troika. Comincia la fine della Ue perché questa istituzione non è riformabile, come dimostrano anche le reazioni isteriche, furiose e inconcludenti dei suoi leader.
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Brexit, il sogno si avvera: torna il fantasma della democrazia
Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla. “The impossible made possible”: i primi dati consolidati sullo scrutinio inglese – la Brexit al 52%, nonostante l’efferato, “provvidenziale” omicidio dell’unionista Jo Cox, turpemente trasformata in martire della causa di Bruxelles – finisce per scomodare l’immaginario collettivo e mediatico, dal trionfalismo lirico dei sovranisti al catastrofismo apocalittico degli europeisti ad ogni costo, con le loro proiezioni infernali sulla “fine del mondo” in salsa britannica, l’annesso crollo della sterlina e l’armageddon delle Borse. Di fatto, la parola Brexit – che ha terrorizzato Obama e Cameron, la Merkel e Wall Street, Draghi e la Bce, cioè tutti i principali protagonisti “neri” del girone dantesco chiamato crisi, fatto di recessione e austerity, guerra e terrorismo – assume un significato sconcertante, di portata epocale: il ritorno della sovranità democratica, pura eresia che trionfa, in un continente narcotizzato da tecnocrati oscuri, dominato da lobby planetarie impegnate da quarant’anni a spegnere, svuotare, neutralizzare ogni residuo germe di democrazia.Brexit suona davvero come fine del mondo, di quel mondo: dal “there is no alternative” di Margaret Thatcher negli anni ‘80 al “padroni a casa nostra” del fatidico 2016. Non c’è alternativa all’iper-liberismo totalitario, neo-aristocratico e privatizzatore del regime fiscale del 3%, dell’Eurozona e del Ttip? A quanto pare, gli inglesi non concordano: una alternativa deve per forza esistere, altrimenti finisce anche il popolo – inteso come comunità votante, sociale ed economica. Da Londra sembra levarsi un boato, destinato ad assordare l’Occidente, fino a coprire di ridicolo anche i più recenti belati italiani: «Noi non siamo mai stati contrari all’Unione Europea, vorremmo solo che fosse un po’ più democratica», ha ripetuto di recente in televisione il grillino Di Battista, nel solco del Casaleggio che, alla vigilia delle europee, dichiarò a Marco Travaglio: «Noi non siamo contrari all’euro». Come se lo scenario fosse dominato dalla paura di dover sfidare apertamente un regime tenebroso, capace di tutto.Aspettiamoci qualsiasi cosa, scrive Federico Dezzani sul suo blog: dal voto inglese fino alle elezioni americane, c’è da temere colpi di coda inimmaginabili. Chi ha cercato in ogni modo di evitare la Brexit adesso farà l’impossibile per sbarrare la strada a Donald Trump, l’imprevedibile tycoon si cui il super-potere non si fida, anche perché – in mezzo a tante chiacchiere confuse e violente – accusa Obama e la Clinton per l’affermazione dell’Isis in Siria e blatera di accordi strategici con la Russia per porre termine alla sporchissima “guerra infinita” che sta ininterrottamente insanguinando il mondo a partire dall’11 Settembre. In questa chiave, hanno ripetuto svariati analisti, va letta anche la strategia della tensione in atto dal Medio Oriente agli Usa, fino agli attentati europei di Parigi e Bruxelles. Segnali che indicano che l’élite del “there is no alternative” è spaccata e inquieta, una parte del vertice planetario si sta defilando di fronte al conto spaventoso dei costi umani della privatizzazione globale, a partire dal massacro della Grecia, con guerre ovunque e l’esodo biblico dei profughi. Ma il voto inglese supera le manovre di vertice, e rimette in campo il fantasma di gran lunga più temuto dagli architetti del medioevo Ue: quello della democrazia.Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla. “The impossible made possible”: i primi dati consolidati sullo scrutinio inglese – la Brexit al 52%, nonostante l’efferato, “provvidenziale” omicidio dell’unionista Jo Cox, turpemente trasformata in martire della causa di Bruxelles – finisce per scomodare l’immaginario collettivo e mediatico, dal trionfalismo lirico dei sovranisti al catastrofismo apocalittico degli europeisti ad ogni costo, con le loro proiezioni infernali sulla “fine del mondo” in salsa britannica, l’annesso crollo della sterlina e l’armageddon delle Borse. Di fatto, la parola Brexit – che ha terrorizzato Obama e Cameron, la Merkel e Wall Street, Draghi e la Bce, cioè tutti i principali protagonisti “neri” del girone dantesco chiamato crisi, fatto di recessione e austerity, guerra e terrorismo – assume un significato sconcertante, di portata epocale: il ritorno della sovranità democratica, pura eresia che trionfa, in un continente narcotizzato da tecnocrati oscuri, dominato da lobby planetarie impegnate da quarant’anni a spegnere, svuotare, neutralizzare ogni residuo germe di democrazia.
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Referendum, Renzi e Jp Morgan ci cedono alle multinazionali
Ridurre i costi della politica e accelerare i tempi di decisione. Sono i due obiettivi agitati da Renzi in vista del referendum sulla “rottamazione” della Costituzione, ma in realtà – ricorda Guglielmo Forges Davanzati – sono la traduzione perfetta dei diktat enunciati nel 2013 da un colosso finanziario come la Jp Morgan, che condanna l’impronta ancora “socialista” della nostra Carta, laddove lascia allo Stato anche funzioni di programmazione economica. Da Renzi, solo propaganda. Tagliare i costi della politica? «Non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta». I futuri senatori non saranno più pagati in qualità di membri del Senato? Vero, però «le medesime indennità le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi». Costi, peraltro, «assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico».L’attuale super-tassazione, continua Davanzati in una riflessione su “Micromega”, «serve semmai a generare avanzi di bilancio», prescritti dall’euro-politica Ue (pareggio di bilancio) che, di questo passo, “amazza” lo Stato impedendogli di investire e, di conseguenza, stronca l’economia privata, aziende e famiglie. Tuttavia, nel confronto con la media europea, «ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove», scrive Davanzati. Quanto al secondo argomento sventolato da Renzi – la rapidità decisionale («apparentemente inoppugnabile: chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?») è quello più rilevante, «giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche». La Costituzione che si intende ridisegnare è «finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri», in coerenza con la logica della globalizzazione, che però «è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali».Ecco dunque «la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio)». Governabilità ed efficienza? «Non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema, obietta Forges Davanzati. «In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la ‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti». Anche perché il decisore politico sarebbe facilmente “catturato” da gruppi di interesse, interessati al proprio business e non al benessere della comunità nazionale.Attenzione: «Esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito». Certo, si tratta di una letteratura «marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di classe dall’alto’». In questo senso, conclude Davanzati, il referendum di ottobre ha una notevole implicazione economica, visto che «pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente».Ridurre i costi della politica e accelerare i tempi di decisione. Sono i due obiettivi agitati da Renzi in vista del referendum sulla “rottamazione” della Costituzione, ma in realtà – ricorda Guglielmo Forges Davanzati – sono la traduzione perfetta dei diktat enunciati nel 2013 da un colosso finanziario come la Jp Morgan, che condanna l’impronta ancora “socialista” della nostra Carta, laddove lascia allo Stato anche funzioni di programmazione economica. Da Renzi, solo propaganda. Tagliare i costi della politica? «Non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta». I futuri senatori non saranno più pagati in qualità di membri del Senato? Vero, però «le medesime indennità le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi». Costi, peraltro, «assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico».
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Barnard: ciao Sanders, finto ribelle guidato da Wall Street
Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.Sempre nell’autunno 2015, Barnard rivela che Sanders, nell’ottobre del 2011, mise insieme una squadra di economisti per portare avanti quello che certamente era il programma sociale «più socialista dai tempi di Rosa Luxemburg». Ma chi chiamò al suo fianco «per portare la salma di Marx alla Banca Centrale Usa»? E qui casca l’asino. Perché il primo nome è quello di Joseph Stiglitz: un neo-keynesiano “dimezzato”, «che crede che l’intervento del Deficit Positivo di Stato ci deve essere solo se il meraviglioso Mercato ha fatto errori». E poi Robert Reich: «Uomo di Bill Clinton, il presidente che ha creato le basi per la più devastante crisi economica dal 1929. Ma anche uomo di Obama (si legga sopra)». Quindi James Galbraith: «Un mezzo insulso keynesiano che quando poi ha fatto da consulente al governo di Atene sulla crisi mortale delle Austerità, non ha saputo che balbettare cazzate finite negli scoli dei greci. Ha preso parcelle ed è tornato a casa». E poi Lawren Mishel, uno che «braita che i Deficit di Stato sono insostenibili», e Nomi Prince, «un ex di Goldman Sachs, ex di Lehman, ex di ogni altra mega-banca di Wall Street. Commenti non necessari: come prendere un dirigente della Pfizer a sperare di promuovere l’omeopatia».Nel team del “rivoluzionario “ Sanders, anche William Greider: «Volenteroso critico delle Banche Centrali, ma totalmente ignaro di macro-economia dello Stato». Senza contare «un gruzzolo di camomille economiche come Tim Canova, poi Robert Johnson, poi Gerald Epstein, Roger Hickey, Bob Pollin, e soprattutto il noto Dean Baker: tutti ‘belle anime’ che rigettano categoricamente l’idea che i Deficit Positivi di Stato sono in realtà la salvezza della Piena Occupazione, Sanità, Servizi, Istruzione, per tutti i cittadini», continua Barnard. Ma non è tutto. Sanders ha preso a bordo anche un uomo come Robert Auerbach, «che ha diligentemente servito tutte le moderne disastrose economie Usa sotto Paul Volker, Alan Greenspan e (conato) Ronald Reagan». Sicché: «Come una cariatide incrostata di Imperialismo Usa potesse stare vicino a Sanders, ce lo spiegherà Bernie». E si arriva al “peggio del peggio”, Jeffrey Sachs: «E’ il più schifoso falsario dell’economia Neoliberista e Assassina del mondo accademico, che mentre scrive libri su libri infarciti di ‘lotta alla povertà’, ha lavorato per decenni per devastare la vita di centinaia di milioni di polacchi e russi dopo il 1989».La sua “Shock Terapia”, continua Barnard, «portò la Russia a un’inflazione al 2.500% (no errori di stampa), quindi disintegrò l’ottimo risparmio privato russo che poteva salvare il paese, e portò la mortalità media dei russi a livelli afghani. Bravo Sanders, hai passato la seconda asilo?». Un «infame purè di economisti», da cui si salvano solo Stephanie Kelton, Randall Wray e Bill Black, della Mmt, Modern Money Theory. «Ma che cazzo contano in coda a questo drappello di nemici giurati dei Deficit Positivi e di super-affermati colossi politici? Zero, acquetta. Poi nessuna menzione di Warren Mosler, né allora né oggi». Nel 2011 «la scena fu talmente desolante, che non scrivo altro», chiosava Barnard l’anno scorso. «E non nutro nessuna speranza che tu faccia meglio questa volta, Sanders». Oggi sappiamo che Bernie non ce l’ha fatta, a battere Hillary. Niente paura: non abbiamo perso niente, chiarisce Barnard.Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.
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Nessuno affronta davvero la crisi, così gli elettori non votano
Fino a ieri, la maggioranza votava per il meno peggio. Oggi, in assenza di vere alternative ai gestori della crisi, l’elettore medio non se la sente più di rassegnarsi all’impossibilità di soluzioni: quasi un cittadino su due, infatti, preferisce restare a casa piuttosto che accordare ancora una volta – a candidati deludenti – la solita mezza fiducia, concessa con estrema riluttanza. E’ il dato forse più sostanziale che emerge dalla tornata amministrativa del 5 giugno 2016, tra l’atteso successo dei 5 Stelle a Roma, il pareggio Sala-Parisi a Milano, la riconferma di De Magistris a Napoli, l’erosione del consenso di Fassino a Torino. La partita è gigantesca e si chiama crisi. Il primo orizzonte a oscurarsi è quello nazionale, precariamente presidiato da Matteo Renzi, ma in realtà lo spettacolo va in onda in mondovisione tra l’Europa del Brexit, il martirio a rate della Grecia, la guerra in Siria, i profughi, la devastazione economica indotta dal regime di austerity varato dall’Unione Europea attraverso l’Eurozona e le sue politiche volutamente recessive, a partire dalla prescrizione suicida del pareggio di bilancio.Nessuno, tra i principali candidati italiani delle amministrative, ha declinato in modo chiaro, a livello locale, l’opprimente quadro sovranazionale, da cui dipende anche la sofferenza quotidiana dei Comuni, a prescindere dal colore politico dei suoi amministratori di turno. Si preferisce affidarsi a storie più comode da raccontare, operazioni-trasparenza contro piccole cupole di potere, l’orgoglio degli sfidanti, la freschezza dei più giovani, l’entusiasmo degli esordienti contro il cinismo dei reggenti di lungo corso. Nulla, comunque, che abbia un’attinenza diretta e frontale col nocciolo del problema: e cioè la revoca – storica – di sovranità democratica, che condanna anche gli enti locali a fare i conti col poco che resta, tagliando servizi e spremendo i contribuenti a suon di imposte. Era il tema attorno a cui il “Movimento Roosevelt” creato da Gioele Magaldi aveva provato a lanciare, per Roma, la candidatura rivoluzionaria di un economista prestigioso ed “eretico” come il keynesiano Nino Galloni. Tesi: impossibile governare una città col vincolo del 3% sulla spesa, impossibile investire sul futuro e sul benessere collettivo se prima non si respingono al mittente tutti i diktat dell’Ue che, a cascata, dal governo centrale ricadono sui Comuni.Lo scenario post-elettorale resta dunque intermedio e transitorio, anche a prescindere dai ballottaggi: neppure dagli “spareggi”, infatti, potrà scaturire un’opzione alternativa di politica economica. In generale, si osserva un lento declino del gruppo oggi al potere – rappresentato dal Pd – che sconta le inevitabili difficoltà di un governo allineato a Bruxelles, cioè a Berlino. A Roma, a sparigliare le carte è ovviamente l’eredità del caso-Marino, in una città che comunque aveva vissuto una sostanziale alternanza, da Veltroni ad Alemanno – così come Milano, passata dalla Moratti a Pisapia. Torino resta un caso diverso, forse più interessante, perché dall’avvento del gruppo post-Pci, guidato da Castellani e poi Chiamparino, l’ex città Fiat era sempre rimasta compatta attorno alla sua compagine di potere, fino ad accettare un candidato come Fassino, proveniente dalla preistoria della Prima Repubblica. Ancora oggi Fassino arriva primo, ma – questa la novità – dovrà affrontare i rischi del ballottaggio. Non che la sfidante grillina intavoli un’alternativa strutturale, naturalmente: ancora una volta, il sistema euro-catastrofico non è in discussione. In compenso, si sgretola il fronte dei supremi guardiani di quel sistema, la ex sinistra cooptata dai super-poteri europei per far digerire agli italiani la grande crisi in programma, la fine dei diritti sociali, la disoccupazione come nuova normalità. Quel sistema sta franando, e lo dimostra la vastissima diserzione delle urne. Ma nessuna vera alternativa è ancora in campo.Fino a ieri, la maggioranza votava per il meno peggio. Oggi, in assenza di vere alternative ai gestori della crisi, l’elettore medio non se la sente più di rassegnarsi all’impossibilità di soluzioni: quasi un cittadino su due, infatti, preferisce restare a casa piuttosto che accordare ancora una volta – a candidati deludenti – la solita mezza fiducia, concessa con estrema riluttanza. E’ il dato forse più sostanziale che emerge dalla tornata amministrativa del 5 giugno 2016, tra l’atteso successo dei 5 Stelle a Roma, il pareggio Sala-Parisi a Milano, la riconferma di De Magistris a Napoli, l’erosione del consenso di Fassino a Torino. La partita è gigantesca e si chiama crisi. Il primo orizzonte a oscurarsi è quello nazionale, precariamente presidiato da Matteo Renzi, ma in realtà lo spettacolo va in onda in mondovisione tra l’Europa del Brexit, il martirio a rate della Grecia, la guerra in Siria, i profughi, la devastazione economica indotta dal regime di austerity varato dall’Unione Europea attraverso l’Eurozona e le sue politiche volutamente recessive, a partire dalla prescrizione suicida del pareggio di bilancio.
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Dall’Ue al Ttip, l’atroce Europa filo-Usa creata per noi idioti
Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.Il progetto ha visto e vede in azione personaggi presentati come padri dell’Europa ma in realtà pagati e diretti da Washington, innanzi tutti Jean Monnet e Robert Schuman. L’idea di unione europea viene inizialmente proposta come comunità del carbone, dell’acciaio e dell’atomo, allo scopo di ingranare tra di loro le economie di Francia e Germania, così da prevenire fantomatici futuri conflitti tra esse. Poi quel primo organismo sviluppa una rovinosa politica agricola comune, diventa un’area di libero scambio; poi assume poteri legislativi e di controllo sempre più ampli sugli Stati nazionali; poi si fa Schengen, la Bce, l’euro, il Trattato di Lisbona che impegna a una crescente integrazione politico-istituzionale, poi il controllo centralizzato dei bilanci e delle banche, e via discorrendo, verso la creazione di un superstato europeo a direzione non democratica, non trasparente e irresponsabile (“non accountable”), con soppressione delle democrazie nazionali parlamentari in quanto “causa di guerre”.Il tory Boris Johnson, ex sindaco di Londra, nel suo intervento pro-Brexit, spiega che i due veri padri dell’Unione Europea, Monnet e Schuman, intendevano creare un senso di identità-solidarietà europea con un metodo della psicologia comportamentale, applicando un principio che era già stato osservato come efficace in altri contesti, cioè – nella fattispecie europea – forzando permanentemente e crescentemente i diversi popoli europei a tenere comportamenti simili tra loro attraverso l’imposizione di regolamentazioni comuni, la moneta comune, l’inno comune, la bandiera comune; imporre un agire comune per far nascere un sentire comune. Decenni dopo, constatiamo che questo metodo ha chiaramente fallito, e ha anzi risvegliato contrapposti nazionalismi, poggianti su oggettive contrapposizioni di interessi soprattutto economici. Risorgono le frontiere, le economie divergono, crescono i movimenti anti-Ue. Ma persino davanti a tali fallimenti, l’oligarchia massonico-finanziaria, liberal-cosmopolita, insiste nel suo programma di unificazione forzata, imponendo crescenti cessioni di sovranità e crescenti sacrifici.Questa evoluzione sta comportando (senza che lo si dica e che si permetta ali popoli di decidere) radicali e surrettizie trasformazioni costituzionali nei vari paesi aderenti, che perdono la loro sovranità a quote crescenti e a vantaggio delle burocrazie centrali, non democratiche e non responsabili, dell’Unione Europea – burocrazie oscenamente strapagate, e tanto corrotte, parassitarie e inefficienti, che da vent’anni l’organismo europeo di revisione dei conti non firma i loro bilanci. L’unica volta che si è fatto un controllo, è scoppiato lo scandalo della Commissione Santer con la commissaria Edith Cresson. Poi hanno deciso che era meglio non controllare più! Incidentalmente: il potere legislativo, come praticamente ogni potere dell’Ue, risiede nella Commissione, non eletta e irresponsabile, che discute e decide in segreto, a porte chiuse, altroché fascismo!Ogni cessione di sovranità a questa burocrazia viene richiesta come condizione per sviluppo e sicurezza, ma l’Unione Europea è sempre più in crisi e sempre più in fondo alla graduatoria dell’Ocse in fatto di crescita – stanno meglio solo i paesi che non hanno aderito all’euro. Questo il bilancio dell’unione e della sua moneta. Un bilancio che dovrebbe svegliare anche le menti più torbide e sognatrici. Solo gli idioti non riconoscono, a questo punto, che il progetto dell’Unione Europea non è mai stato rivolto al progresso e al benessere delle nazioni europei, bensì ad altri fini, a fini di dominazione, di controllo sociale. Informandoci, scopriamo che esso serviva e serve al dominio degli Stati Uniti sull’Europa attraverso un processo col quale il vassallo Germania è stato posto in una condizione di egemonia in Europa soprattutto mediante gli effetti dell’euro e delle politiche fiscali, che hanno prodotto e stanno producendo un forte e crescente indebitamento dei paesi periferici verso la Germania e hanno dato quindi a questa l’iniziativa politica, il controllo delle istituzioni comunitarie e il diritto di veto.La Germania impone, col pretesto di prevenire l’inflazione e di risanare i bilanci dei paesi Pigs, misure recessive, che generano un avvitamento fiscale con conseguenti calo del Pil, aumento del debito, accrescimento della sottomissione a Berlino, che diventa sempre più dominante. Invero l’euro non è una moneta unica, con un unico debito pubblico sottostante, ma un sistema di cambi fissi tra le precedenti valute, con debiti pubblici divisi, nel quale il regolamento delle transazioni internazionali si fa sostanzialmente mediante il rilascio di promesse di pagamento, cioè mediante indebitamento, delle singole banche centrali nazionali dei paesi a deficit commerciale verso quelli con attivo commerciale. I cambi fissi, impedendo l’aggiustamento fisiologico, cioè di mercato, dei rapporti valutare tra paesi con deficit e paesi con un surplus di bilancia commerciale, determinano un crescente deficit e un crescente indebitamento dei paesi meno efficienti soprattutto verso la Germania, ma anche una fuga di imprese, di capitali, di lavoratori e tecnici qualificati, così che la Germania si ritrova con enormi crediti che usa per comprarsi i pezzi più interessanti dei patrimoni e delle economie dei paesi indebitati – cioè trasforma i propri interessi attivi in beni reali dei paesi sottomessi. E l’Italia si ritrova non solo sempre più indebitata, ma sempre più deindustrializzata e sempre più abbandonata da giovani qualificati. Il crollo dei brevetti italiani è solo l’ultima riconferma di questo processo ultraventennale e strutturale di declino.Tale era il disegno europeista reale dietro l’europeismo di facciata concepito dai padri nobili per i figli scemi, dai padri che facevano leva su supposti sentimenti di fratellanza e solidarietà tra i popoli degli Stati europei, quando anche gli idioti sanno che, nella politica, soprattutto quella internazionale, le decisioni vengono prese per convenienza e calcolo, alla ricerca del vantaggio e della sopraffazione. Se teniamo presente questa realtà, non avremo alcuna difficoltà a capire per quale ragione tutte le innovazioni europeiste hanno avuto effetti contrari alle promesse. E per quale ragione ad ogni crisi causata da tali effetti, si è risposto che la cura era “più Europa”, più cessione di sovranità all’Unione, cioè a Berlino. Chi obietta, è estremista e populista, forse pazzo, quindi i suoi argomenti sono invalidi a priori, senza esame del merito, anzi non è nemmeno legittimato a parlare. Stile Stalin.La prossima innovazione, già in avanzato stadio di elaborazione, è il famoso Ttip, il trattato transatlantico di libero commercio, negoziato in segreto, senza che nemmeno i parlamentari possono fare copie delle bozze, e possono consultarle solo per due ore, sorvegliati dai carabinieri, senza poterne trascrivere brani, come recentemente denunciato dal sen. Tremonti. Perché questa segretezza ultra-dittatoriale? Per coprire gli interessi economici retrostanti e i loro progetti: col Ttip le multinazionali statunitensi potrebbero prendersi larghe fette dei mercati nazionali europei (soprattutto in Italia, ai danni dei milioni di piccole imprese che danno il grosso della ricchezza e dei posti di lavoro, e con vantaggio solo di quelle pochissime imprese, perlopiù grandi, di cui gli Usa importano i prodotti. Ossia: il Ttip sarà tutto a vantaggio delle esportazioni americane verso l’Europa e soprattutto verso l’Italia, e a danno dei piccoli produttori europei dai quali dipende il nostro livello di redditi e di occupazione.Le multinazionali americane potrebbero imporre la vendita in Europa senza etichette distintive di loro prodotti Ogm e in generale a rischio, potrebbero richiedere risarcimenti agli Stati che ponessero limiti allora affarismo quand’anche detti limiti siano giustificati da esigenze di tutte era della salute pubblica. Col Ttip disporrebbero anche, ciliegina sulla torta, di un tribunale sovranazionale praticamente organizzato da esse stesse, davanti a cui citare gli Stati dalle cui politiche e legislazioni si ritenessero danneggiate, per farli condannare a risarcire i danni da mancato profitto, e far pagare il risarcimento ai contribuenti. Anche quanto resta di libera ricerca e informazione medico-scientifica sarebbe tolto, perché contrario agli interessi del profitto. Molti economisti e giornalisti e politici in carriera, ipocritamente, dichiarano che il Ttip va bene, a condizione che la politica regolamenti l’affarismo. Ma ciò è proprio quel che il Ttip proibisce. E anche se non lo proibisse, la potenza di questo affarismo già controlla la politica.Se il Ttip passerà, e credo che passerà perché non vi sono in campo dinamiche capaci di contrastarlo, sarà la totale eliminazione, da parte del grande capitale finanziario, di ogni limite e di ogni valore che si opponga ai suoi calcoli e alle sue speculazioni, cioè la fine pratica dell’esistenza del principio politico e del principio legalitario, oltre che dei diritti dell’uomo. Rimarranno solo quelli degli investitori, come li chiama il Ttip, ossia del capitale finanziario. Sarà una riforma non semplicemente dell’economia, ma della società e dello stesso concetto di uomo, il quale sarà ridotto e considerato esclusivamente come componente dei processi finanziari. Il dominio Usa sull’Europa attraverso il processo di unificazione europea sotto il vassallo germanico serve ultimamente a questo.(Marco Della Luna, “Dall’europeismo al Ttip, un piano degli Usa”, dal blog di Della Luna del 24 maggio 2016).Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.
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Operai licenziati, meglio i robot: la Foxconn fa da apripista
La Foxconn, azienda taiwanese che produce la metà delle componenti dei dispositivi elettronici di consumo venduti nel mondo, ha ridotto la propria forza lavoro, grazie all’introduzione dei robot che sostituiscono gli operai. Un taglio drammatico: da 110.000 ad appena 50.000 operatori. Niente da dire: «Un successo nella riduzione del costo del lavoro». Fino a dieci anni fa, scrive “Contropiano”, per capire dove stava andando il capitalismo occorreva guardare agli Stati Uniti. Ora invece fa testo la Cina, divenuta “la manifattura del mondo” grazie a un costo del lavoro che 40 anni fa era ai minimi mondiali. Altri punti di forza: la concentrazione politica del potere (il sindacato assorbito dal partito unico) e l’apertura agli investimenti stranieri, in cambio della condivisione del know how. Centinaia di milioni di persone avevano così «smesso di essere contadini in esubero per trasformarsi in operai industriali, assicurando un tasso di crescita del Pil superiore al 10% per oltre venti anni e facendo conquistare al paese il ruolo di seconda potenza industriale del pianeta». Ma la musica sta cambiando: «Ogni favola ha una fine, anche e soprattutto quelle capitalistiche».La Foxconn, aggiunge “Contropiano”, era anche conosciuta per l’alto tasso di suicidi tra i suoi lavoratori, schiacciati da ritmi infernali. «Ma i robot fanno meglio, più velocemente, senza soste fisiologiche, 24 ore su 24. Non si lamentano, non pretendono adeguamenti salariali, non si ammalano, non scioperano mai e non rischiano di farlo in futuro. Al massimo si rompono e vanno aggiustati». Ed è solo l’inizio: «Decine di altre aziende operanti in Cina stanno per fare lo stesso, magari su scala dimensionale anche superiore al 50% del personale». L’automazione sta conquistando tutte le fabbriche del pianeta. E i “futurologi” «stanno già sfornando elenchi di mansioni lavorative a rischio scomparsa», con «percentuali da capogiro nella sostituzione di uomini e donne con macchine». Attenzione: tutto ciò che è seriale può esser fatto meglio, «non c’è impiegato “di concetto” che possa sentirsi al sicuro: solo le professioni “creative” possono – entro certi limiti, comunque – essere risparmiate da questa corsa alla robotizzazione».La “quarta rivoluzione industriale”, aggiunge “Contropiano”, ha per orizzonte la produzione senza lavoro umano, o quasi: «Resteranno, seppur molto più limitate, solo le attività di installazione, manutenzione e programmazione dei robot». E quindi, «miliardi di esseri umani non avranno più un’occupazione, né potranno riciclarsi in altre attività in espansione, perché non avranno le cognizioni di base per fare il salto da una all’altra». Facile da capire: «Un tecnico, per quanto bravissimo, non può diventare un ingegnere informatico o elettromeccanico. Se perde il lavoro, mettiamo, intorno a 40 anni, con famiglia e figli a carico, non può tornare all’università per i cinque sei anni necessari a fare l’upgrade delle sue conoscenze. In ogni caso, serviranno assai meno ingegneri di quanti tecnici si troveranno a spasso». Idem per la sicurezza: «I poliziotti “indispensabili” saranno solo quelli necessari per le scorte e il controllo delle manifestazioni di piazza, oltre a informatici e analisti video». Conclusione: «La domanda, epocale, è persino disperatamente semplice. Che fine faranno quei miliardi di esseri umani senza possibilità di guadagnarsi da vivere vendendo la propria forza lavoro?».La Foxconn, azienda taiwanese che produce la metà delle componenti dei dispositivi elettronici di consumo venduti nel mondo, ha ridotto la propria forza lavoro, grazie all’introduzione dei robot che sostituiscono gli operai. Un taglio drammatico: da 110.000 ad appena 50.000 operatori. Niente da dire: «Un successo nella riduzione del costo del lavoro». Fino a dieci anni fa, scrive “Contropiano”, per capire dove stava andando il capitalismo occorreva guardare agli Stati Uniti. Ora invece fa testo la Cina, divenuta “la manifattura del mondo” grazie a un costo del lavoro che 40 anni fa era ai minimi mondiali. Altri punti di forza: la concentrazione politica del potere (il sindacato assorbito dal partito unico) e l’apertura agli investimenti stranieri, in cambio della condivisione del know how. Centinaia di milioni di persone avevano così «smesso di essere contadini in esubero per trasformarsi in operai industriali, assicurando un tasso di crescita del Pil superiore al 10% per oltre venti anni e facendo conquistare al paese il ruolo di seconda potenza industriale del pianeta». Ma la musica sta cambiando: «Ogni favola ha una fine, anche e soprattutto quelle capitalistiche».