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Schulz: senza l’euro Berlino non teme la Cina, ma l’Italia
«Senza l’euro, la Germania non dovrebbe temere la Cina, ma l’Italia». Parola di Martin Schulz, intervistato da Konstantin von Hammerstein e Gordon Repinski dello “Spiegel”. Colloquio illuminante, che risale al 2012: «Oltre a dimostrare come in cinque anni non sia stato fatto nulla per risolvere i problemi della Ue», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto l’articolo e ora lo ripropone, «chiarisce il pensiero dell’odierno avversario della Merkel, sedicente socialdemocratico e possibile futuro cancelliere tedesco», laddove dice che «l’Europa è vitale per gli interessi nazionali» (quelli tedeschi, ovviamente). «Le sue parole di apparente accondiscendenza verso i paesi periferici vanno lette così: è meglio mantenere gli altri paesi nella condizione di inoffensive colonie». Per “Voci dall’Estero”, una sua affermazione è particolarmente rivelatrice: senza più la moneta unica governata a Francoforte dai poteri finanziari cui risponde la Bce, e con il ritorno a un marco rivalutato, Berlino non dovrebbe affatto guardarsi dalla la Cina, bensì da paesi come l’Italia e la Francia. Preso nota? «Tutti gli elettori italiani e francesi ne dovrebbero essere consapevoli».I giornalisti dello “Spiegel” citano il filosofo Jürgen Habermas: vista la crisi dell’euro ci sarebbero solo due strategie possibili per l’Europa, tornare alle monete nazionali o andare verso un’unione politica. «Sì», ammette Schulz, «avremmo dovuto introdurre l’unione politica assieme all’euro». Ma ormai è tardi: «Non ha senso stare a lamentarsi delle opportunità mancate, questo è il momento di agire rapidamente nel breve termine». Rifare l’Ue da cima a fondo? «Non è un’esigenza pressante, in questo momento». Ma la Germania è interessata a discutere della possibile introduzione di un’unione politica? Macché: «Questo è un drammatico errore. Come se un cambiamento strutturale potesse risolvere i problemi nel breve termine». La crisi politica è «sistemica», ammette Schulz, ma il problema – avvertito nel 2012 – è soprattutto l’agonia della Grecia nonché la speculazione sui tassi d’interesse contro Spagna, Italia e Portogallo. Carta vincente? Gli eurobond garantiti dalla Bce, ma «l’Olanda non li vuole, la Finlandia non li vuole, e la Germania assolutamente non li vuole».Perché invece Martin Schulz li vuole? «Perché abbiamo un’area valutaria ed economica comune, e questo significa che, di fatto, i singoli paesi non hanno più sovranità sulla propria moneta. Anche la Germania appartiene a quest’area. Perché, dunque, non dovremmo applicare degli strumenti di politica monetaria a livello transnazionale?». Semplice: perché il Trattato di Maastricht, ricorda lo “Spiegel”, stabilisce che nessun paese deve essere responsabile per il debito di un altro paese: è la cosiddetta clausola di “non salvataggio”. Il politico tedesco, esponente della Spd, protesta: quella clausola non dev’essere «un dogma intoccabile». Inoltre, sul tetto al decifit, «Francia e Germania hanno violato le regole». Dunque, se nel loro caso «si è potuto interpretare i trattati in modo così flessibile», perché mai allora «non lo possiamo rifare adesso con gli eurobond?». Non si scappa: o si crea un fondo di ammortamento del debito, garantito dall’insieme dei paesi Ue, o si concedono «autorizzazioni bancarie al Meccanismo Europeo di Stabilità (Esm), il fondo permanente di salvataggio, in modo che possa prendere a prestito denaro dalla Bce come qualsiasi altra banca».Purtroppo, fa notare lo “Spiegel”, l’opinione pubblica tedesca non è d’accordo su una condivisione del debito. «Questa affermazione è assolutamente vera», ammette Schulz, «e mi preoccupa molto. Ciò di cui abbiamo bisogno è di spiegare alla gente quali sono le alternative». Per esempio? «Reintrodurre il marco. Sarebbe una valuta estremamente forte, che renderebbe le esportazioni tedesche molto più costose». Secondo l’ex presidente del Parlamento Europeo, «l’industria automobilistica tedesca dovrebbe temere non più la Cina, ma la Francia e l’Italia, la Peugeot, la Citroën e la Fiat». Per Schulz, senza più l’euro, «la Germania diventerebbe troppo grande per l’Europa ma troppo piccola per il mondo. A questo dovrebbero pensare quelli che chiedono un’uscita della Grecia dall’Eurozona». E per quanto riguarda l’Italia? «Per molto tempo l’Italia è stata governata da alcuni tra i politici meno professionali che si siano mai visti. Eppure non c’era molta pressione in termini di speculazione». Poi è arrivato Mario Monti, che Schulz definisce «quel tipo di leader che di solito si vede solo nei film, un distinto professore che non accetta nemmeno un cuoco nella sua residenza a Palazzo Chigi», l’uomo «di cui i mercati non si fidano».Quanto all’austerity – siamo nel 2012 – Schulz la vedeva così: «Monti sta facendo dei tagli, ma tutto quello che lui riesce a risparmiare va a coprire l’aumento dei tassi di interesse. E quando dice: “Mio Dio, gente, aiutatemi”. Noi cosa rispondiamo? Rispondiamo: “Devi fare altri tagli, l’Italia deve arrangiarsi e uscirne da sola”. Ma non funzionerà. Voglio esser chiaro su questo». Spiegazione: «L’Italia è uno degli otto paesi più industrializzati. Cosa succede se un paese del G8 e dell’Unione Europea va in bancarotta? Qualcuno pensa che la Germania non ne risentirà? L’Italia è uno dei nostri mercati più importanti. No, in questo modo non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo dare licenza bancaria all’Esm, tagliare i tassi di interesse». E cioè: allentare il rigore. Toccherebbe alla Germania, pagare? Schulz smentisce: Italia e Germania si sobbarcano, da sole, il 38% dei costi dell’Esm. «State dando troppa attenzione alla nuova retorica nazionalista della Germania, dice Schulz, secondo cui «la grande maggioranza della popolazione è favorevole all’idea di un’unione moderna e illuminata di paesi che dimostrano solidarietà». E cita il regista Wim Wenders: ha detto che «l’idea di Europa è diventata quella di un’amministrazione, e adesso la gente pensa che l’amministrazione sia l’idea stessa di Europa. Ma questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare all’idea. Significa che dobbiamo cambiare l’amministrazione».Era cinque anni fa. Nel frattempo, non è cambiato niente. Lo stesso Schulz, tipico esponente della “sinistra” ultra-europeista, ammette di temere l’opinione pubblica, la consultazione popolare, specie di fronte a referendum che impegnino anche i tedeschi a pronunciarsi sulla crescente centralizzazione del potere a Bruxelles. «A differenza di altri paesi – premette – la Germania non ha avuto esperienza di referendum». E che dire del leader dell’Spd, Sigmar Gabriel, determinato a lasciar votare la gente sull’Unione Europea? «È un rischio», dichiara Schulz. «I referendum pongono sempre delle minacce quando si parla di politica europea, perché la politica europea è complessa. Sono sempre un’opportunità per quelle parti politiche alle quali piace semplificare le questioni. La politica europea è sempre un intreccio di razionalità e di emozioni. Il problema di noi politici europei è che affrontiamo tutto con fredda razionalità, e poi ci chiediamo perché non riusciamo a coinvolgere emotivamente le persone». Domanda diretta: «Lei non si fida della gente?». Risposta, altrettanto diretta: «Io mi fido, ma non è contrario alla democrazia essere scettici. I referendum sono uno strumento democratico, ma lo sono anche le decisioni raggiunte da una democrazia parlamentare. Sono per un’estrema cautela quando si tratta di referendum. Anche in Germania».«Senza l’euro, la Germania non dovrebbe temere la Cina, ma l’Italia». Parola di Martin Schulz, intervistato da Konstantin von Hammerstein e Gordon Repinski dello “Spiegel”. Colloquio illuminante, che risale al 2012: «Oltre a dimostrare come in cinque anni non sia stato fatto nulla per risolvere i problemi della Ue», scrive “Voci dall’Estero”, che ha tradotto l’articolo e ora lo ripropone, «chiarisce il pensiero dell’odierno avversario della Merkel, sedicente socialdemocratico e possibile futuro cancelliere tedesco», laddove dice che «l’Europa è vitale per gli interessi nazionali» (quelli tedeschi, ovviamente). «Le sue parole di apparente accondiscendenza verso i paesi periferici vanno lette così: è meglio mantenere gli altri paesi nella condizione di inoffensive colonie». Per “Voci dall’Estero”, una sua affermazione è particolarmente rivelatrice: senza più la moneta unica governata a Francoforte dai poteri finanziari cui risponde la Bce, e con il ritorno a un marco rivalutato, Berlino non dovrebbe affatto guardarsi dalla la Cina, bensì da paesi come l’Italia e la Francia. Preso nota? «Tutti gli elettori italiani e francesi ne dovrebbero essere consapevoli».
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Derby tra Mélenchon e Le Pen: un incubo, per i bankster Ue
«Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».Tra parentesi, il “centrista” Macron proviene dalla filiale francese della banca dei Rothschild, mentre l’altro candidato “istituzionale”, l’ex premier François Fillon, propone un supplemento di austerity con altri tagli al spesa pubblica e al welfare. Ancora qualcuno si stupisce se “la Francia” ha tutto, meno che “paura”, di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, entrambi ultra-critici sull’euro, la Nato e le sanzioni alla Russia? «Davanti a questo scenario – continua il “Post” – il presidente francese, Francois Hollande, ha rotto il silenzio: secondo il quotidiano “Le Monde” moltiplicherà gli appelli contro il pericolo “populista”». Ballottaggio tra il candidato della sinistra alternativa e la candidata del Front National? Uno scenario che secondo i media mainstream intimorisce i “mercati”, con l’innalzamento dei tassi sul debito pubblico francese. Senza spingersi fino a chiedere un voto per il candidato di “En Marche”, cioè Macron, l’incolore Hollande sembra invece scaricare in modo definitivo il candidato socialista (almeno sulla carta compagno di partito) Benoit Hamon. «L’emotività sta prevalendo sulla ragione», sentenzia Hollande, rivelatosi il presidente meno stimato di tutta la storia repubblicana francese.Anziché per il suo disastroso bilancio politico ed economico, l’Eliseo è preoccupato per la spettacolare impennata, nei sondaggi, del candidato della “France Insoumise”, che allarmerebbe i “bankster”, gli squali della finanza, al pari della Le Pen. Hollande però si guarda bene, per ora, dallo schierarsi con Macron: sa perfettamente che la mossa «potrebbe rivelarsi controproducente», dato il vasto discredito di cui gode il presidente uscente. Nel frattempo, al finto indipendente Macron e al gollista Fillon non resta che giocare di sponda per arginare Mélenchon. A Besançon, racconta l’“Huffington Post”, Macron si è scagliato contro «il rivoluzionario comunista che era giù senatore socialista quando io ancora andavo al college». Fillon, che sinora ha sempre avuto come bersaglio Macron e – seppur in minor misura – la Le Pen, ha inserito tra i suoi nemici anche Mélenchon. Ma il candidato della sinistra radicale ha contro “Le Figaro”, che lo definisce «il Chavez francese», mentre su “France Inter” si denuncia il “pericolo comunista”, fino al ridicolo: per il giornalista Patrick Cohen, «non siamo lontani dallo spauracchio dei carri armati russi del 1981».«Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».
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Cremaschi: il precariato è schiavismo, un inferno mafioso
A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.Può sembrare una piccola cosa dover cedere la propria patente al capo, di fronte alla quantità di vergognosi ricatti che subiscono i lavoratori e ancora di più le lavoratrici, a cui si può impunemente dire: o accetti o quella è la porta, dietro la quale c’è la fila di chi aspetta il tuo posto. Tuttavia sono le piccole sopraffazioni che a volte ci danno il segno e la portata di quelle più grandi, è la violenza della precarietà che colpisce i diritti e la stessa dignità delle sue vittime e assorbe il rapporto di lavoro in un ambiente di mafia. Immaginiamo poi quando la precarietà dura all’infinito, quando con i trucchi permessi dalla stessa legge si è precari a tempo indeterminato, cioè ogni anno si deve subire l’esame di lavoro per continuare ad essere sfruttati e vessati. E non solo nel lavoro privato, ma anche in quello pubblico. Pochi giorni fa la Usb ha indetto lo sciopero dei precari pubblici e una manifestazione a Roma sotto il ministero, manifestazione ben riuscita nonostante gli ostacoli posti dalla polizia. Qui ho saputo da un lavoratore disperato che, nella pubblica amministrazione, ci sono persone precarie da più di venti anni, per una retribuzione mensile oggi giunta a ben 580 euro lordi.Il tribunale di Nola, in Campania, funziona grazie a questi precari più che ventennali, che mandano avanti tutte le attività di cancelleria. Come posso guardare crescere i miei figli negandogli una marea di cose, e subire anche l’umiliazione per cui ogni anno devo avere la conferma del contratto, altrimenti sono a casa? Che vita è questa? Così quel lavoratore ha concluso il suo racconto mentre la rabbia tratteneva le lacrime. Il governo ha appena suonato la fanfara per qualche decimale di disoccupazione in meno e Gentiloni ha esaltato le riforme del mercato del lavoro che avrebbero permesso questo clamoroso risultato. Per questo, dopo aver abolito i voucher per evitare il referendum, stanno pensando di sostituirli con il contratto a chiamata, quello per cui si deve essere sempre a disposizione gratuita dell’azienda, in attesa di essere convocati per poche e sottopagate ore di lavoro. La precarietà del lavoro marcia a tappe forzate verso lo schiavismo e le leggi che da trent’anni l’hanno autorizzata, incentivata, diffusa, hanno la stessa portata sociale e morale di quelle che nell’800 disciplinavano l’Asiento.Il mercato degli schiavi organizzato e pubblico che nelle Americhe veniva considerato un passo avanti rispetto a quello clandestino. Non si dice forse da trenta anni che le leggi sulla precarietà servono a far emergere il lavoro nero? Questo del resto sostengono tutte le istituzioni della Unione Europea, per le quali la merce lavoro non deve essere sottoposta a vincoli e controlli che ne impediscano la libera concorrenza. Se c’è disoccupazione è perché il lavoro costa troppo, bisogna che la concorrenza tra le persone ne abbassi il prezzo fino a che le imprese non trovino conveniente assumere. È la filosofia liberista della riduzione del costo del lavoro che dagli anni 80 ha ispirato tutte le leggi e tutti gli interventi sul mercato del lavoro delle istituzione europee e dei governi italiani. Negli anni ‘70 il contratto di assunzione era tempo indeterminato con l’articolo 18, salvo eccezioni che erano davvero tali. Il collocamento allora era pubblico e numerico, cioè le imprese dovevano assumere seguendo le liste pubbliche di chi cercava occupazione, non servivano curricula o partite di calcetto. E la pubblica amministrazione non era sottoposta ai vincoli massacranti del Fiscal Compact e ai conseguenti tagli al personale stabile, sostituito dall’appalto e dal lavoro precario.Poi, nel nome del mercato, della modernità, dell’Europa, questo sistema semplice, giusto e anche efficiente è stato metodicamente smantellato da tutti i governi senza distinzioni, con la complicità di Cgil, Cisl e Uil. Ora il collocamento è un affare delle agenzie interinali, una volta vietate come caporalato, i rapporti di lavoro precari sono una quarantina e lo stesso contratto a tempo indeterminato è una finta, visto che grazie al Jobs Act i nuovi assunti possono essere licenziati in qualsiasi momento. E se un sindaco regolarizza i dipendenti del suo comune rischia di finire sotto processo. Ora si può essere assunti in Romania con paghe del posto e lavorare nel Trentino eludendo i contratti, grazie alla Unione Europea e alle sentenze della sua Corte di Giustizia nel nome della libertà di mercato. E le leggi securitarie, anti migranti e anti poveri, come la Bossi Fini e il decreto Minniti, sono una tecnologica riedizione delle misure contro il vagabondaggio degli albori del capitalismo, che avevano la funzione di imporre il lavoro forzato e semi-gratuito in fabbrica.È dilagato il precariato, ma contrariamente alle giustificazioni ufficiali la disoccupazione è esplosa e il lavoro nero continua a espandersi. I devastatori del diritto però non hanno fallito, perché alla fine hanno realizzato esattamente ciò che volevano, riportare le lavoratrici e i lavoratori nella condizione di soggezione degli schiavi. Il sistema di lavoro fondato sulla precarietà è prima di tutto una organizzazione violenta e criminale dello sfruttamento e della schiavizzazione delle persone. Non è più tempo di combatterlo solo nel nome delle convenienze economiche, ma in quello della libertà e dei diritti fondamentali della persona. E l’Unione Europea, i suoi governi e le loro regole di mercato vadano all’inferno.(Giorgio Cremaschi, “Oggi lo schiavismo si chiama precarietà”, da “Micromega” del 4 aprile 2017).A Milano sulla metro mi ferma un giovane, impiegato in un magazzino della logistica. Io sono tra i privilegiati, mi dice, certo non come i facchini che stanno giù al carico scarico merci, però anche in ufficio il clima è pesante. E mi racconta la storia dei punti della patente. Il capo ufficio si rivolge alla giovane impiegata, naturalmente assunta con un contratto precario, e le chiede con la massima naturalezza: senti, puoi darmi gli estremi della tua patente? Alle timide perplessità della ragazza, il capo risponde tranquillamente che è per una infrazione in cui è incorso guidando l’auto aziendale. È arrivata una multa pesante che comporta danno alla patente. Visto che l’auto è aziendale, nulla di male a scaricare il taglio dei punti sulla patente dell’impiegata, anche se questa non è titolata ad usarla, è spirito di collaborazione… che fa curriculum per la conferma a lavoro. La ragazza ha subito il ricatto?, ho chiesto alla fine, ma chi mi aveva raccontato l’episodio non è stato in grado di darmi una risposta, non conosceva la conclusione.
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Magaldi: riusciranno i 5 Stelle a dirci cosa vogliono fare?
Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.Se le primarie del Pd sembrano annunciare una scontata vittoria di Renzi, Magaldi si permette «un piccolo endorsement» in favore di Michele Emiliano: «Quantomeno, sembra cogliere alcune istanze di denuncia della inefficacia assoluta sul piano del rapporto tra l’Italia e l’Europa, che è il vero tema fondante». Tralasciando l’incolore Andrea Orlando, già ministro renziano, continua «la pantomima» di Renzi, che «si continua a proporre come uno che risolverà il rapporto con l’austerity». La verità è tristemente un’altra: «Ha avuto due anni, per farlo: non l’ha fatto. C’è anzi una continuità sostanziale del governo Renzi rispetto a quelli di Letta e Monti, cioè una subalternità di questo grande paese, l’Italia, rispetto ai trattati europei e a un’egemonia, svolta attraverso alcune cancellerie, da parte di gruppi sovranazionali che rendono sempre più insopportabile la camicia di forza imposta al vecchio continente». Pensando sempre agli elettori Pd, Magaldi ipotizza che «forse, un voto a Emiliano testimonierebbe meglio l’esistenza di un malessere necessario e giusto, rispetto alle figure di Orlando e Renzi, che rappresentano la continuità». Ma se il Pd piange, di sicuro i 5 Stelle non ridono: o meglio, non hanno ancora spiegato con quali misure attuerebbero una politica davvero alternativa.«Mi fa piacere che ci stato un bell’evento, a Ivrea», premette Magaldi, riferendosi alla convention tematica guidata da Davide Casaleggio. «Ma il Movimento 5 Stelle ha bisogno di evolvere», insiste il presidente del Movimento Roosevelt. «Lo ripeto, e voglio essere noioso come un moscone socratico: il giorno in cui, giustamente, non votando né il centrodestra né il centrosinistra (legge elettorale permettendo), il Movimento 5 Stelle andasse al governo, non staremmo meglio – dopo qualche mese, o anno, di questo governo – se dovessimo scoprire che le cose vanno esattamente come vanno nel governo della città di Roma». Quindi, per favore, «si diano una svegliata, i 5 Stelle: qui non si tratta di autocelebrarsi. E’ passata la fase politica dell’auto-compiacimento per la novità – e del piagnisteo (giusto, perché gli altri ti delegittimano)». Peraltro, «saranno brutte, le parole di Renzi verso il Movimento 5 Stelle, ma non sono nemmeno tenere quelle dei 5 Stelle verso Renzi». Ma stiamo parlano di quisiquilie: «Il problema è che c’è un’età per tutto». Magaldi cita Jean-Paul Sartre e il suo saggio “L’età della ragione” per dire che è venuta “l’età della ragione”, della maturità, anche per il Movimento 5 Stelle. «Non può continuare così: è come votarsi al fallimento».«Le linee-guida su cui il Movimento 5 Stelle chiede il consenso sono ormai fragili», osserva Magaldi. «Ha bisogno, il Movimento 5 Stelle, di una iniezione di idee forti». Per esempio: «Cosa pensa, il Movimento 5 Stelle, e cosa ha detto, a proposito dell’eliminazione del Fiscal Compact, e del pareggio di bilancio dalla Costituzione?». Per ora, silenzio. «E’ inutile invocare il referendum sull’euro», se poi non si dice chiaramente che il futuro governo pentastellato – come prima mossa – andrebbe a Strasburgo, a Bruxelles, «a dire: o noi riscriviamo i trattati, oppure in Italia ne sospendiamo la vigenza». Domande ancora senza risposta: «Che programma c’è? Esiste un piano per una moneta complementare, per alimentare una ripresa economica anche con questi trattati? E poi: quale paradigma per la spesa pubblica e per gli investimenti? Queste – ribadisce Magaldi – sono le cose che possono sostanziare un governo sano e giusto per il paese, non i discorsi sui vitalizi o le fumosità sulla democrazia diretta». Dai 5 Stelle, finora, nessun segnale in questa direzione: «Se vincessero le prossime elezioni, non sappiamo ancora come si comportebbero, rispetto alle questioni più cruciali per il futuro del paese».Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.
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Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali
La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.Per arrivare a questo risultato la mobilitazione deve essere inedita, almeno per questi anni, e per ora questo non si è visto. La stessa definizione che Davide Casaleggio dà del Movimento 5 Stelle («siamo Netflix, mentre i partiti sono ancora Blockbuster») non pare adatta a suscitare questa mobilitazione. Confonde, infatti, l’immaginario dell’impresa della comunicazione con quello dell’impresa tout court e quello dell’impresa tout court con quello della società. L’idea di futuro di una impresa e quello di una società, per quanto intrisa di aziendalismo come la nostra, vanno separate. Lo stesso Berlusconi, che scese in campo portandosi dietro un immaginario di ricchezza non comparabile con quello della Casaleggio, per prendere voti di massa a livello di opinione dovette ricorrere alla coltivazione, reiterata, di un immaginario di maschio-alfa che stava molto più nel profondo della società italiana di quello dell’impresa. Cercare di costruire un futuro con un immaginario da start-up è, infatti, prepararlo allo stesso rischio di fine precoce che corrono questo tipo di aziende.Davide Casaleggio aveva poi aperto, sul “Corriere della Sera”, all’interrogativo principale della giornata di Ivrea: la rivoluzione robotica e il suo impatto nella società. Roba un po’ schematica, sulla velocità della rivoluzione tecnologica ci sarebbe più da ragionare che fare marketing, ma che sicuramente tocca la struttura della società italiana: dall’organizzazione del lavoro a quella dell’amministrazione dello Stato, della formazione, della ricerca scientifica e del diritto. Per non parlare del tipo di economia che si vuole, e in che modo produce ricchezza (e che tipo di ricchezza produce), in una società a forte tasso di invecchiamento. Questioni da far tremare i polsi, sulle quali non si è visto un lineamento di risposta, sempre tenute sullo sfondo grazie alla questione del “come” finanziare il reddito di cittadinanza. Quella del possibile impatto – sociale, economico, amministrativo – di questa misura rimane invece taciuta. E, essere generico su questi temi, non è solo un difetto di Casaleggio ma anche di tanta sinistra: pensare che il reddito di cittadinanza, misura comunque inevitabile, sia una sorta di derivato della carità (che una volta assolta fa sentire la società uguale a prima solo piu’ solidale) o una misura che riguarda comunque la periferia del corpo sociale.Non siamo più nel ‘900: il reddito di cittadinanza, se erogato davvero, non è una misura di equilibrio sociale che sta tra welfare e mercato. Di fronte a una rivoluzione tecnologica, che distrugge strutturalmente più posti di lavoro di quanti ne produce (a differenza, appunto, del ‘900), il reddito di cittadinanza ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro, sulla forma delle istituzioni e dell’amministrazione. Fa uscire strutturalmente dal lavoro, se è reddito di cittadinanza, non più una nicchia ma una parte consistente di società. In maniera inedita dalla rivoluzione industriale. Presupponendo cambiamenti tali da mettere in discussione anche la presa della forma impresa nelle pieghe della società e nella estrazione della ricchezza. È uno dei motivi, oltre al fatto che la ricchezza in Europa va nei paesi “core” come finiva nel nord ricco dell’Italia postunitaria, per cui questo paese non ha mai trasformato la propria struttura di welfare consociativo, tra le parti sociali come si era configurato nella sua epoca matura, in welfare di cittadinanza. Sarebbe saltata la struttura del potere reale tanto che gli attori in campo hanno preferito trasformare, di volta in volta, il welfare consociativo in uno strumento, in parte borbonico in parte neoliberista, di allineamento alle esigenze di sviluppo della Ue e dell’Eurozona. Insomma, problemi epocali ai quali è impossibile rispondere con un immaginario da start-up. Ma quando ti nutri, in modo totemico, del sapere dell’impresa certi salti in avanti non li puoi fare.Oltretutto, quando in tv Casaleggio jr. si è trovato davanti alla classica domanda, sul come finanziare il reddito di cittadinanza come antidoto alla disoccupazione tecnologica, ha risposto non cercando di conquistare nuovo pubblico ma parlando a quello già conquistato. Ha parlato infatti di «partire dal taglio delle pensioni d’oro», eccetera, ovvero la già vincente retorica sugli sprechi che, anche se fosse praticata allo spasimo, non arriverebbe mai a finanziare una posta di spesa così grande. Segno, perlomeno, di grande confusione, prima di tutto su cosa fare dopo l’evento epocale (e lo è) della rivoluzione tecnologica. Segno che, nonostante i desideri sul futuro, non si arriva a produrre novità politiche e non resta che parlare il solito linguaggio della “casta che ruba”. Davide Casaleggio ha anche aggiunto che, sul finanziamento del reddito di cittadinanza, in fondo, è una questione dei tecnici. Nel migliore dei casi siamo alla visione naif della politica che traccia un’idea e i tecnici la praticano. Quando invece ogni “dettaglio” tecnico porta, nel momento in cui va risolto, a drammatiche scelte politiche, oltretutto quando il provvedimento è destinato a produrre (complesse) ondate di impatto sulla struttura sociale e amministrativa.Qui ci vogliono non i tecnici ma idee di indirizzo politico chiare, e robustamente organizzate, per arrivare a praticare una riforma del welfare, dell’amministrazione e degli obiettivi dello Stato, tale è il reddito di cittadinanza altro che misura “tecnica”, che entrerebbero sicuramente in conflitto con Bruxelles e Francoforte (per non dire Berlino). Insomma, l’evento dell’associazione Gianroberto Casaleggio, che è distinta dal Movimento 5 Stelle, si è impantanato nei difetti della solita convegnistica di impresa che un giorno tocca l’idea di banda ultralarga e l’altro di Industria 4.0: un po’ di spettacolo, un tema di fondo magari azzeccato e tanta genericità a contorno dell’evento. L’invito al Ceo di Google Italia, al direttore della Trilateral e a quello del Tg7 (nonché a qualche sociologo che questa convegnistica se l’è fatta tutta in area Pd-Bassolino), da parte di Casaleggio, stavano in questa cornice. Il problema è che questo genere di convegnistica è fatta, soprattutto, per sviluppare il capitalismo di relazione in settori specializzati. Se il format viene riproposto per delineare il futuro di un paese, le crepe si vedono tutte. La forma start-up non è in grado di rappresentare la profondità di un paese come il nostro. Ma difficile che su quelle rive si cambi idea.Certo se dall’associazione Casaleggio c’è questa confusione in campo 5 Stelle, e ci riferiamo alla politica monetaria, le turbolenze non mancano. Il referendum, previsto come consultivo dal M5S, sulla permanenza nell’euro o meno assumerebbe, in questa cornice, i tratti della più spettacolare manna dal cielo per la speculazione finanziaria (che le borse “banchino” i referendum ormai è prassi consolidata) e quello della paralisi delle politiche di un paese in attesa del risultato. Sicuramente in tutto questo c’è molta propaganda ma anche occhi molto smaliziati stentano a trovarci coerenza e sostanza. Nessuno si augura un domani di riveder di nuovo pascolare i Gentiloni, i Renzi, gli Alfano, le Camusso. Ma bisogna anche essere consapevoli di cosa sta accadendo anche da altre parti della politica. Perché si sta preparando l’ennesima turbolenza per questo paese, comunque vada. E i convegni del genere “imprese per un paese che cambia” queste turbolenze non le governano, al massimo ne vengono governati. Oppure vengono spazzati via e avanti il prossimo.(“Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali”, da “Senza Soste” dell’11 aprile 2017).La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.
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Berlino ha stravinto, ora può solo scegliere come perdere
L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?«Se gli Stati Uniti decidono che a loro conviene avere a che fare con un’Europa politicamente divisa, economicamente a pezzi e socialmente instabile, allora sostenere l’euro è per loro la scelta migliore», quella del “divide et impera”. Ma siamo sicuri che convenga, a Washington? Se invece gli Stati Uniti ritengono che un’Europa in buona salute dal punto di vista politico ed economico possa essere un alleato più utile sullo scenario globale, allora – sempre secondo l’analisi di Bagnai, ripresa da “Voci dall’Estero” – dovrebbero «promuovere uno smantellamento controllato dell’euro». Attenzione: «Disfare l’euro non sarà privo di costi». In ogni caso, però, «saranno costi comunque inferiori a quelli che comporta l’alternativa», ovvero il protrarre questa paurosa stagnazione dell’economia europea e quindi mondiale, oltre al rischio crescente di una grave crisi finanziaria. Stagnazione che, peraltro, produce gravi conseguenze sull’economia globale, derivando anche da «regole europee sbagliate per gestire gli enormi squilibri creati da istituzioni europee viziate in partenza».L’integrazione economica europea, insiste Bagnai, ebbe un ruolo-chiave nel promuovere la prosperità della parte occidentale del continente, quando quella orientale era sotto il dominio dell’Urss. Poi, di colpo, la caduta la Cortina di Ferro «riportò sulla scena quella che era stata per secoli la causa principale di grandi sofferenze: la difficile relazione tra Francia e Germania». Il motivo del fallimento dell’euro, definito “sbrigativo matrimonio di convenienza” tra Parigi e Berlino? «E’ lo stesso che diede il colpo di grazia agli accordi di Bretton Woods», che stabilirano il dollaro come valuta internazionale: «Entrambe le due istituzioni promuovono la nascita di squilibri esterni, anche se per ragioni diverse». C’è sempre un peccato originale: quello del sistema di Bretton Woods «era stato l’adozione della valuta di uno Stato come valuta mondiale», mentre quello dell’euro «è stato l’adozione di una valuta senza Stato come valuta regionale». Il loro difetto comune? «La presenza di un tasso di cambio fisso, che impedisce l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti».Il sistema di Bretton Woods è durato a lungo, ricorda Bagnai, grazie al carattere dei mercati finanziari, che allora erano regolamentati, e alla capacità di visione del paese leader, gli Stati Uniti. «Di entrambe le cose non c’è traccia in Eurozona, dove è promossa una libertà di movimento dei capitali senza restrizioni, in assenza di qualsivoglia autorità regionale di supervisione, e dove il leader regionale, la Germania, è con ogni evidenza ossessionato da una oltremodo miope smania di accrescere il più possibile il suo surplus esterno». L’estrema rigidità dell’euro «ha incentivato il mercantilismo», cioè «la tentazione di tesaurizzare i capitali internazionali invece di reinvestirli nell’economia mondiale», e la pulsione mercantilista orienta il commercio a vantaggio dei paesi del nucleo centrale, la cui valuta in termini reali è sottovalutata, preservando il valore delle loro attività nette sull’estero. «Ma il presunto vincitore nella gara dell’euro, la Germania, si ritrova ora in un vicolo cieco», continua Bagnai. «Se vuole mantenere in vita l’Eurozona, deve accettare le politiche monetarie estremamente espansive della Bce». Viceversa, «una politica monetaria più restrittiva darebbe sollievo ai creditori, ma esattamente per lo stesso motivo provocherebbe il crollo istantaneo dei paesi debitori, rendendo loro ben difficile sostenere il debito».Se invece crescessero i redditi, nei paesi debitori, questo «rilancerebbe il debito estero, tornando a incentivare gli squilibri che hanno provocato la crisi». Secondo il Tesoro Usa, la Germania è riuscita a stravincere «grazie a manipolazioni del Forex», il mercato globale decentralizzato, nel quale tutte le valute del mondo vengono scambiate in ogni momento ad un prezzo concordato. I tedeschi si sono serviti di un euro «fortemente svalutato» per sfruttare gli Usa e gli altri partner commerciali: questa l’accusa di Peter Navarro, capo del National Trade Council degli Stati Uniti, secondo cui «l’euro è un marco travestito». Ma ora, aggiunge Bagnai, Berlino può solo scegliere come perdere: tutto in un colpo (per il collasso dei suoi debitori) o a poco a poco (a causa di tassi di interesse nulli o negativi). L’Europa è in declino, conclude l’economista, ma è ancora troppo grande per crollare senza terremotare il resto del mondo. Secondo i massimi economisti Usa, l’euro ha le ore contate. «La causa più probabile sarà un collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé quello tedesco. È nell’interesse di qualsiasi potere politico, certamente dei vacillanti leader europei, ma probabilmente anche degli Stati Uniti, gestire – piuttosto che subire – questa conclusione».L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?
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Trump, cioè il caos: nemmeno Wall Street sa cosa voglia
Sui media alternativi più rispettabili, come “Alternet”, esperti come Ian Frel descrivono Trump come «un disastro tossico multiforme, la cui presenza alla Casa Bianca è un danno alla psiche collettiva degli Stati Uniti d’America». Trump non gode di molte altre simpatie sui media, obiettivamente. Ok, questi sono i media, e lo sappiamo che mai ci si deve affidare a loro, anche se alternativi e rispettabili. Per capire cosa significa Donald Trump alla Casa Bianca l’unica via è leggere cosa dicono i Signori dei soldi, i Signori dei miliardi che girano per il mondo. Ecco cosa dicono di Donald Trump i Signori del Vero Potere (e coincide coi media di cui sopra, ops!): «Noi di Goldman Sachs e i nostri clienti, ci chiediamo cosa significa questo fenomeno Trump, cioè la sua retorica opposta alla realtà, e a cosa questo ci porta. Quello che stiamo cercando di capire è, attraverso la nebbia delle sue affermazioni, o ‘sparate’, cosa sia ottenibile o meno», afferma Michaeal Pease, capo di Gs Government Affairs. «Il problema per gli investitori europei e americani è capire cosa diavolo aspettarsi da Trump, visto che Trump non ha ancora dato segnali di nessun tipo».Jp Morgan aggiunge in una nota agli investitori: «Ci aspettavamo un programma di de-regolamentazione, di riforma delle tasse, di ampliamento della spesa pubblica, ma poi Trump se n’è uscito con bordate contro gli scambi internazionali, contro l’immigrazione, e questo ha preoccupato gli investitori, e i mercati non hanno preso ’ste cose non molto bene. Crediamo che per la crescita degli americani tutto questo non sia proprio meraviglioso. I mercati non hanno preso bene la sua retorica sull’immigrazione, no, proprio no». Goldman Sachs aggiunge, per bocca di Alec Philips, capo del dipartimento analisi dell’economia Usa, che «l’amministrazione Trump è persa nelle nebbie, non ha ancora confermato neppure la metà dei suoi funzionari, sono lentissimi, lasciano gli investitori nell’incertezza, e questo a Goldman Sachs significa un colloquio estremamente difficile coi nostri clienti». Allora, non vi annoio con tutti i dettagli che vengono da Gs o da Jpm, ma ciò che va capito del presidente del mondo – perché presidente del mondo lo è da 60 anni l’uomo che siede alla Casa Bianca – è che nel caso di Trump siamo in presenza del… caos.Trump è riuscito nell’impresa di alienare non solo i democratici, cosa scontata, ma anche le frange più estreme dell’estremissimo Partito Repubblicano, come il Tea-Party, cioè l’ultra-destra della destre Usa. Le sue promesse sui tagli alle tasse delle aziende sono giudicate da quelli che contano, cioè Goldman Sachs e Jp Morgan, come al meglio “fumose”; ha fallito, come sapete, nella riforma della sanità; non è amato per nulla neppure dal cuore del suo partito, cioè i repubblicani; e, come detto, neppure dagli estremisti di quel partito, ancora non ha fatto nulla che sia degno di nota o d’infamia! Il fatto è che Trump voleva ripudiare qualsiasi cosa avesse fatto quel (criminale sociale e internazionale di…) Obama, ma senza metterci gli stessi fondi. E questo lo ha affondato nel ridicolo. Goldman Sachs ci dice anche che tutta la fanfara sulla deregolamentazione promessa da Trump è solo… fanfara, perché ancora non ha piazzato nessuno che si rispetti a fare quel lavoro. E sui tagli alle tasse? Il consenso degli esperti di Goldman Sachs, Jp Morgan, e di Citi, è che Trump non ha la più pallida idea di come procedere. E allora?Allora auguri. Trump è il caos, anche nei giudizi del Vero Potere. Il politically correct delle sinistre (sinistre per modo di dire) americane ha solo nutrito la disperazione dei populismi in Usa mentre nutriva l’1% degli americani a suon di miliardi, e ora abbiamo questo caos chiamato Trump. In Europa il Pd italiano, i socialisti francesi e i laburisti inglesi, cioè le sinistre falsarie e pro-finanza a tutto gas, ci consegneranno la stessa minestra, cioè i nostri locali Trump, siano essi chiamati Le Pen o Salvini. Ok, inutile dire, scrivere, o agitarsi. Accadrà, prima, o poi. Lo sappiamo bene: gli Usa sono il nostro modello comandato sempre 20 o 30 anni prima (io vi avevo avvisati).(Paolo Barnard, “Il Trump dei media, il Trump dei padroni del mondo, e noi fessi”, dal blog di Barnard del 1° aprile 2014).Sui media alternativi più rispettabili, come “Alternet”, esperti come Ian Frel descrivono Trump come «un disastro tossico multiforme, la cui presenza alla Casa Bianca è un danno alla psiche collettiva degli Stati Uniti d’America». Trump non gode di molte altre simpatie sui media, obiettivamente. Ok, questi sono i media, e lo sappiamo che mai ci si deve affidare a loro, anche se alternativi e rispettabili. Per capire cosa significa Donald Trump alla Casa Bianca l’unica via è leggere cosa dicono i Signori dei soldi, i Signori dei miliardi che girano per il mondo. Ecco cosa dicono di Donald Trump i Signori del Vero Potere (e coincide coi media di cui sopra, ops!): «Noi di Goldman Sachs e i nostri clienti, ci chiediamo cosa significa questo fenomeno Trump, cioè la sua retorica opposta alla realtà, e a cosa questo ci porta. Quello che stiamo cercando di capire è, attraverso la nebbia delle sue affermazioni, o ‘sparate’, cosa sia ottenibile o meno», afferma Michaeal Pease, capo di Gs Government Affairs. «Il problema per gli investitori europei e americani è capire cosa diavolo aspettarsi da Trump, visto che Trump non ha ancora dato segnali di nessun tipo».
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Ventotene: sogno federale, imperialismo reale Usa-Berlino
È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.Tutto ciò semplicemente il loro interesse. Essi hanno realizzato, in effetti, una situazione in cui l’unificazione è stata resa definitivamente impossibile da due fattori: l’inclusione dell’Unione Europea di paesi troppo eterogenei come la Grecia, la Romania e la Bulgaria (e premevano per includere persino la Turchia!), per consentire un’integrazione economica e politica; l’euro e i suoi vincoli finanziari, che hanno trasferito il potere decisionale dai paesi debitori (condannati alla recessione-deindustrializzazione), e dalle istituzioni comunitarie, pressoché impotenti (perché prive di forza propria), alla potenza creditrice, cioè alla Germania. Quest’ultima ora da un lato è il paese più direttamente e tecnicamente controllato da Washington, anche attraverso il giuramento di fedeltà agli Usa che ogni cancelliere tedesco presta prima di assumere l’incarico (la “Kanzlerakte”, introdotta con trattato segreto il 21 aprile 1949, valido fino al 2099); dall’altro lato, si comporta nei confronti dei paesi più deboli, con la sua storicamente costante, aggressiva prepotenza, saccheggiandone le risorse finanziarie e industriali, soprattutto attraverso i prestiti predatori, appoggiata spesso dalla Francia, come ha fatto clamorosamente con Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Italia. E arrivando persino a cambiare i governi di alcuni di questi paesi per mettere loro fiduciari che assicurino i profitti criminali dei loro banchieri d’assalto.“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titola il 13 luglio 2015 in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie, appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti di una strategia di dominazione.La Germania di oggi è dunque rimasta, psicologicamente e politicamente, la Germania di Bismarck e delle due guerre mondiali, la Germania del suprematismo, della politica di potenza e minaccia, che si sente circondata da vicini minacciosi quindi costretta ad attaccare, sottomettere e sfruttare i suoi vicini per la propria sicurezza, oggi anche finanziaria, usando anche le istituzioni comunitarie. E con una tale Germania, che non è cambiata, in queste sue caratteristiche, dopo tutto ciò che ha passato, e che probabilmente non cambierà mai, così come con questo dominio statunitense, è a priori impossibile realizzare un’Europa unita, un’unione che sia qualcosa di diverso da uno strumento di dominio e sfruttamento di Berlino sugli altri. Quindi meglio restare indipendenti, come ha scelto il Regno Unito, ciascuno a custodire i propri interessi in modo trasparente, facendo liberi accordi con gli altri paesi, possibilmente su un piano di parità. Tanto, una guerra tra paesi europei è comunque impossibile dati i rapporti di forza, le interdipendenze economiche e finanziarie, la presenza di potenze nucleari, il controllo Usa. Non serve l’Ue, per assicurare la pace.Alla luce dei precedenti storici e del fatto che i rapporti politici internazionali sono guidati dagli interessi particolari, concorrenziali e dai rapporti di forza e non da sentimenti, solidarietà e ideali, il Manifesto di Ventotene, col suo progetto federalista europeo, era già quando nacque un progetto irrealistico e infantile; la sua ingenuità è comprensibile e scusabile date le condizioni psicologiche dei suoi autori, che li potevano portare a scambiare il desiderabile con il realizzabile, a perdere il senso dell’utopia. Non è comprensibile né scusabile, per contro, anzi è atto di radicale disonestà culturale, l’insistere oggi su quel progetto come se fosse un progetto realistico e realizzabile, soprattutto realizzabile partendo dalla struttura istituzionale dell’Unione Europea, che non solo è corrotta, antidemocratica, burocraticamente demenziale e fallimentare in tutte le sue iniziative principali, dalla Pac in poi, ma per giunta è stata soppiantata ed espropriata da Berlino, che la ha ridotta a foglia di fico dal suo imperialismo continentale. Insistere in questi termini per l’”unificazione federalista europea” anziché denunciare e contrastare questa “Unione”, i suoi “progressi”, il suo “metodo comunitario”, assieme a questa politica di potenza tedesca, e agli effetti del loro combinato, è un agire per peggiorare le cose, un agire in mala fede, quindi una precisa colpa politica e morale.(Marco Della Luna, “Ventotene: sono federale, imperialismo reale” dal blog di Della Luna del 31 agosto 2016).È ed era del tutto irrazionale pensare che gli Stati Uniti permettano che l’Europa si unifichi e diventi così un loro concorrente globale. Gli Usa, a seguito della seconda guerra mondiale, mantengono tuttora una massiccia presenza militare di controllo in Germania, Italia, Belgio, Olanda e la mantengono a titolo di occupazione e controllo, non certo per difesa contro un Patto di Varsavia che non c’è più, anche se ora gli Usa si sforzano di spingere l’Europa al conflitto con la Russia lavorando sull’Ucraina. È invece razionale e confermato dai fatti che gli Stati Uniti usano la loro posizione di potenza occupante proprio per assicurarsi che quell’unificazione non avvenga. Per gli Usa, l’assetto conveniente dell’Europa non è federale, come quello sognato a Ventotene, ma un assetto in cui la principale potenza continentale, la Germania, saldamente controllata da Washington, saldamente antisolidale verso gli altri europei, domina politicamente ed economicamente questi ultimi, impone politiche restrittive e recessive che impediscano la loro crescita economica, difende una moneta con cambio alto sul dollaro che limiti la concorrenzialità europea, ed alimenta la disunione e le divergenze e contrapposizioni nel Vecchio Continente, per impedire che si unisca. E uomini di Goldman Sachs che controllano la Bce e, attraverso di esse, le banche centrali nazionali.
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Come (non) uscire dall’euro, versione 5 Stelle
L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su “Reuters” a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il vicepresidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare primo ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie. Il modo in cui prefigura l’uscita dall’euro è incredibilmente ingenuo – attraverso un ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l’uscita dall’euro non è una priorità assoluta per il suo partito.E’ un po’ come dire che si sta progettando di lanciare una guerra nucleare, è vero, solo che non è in cima all’agenda. Ha detto: «Non è vero che il Movimento 5 Stelle vuole portare l’Italia fuori dall’euro… vogliamo che siano gli italiani a decidere». Ha detto che il referendum dovrebbe essere preceduto da un iter legislativo che prepari il terreno. E potrebbero anche non tenerlo, se le istituzioni europee si dimostrano assennate. L’ha messa così, senza entrare nei dettagli di cosa intende. Lo interpretiamo come voler tenere una porta aperta alla decisione di rimanere nella zona euro. Ma, purtroppo, in pratica non è così che funzionerà. Il futuro di lungo periodo dell’Italia nell’euro è davvero incerto, e si può facilmente pensare a tutta una serie di scenari, inclusi gli scenari di uscita. Ma c’è uno scenario che possiamo escludere con assoluta certezza: l’uscita dall’euro attraverso un referendum.Se i 5 Stelle vincono, il che è possibile, ci vorranno dai 2 ai 5 secondi dal primo exit poll perché i tassi di interesse italiani si impennino fino a livelli di crisi, o anche oltre, perché gli investitori dovranno scontare nel prezzo la probabilità non trascurabile di un default, dato che i referendum sono intrinsecamente imprevedibili. Nel momento in cui diventa primo ministro, Di Maio si troverà a gestire una crisi finanziaria. Non possiamo escludere un’uscita dell’Italia dall’euro a seguito di una situazione di panico nei mercati. Né si può escludere lo scenario di un governo italiano che tira fuori un piano, a lungo preparato, per introdurre una moneta parallela, con chiusura delle banche durante un lungo week-end. Ma possiamo escludere un processo ordinato grazie al quale l’Italia cambia la sua Costituzione, e quindi consente di procedere a un referendum sull’euro. Non ci si arriverà mai. Gli eventi precipiteranno ben prima.Una ragione per cui siamo così certi di questo è che la Banca Centrale Europea, che ha la capacità definitiva di mettere a tappeto qualsiasi attacco dei mercati alla zona euro, non sarà disposta o non potrà aiutare un governo che non si considera vincolato all’euro. Non potrebbe dare avvio al programma Omt per sostenere un governo non conforme. Una più probabile sequenza politica di eventi è quella che chiamiamo lo scenario Huey Long, dal nome del governatore della Louisiana che, a quanto si dice, la notte delle elezioni dichiarò ad un suo assistente la sua intenzione di non mantenere la promessa di tagliare le tasse: «Dite loro che ho mentito». Di Maio o dovrà fare come Huey Long, o dovrà preparare una legislazione di emergenza per uscire dall’euro. In ogni caso, ciò che risulta molto chiaro dall’intervista è che questo giovane uomo è del tutto impreparato. Lasciare l’euro sarebbe la più importante decisione per l’Italia dalla firma del Trattato di Roma, sessant’anni fa. Sarebbe meglio essere pronti. Non è certo un punto secondario nella lista della cose da fare.(Wolfgang Munchau, “Eurointelligence: come ‘non’ uscire dall’euro, versione 5 Stelle”, dal “Financial Times” del 24 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).L’unica lezione veramente importante che possiamo trarre dall’episodio di Varoufakis nel 2015 è che, se si vuole lasciare l’euro, si deve essere preparati – sia politicamente che dal punto di vista logistico. Lasciare l’euro non è un semplice punto di programma in una piattaforma politica, un qualcosa di cui parlare con nonchalance in una tavola rotonda o su cui tenere un referendum. È una questione più grossa della stessa Brexit. L’uscita da una moneta unica non può mai essere un processo ordinato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Nel leggere questo resoconto di Gavin Jones su “Reuters” a proposito della conferenza stampa di Luigi Di Maio, ci ha colpito il fatto che il vicepresidente della Camera dei deputati, l’uomo che ha le maggiori probabilità di diventare primo ministro italiano nel caso le tendenze attuali dovessero persistere, si sta preparando a un fallimento monumentale. Di Maio, 30 anni, è un giovane uomo senza nessuna esperienza di crisi valutarie. Il modo in cui prefigura l’uscita dall’euro è incredibilmente ingenuo – attraverso un ordinato iter legislativo. In una conferenza stampa ha dichiarato che l’uscita dall’euro non è una priorità assoluta per il suo partito.
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Il Def 2018: aumentare l’Iva o svendere Trenitalia e Poste
Aumentare l’Iva, o cedere altre quote di Trenitalia e Poste Italiane, attraverso privatizzazioni-svendita per placare Bruxelles e arginare il debito pubblico. «Dimenticate per un attimo la scaramuccia fra Roma e Bruxelles sulla correzione dei conti da tre miliardi attesa entro fine aprile. Le probabilità che l’Italia vada al voto prima del 2018 sono ormai prossime allo zero. Ciò permette a Gentiloni di allungare lo sguardo oltre quello che nella Prima Repubblica chiamavano l’orizzonte balneare», scrive Alessandro Barbera sulla “Stampa”, alludendo alle riunioni in corso a Palazzo Chigi sulla manovra per il 2018, che si annuncia una super-stangata. Bruxelles attende entro il 10 aprile il testo del Def, il Documento di economia e finanza, di fatto la bozza della legge di bilancio per l’autunno. «Oggi le procedure europee rafforzate impongono che quei numeri siano scritti con coerenza e realismo». Insieme a Gentiloni, se occupano i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, «il trio che ha preso le redini del governo dopo l’uscita di scena di Renzi». Punto di partenza: una clausola di salvaguardia da quasi 20 miliardi di euro, pari ad un aumento dell’ultima aliquota Iva al 25% per cento dal 1° gennaio.«A Bruxelles sono perfettamente consapevoli delle conseguenze potenzialmente devastanti di un simile aumento delle tasse sulla crescita italiana, così come lo sarebbe un taglio alle spese della stessa entità», scrive Barbera sulla “Stampa”, in un articolo ripreso da “Dagospia”. «Nelle trattative già avviate fra Roma e Bruxelles si ragiona già su un compromesso per dimezzare quel pesante fardello». Nei piani europei, l’Italia avrebbe dovuto far scendere il deficit di quest’anno all’1,8%, e poi all’1,2 nel 2018. Quest’anno si è fermato al 2,3%, ma la correzione chiesta entro aprile da Bruxelles dovrebbe far ridiscendere l’asticella al 2,1. «Se la trattativa andrà in porto, il Def per il 2018 potrebbe indicare un deficit fra l’1,9 e il 2%, sette-otto decimali sopra gli attuali obiettivi ma in ogni caso in una traiettoria ancora discendente». Per l’Italia, significherebbe uno “sconto” di circa 10-11 miliardi di euro. «Ciò non significa che la manovra per il 2018 non sarà impegnativa», avverte Barbera. «La finestra di opportunità spalancata due anni fa da Mario Draghi con il piano di acquisto titoli della Bce si sta lentamente chiudendo: l’inflazione sta salendo, e con essa la pressione tedesca perché viri la rotta della politica monetaria».Il Def ne prenderà atto, prevedendo per il 2018 l’inizio del “tapering” da parte di Francoforte; la conseguenza sarà un aumento dei rendimenti sui titoli pubblici e della spesa per onorare il debito. «Se l’azionista di maggioranza del governo – ovvero Renzi – insisterà nel dire no ad un aumento anche solo lieve dell’Iva (al Tesoro da tempo accarezzano l’ipotesi di ritoccarla di un punto), dovrà accettare una forte riduzione della spesa pubblica nell’ordine di qualche miliardo di euro». La questione che più preoccupa Bruxelles, conclude “La Stampa”, resta la sostenibilità del debito italiano: «Per questo, il Def prometterà anche quest’anno una lieve riduzione dello stock da finanziare con i proventi da privatizzazioni: su tutte Trenitalia e una nuova tranche di Poste. Quelle privatizzazioni che ormai trovano l’aperto dissenso di esponenti e ministri Pd», anche rappresentano un altro duro colpo al futuro del paese, costretto a tagliare su tutto a causa del rigore imposto dal regime monetario dell’euro.Aumentare l’Iva, o cedere altre quote di Trenitalia e Poste Italiane, attraverso privatizzazioni-svendita per placare Bruxelles e arginare il debito pubblico. «Dimenticate per un attimo la scaramuccia fra Roma e Bruxelles sulla correzione dei conti da tre miliardi attesa entro fine aprile. Le probabilità che l’Italia vada al voto prima del 2018 sono ormai prossime allo zero. Ciò permette a Gentiloni di allungare lo sguardo oltre quello che nella Prima Repubblica chiamavano l’orizzonte balneare», scrive Alessandro Barbera sulla “Stampa”, alludendo alle riunioni in corso a Palazzo Chigi sulla manovra per il 2018, che si annuncia una super-stangata. Bruxelles attende entro il 10 aprile il testo del Def, il Documento di economia e finanza, di fatto la bozza della legge di bilancio per l’autunno. «Oggi le procedure europee rafforzate impongono che quei numeri siano scritti con coerenza e realismo». Insieme a Gentiloni, se occupano i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, «il trio che ha preso le redini del governo dopo l’uscita di scena di Renzi». Punto di partenza: una clausola di salvaguardia da quasi 20 miliardi di euro, pari ad un aumento dell’ultima aliquota Iva al 25% per cento dal 1° gennaio.
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Giannini: e se adesso le riforme salva-Italia le fa Gentiloni?
«Ha ragione, Paolo Gentiloni: i governi non fanno miracoli. Ma se non ci prova lui, cosa ci sta a fare a Palazzo Chigi fino al 2018? Cos’ha da perdere questo governo nato sulle macerie del renzismo, tra Gigli Magici appassiti e schizzi fetidi di fango, insanabili scissioni tafazziane e improbabili lezioni californiane?». Ora vogliamo tagliare le tasse sul lavoro, annuncia il premier. È un buon inizio, per Massimo Giannini: «La stagione dei bonus, inutili e costosi, è finita». Ed è anche “un buon indizio”: il governo non vuole limitarsi a galleggiare. «Ma per curare le “cicatrici della crisi” serve una vera e propria terapia d’urto, potente e sorprendente». Può sembrare un paradosso, scrive l’editorialista di “Repubblica”, ma Gentiloni «ha un’occasione irripetibile per osare l’inosabile», nonostante siamo tutti distratti perché «troppo immersi nella torbida “Saga dei Romeo’s” (le polizze vita di Salvatore e le mazzette Consip di Alfredo)». La prima ragione nasce dalla politica monetaria. «Se in questi tre anni l’Italia non ha rivissuto il novembre nero berlusconiano del 2011, questo si deve solo a Mario Draghi», sostiene Giannini. «Dal 2013 al 2016 gli acquisti di titoli di Stato effettuati da Bankitalia e Bce sono passati da 95 a 266 miliardi. Quelli compiuti dalle banche sono cresciuti da 275 a 415 miliardi. I tassi di interesse a quota zero e il Quantitative easing ci hanno salvato. Ora tutto questo sta per finire».Spinto dalle pressioni tedesche e da un’inflazione appena risalita al 2% nell’Eurozona, Draghi a breve aumenterà i tassi. E da ottobre avvierà il cosiddetto “tapering”: cioè ridurrà gradualmente gli acquisti di bond sovrani sui mercati secondari, fino a interromperli del tutto a marzo 2018. «A quel punto l’Italia sarà senza rete: qualunque shock politico-finanziario ci esporrà alla sindrome greca». Dunque, secondo Giannini, questa “finestra” temporale Gentiloni deve usarla subito, prima che si richiuda per sempre. La seconda ragione per un clamorso cambio di passo nascerebbe dalla politica economica: «Il paese ha davanti a sé una micidiale corsa in tre tappe: manovra aggiuntiva, Documento di Economia e Finanza, Legge di stabilità. Se ci illudiamo di poterla affrontare in “surplace”, ci condanniamo a una caduta rovinosa». Per Giannini, «al punto in cui siamo serve uno scatto, che deve passare da un’ammissione e da un’ambizione. L’ammissione riguarda la manovrina da 3,4 miliardi: ammettiamo di aver sbagliato (Renzi ha scommesso “contro” Bruxelles e ha perso) e facciamola subito. L’ambizione riguarda il Def e la manovra d’autunno». Gentiloni sembra aver chiari i problemi da aggredire: tasse sul lavoro e investimenti. «Ora si tratta di intendersi sulla qualità e sulla quantità degli interventi».Secondo il giornalista, «abbattere il cuneo fiscale, a vantaggio delle imprese e dei lavoratori, è la via maestra sulla quale concentrare tutti gli sforzi». Ma attenzione: «Se il taglio sarà solo di 3-5 punti si rischia un nuovo flop (in stile 80 euro)». Un taglio magari utile sul piano statistico, «perché riavvicinerà il nostro costo del lavoro (esploso dal 36,8 al 49% tra il 2000 e il 2016) a quello della Germania», ma nei portafogli delle imprese e nelle tasche dei lavoratori il beneficio sarà modesto, quasi nullo. «Lo dimostrano gli esperimenti degli ultimi 16 anni, dal governo D’Alema nel 2000 al governo Prodi nel 2007 (che fu proprio di 5 punti, pari a 7 miliardi)». No, serve uno sforzo molto maggiore. E la stessa cosa vale per gli investimenti. «La vera sfida, adesso, non riguarda più solo gli investimenti privati (cresciuti del 2,9% nel 2016), ma quelli pubblici (crollati del 5,4%)». Questa, scrive Giannini, è la prova più dolorosa del fallimento delle politiche economiche di questi anni: «Abbiamo “estorto” all’Europa 19 miliardi di flessibilità, e siamo riusciti a sprecarli senza aumentare di un euro la domanda pubblica, e riducendola addirittura di altri 2 miliardi».Non solo: «Il Jobs Act era stato “venduto” come volano per l’arrivo di enormi flussi di capitali dall’estero (Renzi disse in tv che aveva già la lista delle multinazionali pronte ad entrare) ma purtroppo nel primo semestre 2015 è successo il contrario: gli investimenti diretti esteri sono scesi a 7,8 miliardi, con un crollo del 40,6%». Se questo è il quadro generale, osserva l’analista di “Repubblica”, Gentiloni avrebbe «una chance formidabile». Addirittura «un’operazione storica e, finalmente, davvero strutturale». Ovvero: «Un grande piano di riduzione del cuneo fiscale di almeno 10 punti, e un grande programma di rilancio degli investimenti pubblici (dalle infrastrutture di rete alla banda larga)». Per Giannini, «su un progetto del genere può valere la pena di giocarsi l’osso del collo. In Parlamento a Roma, e in Commissione a Bruxelles». Del resto, «qual è l’alternativa? Continuare a ballare sotto il Vulcano?». Per come siamo messi, conclude Giannini, «la vecchia morale andreottiana può funzionare solo al contrario: piuttosto che tirare a campare, meglio tirare le cuoia».«Ha ragione, Paolo Gentiloni: i governi non fanno miracoli. Ma se non ci prova lui, cosa ci sta a fare a Palazzo Chigi fino al 2018? Cos’ha da perdere questo governo nato sulle macerie del renzismo, tra Gigli Magici appassiti e schizzi fetidi di fango, insanabili scissioni tafazziane e improbabili lezioni californiane?». Ora vogliamo tagliare le tasse sul lavoro, annuncia il premier. È un buon inizio, per Massimo Giannini: «La stagione dei bonus, inutili e costosi, è finita». Ed è anche “un buon indizio”: il governo non vuole limitarsi a galleggiare. «Ma per curare le “cicatrici della crisi” serve una vera e propria terapia d’urto, potente e sorprendente». Può sembrare un paradosso, scrive l’editorialista di “Repubblica”, ma Gentiloni «ha un’occasione irripetibile per osare l’inosabile», nonostante siamo tutti distratti perché «troppo immersi nella torbida “Saga dei Romeo’s” (le polizze vita di Salvatore e le mazzette Consip di Alfredo)». La prima ragione nasce dalla politica monetaria. «Se in questi tre anni l’Italia non ha rivissuto il novembre nero berlusconiano del 2011, questo si deve solo a Mario Draghi», sostiene Giannini. «Dal 2013 al 2016 gli acquisti di titoli di Stato effettuati da Bankitalia e Bce sono passati da 95 a 266 miliardi. Quelli compiuti dalle banche sono cresciuti da 275 a 415 miliardi. I tassi di interesse a quota zero e il Quantitative easing ci hanno salvato. Ora tutto questo sta per finire».
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Può finire il Pd, non il romanzo criminale che sabota l’Italia
In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.Nella sua visione da criminologo, Barnard fa i nomi: Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi vietarono alla Banca d’Italia di continuare a fare da “bancomat del governo” a costo zero, imponendo allo Stato, da quel momento, di finanziarsi diversamente: ricorrendo cioè alla finanza privata attraverso l’emissione di bond, a beneficio della grande finanza, cui da allora lo Stato avrebbe riconosciuto lauti interessi, facendo esplodere il debito pubblico. Poi l’euro, cioè l’istituzionalizzazione definitiva della “trappola finanziaria”: lo Stato non può più fare retromarcia, deve “prendere in prestito” la moneta emessa da un soggetto esterno, la Bce, i cui azionisti sono le banche centrali non più pubbliche, ma controllate da cartelli bancari privati. A quel punto è l’euro a imporre la sua legge, attraverso la Commissione Europea, cioè il governo non-eletto dell’Europa. E la Commissione Europea vara la norma finale, esiziale, per qualsiasi governo democratico: il pareggio di bilancio, che equivale al decesso finanziario dello Stato. In regime di sovranità (Usa, Giappone, resto del mondo) il debito pubblico misura la salute del paese: più il deficit è alto, più l’economia è prospera. L’Unione Europea inverte i termini del paradigma: taglia la spesa pubblica, e ottiene crisi. L’Italia, addirittura, ha inserito il pareggio di bilancio in Costituzione. E, peggio ancora, da anni il bilancio italiano è in “avanzo primario”: per i cittadini, lo Stato spende meno di quanto i contribuenti versino in tasse.Come si è arrivati a questo? Smantellando la sinistra, risponde Barnard, citando l’avvocato Lewis Powell, uno stratega di Wall Street incaricato dalla Camera di Commercio Usa, all’inizio degli anni ‘70, di redigere un vademecum per guidare l’élite, spodestata dalla democrazia sociale nel dopoguerra, verso la riconquista dell’atavico potere perduto. Detto fatto, come da manuale: leader radicali stroncati, leader riformisti “comprati” per annacquare i loro partiti e sindacati, rendendoli docili e spingendoli a convincere i loro elettori ad accettare “riforme” concepite per “smontare” le tutele sociali, privatizzando progressivamente l’economia. Campioni assoluti, in Italia: personaggi come Romano Prodi, Giuliano Amato e Massimo D’Alema. Berlusconi? Irrilevante: si è limitato a proteggere i suoi interessi. Gli artefici delle “riforme strutturali” provengono tutti dalla sinistra storica: la più adatta, come insegna Lewis Powell, a convincere la società ad affrontare dolorosi “sacrifici”, magari imposti sulla base di norme senza alcun fondamentio economico, come il famigerato limite alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil. Una invenzione di François Mitterrand, come ricorda l’economista Alain Parguez, allora consulente del presidente francese. Mitterrand? «Un monarchico, travestito da socialista». L’ennesima maschera della sinistra messasi al servizio del supremo potere oligarchico, neo-feudale, ansioso di sbarazzarsi dell’ingombro della democrazia per tornare all’antico splendore.La “mente” di Mitterrand? Jacques Attali, che Barnard definisce “il maestro” di D’Alema, l’ex comunista italiano che, da Palazzo Chigi, vantò il record europeo delle privatizzazioni. Nel suo libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Gioele Magaldi aggiunge un ulteriore filtro alla lettura di Barnard, quello super-massonico, derivate dal potere di 36 organizzazioni segrete, denominate Ur-Lodges, in cui gli uomini del massimo vertice mondiale – finanziario, industriale, militare, politico – disegnano le loro trame, per condizionare governi e paesi. Di Jacques Attali, Magaldi e Barnard offrono un ritratto preciso: l’ennesimo uomo di sinistra, “convertitosi” alla causa dell’oligarchia. E’ uno smottamento che investe l’intero Occidente: i Clinton e poi Obama negli Usa, Tony Blair in Gran Bretagna, Mitterrand in Francia, Gerhard Schröder in Germania con la riforma Hartz che introduce la flessibilità nel lavoro dipendente e i mini-salari dei minijob. Poi arrivano le Merkel e i Trump, ma il “lavoro sporco” l’hanno già fatto gli “amici del popolo”, quelli che ancora oggi in Italia cantano Bandiera Rossa e Bella Ciao, dopo aver votato la legge Fornero e le finanziarie-suicidio di Mario Monti, che per Magaldi milita, insieme a Giorgio Napolitano, nella Ur-Lodge “Three Eyes”, la stessa di Attali, storicamente guidata da personalità come quelle di David Rockefeller ed Henry Kissinger, fondatori della Trilaterale.Anche in Italia, il cortocircuito finanziario introdotto con l’euro (lo Stato improvvisamente in bolletta) si è trasformato in crisi economica, quindi sociale. Ma, ovviamente, il “più grande crimine”, il sabotaggio della sovranità e quindi della democrazia, non è mai stato neppure lontanamente sfiorato dalla cosiddetta sinistra radicale dei Bertinotti e dei Vendola, né tantomeno dalla Cgil. Era tanto comodo il “demonio” Berlusconi, per catalizzare i mali del Balpaese, fino a insediare a Palazzo Chigi direttamente la Trojka, il commissario Monti (Trilaterale, Bilderberg, Goldman Sachs) tra gli applausi di tutti i Bersani di Montecitorio. Poi è arrivato Grillo, poi Renzi: come se il Grande Vecchio, lassù, si divertisse un mondo con il suo giocattolo preferito, l’Italia, cioè il paese in cui nessuno denuncia mai il vero problema, e dunque non può trovare soluzioni. Oggi si sbriciola il Pd, ma nulla lascia supporre che finisca il “romanzo criminale”, con i suoi personaggi-marionetta e le loro piccole partite, fatte di primarie e poltrone, correnti e sigle, bullismi, rancori, rivincite e vendette. Vacilla persino l’Unione Europea, sono in atto rivolgimenti di portata mondiale che mettono in discussione i caposaldi della globalizzazione neoliberista. E in Italia sono in campo Renzi ed Emiliano, Di Maio e la Raggi, Salvini e D’Alema, Prodi e Berlusconi, Pisapia e la Boldrini. Ancora una volta, gli amici del Grande Vecchio potranno dormire sonni tranquilli: l’Europa sta per franare, a cominciare dalla Francia, ma non sarà certo l’Italia a impensierire i grandi architetti della crisi.In “Romanzo criminale”, la saga della Banda della Magliana ripercorsa da Giancarlo De Cataldo, nessuno riesce mai neppure a sfiorare il supremo potere del Grande Vecchio, il burattinaio che agisce nell’ombra e, dal Palazzo, manovra i fili che tengono insieme una sceneggiatura anche atroce, in cui si muovono guardie e ladri, terroristi e affaristi, servizi segreti e malavita imprenditrice. Nel saggio “Il più grande crimine”, il giornalista Paolo Barnard ricostruisce in chiave criminologica quello che chiama “economicidio” dell’Italia, in tre mosse: divorzio tra governo e Bankitalia, adesione all’Unione Europea, ingresso nell’Eurozona. Matematico: crisi, disoccupazione, super-tasse, taglio del welfare e dei salari, crollo dei consumi, sofferenze bancarie ed esplosione del debito pubblico, che diviene improvvisamente “tossico” perché non più ripagabile, non più denominato in moneta sovrana liberamente disponibile. A monte: il Memorandum Powell, la guerra storica contro la sinistra dei diritti del lavoro (dalla legge Biagi al Jobs Act), la “crisi della democrazia” evocata dai cantori della Trilaterale, fino alla spazzatura terminale dell’Ue, il Fiscal Compact, la morte clinica del bilancio pubblico degli Stati, ridotti a esattori per la più colossale operazione di money-transfer della storia moderna, dal basso verso l’alto, attraverso la privatizzazione universale neoliberista.