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Se Foa viene eletto, Vietnam in Rai. Ma i 5 Stelle lo votano?
Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.La vera fonte del “sogno”? La prestigiosa loggia rosacrociana “Tre Globi” di Berlino, alla quale Carpeoro – a sua volta massone, già a capo del Rito Scozzese italiano – è rimasto legato. La sconcertante esternazione d’inizio estate, osserva Frabetti, è stata taciuta dai media mainstream (con la sola eccezione del quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro), ma non è certo passata inosservata ai piani alti del potere. Ex caporedattore del “Giornale” e allievo di Indro Montanelli, Marcello Foa è l’autore del dirompente saggio “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina il sistema-media, accusato di fabbricare “fake news”. Ora Foa potrebbe dunque salire finalmente sul gradino più alto della nomenklatura Rai? Nel caso, dice Carpeoro sempre in streaming web con Frabetti, non avrà vita facile: se la “Three Eyes”, foss’anche per colpa dell’imbarazzante “sogno della peperonata”, si vedesse costretta a non ostacolare più l’ascesa di Foa, il neo-presidente sarebbe comunque “assediato”, da subito, dall’ostilità accanita dello stesso establishment che sta “braccando” Salvini, tallonato da vasti settori della magistratura. Ma non è detto che Foa riesca davvero a diventare presidente: tecnicamente, secondo Carpeoro, potrebbe addirittura sbattere contro l’ipotetico veto dei 5 Stelle, in sede di commissione parlamentare di vigilanza.«Chi ha ritenuto che il mio non fosse un sogno ma la verità – dice oggi Carpeoro – può aver pensato che forse, in quel momento, qualcuno lo stesse “sputtanando”». Insomma, la trama della “Three Eyes” era ormai venuta allo scoperto. « Bisogna capire però se l’effetto-sputtanamento è stato solo un modo per guadagnare tempo, per poi vedere di “vendere” in un altro modo il siluramento di Foa, o se invece abbiano proprio deciso di “mollare il colpo”, per poi gestire la faccenda diversamente». Oggi, aggiunge Carperoro, «l’unico modo per silurare ugualmente Foa è premere sui 5 Stelle affinché siano loro a farlo fuori: e quel tipo di potere, questa possibilità ce l’ha». Gli unici che possono affondare la candidatura di Foa, insiste Carpeoro, sono proprio i pentastellati: «Non può più farlo Forza Italia, perché sarebbe una conferma della “peperonata”. Non può farlo Salvini, perché sarebbe una sconfitta troppo grossa, per lui. E non hanno la forza di farlo i vari residui di opposizione». I 5 Stelle, dunque? «Sono gli unici che hanno la possibilità di silurare Foa, ma non so se ne abbiamo la motivazione». Tuttavia potrebbero piegarsi «di fronte a una coercizione grande, da parte di un soggetto come una Ur-Lodge».Attenzione, precisa Carpeoro: «Non dico che lo vogliano fare o che lo faranno, dico solo che – ex ante – gli unici che hanno questa possibilità sono loro: una possibilità concreta, politica, non necessariamente una volontà o un’inclinazione». Morale, il destino di Foa sembra a un bivio: «O viene silurato dai 5 Stelle adesso, o viene eletto. Ma ovviamente, un secondo dopo l’eventuale elezione, entrerebbe in una specie di Vietnam, di Cambogia, dove qualcuno punterà la clessidra e preparerà un conto alla rovescia». Quanto all’affidabilità dei 5 Stelle, non da oggi lo stesso Carpeoro esprime perplessità – soprattutto sul conto di Luigi Di Maio, che considera esser stato ampiamente “sovragestito” proprio da quel genere di poteri forti evocati dal famoso “sogno della peperonata”. Prima ancora delle elezioni, Carpeoro dichiarò ripetutamente che Di Maio entrava e usciva dall’ambasciata Usa di via Veneto a Roma, e che ad accompagnarlo a Washington nei santuari delle Ur-Lodges neo-aristocratiche fosse il politologo Michael Ledeen. Esponente di vertice della supermassoneria sionista, Ledeen è citato da Carpeoro nel suo saggio sui legami fra massoneria e terrorismo islamico targato Isis: lo mette addirittura in relazione all’omicidio del premier svedese Olof Palme, nell’ambito di un opaco circuito di cui facevano parte Licio Gelli e l’allora parlamentare statunitense Philip Guarino.A evocare nuovamente l’ombra delle Ur-Lodges è anche Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un autorevole esponente. Magaldi ha attaccato direttamente il ministro dell’economia, Giovanni Tria: «Un massone non dichiarato ma presentatosi come progressista, eppure oggi allineato al rigore europeo promosso dal supermassone Draghi, che infatti lo ha apertamente elogiato». Carpeoro invita a fare un passo indietro: «I 5 Stelle – ricorda – hanno subito il siluramento del precedente candidato al ministero dell’economia». Si tratta di Paolo Savona, bloccato dal “niet” di Mattarella. «Quindi – prosegue Carpeoro – Tria è la conseguenza di una scelta di campo che i 5 Stelle hanno condiviso, o sbaglio?». In altre parole: l’accettazione di una linea più morbida con Bruxelles, imposta tramite il Quirinale. «A questo punto – conclude Carpeoro – o cambiano idea, o si tengono Tria. Bisogna capire perché dovrebbero cambiare idea (perché si potrebbero tenere Tria, invece, lo sappiamo già)». Quello di Tria è ovviamente un ruolo di garante: tramite minacce, come l’impennarsi dello spread, «il potere che “sovragestisce” l’Europa ha fatto sapere ai 5 Stelle che, senza la presenza di un suo garante, sarebbe cominciata una specie di guerra totale, contro l’Italia, e quindi è passato Tria». Ora, bisogna vedere se è cambiata la situazione: «I 5 Stelle rivendicheranno una maggiore indipendenza? Io ne dubito». Sarebbe quindi possibile mettere sotto pressione Di Maio e soci, al punto da indurli a boicottare Foa?Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.
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Pansa: ho paura per l’Italia, golpe in arrivo o guerra civile
Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero: l’apocalisse: il gioverno gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».Ad accogliere le clamorose esternazioni di Pansa, oltre all’attonita Gruber, Antonio Padellaro del “Fatto” e Marco Damilano de “L’Espresso”, il quale ammette che «l’attuale classe dirigente sollecita le frange estremistiche». Padellaro getta acqua sul fuoco, citando Ennio Flaiano: le barricate, gli italiani le fanno “coi mobili degli altri”. «Siamo in Italia: tutte le tensioni che verifichiamo ogni giorno poi si stemperano sempre in qualcosa che assomiglia al melodramma. Non scordiamoci che abbiamo attraversato persino le Brigate Rosse. E a proposito di complotti, abbiamo avuto la P2. Ricordando il passato, forse il presente ci appare meno drammatico». Pansa non concorda: per lui, Padellaro e il Fatto non hanno «gli occhiali giusti per vedere quello che succede davvero». Le Br? Le avremo anche “attraversate”, ma intanto «hanno ammazzato il politico più importante d’Italia, Aldo Moro, dopo averlo tenuto prigioniero per settimane in un “carcere del popolo” che gli apparati dello Stato facevano finta di non trovare». Flaiano? «Bella battuta, la sua, ma da caffè di via Veneto». La verità non è quella, sostiene Pansa: «C’è un odio profondo, che in Italia cova in tutti i ceti, anche in quelli che non consideriamo mai e chiamiamo ceti popolari: pensionati, casalinghe disperate, giovani che non trovano lavoro».Catastrofe imminente? «Io non vedo attorno a me un clima da guerra civile», protesta la Gruber. «Non lo vedi – replica Pansa – perché sei ancora agganciata all’oggi. Anch’io, se sto agganciato all’oggi, non vedo un clima da guerra civile, perché gli italiani pensano alle vacanze, alle donne, al modo di non pagare le tasse. Vorrebbero lavorare poco e guadagnare molto. Questo è un paese che non ha più spina dorsale». L’anziano giornalista, oggi 83enne, vede un odio dilagante e pericolosissimo, alimentato – più che da questo o quel partito – «dallo stato di fatto delle cose». Ammette: «Da un po’ di anni non vado più a votare, perché so che il mio voto verrebbe comunque sprecato: tutti i partiti sono screditati, la casta politica fa schifo». Insiste, Pansa: «Il governo di Di Maio finisce male perché è composto di prepotenti come Salvini o incompetenti che distruggeranno tutto: o finiscono male da soli o li faranno finire male altri». Il futuro è nero, sostiene il giornalista: «Non sono troppo pessimista, ho sempre visto verificarsi delle storie che non immaginavo si sviluppassero in quel modo». E aggiunge: «Quando succederà, la signora Lilli Gruber dirà: quella sera, quel vecchiaccio pessimista del “Giampa” aveva ragione».Fa impressione, ascoltare Giampaolo Pansa nelle vesti di profeta di sventure. Come giornalista fece storia, fin dagli esordi di “Repubblica”: in un’intervista, Enrico Berlinguer consumò il celebre strappo da Mosca (meglio la Nato che il Patto di Varsavia). Nel suo impareggiabile “Bestiario”, rubrica settimanale di Pansa su “L’Espresso”, trovavano posto l’Elefante Rosso e la Balena Bianca, impietosi ritratti del Pci e della Dc, colonne portanti del potere della Prima Repubblica. Ironico e tagliente, irriverente e sempre indipendente, Pansa, fino a dare scandalo con il saggio “Il sangue dei vinti”, bestseller da un milione di copie, vero e proprio tsunami capace di demolire i tabù della Resistenza raccontando le efferate vendette partigiane dell’immediato dopoguerra. Oggi, il vecchio Pansa appare smarrito di fronte ai confusi albori dell’ipotetica Terza Repubblica. Si rivolge a Lilli Gruber in modo affabile: «Tu sei una donna intelligente, una giornalista esperta, hai fatto politica, sei stata pure parlamentare europea». Già, ma la Gruber è anche ospite fissa del Gruppo Bilderberg, dettaglio che Pansa non cita. Gli altri due giornalisti nello studio di “Otto e mezzo” il 18 settembre? Damilano, punta di lancia del gruppo “Espresso-Repubblica”, è impegnato nel cannoneggiamento quotidiano del governo gialloverde, bombardando Salvini con accuse di xenofobia, razzismo e fascismo. Padellaro e il “Fatto”? Più indulgenti con i 5 Stelle, ma rigorosamente allineati all’impostazione neoliberista della narrazione economica: i tagli alla spesa sono sacrosanti, dogmi di fede.Da anziano veggente, come in una tragedia greca, Pansa-Tiresia vede che l’Italia si sta frantumando, ma è come se non sapesse leggere le cause della catastrofe in atto: una rivolta politica generalizzata, classificata comodamente sotto il nome di “populismo”, ma in realtà innescata dall’inaudito sfascio sociale prodotto dall’economia privatizzata “a tradimento” negli anni ruggenti di Pansa e colleghi. Quanti di loro videro davvero quel che si stava preparando? Quanti, tra gli allora fan di Di Pietro e Mani Pulite, si accorsero del summit a bordo del Britannia per la svendita del paese al capitale finanziario globalizzato? In quanti si accorsero del disastroso effetto del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che trasformò il debito pubblico in tragedia nazionale? Da eterno battitore libero, oggi Pansa scorge – con angoscia – i sintomi di un malessere che potrebbe anche degenerare in brutalità palese. Ma è come se non avesse ancora metabolizzato la gravità degli eventi maturati nella storia recente, con il “golpe delle élite” che ci ha precipitato nella post-democrazia (ben prima dell’avvento del governo Conte). Se non altro Pansa parla per sé e racconta quello che gli sembra di vedere. Non è impegnato nella fabbricazione quotidiana del consenso, come i propagandisti di “Repubblica” e come la stessa Gruber, che oltre che “donna intelligente” e “giornalista esperta” è anche, di fatto, contigua agli architetti occulti della post-democrazia, gli “sciacalli” che hanno progettato l’attuale sfacelo – che, come dice Pansa, potrebbe anche far saltare in aria il paese.Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero l’apocalisse: il governo gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».
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Orban, gattopardo neoliberista: stampella Ue con Salvini?
Viktor Orban e Matteo Salvini? Campioni, «eroi del nostro tempo liquido e fautori della tanto discussa “internazionale populista”, che raccatta tutta la galassia nazionalista a partire da Trump, Putin, fino al gruppo di Visegrad». Il politico ungherese e quello italiano «appaiono agli occhi del mondo come due pericolosi eversori degli equilibri europei, capaci di far deflagrare l’Ue con la facilità di due Boeing 767 lanciati a razzo contro le Twin Towers». Ma se fossimo in grado di aguzzare meglio la vista e l’ingegno, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”, «potremmo scorgere dietro le vesti tigrate nazional populiste, due gattopardi collusi col sistema neoliberista, che hanno la precisa missione di salvare le élites della destra europea da se stesse». Con la loro insistenza ossessiva sul tema immigrazione, e per le loro critiche sovraniste alla “dittatura” finanziaria di Bruxelles, secondo la Spadini i due «gattoni pardati» si sono guadagnati il titolo di paladini della rivoluzione nazionalista. Ma in realtà, dietro la reputazione da ribelli alimentata dall’isteria della stampa “liberal”, si nascondono «due politici legati a doppio filo proprio con quel sistema di potere europeo che dicono di volere abbattere».
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Magaldi: i gialloverdi scelgano, Tria (e Draghi) o gli italiani
«Il massone Giovanni Tria scelga chi servire: il popolo italiano o l’élite neoliberista incarnata dal pessimo Mario Draghi, il demolitore dell’Italia, che ora si complimenta con lui». Non usa mezzi termini, Gioele Magaldi, nel sollecitare il governo gialloverde a diffidare dall’atteggiamento “frenante” del ministro dell’economia: «I gialloverdi avevano promesso agli elettori reddito di cittadinanza, meno tasse e pensioni dignitose. Se non manterranno la parola data saranno loro a pagare, non certo Tria e le altre figure tecniche dell’esecutivo». Dove trovare le coperture? Semplice: occorre sfondare il famoso tetto di spesa del 3%, stabilito da Maastricht in modo ideologico, senza alcun fondamento economico-scientifico: più deficit significa far volare il Pil e creare lavoro. «Si tratta di smascherare Bruxelles e ingaggiare una dura battaglia, in Europa: solo l’Italia può farlo. E se Tria “frena”, preferendo ascoltare Draghi, Visco e Mattarella, allora è meglio che Salvini e Di Maio lo licenzino, perché a pagare il conto alla fine saranno loro, per la gioia del redivivo Renzi, che infatti già accusa il governo gialloverde di parlare molto e combinare poco». La ricetta di Magaldi? «Non temere il ricatto dello spread e sfoderare con l’Unione Europea, per il bilancio 2019, la stessa fierezza mostrata da Salvini nel denunciare l’ipocrisia dell’Ue che lascia ricadere solo sull’Italia il problema degli sbarchi di migranti».
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Varoufakis: Grecia in agonia, meglio Schaeuble che Tsipras
La Grecia è fallita 10 anni fa. Dove è la Grecia ora, dopo tre programmi di salvataggio, 270 miliardi di euro in prestiti e due tagli del debito? Allo stesso punto di prima, nello stesso buco nero, e affondiamo sempre di più ogni giorno. Una ragione fra le altre è che le richieste per il taglio del debito stanno impedendo investimenti e consumi. Ora la Troika ha ufficialmente terminato il commissariamento del paese, ma cosa è cambiato in realtà ? I debiti pubblici non si sono ridotti, ma innalzati. Abbiamo solo più tempo per ripagare il debito cresciuto: lo Stato è tuttora fallito, i cittadini sono diventati più poveri, le società ancora falliscono e il nostro Pil è calato del 25%. Tsipras, la Troika, il governo tedesco e la Ue puntano tutti a un avanzo di bilancio? Il surplus è reale, non è una bugia. Ma è stampato nella carne e nel sangue che lo Stato estrae da un settore privato morente. Appare chiaro che sia un crimine contro la logica, non un salvataggio o un successo. Mostrano statistiche di miseria più che di successo. Hanno cambiato le regole, così possono dire che il salvataggio della Grecia è un successo. “Se non funziona, prova con il martello più grande”. Non è solo contro la logica: è un crimine contro il popolo degli Stati Ue, dal Portogallo alla Germania.Chi ha mentito? Tutti loro! Il governo greco, il Fmi, la Bce, tutti. E voi tedeschi siete stati ingannati dalla signora Merkel, due volte. La prima volta quando è entrata nel Bundestag per il primo pacchetto di salvataggio e ha detto che era un atto di solidarietà verso la Grecia, quando i soldi erano destinati alle banche francesi e tedesche che, contro ogni logica, avevano prestato i soldi alla nostra oligarchia. Prima del 2002 la Grecia aveva mentito per entrare nell’euro con statistiche falsate, e ora – dopo tutti questi anni di “salvataggio” – dovrebbe finalmente rispettare i criteri dell’euro? Sicuramente no! Prima di tutto, pensate veramente che la Ue e Berlino siano stati ingannati dalle statistiche greche? Lo hanno sempre saputo. Erano conniventi già nella manipolazione statistica dell’Italia, perchè i politici avevano realmente bisogno che l’Italia entrasse nell’Ue. La Grecia entrò sulla base della stessa manipolazione intenzionale delle regole. Regole che non potevano essere rispettate e che sono impossibili da rispettare ora. Chiudere un occhio fu una concessione che l’allora cancelliere Kohl fece a al presidente francese Mitterrand per il suo via libera alla riunificazione della Germania. Wolfgang Schaeuble era presente, e lui e la Bundesbank sapevano che non avrebbe funzionato. Ed è rimasto sulle sue posizioni.Schaeuble appoggiava l’uscita con miliardi in aiuti, cosicché la Grecia potesse riadattarsi all’euro e, a un certo punto, rientrare o andare avanti per la sua strada. Col senno di poi, aveva ragione? Per lo meno non aveva completamente torto, ma quello che voleva veramente dire era: andatevene via dall’euro. Lui ci voleva fuori per sempre. E se non ha funzionato è perchè vide che, con l’Italia, si avvicinava una catastrofe molto più grande. Che senso ha cacciare qualcuno pagando una grande quantità di denaro, per un breve periodo di tempo? Non ci sarebbe stata poi nessuna ragione per tornare ad un euro mal costruito e che sarebbe costoso per la Grecia. Se potessi scegliere, in quale governo entrerei: quello del mio vecchio amico Alexis Tsipras o di Schaeuble? In nessuno dei due. Ma, se mi chiedete di chi mi fidi di più, la mia risposta è chiara: Wolfgang Schaeuble. Perché? In tutto questo tempo, lui è stato l’unico che ha detto almeno una parte della verità. Io credo alle cose che mi ha detto privatamente, anche se non era sempre la stessa cosa che diceva in pubblico ai tedeschi. Ha sempre mantenuto la sua parola, con me. E la signora Merkel? Mai: mi è sempre sembrata senza aspirazioni e visione. Lei passerà alla storia come il politico che ha avuto quasi tutte le possibilità per unire l’Europa, portarci nel futuro e implementare le riforme, ma poi ha fallito nell’approfittare dell’occasione storica.(Yanis Varoufakis, dichiarazioni rilasciate al “Bild” per una recente intervista sulla situazione greca, ripesa da “Scenari Economici”. Paolo Barnard ricorda che Varoufakis, quand’era ministro con Tsipras, ignorò l’offerta sovranista avanzata da Warren Mosler per salvare il paese; con Tsipras, Varoufakis gli preferì Jamie Galbraith, che predispose la Grecia a subire le devastanti imposizioni della Troika che hanno trasformato la Grecia “risanata” in un paese del terzo mondo. Il problema, alla radice? Il debito greco, come gli altri in Eurozona, è chiamato “pubblico” ma in realtà è denominato in euro e detenuto da banche private, anziché dalla banca centrale controllata dal governo, come avviene nel resto del mondo, dove il potere di spesa è virtualmente illimitato e quindi non condizionato dal rischio-spread).La Grecia è fallita 10 anni fa. Dove è la Grecia ora, dopo tre programmi di salvataggio, 270 miliardi di euro in prestiti e due tagli del debito? Allo stesso punto di prima, nello stesso buco nero, e affondiamo sempre di più ogni giorno. Una ragione fra le altre è che le richieste per il taglio del debito stanno impedendo investimenti e consumi. Ora la Troika ha ufficialmente terminato il commissariamento del paese, ma cosa è cambiato in realtà ? I debiti pubblici non si sono ridotti, ma innalzati. Abbiamo solo più tempo per ripagare il debito cresciuto: lo Stato è tuttora fallito, i cittadini sono diventati più poveri, le società ancora falliscono e il nostro Pil è calato del 25%. Tsipras, la Troika, il governo tedesco e la Ue puntano tutti a un avanzo di bilancio? Il surplus è reale, non è una bugia. Ma è stampato nella carne e nel sangue che lo Stato estrae da un settore privato morente. Appare chiaro che sia un crimine contro la logica, non un salvataggio o un successo. Mostrano statistiche di miseria più che di successo. Hanno cambiato le regole, così possono dire che il salvataggio della Grecia è un successo. “Se non funziona, prova con il martello più grande”. Non è solo contro la logica: è un crimine contro il popolo degli Stati Ue, dal Portogallo alla Germania.
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Brexit e Trump: gli anglosassoni volano, anziché crollare
«La catastrofe oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Cita il mitico Giorgio Gaber, il blogger Massimo Bordin, per ricordare – su “Micidial” – che nella Gran Bretagna “scappata” dall’Unione Europea la disoccupazione è al 4%, cioè il minimo storico dal lontanissimo 1975. «Il numero degli occupati nel Regno Unito è salito di 42.000 unità nel trimestre terminato a giugno», a dispetto degli economisti anti-Brexit, i soliti veggenti, che «si aspettavano un calo di 3.800 unità nel solo mese di giugno». E per Bordin, gli squillanti traguardi del sovranismo inglese sono soltanto l’antipasto: il piatto forte è l’America. «Quando l’impresentabile Donald Trump fece l’azzardo di presentarsi alle elezioni, gli analisti si scatenarono», ricorda l’autore di “Micidial”: «C’è chi giurava sui propri figli che, in virtù di statistiche precise al millimetro, il biondo non poteva vincere; altri scommettevano nel crollo dell’economia planetaria. I più severi furono i neocon europei, per i quali, dopo qualche sventagliata populista, sotto Trump la “Pravda” rappresentata dalla finanza globale avrebbe decretato un verdetto di fallimento». I dazi – secondo questi soloni dell’economia – avrebbero «costretto i capitali a fuggirsene dall’America, con la conseguente fine del monopolio di Wall Street».Da quando Trump è stato eletto, a fine 2016, la Borsa americana – da sempre quella con i maggiori capitali al mondo – è aumentata in valore di altri 6.000 miliardi, annota Bordin. «Questa cifra – che ricorda molto i fantastiliardi di Paperopoli, di Uncle Scrooge e del suo mitico deposito – è in pratica il Pil di Italia, Francia e Regno Unito messi assieme: lo ripeto per i Boldrin, gli Scacciavillani, i “noisefromamerika” e tutti gli incompetenti ideologizzati ed i trader iperliberisti che infestano questo declinante paese». Fatti, non parole: da quand Trump è alla Casa Bianca, sul piatto ci sono 6.000 miliardi in più. Nessun mistero: di fronte a segnali di evidente ripresa, anziché tagliare la spesa pubblica come avrebbe fatto qualsiasi governo dell’Eurozona, gli Stati Uniti hanno rilanciato, moltiplicando il deficit per investire sul sistema paese. Risultato: crescita esponenziale del Pil. «Continuerà? Ecchennesò, magari sì, probabilmente no», scrive Bordin, «ma certamente i soloni economisti europei si sono sbagliati, e si sono sbagliati per due anni – che per un investitore è la rovina (eppoi insegnano all’università, eppoi commentano)».I dati più importanti sull’America «riguardano occupazione e salari, visto che la finanza potrebbe benissimo essere in bolla». Il tempo ce lo dirà, aggiunge Bordin, «ma al momento Trump non è stato affatto una catastrofe per la finanza. Fu disastro con il liberista Bush junior, invece, sotto il cui mandato ci fu la più grande ecatombe borsistica dopo il 1929» Tornando a The Donald: la performance a New York durante questi due anni scarsi è stata del 34%. Com’è stato possibile? «Le Borse, da che mondo è mondo, basano le loro performance sulla fiducia e sul ruolo dei regolatori, la Fed in questo caso. Se ci concentriamo sul primo aspetto – scrive Bordin – a pompare fiducia è stata la politica fiscale. Con la riforma fiscale, le imprese in Usa si sono viste tagliare le tasse dal 35 al 20%. Se questa iniziativa viene sommata alla protezione sui prodotti americani, ecco che il mistero si svela». Non solo: grazie all’abbattimento delle tasse, «le aziende quotate hanno potuto comprarsi le proprie azioni, che in termini tecnici si chiama BuyBack: è superfluo aggiungere che questo sistema fa esplodere i titoli all’insù». Durerà? «E’ impossibile saperlo, ma ci sono almeno due elementi che potrebbero indicare una drastica inversione: una guerra monetaria con l’euro e l’impeachement al presidente», dopo le elezioni di medio termine. «Due ipotesi affatto improbabili».«La catastrofe oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Cita il mitico Giorgio Gaber, il blogger Massimo Bordin, per ricordare – su “Micidial” – che nella Gran Bretagna “scappata” dall’Unione Europea la disoccupazione è al 4%, cioè il minimo storico dal lontanissimo 1975. «Il numero degli occupati nel Regno Unito è salito di 42.000 unità nel trimestre terminato a giugno», a dispetto degli economisti anti-Brexit, i soliti veggenti, che «si aspettavano un calo di 3.800 unità nel solo mese di giugno». E per Bordin, gli squillanti traguardi del sovranismo inglese sono soltanto l’antipasto: il piatto forte è l’America. «Quando l’impresentabile Donald Trump fece l’azzardo di presentarsi alle elezioni, gli analisti si scatenarono», ricorda l’autore di “Micidial”: «C’è chi giurava sui propri figli che, in virtù di statistiche precise al millimetro, il biondo non poteva vincere; altri scommettevano nel crollo dell’economia planetaria. I più severi furono i neocon europei, per i quali, dopo qualche sventagliata populista, sotto Trump la “Pravda” rappresentata dalla finanza globale avrebbe decretato un verdetto di fallimento». I dazi – secondo questi soloni dell’economia – avrebbero «costretto i capitali a fuggirsene dall’America, con la conseguente fine del monopolio di Wall Street».
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Migranti? Salvini ci distrae dal Mostro: il pareggio di bilancio
Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?Senza una drastica inversione di tendenza, scrive Barnard nel suo blog, l’Italia farà la fine della Svezia: pur essendo dotato di moneta sovrana, il paese scandinavo (patria storica del welfare avanzato) per reggere l’accoglienza dei migranti – tantissimi, 600.000 negli ultimi 5 anni, in un paese di 10 milioni di abitanti, «che in proporzione è come se l’Italia ne avesse avuti 3.600.000» – il governo di Stoccolma, socialdemocratico ma plagiato dal dogma neoliberista dell’Ue, ha letteralmente massacrando la popolazione svedese a suon di tasse. Risultato: le imminenti elezioni rischiano di vincerle a mani basse i populisti Democratici Svedesi, feroci sui migranti ma letteralmente muti sul vero dramma, il pareggio di bilancio. Proprio come Salvini, accusa Barnard, che di fronte all’esodo africano sembra «il vigile tonto che con la paletta pensa di fermare lo tsunami in spiaggia». La sinistra? «Fa venir da vomitare, usa i neri con un cinismo da impiccagione sul posto: non sanno proporre una soluzione sistemica al motivo per cui migrano, e predicano invece la loro accoglienza (a casa e a spese degli italiani sfigati, non certo a casa loro). Questo insulto alla geopolitica gli lava l’anima, ma poi lascia 389 milioni di africani nella disperazione e non risolve un cazzo da 26 anni». Sono almeno 500 milioni, scrive Barnard, gli esseri umani a rischio di migrazione: per ogni sorta di motivo, dal neo-colonialismo europeo all’emergenza climatica, «e non li fermerai mai coi divieti di Salvini». La soluzione? «Deve essere un accordo economico sistemico internazionale».In ogni caso, sottolinea Barnard, i migranti sono il problema numero 300 del nostro “portafoglio”: prima vengono sanità, pensioni, scuola e lavoro. Ben prima dei migranti ci cadono addosso le “chemiotasse” imposte dall’euro, il credito che le banche non concedono, l’Italia che non cresce più da vent’anni. Il problema numero uno è lui: il pareggio di bilancio, «cioè la dittatura Ue che dice che lo Stato deve darti 100 e poi tassarteli tutti e 100, cioè lasciarti nulla nel portafoglio – sanità, pensione, scuola, crescita». Eppure, fateci caso: «La lotta della Lega al nero che sbarca è diventata una tempesta solare», mentre l’opposizione leghista al vero nemico – il pareggio di bilancio – ormai «assomiglia sempre più a un petardo». Salvini? «Sta facendo sbiadire la mostruosità del pareggio di bilancio, che è la prima causa delle pene degli italiani, e li incoraggia a cercare da un’altra parte un capro espiatorio per la loro rabbia da crescente povertà e insicurezza: nell’immigrazione». Per Barnard «è un bypass velenoso, che Salvini alimenta ogni minuto». Il meccanismo «ha una presa micidiale sulla gente» ma è anche «distruttivo», come sta accadendo in Svezia, cioè il paese in crisi verso cui ci starebbe spingendo la Lega, con la sua miopia. Il paradosso, aggiunge Barnard, è che la Lega sulla carta doveva fare l’esatto contrario: mantenerci tutti concentrati sul pericolo numero 1, il pareggio appunto, non distrarci da esso con l’ossessione del pericolo numero 300, cioè gli sbarchi dei migranti.In Svezia ne hanno accolti una quota enorme, sopra il 5% della popolazione nazionale. Tutti assorbiti nel sistema produttivo: industria, sanità, servizi sociali. Economia in crescita, quindi: il Pil è salito del 3,3%, contro la media europea del 2%. Ottimo? No, niente affatto, spiega Barnard: perché poi, dati alla mano, nelle zone meno popolate (il 90% del paese) stanno chiudendo ospedali e consultori. «Ne soffrono le donne, a cui ora le autorità stanno insegnando come partorire in auto perché spesso la maternità più vicina è a oltre 100 km di distanza. Non solo: a volte le partorienti svedesi vengono respinte dai consultori perché sono stipati di pazienti, fra cui anche migranti». Le liste d’attesa in sanità sono letteralmente esplose: non per colpa dei migranti, però, ma per via dei tagli decisi – a monte – dal governo, preoccupato in modo demenziale di raggiungere ogni anno il pareggio di bilancio imposto dall’Ue. Ormai, «quello che viene vantato nel mondo come un sistema di welfare che assiste “dalla culla alla tomba” e che mantiene chi perde il lavoro in relativo agio, oggi fa acqua da tutte le parti». Idem il lavoro: «La disoccupazione svedese, che dovrebbe essere inesistente, è al 7%, e questo nonostante la già citata crescita». Un dato che «fa vergognare la nazione scandinava a confronto con la spietata America, dove i disoccupati sono al 3,9%».Crisi da rigore di bilancio, in salsa nordica: «Gli svedesi non trovano abbastanza case, e se le trovano costano una fortuna. In parte il problema è dovuto al fatto che i 600.000 migranti hanno assorbito alloggi, ma molto di più è dovuto a un mercato immobiliare selvaggio causato da politiche di governo e banca centrale che hanno permesso liquidità a costo quasi zero, quindi incentivato acquisti sempre più frenetici che hanno alzato i prezzi alle stelle, che a loro volta hanno costretto gli svedesi a indebitarsi con le banche da pazzi per avere una casa. Nel frattempo lo Stato non è affatto intervenuto con edilizia popolare per aiutare gli esclusi». Ecco allora il vero motivo del disastro che sta esasperando gli svedesi: e cioè «l’ossessione da parte del governo, persino in una nazione sovrana nella moneta, di pareggiare i bilanci, e addirittura di fare il surplus di bilancio». Per cosa, poi? «Solo poter vantare nelle casse dello Stato un assurdo bottino che contabilmente non ha senso, ma soddisfa i “numerini degli economisti europei”. Ecco come agiscono i pareggi e surplus di bilanci, cioè la macchina d’impoverimento peggiore della storia, in Svezia». E questa, aggiunge Barnard, è «la vera fucina dell’esasperazione dei cittadini, che poi sbagliano clamorosamente target e se la prendono coi migranti (come da noi)».Follia: il governo svedese «non solo pareggia i bilanci da anni, ma ora addirittura fa surplus di bilancio da 4 anni, e intende insistere in questa strage delle tasche dei cittadini fino al 2021 almeno». Questo, sottolinea Barnard, «è il motivo dei drastici tagli governativi a sanità, alloggi pubblici per gli ultra-indebitati, sicurezza e persino welfare. I fondi ai migranti, qui, sono irrilevanti». Altra follia: «Mentre il governo spende 100 per gli svedesi e li tassa 120, ha avuto la buona idea di aumentare le tasse, con l’aliquota massima oltre il 70%, e di tagliare a raffica una serie di sconti fiscali». Chi sta quindi sta assassinando i redditi svedesi? «Risposta: svedesi con pelle bianchissima seduti a Stoccolma, non stranieri di pelle scura (per noi italiani invece è il contrario: gli assassini economici sono in effetti stranieri, ma sempre di pelle bianca, e stanno a Bruxelles)». Terza follia: «Questa idrovora di tassazione e tagli di spesa pubblica nel portafoglio di aziende e famiglie svedesi accade mentre, secondo i dati del ministero delle finanze, il costo per ogni nativo svedese per l’accoglienza dei migranti è di 6.800 euro all’anno in ulteriori tasse. E questo grida vendetta, perché la Svezia è paese a moneta sovrana, e per definizione non necessita di tasse per spendere per qualsiasi cosa, inclusi i migranti. Quindi, se i migranti pesano in parte sui portafogli degli svedesi, la colpa è tutta e solo della scelta di governo di ubbidire ai diktat imperanti in Europa».Ed ecco che scatta il micidiale bypass delle colpe, conclude Barnard: un numero sempre maggiore di svedesi «mica se la prendono col loro demenziale governo e con le sue devastanti politiche fiscali». Al contrario, «se la prendono coi migranti». In pole position, nei sondaggi per le vicinissime elezioni, c’è il partito «di estrema desta e rabbiosamente anti-immigrazione», i Democratici Svedesi, dato addirittura vincente. E qui sta il dramma: se si osserva la piattaforma politica dei Democratici Svedesi, si scopre che il nazionalismo, la patria, l’identità e la xenofobia sono il 98%, mentre il resto «è un’accozzaglia di belle intenzioni su lavoro, anziani, sanità, commercio, ma nulla di specifico sulla vitale necessità di demolire ciò che davvero sta devastando famiglie e aziende svedesi, che è il pareggio (o surplus) di bilancio». Nel loro programma non esiste la voce “abolizione pareggi e surplus di bilancio”. «Strombazzano solo contro le politiche troppo generose sui migranti». Risultato? «Il dramma nordico rimarrà inalterato, esattamente come rimarrà inalterato il dramma italiano se Matteo Salvini, come i Democratici Svedesi, continua a gonfiare l’ipertrofica bolla delle navi nei porti, mentre pacatamente sta costruendo un nulla di fatto su “no euro”, “no pareggio di bilancio”, e su Italexit». E siatene certi, chiosa Barnard: «Dopo le roboanti boutade “macho” dell’uomo forte italiano, nel vostro portafoglio, nella sanità, nelle pensioni, nelle scuole, nel lavoro tuo e dei figli, nelle ‘chemiotasse’, nei crediti che non ti danno, e nell’Italia che non cresce da 20 anni non ci sarà un nero. Ci sarà Salvini».Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?
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Ricordati che devi morire, dice all’Italia il massone Cottarelli
C’era una volta l’Italia. Era un paese pieno di problemi, come tutti gli altri paesi europei. Ma aveva una sua peculiare caratteristica: era un paese relativamente felice – più di altri paesi europei – al punto da stupire il mondo (un’altra volta, come nel Rinascimento, e poi nel Risorgimento) per una sua qualità assolutamente inimitabile: la capacità di “esplodere” e di espandersi in tempi rapidissimi, utilizzando due qualità fondamentali, l’ingegno italico e la capacità di lavoro. Era il dopoguerra, intorno c’erano solo macerie. D’accordo, era intervenuto qualcosa di inatteso: il Piano Marshall. La spinta, per decollare. Ma poi, si sa, c’era – appunto – l’Italia. L’Eni, Enrico Mattei, la Prima Repubblica. Il boom, il miracolo economico. Costruito come? Nel solo modo possibile: con il sacro, strategico, formidabile debito pubblico. Tecnicamente: deficit positivo, per citare il sommo Keynes, il genio inglese che – a suon di debito – tirò fuori l’America dal pantano, permettendole di vincere la Seconda Guerra Mondiale e poi addirittura di stravincere, al punto da rimettere in piedi la democrazia in Europa, sia pure in funzione antisovietica. Tutto bene, o quasi, fino ai primi anni ‘90. Crescita continua: i figli che hanno più opportunità di quante ne abbiano avute i genitori. Poi, l’infarto: la crisi, la fine del benessere.Neoliberismo, morte dello Stato sovrano. Cartellino rosso: ora basta, dovete soffrire. Chi lo dice? Loro, l’élite finanziaria, la Banca Mondiale, il Fondo Moneriario. Un nome? Carlo Cottarelli. E perché mai dovremmo soffrire? Perché sì, è la risposta. Ed è vero: lo conferma il “Corriere della Sera”. Queste sono cose che succedono, oggi, e che irritano moltissimo alcuni italiani. Come Gioele Magaldi, per esempio. Magaldi è un italiano trasparente. E’ anche un massone, è stato il “maestro venerabile” della prestigiosa loggia Monte Sion del Goi, il Grande Oriente d’Italia. Ricorda, a ogni pie’ sospinto, che questo paese è stato “fabbricato” da massoni, nell’Ottocento. Si chiamavano Garibaldi, per dire. E poi altri massoni, nel Novecento, alla fine della Seconda Guerra Mondiale hanno rimesso insieme i cocci di quel che restava del paese dopo il fascismo. Meuccio Ruini, repubblicano, presidente della commissione per la futura Costituzione. E Pietro Calamandrei, comunista, presidente della Costituente. Massoni, che all’epoca significava: fine dei privilegi di casta, suffragio universale, laicità e sovranità elettorale per ogni cittadino, uomini e donne, ricchi e poveri.S’infuria, Magaldi, tutte le volte che qualcuno disconosce il ruolo storico della massoneria nella genesi della Repubblica italiana. Si irrita, quando Di Maio e Salvini firmano il loro “contratto di governo” dove sta scritto che nessun massone potrà mai far parte del governo gialloverde. Minaccia, Magaldi, di fare i nomi degli interessati: è pieno, il governo gialloverde, di massoni importanti. Si spazientisce, Gioele Magadi, se qualcuno – magari della Lega – gli chiede di intercedere, presso la massoneria sovranazionale, per proteggere il governo Conte, così ferocemente avversato dalla supermassoneria reazionaria. Va bene, dice: vedremo. Ma perché, intanto, non dichiaratar apertamente l’appartenenza massonica di ministri e sottosegretari? Parla, Magaldi, di cose che purtroppo sa. Per esempio: Luigi Di Maio, l’attuale capo dei 5 Stelle, prima delle elezioni bussò – inutilmente – alla porte degli stessi circuiti “neo-aristocratici” che avevano messo alla porta Matteo Renzi, un leader teoricamente progressista. Oggi, dice Magaldi, Di Maio è maturato parecchio. Tante cose sono cambiate, in Italia, in pochissimi mesi.Come fa, Magaldi, a esprimersi in questi termini? Semplice: fa parte, lui stesso, del circuito massonico sovranazionale. E’ stato “iniziato” alla superloggia “Thomas Paine”, pietra miliare della massoneria internazionale progressista. Cos’è una superloggia? Una Ur-Lodge, ha spiegato nel suo libro “Massoni” (edito da “Chiarelettere”, venduto in decine di migliaia di copie ma passato sotto silenzio dalla stampa mainstream) è un circolo esclusivo di persone importanti, che concorrono a decidere i destini del mondo senza che i media ne parlino mai. Ne ha parlato lui, infatti: ha messo a disposizione un archivio di 6.000 pagine, ma nessuno si è sognato di chiedergliene conto, e meno che meno di contestarlo o smentirlo. Silenzio assoluto. Ci sono tutti, in quel libro: Licio Gelli e Pinochet, Allende e i Kennedy, Martin Luther King, Kissinger e Bush, Gorbaciov, Draghi e Napolitano. E il mitico Cottarelli?Fa parte del penultimo capitolo della nostra infelicissima storia recente, dice Magaldi a David Gramiccioli, conduttore del seguitissimo programma “Massoneria On Air” su “Colors Radio”. Che dice, l’ex commissario alla spending review del paramassone Enrico Letta? Semplice: che dobbiamo soffrire. Che le promesse del governo gialloverde sono irrealizzabili. Flat Tax, riforma della legge Fornero sulle pensioni, reddito di cittadinanza? Pura follia, dichiara il Cottarelli al “Corriere della Sera”, che lo presenta – si stupisce Magaldi – come un paladino della crescita. Lui, Cottarelli? Tanto per cominciare, sottolinea Magaldi, Cottarelli è un massone. Un massone occulto, non dichiarato. Poi è un massone che appartiene ai circuiti sovranazionali, quelli delle Ur-Lodges. E soprattutto: milita nella destra politico-economica, la Chiesa neoliberista che prescrive al popolo di tirare la cinghia. E’ lo stesso Cottarelli che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, oppose all’ipotesi di governo gialloverde, nel bocciare Paolo Savona al ministero dell’economia. Ma attenzione, ricorda Magaldi: poco prima, era stato lo stesso Di Maio a sventolare il nome di Cottarelli come campione di virtù politica, in campo economico.Oggi, sul “Corriere della Sera”, Cottarelli ripete stancamente la sua luttuosa canzone: non ce la possiamo fare. Sembra non conoscere la storia dell’Italia democratica: è come se parlasse del Burundi, non di un paese del G8. Ricorda il frate medievale che, nel film “Non ci resta che piangere”, ripete a Massimo Troisi il suo illuminante monito: “Ricordati che devi morire”. No, Cottarelli, gli risponde Magaldi: certo, avete cercato di farla morire, l’Italia, ma non ci siete riusciti. Ce l’avete messa tutta: voi, la Merkel, Draghi, Monti, Napolitano, Juncker e tutta la banda. Massoni, dal primo all’ultimo. Massoni opachi, non dichiarati, e in più “neo-aristocratici”, allergici alla democrazia. Ma, per vostra sfortuna, l’Italia non è il Burundi (e detto tra noi, non è ancora morta). Era, e resta, una delle prime dieci economie del pianeta. Come lo è diventata? Non certo tagliando la spesa pubblica, non certo amputando il deficit. Non sa, Carlo Cottarelli, come fu che l’Italia divenne la quinta economia del mondo? Col debito pubblico, ovviamente. Non lo sa, il Cottarelli? No, non è possibile, come è impossibile che non lo sappia il “Corriere della Sera”, che presenta il Cottarelli come una specie di guru venuto da altri mondi, da qualche cartoon della Disney.Se ne rammarica, Gioele Magaldi. Se ne sorprende. Ma avverte: verrà il giorno, molto presto, in cui nessuno potrà più permettersi di dire all’Italia “ricordati che devi morire”. Nonostante le molte manchevolezze, aggiunge, è bene sostenere – oggi – il provvisorio governo gialloverde: almeno pensa alla vita degli italiani, non alla loro morte. A quella ci hanno pensato in tanti, da Berlusconi a Prodi, passando per D’Alema e Amato, Padoa Schioppa, Dini, Ciampi e compagnia piangente. Un coro greco: povera Italia. Ma era solo teatro. Ci siamo cascati? Eccome. La cosa sconcertante, rileva Magaldi, è che ci siano ancora in giro i Cottarelli, riveriti – a reti unificate – come arcangeli dell’apocalisse, anziché spazzati via come mosconi fastidiosi e deprimenti. Questo, infatti, dice l’economista del Fondo Moneriario: dobbiamo soffrire, dobbiamo morire. Non possiamo proprio immaginarcelo, un futuro migliore. Siamo dunque il Ruanda? No, siamo l’Italia. Qualcuno, prima o poi, lo spiegherà a Cottarelli (e al “Corriere della Sera”, se mai ancora esisterà).…..Italia, Europa, felicità, mondo, Rinascimento, Risorgimento, ingegno, lavoro, storia, dopoguerra, macerie, Usa, Piano Marshall, Eni, Enrico Mattei, Prima Repubblica, boom, economia, miracolo economico, sacro, debito pubblico, deficit, deficit positivo, John Maynard Keynes, genio, Gran Bretagna, America, Seconda Guerra Mondiale, democrazia, Europa, Urss, crescita, figli, genitori, crisi, benessere, neoliberismo, morte, Stato, sovranità, sofferenze, élite, oligarchia, finanza, Banca Mondiale, Fmi, Carlo Cottarelli, Corriere della Sera, Gioele Magaldi, massoneria, Monte Sion, Goi, Grande Oriente d’Italia, Ottocento, Giuseppe Garibaldi, Novecento, Seconda Guerra Mondiale, fascismo, Meuccio Ruini, repubblicani, Costituzione, Pietro Calamandrei, comunisti, Costituente, privilegi, casta, suffragio universale, laicità, sovranità, elezioni, cittadini, donne, ricchi, poveri, Luigi Di Maio, M5S, Movimento 5 Stelle, Matteo Salvini, governo gialloverde, Lega, Giuseppe Conte, supermassoneria, reazionari, Luigi Di Maio, elezioni bussò, aristocrazia, neo-feudalesimo, Matteo Renzi, leader, progressisti, superlogge, Thomas Paine, Ur-Lodges, Massoni, bestseller, Chiarelettere, silenzio, stampa, media, mainstream, disinformazione, destino, mondo, globalizzazione, Licio Gelli, Cile, P2, Loggia P2, Augusto Pinochet, golpe, Salvador Allende, Jfk, John Fitzgerald Kennedy, Bob Kennedy, Robert Kennedy, Martin Luther King, Henry Kissinger, George W. 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Ma aveva una sua peculiare caratteristica: era un paese relativamente felice – più di altri paesi europei – al punto da stupire il mondo (un’altra volta, come nel Rinascimento, e poi nel Risorgimento) per una sua qualità assolutamente inimitabile: la capacità di “esplodere” e di espandersi in tempi rapidissimi, utilizzando due doti fondamentali, l’ingegno italico e la capacità di lavoro. Era il dopoguerra, intorno c’erano solo macerie. D’accordo, era intervenuto qualcosa di inatteso: il Piano Marshall. La spinta, per decollare. Ma poi, si sa, c’era – appunto – l’Italia. L’Eni, Enrico Mattei, la Prima Repubblica. Il boom, il miracolo economico. Costruito come? Nel solo modo possibile: con il sacro, strategico, formidabile debito pubblico. Tecnicamente: deficit positivo, per citare il sommo Keynes, il genio inglese che – a suon di debito – tirò fuori l’America dal pantano, permettendole di vincere la Seconda Guerra Mondiale e poi addirittura di stravincere, al punto da rimettere in piedi la democrazia in Europa, sia pure in funzione antisovietica. Tutto bene, o quasi, fino ai primi anni ‘90. Crescita continua: i figli che hanno più opportunità di quante ne abbiano avute i genitori. Poi, l’infarto: la crisi, la fine del benessere.
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“Progressisti” alle europee: Laura Boldrini, una garanzia
«Le prossime elezioni europee saranno una sfida tra due visioni del mondo. Che ne dite, se per sfidare la destra, i partiti progressisti rinunciassero ai propri simboli per dare vita a una lista unitaria nel segno dell’apertura e dell’innovazione?». Lei, Laura Boldrini, ha già pronto l’hashtag: #ListaUnitariaEuropea. A vederla così, l’ex presidente della Camera – politicamente defunta da tempo, e ora miracolosamente riportata in vita solo grazie al provvidenziale attivismo dell’Uomo Nero, cioè Matteo Salvini – fa venire in mente, ai progressisti (quelli veri, lontani anni luce dal Pd e dai suoi cespugli già appassiti) che in fondo è proprio vero, le prossime elezioni europee saranno realmente “una sfida tra due visioni del mondo”. E se sarà in campo anche lei, Laura Boldrini, per i progressisti sarà facilissimo scegliere: non certo tra “la destra” e “la sinistra”, categorie tragicamente archiviate dal pensiero unico della Seconda Repubblica, ma – appunto – tra oligarchia e democrazia, privatizzazioni e welfare, autoritarismo economico e diritti sociali, Disunione Europea e sovranità nazionale (non solo italiana, anche degli altri paesi europei che dovevano essere partner, e invece sono diventati spietati concorrenti grazie al feroce mercantilismo dell’establishment, che si rifugia sempre – per coprire i propri misfatti – nel cosmetico “politically correct” di cui è campionessa la signora Boldrini).Per un progressista italiano – un sincero democratico – avere di fronte Laura Boldrini alle prossime elezioni europee sarebbe magnifico: un perfetto replay del funesto referendum costato la vita, politicamente, a Matteo Renzi, altro campione (scorrettissimo) del “politicamente corretto”. Che ghiotta occasione, per milioni di elettori: se molti di loro non saranno ancora pienamente convinti dall’ibrida alleanza gialloverde, a chiarir loro le idee provvederebbe all’istante Laura Boldrini, icona perfetta di tutto quello che in Italia ha smesso di funzionare – ma nel modo più subdolo, cioè evitando di farlo sapere agli italiani. L’erosione dei diritti del lavoro, la flessibilità del precariato, i tagli sanguinosi al welfare e alle pensioni, i ticket della sanità privatizzata. E in generale, tutto il paese regalato – a fette, a trance, a tonnellate – a imprenditori affamati di profitto, a capitali franco-tedeschi, a consorterie paramassoniche di origine atlantica che poi magari evitano di spendere soldi nella manutenzione dei beni ottenuti in omaggio, fino al punto da lasciar crollare – con morti e feriti – anche i viadotti autostradali. Chi c’era, a Palazzo Chigi, mentre tutto questo accadeva? Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato. Un’ombra di autocritica, dal centrosinistra? Non pervenuta. In compenso, riecco Laura Boldrini.Resuscita, la Boldrini – e con lei Martina e i gregari del Pd e dintorni, comparse di cui si stenta a ricordare i nomi – solo grazie al furore mediatico che si abbatte su Salvini, il quale insiste nel bloccare gli sbarchi dei migranti per mettere in difficoltà gli strozzini europei dell’Italia, per niente sicuro che il suo governo gialloverde riesca, in autunno, a disobbedire all’eterno diktat di Bruxelles riuscendo a finanziare almeno in parte la riduzione delle tasse, la riforma della legge Fornero, l’istituzione dello sbandierato reddito di cittadinanza. Tutte cose che suonano estremamente democratiche, persino “di sinistra” per usare l’obsoleto lessico boldriniano, visto che si tratterebbe che lasciare più soldi in tasca agli italiani. Ma appunto, non se ne parla: deve morire (sotto l’accusa di xenofobia) il primo governo che lavora per gli italiani, non a caso temuto e detestato dai poteri che tifano per Laura Boldrini e contro il popolo italiano. Che dire, ad esempio, del campione dei diritti umani Emmanuel Macron, devoto amico di Papa Bergoglio? E che dire del venerabile Günther Oettinger, secondo cui saranno “i mercati” a insegnare agli italiani come votare? A proposito: è stato proprio Oettinger a proporre a Strasburgo il disegno di legge che avrebbe imbavagliato il web, pochi mesi dopo la martellante campagna finanziata dalla stessa Boldrini contro le “fake news” della Rete. Che ticket formidabile, Boldrini-Oettinger: un invito a nozze, per gli elettori progressisti impegnati a scegliere, nella primavera 2019, tra “due visioni del mondo”.Così come oggi Laura Boldrini non esisterebbe neppure più, senza Matteo Salvini, è una vera fortuna che l’ex presidente della Camera sia ancora in campo, in vista delle prossime europee: la sua candidatura avrà il potere, prodigioso, di motivare gli incerti. Tutto diventerà lampante: gli elettori avranno un’occasione d’oro per bocciare sonoramente, una volta per tutte, partiti e politicanti sedicenti progressisti, che hanno letteralmente assassinato ogni residua istanza progressista in Italia, ogni barlume di residuale democrazia. Sono gli infidi maggiordomi del rigore, i sacerdoti dell’austerity, i cavalieri del Fiscal Compact. Sono i farisaici notai del pareggio di bilancio inflitto all’Italia come una micidiale piaga biblica, da cui il paese non si è ancora ripreso – né potrà farlo, come noto, senza una robusta, radicale, rivoluzionaria sterzata. Una mareggiata, a livello europeo, con centinaia di milioni di elettori disposti a inviare a Bruxelles l’ultimo avvertimento: o si straccia il Trattato di Maastricht, che affida ai banchieri della Bce il governo del continente, o l’Europa salta per aria. Servirà un plebiscito, come quello che mandò a casa Renzi. E quindi servirà – più che mai – Laura Boldrini, a ricordare agli italiani come votare, per mandare finalmente a casa tutti gli Oettinger, i ladri, i bari e i professori del “politically correct” che ancora fanno la morale all’Italia, dopo averla razziata e affondata per conto dei soliti, potenti padroni stranieri.«Le prossime elezioni europee saranno una sfida tra due visioni del mondo. Che ne dite, se per sfidare la destra, i partiti progressisti rinunciassero ai propri simboli per dare vita a una lista unitaria nel segno dell’apertura e dell’innovazione?». Lei, Laura Boldrini, ha già pronto l’hashtag: #ListaUnitariaEuropea. A vederla così, l’ex presidente della Camera – politicamente defunta da tempo, e ora miracolosamente riportata in vita solo grazie al provvidenziale attivismo dell’Uomo Nero, cioè Matteo Salvini – fa venire in mente, ai progressisti (quelli veri, lontani anni luce dal Pd e dai suoi cespugli già appassiti) che in fondo è proprio vero, le prossime elezioni europee saranno realmente “una sfida tra due visioni del mondo”. E se sarà in campo anche lei, Laura Boldrini, per i progressisti sarà facilissimo scegliere: non certo tra “la destra” e “la sinistra”, categorie tragicamente archiviate dal pensiero unico della Seconda Repubblica, ma – appunto – tra oligarchia e democrazia, privatizzazioni e welfare, autoritarismo economico e diritti sociali, Disunione Europea e sovranità nazionale (non solo italiana, anche degli altri paesi europei che dovevano essere partner, e invece sono diventati spietati concorrenti grazie al feroce mercantilismo dell’establishment, che si rifugia sempre – per coprire i propri misfatti – nel cosmetico “politically correct” di cui è campionessa la signora Boldrini).
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Tutti più poveri, grazie alle privatizzazioni imposte all’Italia
La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.L’ultima rilevazione Ocse ci informa che, mentre nel nostro paese la pubblica amministrazione assorbe circa 3.400 lavoratori, in Francia e nel Regno Unito, paesi con una popolazione e un Pil pro-capite di entità simile alla nostra, se ne contano rispettivamente 6.200 e 5800. Negli Stati Uniti – paese tradizionalmente guardato come una vera economia di mercato – il numero di dipendenti pubblici è di circa il 25% superiore al nostro. Si può aggiungere che, in Italia, l’occupazione nel settore pubblico riguarda prevalentemente individui con elevata scolarizzazione. In più, la convinzione che i dipendenti pubblici siano ben retribuiti e godano di eccesso di protezioni è palesemente smentita sul piano empirico. L’Istat registra un aumento della retribuzione oraria netta del 21% su base annua per i lavoratori del settore privato, a fronte di incrementi pressoché nulli nel settore pubblico. E si calcola che la gran parte dei contratti a tempo determinato sono somministrati dalla pubblica amministrazione. Dunque, i dipendenti pubblici, in media, guadagnano meno dei loro colleghi del settore privato e sono più frequentemente assunti con contratti precari.Per quanto riguarda la produttività del lavoro nel settore pubblico, pure a fronte delle rilevanti difficoltà di misurazione, e pur volendo accettare la tesi che questa è più bassa rispetto al settore privato, occorre ricordare che l’operatore pubblico svolge, di norma, le proprie funzioni in quelle che William Baumol definiva “attività stagnanti”, ovvero attività nelle quali (si pensi ai servizi alla persona) risulta impossibile generare avanzamento tecnico e, dunque, incrementi di produttività. In tal senso, se anche si ritiene che il ‘merito’ del singolo lavoratore sia misurabile e che lo sia anche nei servizi nel settore pubblico, da ciò non si può immediatamente dedurre che questa conclusione discende dal basso rendimento degli occupati, potendo più realisticamente dipendere dalla bassa accumulazione di capitale. Si calcola anche che il tasso di assenteismo dei lavoratori del settore pubblico italiano è in linea con la media europea. I fautori delle privatizzazioni sostengono che l’operatore privato è sempre più efficiente dell’operatore pubblico. Lo Stato deve limitarsi a creare le condizioni necessarie affinché l’esercizio della libertà d’impresa avvenga nel rispetto delle norme e dei contratti vigenti.Nella fattispecie della società Autostrade, si propone (così Confindustria) l’istituzione di una commissione che esamini le concessioni e vigili sullo svolgimento del servizio. Non si ammette quello che si considera il ritorno ai “carrozzoni di Stato”. Per contro, i fautori delle nazionalizzazioni ritengono che possa essere solo lo Stato a svolgere funzioni di interesse generale e, nel caso della società Autostrade, propongono (in linea con il governo) la revoca della concessione. Quest’ultima posizione è condivisibile, se non altro per come è stato gestito il processo di privatizzazione in Italia, con una puntualizzazione, che riguarda la selezione dei nostri manager pubblici. Si tratta di una questione pressoché ignorata, ma rilevante. Su fonte ministero dell’economia e delle finanze, risulta che l’Italia ha pochi dirigenti pubblici, molto meno dei principali paesi europei. Risulta anche che sono mediamente più anziani. Soprattutto risulta assente una scuola di alta formazione, come esiste in altri paesi europei (si pensi al caso francese).Vi è di più. La lunga stagione delle privatizzazioni – durata almeno un ventennio in Italia, nella sostanziale assenza di voci critiche – coincise con la cosiddetta svolta neoliberista e con la convinzione che oltre a generare maggiore efficienza, la cessione di asset pubblici a privati fosse necessaria per aumentare il gettito fiscale e generare avanzi primari. Le privatizzazioni – intenzionalmente o meno – servivano anche ad accrescere le diseguaglianze distributive, sia per l’aumento delle tariffe, sia perché – e per conseguenza – l’accesso a servizi privati è più difficile per i percettori di redditi bassi. Si riteneva che l’aumento delle diseguaglianze fosse un motore di crescita attraverso i cosiddetti effetti di sgocciolamento: i ricchi, in quanto più produttivi (per ipotesi), contribuiscono maggiormente alla crescita economica, rendendo successivamente possibili misure di trasferimento a vantaggio dei più poveri. La redistribuzione a vantaggio dei più ricchi si è verificata, lo sgocciolamento no.La convinzione per la quale le privatizzazioni servono ad aumentare le entrate fiscali e a generare crescita è molto problematica e, nei fatti, sembra essere falsa. Ciò a ragione del fatto che, per definizione, esse implicano – come si è verificato in Italia – una riduzione delle dimensioni del settore pubblico. Come certificato dall’Inps, il primo effetto (ovvio e prevedibile) derivante dalla riduzione del numero di dipendenti pubblici è proprio la riduzione delle entrate fiscali. Il privato può più facilmente evadere o eludere. Il secondo (altrettanto prevedibile) risultato consiste nell’accentuazione della caduta della domanda interna, per il tramite dei minori consumi derivanti dalla decurtazione dei redditi nel pubblico impiego. Il terzo risultato è il peggioramento della qualità dei servizi offerti, come conseguenza (anch’essa ovvia) della riduzione del numero di occupati.(Guglielmo Forges Davanzati, “Alcuni effetti indesiderati delle privatizzazioni in Italia”, da “Megachip” del 21 agosto 2018).La tragedia di Genova ha contribuito a spostare l’agenda del dibattito pubblico sull’alternativa fra privatizzazione e nazionalizzazione. In premessa: nel caso italiano, appare difficile negare che le privatizzazioni abbiano prodotto più danni che benefici. Si sono realizzate essenzialmente attraverso la cessione di monopoli pubblici a monopoli privati, con conseguente aumento delle tariffe e, molto spesso, con peggioramento della qualità dei servizi erogati. A partire dagli anni Novanta si è assistito a un rilevante passo indietro dell’intervento pubblico in economica. Ovviamente si è trattato di un fenomeno globale, che, come spesso accade, l’Italia ha sperimentato più tardi (la prima ondata di privatizzazioni in Europa si ha nell’Inghilterra della signora Thatcher negli anni Ottanta) e, quando lo ha sperimentato, lo ha fatto con la massima accelerazione. Il ritiro dello Stato si registra in un notevole dimagrimento del settore pubblico italiano, in particolare per numero di addetti. L’intero settore pubblico italiano nelle due diverse ramificazioni è nei fatti il più sottodimensionato d’Europa.
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Magaldi: cade il governo? Tanto meglio per Lega e 5 Stelle
Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.«Ecco perché applaudo Salvini: per una volta, il ministro dell’interno ha “tenuto il punto”, rinunciando a piegarsi ai diktat dell’oligarchia europea», dice Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. Troppo comodo – e ipocrita – il moralismo di chi accusa il leader della Lega di mancanza di umanità, specie se l’attacco proviene dal potere neoliberista che ha razziato l’Africa e imposto, ai lavoratori italiani, il “dumping” salariale dei neo-schiavi, costretti a fare concorrenza sleale alla nostra forza lavoro, accettando condizioni disumane di sfruttamento. Dov’era, il centrosinistra che oggi si scaglia con inaudita violenza contro Salvini, quando si trattava di gestire l’economia in modo equo, evitando di far sprofondare il paese nella crisi più nera? Bersani “impiccava” lo Stato al nodo scorsoio del pareggio di bilancio, insieme al cappio della legge Fornero sulle pensioni, prima ancora che Renzi facesse piazza pulita – con il Jobs Act – degli ultimi diritti sindacali. Ed ecco oggi la “guerra tra poveri”, che oppone lavoratori italiani e stranieri, vittime – tutti – della stessa catastrofe macroeconomica: lo Stato in bolletta, impossibilitato a investire denaro per produrre lavoro grazie a una gestione privatistica dell’euro, senza neppure il paracadute degli eurobond a garantire il necessario debito pubblico.Nel lucido ragionamento di Magaldi, la tragedia di Genova e la rissa mediatica sui naufraghi a bordo della nave Diciotti («con le accuse surreali rivolte a Salvini dalla magistratura») sono due facce, drammatiche, della stessa medaglia: da una parte la vecchia élite che ha prodotto solo macerie (infrastrutturali e sociali) e dall’altra il primo governo “sovranista”, da 25 anni a questa parte, che cerca di rimediare allo sfacelo. «Per fortuna – insiste Magaldi – Salvini ha inaugurato la linea necessaria, quella della fermezza: che non ha certo per bersaglio i migranti, ma l’ipocrisia con cui Bruxelles vorrebbe continuare a non-gestire un fenomeno vergognoso come l’esodo da paesi africani letteralmente depredati dell’élite europea». Azione necessaria, quella del governo Conte, ma non sufficiente: «Sarà meglio che, anche sui provvedimenti econonici, Salvini e Di Maio comincino a passare dalle parole ai fatti, cercando di attuare quello che hanno promesso agli italiani. Nel caso non ce la dovessero fare, però – aggiunge Magaldi – non sarebbe affatto un male». Già, perché dopo eventuali elezioni anticipate, aggiunge, la coalizione “gialloverde”, ormai strategicamente coesa, farebbe l’en plein e ripartirebbe con maggiore slancio, per abbattere il Muro di Bruxelles fondato sulla “teologia” dell’austerity.Keynesiano e progressista, Magaldi non ha dubbi: tutta l’Europa è in crisi, perché negli ultimi decenni il continente è caduto, letteralmente, nelle mani di una ristretta cerchia di oligarchi. Hanno contrabbandato per virtù l’ideologia del rigore di bilancio, con trattati-capestro che hanno amputato gli Stati del potere sovrano di investire nell’economia. Risultato: classe media in via di estinzione, popoli impoveriti, democrazie svuotate ed élite divenute improvvisamente miliardarie, padrone di tutto ciò che prima era pubblico – acqua, energia, trasporti, telefonia e Poste, persino le autostrade. Nel bestseller “Massoni”, Magaldi ha fornito nomi e cognomi della cabina di regia – supermassonica – che ha pilotato questa globalizzazione selvaggia e senza diritti, a beneficio esclusivo delle multinazionali finanziarie. Il complottismo degli ultimi anni punta il dito contro le malefatte della Trilaterale? «Ma quella è solo una emanazione, peraltro piuttosto trasparente, della Ur-Lodge “Three Eyes”», a lungo ispirata da personaggi come Kissinger, Rockefeller e Brzezisnki.I blogger più esasperati, come Daniel Estulin, se la prendono con il Bilderberg e i suoi invitati, da Lilli Gruber al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin? «Aprite gli occhi: le notizie che lo stesso Bilderberg lascia filtrare servono solo a produrre il gossip necessario a distogliere l’attenzione dai veri manovratori, i “fratelli controiniziati” delle Ur-Lodges reazionarie: personaggi che, certo, non finiscono sui giornali». Che fare, dunque? Esattamente quello che sta facendo il governo Conte, ribadisce Magaldi, fautore di un risveglio democratico europeo, di cui l’Italia “gialloverde” sembra destinata a fare da apripista. Una “profezia” che il presidente del Movimento Roosevelt (“metapartito” nato proprio per rianimare lo scenario politico italiano in senso progressista) aveva formulato in tempi non sospetti: vedrete, aveva annunciato, che alla fine sarà proprio questa scassatissima Italia a invertire il corso della storia, mettendo in campo forze politiche in grado di smascherare la grande impostura neoliberista che ha impoverito l’Europa spolpando Stati e popoli.Quelle a cui stiamo assistendo oggi, in fondo, sono le prove generali di una rivoluzione culturale: verrà il giorno in cui la parola “spread” perderà ogni significato, perché la finanza pubblica sarà tornata a garantire pienamente tutto il deficit necessario a rimettere in piedi il paese, cominciando dalla ricostruzione delle troppe infrastrutture fatiscenti, lasciate agonizzare da governi costretti a elemosinare “a strozzo” gli euro della Bce. «A proposito: spero che i familiari delle vittime di Genova non si rivalgano solo sugli eventuali responsabili della società autostradale, ma chiedano di essere risarciti anche dai governi precedenti, che hanno creato le premesse del disastro». In ogni caso, Magaldi è ottimista: «Che il governo Conte regga o meno alla prova d’autunno, è irrilevante: indietro non si torna. La destrutturazione politica della Seconda Repubblica è ormai nei fatti». Gli italiani sembrano aver capito che centrodestra e centrosinistra fingevano soltanto di essere alternativi. Nella realtà non hanno fatto altro che obbedire ai diktat dei grandi privatizzatori neoliberisti: quelli che oggi sparano su Salvini, temendo che l’Italia si stia davvero risvegliando.Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.
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Mafia, Wall Street e traditori: così è stata svenduta l’Italia
Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza aglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.Era il 1992, all’improvviso un’intera classe politica dirigente crollava sotto i colpi delle indagini giudiziarie. Da oltre quarant’anni era stata al potere. Gli italiani avevano sospettato a lungo che il sistema politico si basasse sulla corruzione e sul clientelismo. Ma nulla aveva potuto scalfirlo. Né le denunce, né le proteste popolari (talvolta represse nel sangue), né i casi di connivenza con la mafia, che di tanto in tanto salivano alla cronaca. Ma ecco che, improvvisamente, il sistema crollava. Cos’era successo da fare in modo che gli italiani potessero avere, inaspettatamente, la soddisfazione di constatare che i loro sospetti sulla corruzione del sistema politico erano reali? Mentre l’attenzione degli italiani era puntata sullo scandalo delle tangenti, il governo italiano stava prendendo decisioni importantissime per il futuro del paese. Con l’uragano di Tangentopoli gli italiani credettero che potesse iniziare un periodo migliore per l’Italia. Ma in segreto, il governo stava attuando politiche che avrebbero peggiorato il futuro del paese. Numerose aziende saranno svendute, persino la Banca d’Italia sarà messa in vendita. La svendita venne chiamata “privatizzazione”.Il 1992 fu un anno di allarme e di segretezza. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti, il 16 marzo, lanciò un allarme a tutti i prefetti, temendo una serie di attacchi contro la democrazia italiana. Gli attacchi previsti da Scotti erano eventi come l’uccisione di politici o il rapimento del presidente della Repubblica. Gli attacchi ci furono, e andarono a buon fine, ma non si trattò degli eventi previsti dal ministro degli interni. L’attacco alla democrazia fu assai più nascosto e destabilizzante. Nel maggio del 1992, Giovanni Falcone venne ucciso dalla mafia. Egli stava indagando sui flussi di denaro sporco, e la pista stava portando a risultati che potevano collegare la mafia ad importanti circuiti finanziari internazionali. Falcone aveva anche scoperto che alcuni personaggi prestigiosi di Palermo erano affiliati ad alcune logge massoniche di rito scozzese, a cui appartenevano anche diversi mafiosi, ad esempio Giovanni Lo Cascio. La pista delle logge correva parallela a quella dei circuiti finanziari, e avrebbe portato a risultati certi, se Falcone non fosse stato ucciso.Su Falcone erano state diffuse calunnie che cercavano di capovolgere la realtà di un magistrato integro. La gente intuiva che le istituzioni non lo avevano protetto. Ciò emerse anche durante il suo funerale, quando gli agenti di polizia si posizionarono davanti alle bare, impedendo a chiunque di avvicinarsi. Qualcuno gridò: «Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi». Che la mafia stesse utilizzando metodi per colpire il paese intero, in modo da spaventarlo e fargli accettare passivamente il “nuovo corso” degli eventi, lo si vedrà anche dagli attentati del 1993. Gli attentati del 1993 ebbero caratteristiche assai simili agli attentati terroristici degli anni della “strategia della tensione”, e sicuramente avevano lo scopo di spaventare il paese, per indebolirlo. Il 4 maggio 1993, un’autobomba esplode in via Fauro a Roma, nel quartiere Parioli. Il 27 maggio un’altra autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze, cinque persone perdono la vita. La notte tra il 27 e il 28 luglio, ancora un’autobomba esplode in via Palestro a Milano, uccidendo cinque persone.I responsabili non furono mai identificati, e si disse che la mafia volesse “colpire le opere d’arte nazionali”, ma non era mai accaduto nulla di simile. I familiari delle vittime e il giudice Giuseppe Soresina saranno concordi nel ritenere che quegli attentati non erano stati compiuti soltanto dalla mafia, ma anche da altri personaggi dalle «menti più fini dei mafiosi» (da “reti-invisibili.net”). Falcone era un vero avversario della mafia. Le sue indagini passarono a Borsellino, che venne assassinato due mesi dopo. La loro morte ha decretato il trionfo di un sistema mafioso e criminale, che avrebbe messo le mani sull’economia italiana, e costretto il paese alla completa sottomissione politica e finanziaria. Mentre il ministro Scotti faceva una dichiarazione che suonava quasi come una minaccia («la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo Stato e piegarlo ai propri voleri»), Borsellino lamentava regole e leggi che non permettevano una vera lotta contro la mafia. Egli osservava: «Non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti a un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste» (“La Repubblica” , 27 maggio 1992).I metodi statali di sabotaggio della lotta contro la mafia sono stati denunciati da numerosi esponenti della magistratura. Ad esempio, il 27 maggio 1992, il presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto, che doveva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci, si trovò in gravi difficoltà: «Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al Csm» (“La Repubblica”, 28 maggio 1992). Anche il pubblico ministero di Palermo, Roberto Scarpinato, nel giugno del 1992 disse: «Su un piatto della bilancia c’è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti» (“La Repubblica”, 10 giugno 1992). Nello stesso anno, il senatore Maurizio Calvi raccontò che Falcone gli confessò di non fidarsi del comando dei carabinieri di Palermo, della questura di Palermo e nemmeno della prefettura di Palermo (“La Repubblica”, 23 giugno 1992).Che gli assassini di Capaci non fossero tutti italiani, molti lo sospettavano. Il ministro Martelli, durante una visita in Sudamerica, dichiarò: «Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana» (“La Repubblica”, 23 giugno 1992). Lo stesso presidente del Consiglio, Amato, durante una visita a Monaco, disse: «Falcone è stato ucciso a Palermo, ma probabilmente l’omicidio è stato deciso altrove». Probabilmente, le tecniche d’indagine di Falcone non piacevano ai personaggi con cui il governo italiano ebbe a che fare quell’anno. Quel considerare la lotta alla mafia soprattutto un dovere morale e culturale, quel coinvolgere le persone nel candore dell’onestà e dell’assenza di compromessi, gli erano valsi la persecuzione e i metodi di calunnia tipici dei servizi segreti inglesi e statunitensi. Tali metodi mirano ad isolare e a criminalizzare, cercando di fare apparire il contrario di ciò che è. Cercarono di far apparire Falcone un complice della mafia. Antonino Caponnetto dichiarò al giornale “La Repubblica”, il 25 giugno 1992: «Non si può negare che c’è stata una campagna (contro Falcone), cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato».L’omicidio di due simboli dello Stato così importanti come Falcone e Borsellino significava qualcosa di nuovo. Erano state toccate le corde dell’élite di potere internazionale, e questi omicidi brutali lo testimoniavano. Ciò è stato intuito anche da Charles Rose, procuratore distrettuale di New York, che notò la particolarità degli attentati: «Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura… Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi… è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove» (“La Repubblica”, 27 maggio 1992). Infatti, quell’anno gli italiani capirono che c’era qualcosa di nuovo, e scesero in piazza contro la mafia. Si formarono due fronti: la gente comune contro la mafia, e le istituzioni, che si stavano sottomettendo all’élite che coordina le mafie internazionali. Quell’anno l’élite anglo-americana non voleva soltanto impedire la lotta efficace contro la mafia, ma voleva rendere l’Italia un paese completamente soggiogato ad un sistema mafioso e criminale, che avrebbe dominato attraverso il potere finanziario.Come segnalò il presidente del Senato Giovanni Spadolini, c’era in atto un’operazione su larga scala per distruggere la democrazia italiana: «Il fine della criminalità mafiosa sembra essere identico a quello del terrorismo nella fase più acuta della stagione degli anni di piombo: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. L’obiettivo è sempre lo stesso: delegittimare lo Stato, rompere il circuito di fiducia tra cittadini e potere democratico…se poi noi scorgiamo – e ne abbiamo il diritto – qualche collegamento internazionale intorno alla sfida mafia più terrorismo, allora ci domandiamo: ma forse si rinnovano gli scenari di dodici-undici anni fa? Le minacce dei centri di cospirazione affaristico-politica come la P2 sono permanenti nella vita democratica italiana. E c’è un filone piduista che sopravvive, non sappiamo con quanti altri. Mafia e P2 sono congiunte fin dalle origini, fin dalla vicenda Sindona» (“La Repubblica”, 11 agosto 1992). Anche Tina Anselmi aveva capito i legami fra mafia e finanza internazionale: «Bisogna stare attenti, molto attenti… Ho parlato del vecchio “piano di rinascita democratica” di Gelli e confermo che leggerlo oggi fa sobbalzare. E’ in piena attuazione… Chi ha grandi mezzi e tanti soldi fa sempre politica e la fa a livello nazionale ed internazionale».«Ho parlato in questi giorni con un importante uomo politico italiano che vive nel mondo delle banche. Sa cosa mi ha detto? Che la mafia è stata più veloce degli industriali e che sta già investendo centinaia di miliardi, frutto dei guadagni fatti con la droga, nei paesi dell’est… Stanno già comprando giornali e televisioni private, industrie e alberghi… Quegli investimenti si trasformeranno anche in precise e specifiche azioni politiche che ci riguardano, ci riguardano tutti. Dopo le stragi di Palermo la polizia americana è venuta ad indagare in Sicilia anche per questo, sanno di questi investimenti colossali, fatti regolarmente attraverso le banche» (“L’Unità”, 12 agosto 1992). Anni dopo, l’ex ministro Scotti confesserà a Cirino Pomicino: «Tutto nacque da una comunicazione riservata fattami dal capo della polizia Parisi che, sulla base di un lavoro di intelligence svolto dal Sisde e supportato da informazioni confidenziali, parlava di riunioni internazionali nelle quali sarebbero state decise azioni destabilizzanti sia con attentati mafiosi sia con indagini giudiziarie nei confronti dei leader dei partiti di governo».Una delle riunioni di cui parlava Scotti si svolse il 2 giugno del 1992, sul panfilo Britannia, in navigazione lungo le coste siciliane. Sul panfilo c’erano alcuni appartenenti all’élite di potere anglo-americana, come i reali britannici e i grandi banchieri delle banche a cui si rivolgerà il governo italiano durante la fase delle privatizzazioni (Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers). In quella riunione si decise di acquistare le aziende italiane e la Banca d’Italia, e come far crollare il vecchio sistema politico per insediarne un altro, completamente manovrato dai nuovi padroni. A quella riunione parteciparono anche diversi italiani, come Mario Draghi, allora direttore delegato del ministero del Tesoro, il dirigente dell’Eni Beniamino Andreatta e il dirigente dell’Iri Riccardo Galli. Gli intrighi decisi sul Britannia avrebbero permesso agli anglo-americani di mettere le mani sul 48% delle aziende italiane, fra le quali c’erano la Buitoni, la Locatelli, la Negroni, la Ferrarelle, la Perugina e la Galbani. La stampa martellava su Mani Pulite, facendo intendere che da quell’evento sarebbero derivati grandi cambiamenti.Nel giugno 1992 si insediò il governo di Giuliano Amato. Si trattava di un personaggio in armonia con gli speculatori che ambivano ad appropriarsi dell’Italia. Infatti Amato, per iniziare le privatizzazioni, si affrettò a consultare il centro del potere finanziario internazionale: le tre grandi banche di Wall Street, Merrill Lynch, Goldman Sachs e Salomon Brothers. Appena salito al potere, Amato trasformò gli enti statali in società per azioni, valendosi del decreto Legge 386/1991, in modo tale che l’élite finanziaria li potesse controllare, e in seguito rilevare. L’inizio fu concertato dal Fondo Monetario Internazionale, che come aveva fatto in altri paesi, voleva privatizzare selvaggiamente e svalutare la nostra moneta, per agevolare il dominio economico-finanziario dell’élite. L’incarico di far crollare l’economia italiana venne dato a George Soros, un cittadino americano che tramite informazioni ricevute dai Rothschild, con la complicità di alcune autorità italiane, riuscì a far crollare la nostra moneta e le azioni di molte aziende italiane. Soros ebbe l’incarico, da parte dei banchieri anglo-americani, di attuare una serie di speculazioni, efficaci grazie alle informazioni che egli riceveva dall’élite finanziaria. Egli fece attacchi speculativi degli “hedge funds” per far crollare la lira. A causa di questi attacchi, il 5 novembre del 1993 la lira perse il 30% del suo valore, e anche negli anni successivi subì svalutazioni.Le reti della Banca Rothschild, attraverso il direttore Richard Katz, misero le mani sull’Eni, che venne svenduta. Il gruppo Rothschild ebbe un ruolo preminente anche sulle altre privatizzazioni, compresa quella della Banca d’Italia. C’erano stretti legami fra il Quantum Fund di George Soros e i Rothschild. Ma anche numerosi altri membri dell’élite finanziaria anglo-americana, come Alfred Hartmann e Georges C. Karlweis, furono coinvolti nei processi di privatizzazione delle aziende e della Banca d’Italia. La Rothschild Italia Spa, filiale di Milano della Rothschild & Sons di Londra, venne creata nel 1989, sotto la direzione di Richard Katz. Quest’ultimo diventò direttore del Quantum Fund di Soros nel periodo delle speculazioni a danno della lira. Soros era stato incaricato dai Rothschild di attuare una serie di speculazioni contro la sterlina, il marco e la lira, per destabilizzare il Sistema Monetario Europeo. Sempre per conto degli stessi committenti, egli fece diverse speculazioni contro le monete di alcuni paesi asiatici, come l’Indonesia e la Malesia. Dopo la distruzione finanziaria dell’Europa e dell’Asia, Soros venne incaricato di creare una rete per la diffusione degli stupefacenti in Europa.In seguito, i Rothschild, fedeli al loro modo di fare, cercarono di far cadere la responsabilità del crollo economico italiano su qualcun altro. Attraverso una serie di articoli pubblicati sul “Financial Times”, accusarono la Germania, sostenendo che la Bundesbank aveva attuato operazioni di aggiotaggio contro la lira. L’accusa non reggeva, perché i vantaggi del crollo della lira e della svendita delle imprese italiane andarono agli anglo-americani. La privatizzazione è stata un saccheggio, che ancora continua. Spiega Paolo Raimondi, del Movimento Solidarietà: «Abbiamo avuto anni di privatizzazione, saccheggio dell’economia produttiva e l’esplosione della bolla della finanza derivata. Questa stessa strategia di destabilizzazione riparte oggi, quando l’Europa continentale viene nuovamente attratta, anche se non come promotrice e con prospettive ancora da definire, nel grande progetto di infrastrutture di base del Ponte di Sviluppo Eurasiatico» (da “Solidarietà”, febbraio 1996).Qualche anno dopo la magistratura italiana procederà contro Soros, ma senza alcun successo. Nell’ottobre del 1995, il presidente del Movimento Internazionale per i Diritti Civili-Solidarietà, Paolo Raimondi, presentò un esposto alla magistratura per aprire un’inchiesta sulle attività speculative di Soros & Co, che avevano colpito la lira. L’attacco speculativo aveva permesso a Soros di impossessarsi di 15.000 miliardi di lire. Per contrastare l’attacco, l’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, bruciò inutilmente 48 miliardi di dollari. Su Soros indagarono le procure della Repubblica di Roma e di Napoli, che fecero luce anche sulle attività della Banca d’Italia nel periodo del crollo della lira. Soros venne accusato di aggiotaggio e insider trading, avendo utilizzato informazioni riservate che gli permettevano di speculare con sicurezza e di anticipare movimenti su titoli, cambi e valori delle monete.Spiegano il presidente e il segretario generale del Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà, durante l’esposto contro Soros: «È stata annotata nel 1991 l’esistenza di un contatto molto stretto e particolare del signor Soros con Gerald Carrigan, presidente della Federal Reserve Bank di New York, che fa parte dell’apparato della banca centrale americana, luogo di massima circolazione di informazioni economiche riservate, il quale, stranamente, una volta dimessosi da questo posto, venne poi immediatamente assunto a tempo pieno dalla finanziaria Goldman Sachs & co. come presidente dei consiglieri internazionali. La Goldman Sachs è uno dei centri della grande speculazione sui derivati e sulle monete a livello mondiale. La Goldman Sachs è anche coinvolta in modo diretto nella politica delle privatizzazioni in Italia. In Italia inoltre, il signor Soros conta sulla strettissima collaborazione del signor Isidoro Albertini, ex presidente degli agenti di cambio della Borsa di Milano e attuale presidente della Albertini e co. Sim di Milano, una delle ditte guida nel settore speculativo dei derivati. Albertini è membro del consiglio di amministrazione del Quantum Fund di Soros».«L’attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 era stato preceduto e preparato dal famoso incontro del 2 giugno 1992 sullo yacht Britannia della regina Elisabetta II d’Inghilterra, dove i massimi rappresentanti della finanza internazionale, soprattutto britannica, impegnati nella grande speculazione dei derivati, come la S. G. Warburg, la Barings e simili, si incontrarono con la controparte italiana guidata da Mario Draghi, direttore generale del ministero del Tesoro, e dal futuro ministro Beniamino Andreatta, per pianificare la privatizzazione dell’industria di Stato italiana. A seguito dell’attacco speculativo contro la lira e della sua immediata svalutazione del 30%, codesta privatizzazione sarebbe stata fatta a prezzi stracciati, a beneficio della grande finanza internazionale e a discapito degli interessi dello stato italiano e dell’economia nazionale e dell’occupazione. Stranamente, gli stessi partecipanti all’incontro del Britannia avevano già ottenuto l’autorizzazione da parte di uomini di governo come Mario Draghi, di studiare e programmare le privatizzazioni stesse. Qui ci si riferisce per esempio alla Warburg, alla Morgan Stanley, solo per fare due tra gli esempi più noti. L’agenzia stampa “Eir” (Executive Intelligence Review) ha denunciato pubblicamente questa sordida operazione alla fine del 1992 provocando una serie di interpellanze parlamentari e di discussioni politiche che hanno avuto il merito di mettere in discussione l’intero procedimento, alquanto singolare, di privatizzazione» (dall’esposto della magistratura contro George Soros presentato dal Movimento Solidarietà al procuratore della Repubblica di Milano il 27 ottobre 1995).I complici italiani furono il ministro del Tesoro Piero Barucci, l’allora direttore di Bankitalia Lamberto Dini e l’allora governatore di Bankitalia Carlo Azeglio Ciampi. Altre responsabilità vanno all’allora capo del governo Giuliano Amato e al direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Alcune autorità italiane (come Dini) fecero il doppio gioco: denunciavano i pericoli ma in segreto appoggiavano gli speculatori. Amato aveva costretto i sindacati ad accettare un accordo salariale non conveniente ai lavoratori, per la «necessità di rimanere nel Sistema Monetario Europeo», pur sapendo che l’Italia ne sarebbe uscita a causa delle imminenti speculazioni. Gli attacchi all’economia italiana andarono avanti per tutti gli anni Novanta, fino a quando il sistema economico-finanziario italiano non cadde sotto il completo controllo dell’élite. Nel gennaio del 1996, nel rapporto semestrale sulla politica informativa e della sicurezza, il presidente del Consiglio Lamberto Dini disse: «I mercati valutari e le Borse delle principali piazze mondiali continuano a registrare correnti speculative ai danni della nostra moneta, originate, specie in passaggi delicati della vita politico-istituzionale, dalla diffusione incontrollata di notizie infondate riguardanti la compagine governativa e da anticipazioni di dati oggetto delle periodiche comunicazioni sui prezzi al consumo… è possibile attendersi la reiterazione di manovre speculative fraudolente, considerato il persistere di una fase congiunturale interna e le scadenze dell’unificazione monetaria» (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, Rivista N. 4, gennaio-aprile 1996).Il giorno dopo, il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, riferiva che l’Italia non poteva far nulla contro le correnti speculative sui mercati dei cambi, perché «se le banche di emissione tentano di far cambiare direzione o di fermare il vento (delle operazioni finanziarie) non ce la fanno per la dimensione delle masse in movimento sui mercati rispetto alla loro capacità di fuoco». Le nostre autorità denunciavano il potere dell’élite internazionale, ma gettavano la spugna, ritenendo inevitabili quegli eventi. Era in gioco il futuro economico-finanziario del paese, ma nessuna autorità italiana pensava di poter fare qualcosa contro gli attacchi destabilizzanti dell’élite anglo-americana. Il Movimento Solidarietà fu l’unico a denunciare quello che stava effettivamente accadendo, additando i veri responsabili del crollo dell’economia italiana. Il 28 giugno 1993, il Movimento Solidarietà svolse una conferenza a Milano, in cui rese nota a tutti la riunione sul Britannia e quello che ne era derivato (“Solidarietà”, ottobre 1993). Il 6 novembre 1993, l’allora presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, scrisse una lettera al procuratore capo della Repubblica di Roma, Vittorio Mele, per avviare «le procedure relative al delitto previsto all’art. 501 del codice penale (“Rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio”), considerato nell’ipotesi delle aggravanti in esso contenute».Anche a Ciampi era evidente il reato di aggiotaggio da parte di Soros, che aveva operato contro la lira e i titoli quotati in Borsa delle nostre aziende. Anche negli anni successivi avvennero altre privatizzazioni, senza regole precise e a prezzi di favore. Che stesse cambiando qualcosa, gli italiani lo capivano dal cambio di nome delle aziende, la Sip era diventata Telecom Italia e le Ferrovie dello Stato erano diventate Trenitalia. Il decreto legislativo 79/99 avrebbe permesso la privatizzazione delle aziende energetiche. Nel settore del gas e dell’elettricità apparvero numerose aziende private, oggi circa 300. Dal 24 febbraio del 1998, anche le Poste Italiane diventarono una Spa. In seguito alla privatizzazione delle Poste, i costi postali sono aumentati a dismisura e i lavoratori postali vengono assunti con contratti precari. Oltre 400 uffici postali sono stati chiusi, e quelli rimasti aperti appaiono come luoghi di vendita più che di servizio. Le nostre autorità giustificavano la svendita delle privatizzazioni dicendo che si doveva «risanare il bilancio pubblico», ma non specificavano che si trattava di pagare altro denaro alle banche, in cambio di banconote che valevano come la carta straccia. A guadagnare sarebbero state soltanto le banche e i pochi imprenditori già ricchi (Benetton, Tronchetti Provera, Pirelli, Colaninno, Gnutti e pochi altri).Si diceva che le privatizzazioni avrebbero migliorato la gestione delle aziende, ma in realtà, in tutti i casi, si sono verificati disastri di vario genere, e il rimedio è stato pagato dai cittadini italiani. Le nostre aziende sono state svendute ad imprenditori che quasi sempre agivano per conto dell’élite finanziaria, da cui ricevevano le somme per l’acquisto. La privatizzazione della Telecom avvenne nell’ottobre del 1997. Fu venduta a 11,82 miliardi di euro, ma alla fine si incassarono soltanto 7,5 miliardi. La società fu rilevata da un gruppo di imprenditori e banche, e al ministero del Tesoro rimase una quota del 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo aveva perso il 20% (4,33 euro). Le banche dell’élite, la Chase Manhattan e la Lehman Brothers, si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colaninno, che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan, l’Olivetti diventò proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell, una società con sede a Lussemburgo, a sua volta controllata dalla Hopa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno. Il titolo, che durante l’Opa era stato fatto salire a 20 euro, nel giro un anno si dimezzò. Dopo pochi anni finirà sotto i tre euro.Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e la Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte loro quota azionaria in Olivetti. Il presidente di Pirelli, finanziato dalla Jp Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit). Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone sono state licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti sono aumentati e la società è in perdita. La privatizzazione, oltre che un saccheggio, veniva ad essere anche un modo per truffare i piccoli azionisti. La Telecom, come molte altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri, per non pagare le tasse allo Stato italiano. Oltre a perdere le aziende, gli italiani sono stati privati anche degli introiti fiscali di quelle aziende. La Bell, società che controllava la Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo, e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, che, com’è noto, sono un paradiso fiscale.Gli speculatori finanziari basano la loro attività sull’esistenza di questi paradisi fiscali, dove non è possibile ottenere informazioni nemmeno alle autorità giudiziarie. I paradisi fiscali hanno permesso agli speculatori di distruggere le economie di interi paesi, eppure i media non parlano mai di questo gravissimo problema. Mettere un’azienda importante come quella telefonica in mani private significa anche non tutelare la privacy dei cittadini, che infatti è stata più volte calpestata, com’è emerso negli ultimi anni. Anche per le altre privatizzazioni – Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia – si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei risparmiatori, degrado del servizio, spreco di denaro pubblico, cattiva amministrazione e problemi di vario genere. La famiglia Benetton è diventata azionista di maggioranza delle Autostrade. Il contratto di privatizzazione delle Autostrade dava vantaggi soltanto agli acquirenti, facendo rimanere l’onere della manutenzione sulle spalle dei contribuenti. I Benetton hanno incassato un bel po’ di denaro grazie alla fusione di Autostrade con il gruppo spagnolo Abertis. La fusione è avvenuta con la complicità del governo Prodi, che in seguito ad un vertice con Zapatero, ha deciso di autorizzarla. Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, si era opposto, ma ha alla fine si è piegato alle proteste dell’Unione Europea e alla politica del presidente del Consiglio.Nonostante i disastri delle privatizzazioni, le nostre autorità governative non hanno alcuna intenzione di rinazionalizzare le imprese allo sfacelo, anzi, sono disposte ad utilizzare denaro pubblico per riparare ai danni causati dai privati. La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli al personale (ad esempio, non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali). Nel 2006, l’amministratore delegato di Trenitalia, Mauro Moretti, si è presentato ad una audizione alla commissione lavori pubblici del Senato, per battere cassa, confessando un buco di un miliardo e settecento milioni di euro, che avrebbe potuto portare la società al fallimento. Nell’ottobre del 2006, il ministro dei trasporti, Alessandro Bianchi, approvò il piano di ricapitalizzazione proposto da Trenitalia. Altro denaro pubblico ad un’azienda privatizzata ridotta allo sfacelo.Dietro tutto questo c’era l’élite economico finanziaria (Morgan, Schiff, Harriman, Kahn, Warburg, Rockfeller, Rothschild) che ha agito preparando un progetto di devastazione dell’economia italiana, e lo ha attuato valendosi di politici, di finanzieri e di imprenditori. Nascondersi è facile in un sistema in cui le banche o le società possono assumere il controllo di altre società o banche. Questo significa che è sempre difficile capire veramente chi controlla le società privatizzate. E’ simile al gioco delle scatole cinesi, come spiega Giuseppe Turani: «Colaninno & soci controllano al 51% la Hopa, che controlla il 56,6% della Bell, che controlla il 13,9% della Olivetti, che controlla il 70% della Tecnost, che controlla il 52% della Telecom» (“La Repubblica”, 5 settembre 1999). Numerose aziende di imprenditori italiani sono state distrutte dal sistema dei mercati finanziari, ad esempio la Cirio e la Parmalat. Queste aziende hanno truffato i risparmiatori vendendo obbligazioni societarie (bond) con un alto margine di rischio. La Parmalat emise bond per un valore di 7 miliardi di euro, e allo stesso tempo attuò operazioni finanziarie speculative e si indebitò. Per non far scendere il valore delle azioni (e per venderne altre) truccava i bilanci.Le banche nazionali e internazionali sostenevano la situazione perché per loro vantaggiosa, e l’agenzia di rating “Standard & Poor’s” si è decisa a declassare la Parmalat soltanto quando la truffa era ormai nota a tutti. I risparmiatori truffati hanno avviato una procedura giudiziaria contro Calisto Tanzi, Fausto Tonna, Coloniale Spa (società della famiglia Tanzi), Citigroup Inc. (società finanziaria americana), Buconero Llc (società che faceva capo a Citigroup), Zini & Associates (una compagnia finanziaria americana), Deloitte Touche Tohmatsu (organizzazione che forniva consulenza e servizi professionali), Deloitte & Touche Spa (società di revisione contabile), Grant Thornton International (società di consulenza finanziaria) e Grant Thornton Spa (società incaricata della revisione contabile del sottogruppo Parmalat Spa). La Cirio era gestita dalla Cragnotti & Partners. I “Partners” non erano altro che una serie di banche nazionali e internazionali. La Cirio emise bond per circa 1.125 milioni di euro. Molte di queste obbligazioni venivano utilizzate dalle banche per spillare denaro ai piccoli risparmiatori. Tutto questo avveniva in perfetta armonia col sistema finanziario, che non offre garanzie di onestà e di trasparenza.Grazie alle privatizzazioni, un gruppo ristretto di ricchi italiani ha acquisito somme enormi, e ha permesso all’élite economico-finanziaria anglo-americana di esercitare un pesante controllo, sui cittadini, sulla politica e sul paese intero. Agli italiani venne dato il contentino di Mani Pulite, che si risolse con numerose assoluzioni e qualche condanna a pochi anni di carcere. A causa delle privatizzazioni e del controllo da parte della Banca Centrale Europea, il paese è più povero e deve pagare somme molto alte per il debito. Ogni anno viene varata la finanziaria, allo scopo di pagare le banche e di partecipare al finanziamento delle loro guerre. Mentre la povertà aumenta, come la disoccupazione, il lavoro precario, il degrado e il potere della mafia. Il nostro paese è oggi controllato da un gruppo di persone, che impongono, attraverso istituti propagandati come “autorevoli” (Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), di tagliare la spesa pubblica, di privatizzare quello che ancora rimane e di attuare politiche non convenienti alla popolazione italiana. I nostri governi operano nell’interesse di questa élite, e non in quello del paese.(Antonella Randazzo, “Come è stata svenduta l’Italia”, da “Disinformazione.it del 12 marzo 2007. La Randazzo ha scritto libri come “Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa”, edito da Kaos nel 2006, “La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell’era dell’egemonia Usa” edito nel 2007 da Zambon e “Dittature. La storia occulta”, pubblicata da “Il Nuovo Mondo”, nel 2007).Falcone e Borsellino? Eliminati per un motivo più che strategico. Braccando la mafia, erano risaliti – tramite la pista massonica – ai legami finanziari tra l’élite Usa e la manovalanza italiana della grande operazione che si stava preparando, e che avrebbe devastato la storia del nostro paese: la svendita dell’Italia all’élite finanziaria globalista, che si servì di collaborazionisti di primissimo piano. Obiettivo: mettere le mani sullo Stato, razziando risorse e togliendo servizi vitali ai cittadini. All’indomani della catastrofe di Genova, coi riflettori puntati sullo strano caso delle autostrade “regalate” ai Benetton (e ai loro potenti soci d’oltreoceano), è illuminante rileggere oggi la paziente ricostruzione realizzata già nel 2007 da Antonella Randazzo. Mentre i giudici di Mani Pulite davano agli italiani l’illusione di un cambiamento nel segno della trasparenza, mettendo fine alla corruzione della Prima Repubblica, la finanza anglosassone convocava a bordo del Britannia gli uomini-chiave della futura Italia, assoldati per sabotare il proprio paese. Sarebbero stati agevolati dalla super-speculazione di George Soros sulla lira, che tolse all’Italia il 30% del suo valore, favorendone la svendita a prezzi stracciati. Da allora, un copione invariabile: aziende pubbliche rilevate da imprenditori italiani finanziati dalle stesse banche anglosassoni che avevano progettato il “golpe”. Il grande complotto contro l’Italia che – per primo – proprio Giovanni Falcone aveva fiutato.