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Polveriera Europa, replay: la Grande Guerra del 2014
I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.La diseguaglianza sociale ed economica nel paese è peggiorata, con la Merkel. Ma anche prima del piccolo incidente sportivo, la cancelliera non sembrava disposta a fare grandi passi (come spesso accade nella miglior tradizione autoritaria ereditata da Guglielmo di Prussia e Germania) e aveva già indicato un “erede al trono”, per assicurare stabilità e continuità anche nel periodo post-Merkel. In altre parole, le politiche economiche neoliberali probabilmente continueranno ad essere applicate in Germania e in Europa per ancora un po’ di tempo. Il 2014 ripropone la situazione del 1914: una possibile Germania imperialista del XXI secolo; il declino della monarchia spagnola e una repubblica italiana fatiscente. Con la sua “volontà d’acciaio”, nel suo terzo mandato la cancelliera sembra determinata a proseguire le politiche draconiane di austerity (distruggendo ulteriormente la crescita economica e favorendo la disoccupazione). Questa scelta implica più fatica e meno guadagni per i milioni di persone che riceveranno questo trattamento, come ad esempio gli spagnoli.A differenza di Berlino e della sua calma apparente, la capitale spagnola si trova ad assistere a continue proteste. Nel frattempo, un vecchio re (a sua volta zoppo per una brutta caduta e costretto ad usare le stampelle per camminare) sta affrontando una “crisi della fiducia in se stesso”. Il re di Spagna Juan Carlos, la cui popolarità un tempo era il simbolo del ritorno alla democrazia dopo il regime franchista, sta assistendo ad una crescente ondata di proteste popolari. Il crescente dissenso della popolazione è fomentato da interminabili scandali dovuti ad episodi di corruzione. La figlia è attualmente coinvolta in uno scandalo per truffa e riciclaggio di denaro. Nel calderone, anche una costante crisi economica. La Spagna riuscì a rimanere neutrale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Nel 2014, il paese è ancora in prima linea nella lotta contro l’austerity in Europa. Il futuro della monarchia resta incerto. In tutto il Mediterraneo, il 2013 si è concluso con le strade invase da proteste, come ad esempio in Italia (una repubblica decrepita, se mai è stata una repubblica) con la “protesta dei forconi”. Come la Spagna, l’Italia è contaminata da una profonda corruzione, instabilità sociale, sistematica instabilità istituzionale (a causa delle associazioni criminali), che ostacolano il processo democratico. Ne consegue una diffusione di movimenti demagogici o clownesco-populistici e la crescente xenofobia. Il movimento anti-politico, da quelle parti, sta sfruttando l’ondata di rabbia contro Roma e Bruxelles (il quartier generale dell’Unione Europea).I Balcani, storica polveriera d’Europa, sono nuovamente pronti ad esplodere. Non ci saranno omicidi in programma forse per il prossimo anno nei Balcani, ma sicuramente troverete sul menù un radicale cambiamento politico. Gli scioperi di massa e i movimenti di protesta che sono scoppiati in Grecia nel 2008 si sono estesi agli stati del Sud dei Balcani. Le proteste di massa contro l’aumento del costo della vita, che ha raggiunto livelli usurari (sull’onda della privatizzazione di massa), e contro il costo dell’energia imposto ai consumatori locali, stavano per rovesciare il governo in Bulgaria. Nella vicina Romania, la corruzione dilagante e la lotta epica tra il movimento civile sociale e un’azienda mineraria canadese, sono quasi riusciti a scuotere le fondamenta del governo rumeno. Nonostante quest’elenco di situazioni esplosive, Bruxelles rifiuta ostinatamente di allentare le restrizioni connesse alla libertà di movimento imposta ai cittadini di questi due stati. Il loro ingresso nella “zona Schengen” è stato nuovamente rimandato a data da definirsi. Sicuramente una politica di contenimento di questo tipo sarà pericolosa nel 2014.Oltre ai confini meridionali d’Europa, troviamo ancora forti instabilità nel 2014, che ricordano misteriosamente le tensioni del 1914, quando stava per iniziare la guerra. La promessa di una benigna “primavera araba” si è trasformata in un incubo terribile. In Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e, più recentemente, in Libano, si stanno sviluppando conflitti somiglianti a guerre civili. Nel caso della Siria, non è una somiglianza ma una tragica realtà. Questa instabilità regionale rischia di contagiare la Turchia (gli Stati Uniti chiudono le alleanze nella regione). A quei tempi la Turchia era senza dubbio il fulcro dell’Impero Ottomano che governava sulla maggior parte del Medio Oriente. Circa un secolo fa entrò sfortunatamente, già distrutta, nella “grande guerra”. Questo accelerò la sua rovina e condusse al genocidio armeno del 1915. Per quanto tempo ancora Ankara potrà stare a guardare, prima di essere risucchiata nel più ampio conflitto dei suoi vicini? Il 2014 probabilmente sarà determinante.Internamente la Turchia è afflitta da forti dissensi e scossa da continue proteste dal giugno scorso. Il dissenso popolare nei confronti dell’autoritarismo del primo ministro Ergodan non si è placato. La continua lotta tra il movimento laico (kemalista) e quello neo-islamico (e all’interno del partito Akp stesso, “Adalet ve Kalkinma Partisi”, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rischia di distruggere lo stato turco nel 2014, con le modalità già sperimentate un secolo fa dall’Impero Ottomano. Il potere del governo ha inoltre subito un ulteriore indebolimento negli ultimi tempi a causa degli scandali per corruzione che hanno interessato i suoi vertici. La conseguente epurazione dei corpi di polizia e di pubblica sicurezza ha inasprito la situazione. La tregua con i ribelli curdi nelle zone orientali del paese rimane instabile. In ultimo, il tentativo della Turchia, ormai vecchio di decenni, di diventare un membro dell’Unione Europea, è essenzialmente congelato a causa della repressione contro attivisti e giornalisti locali. Quindi, come nel 2014, il paese è un calderone che galleggia nel mare di instabilità che caratterizza la regione.Passando all’Asia, troviamo crescenti movimenti di protesta in Thailandia, Cambogia e Bangladesh, o rivolte in corso contro le trincerate e corrotte oligarchie locali. Fino ad ora questi sollevamenti sono stati brutalmente repressi con l’ausilio delle forze militari. Chissà se gli eventi attuali saranno la scintilla di un’esplosione simile a quella del 1914. Probabilmente no. Tuttavia questi paesi emergenti sembrano essere nel mezzo di quella che io chiamo “situazione pre-rivoluzionaria”. Quello che vedremo accadere da queste parti nel 2014 somiglia moltissimo allo scenario della rivoluzione messicana (1910-1920), un decennio di dure lotte per liberarsi di quel regime corrotto conosciuto come “Porfiriato”. Se aggiungiamo a quanto detto il rischio di uno scontro militare tra i “grandi poteri” locali, siano essi in crescita o in crisi, così come accadeva nel 1914 (lo dimostra l’attuale ostentazione militare sulle contese Diaoyu e Tiaoyutai nel lontano oriente), si ha realmente l’impressione che la storia si ripeta ancora una volta.(Michael Werbowski, “La polveriera storica, il 2014 come il 1914 in Europa e nel mondo?”, da “Global Research” del 10 gennaio 2014, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.
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Sole e vento non bastano: le rinnovabili sono un’illusione
Rinnovabili sì, ma anche convenienti? Purtroppo no, risponde Gail Tverberg, citando recenti studi internazionali: sole e vento non potranno mai sostituire petrolio, carbone e gas. E inoltre – altra sorpresa – l’attuale produzione industriale dei nuovi dispositivi energetici, come centrali eoliche e pannelli solari e fotovoltaici, viene sostenuta essenzialmente con l’energia fornita dal carbone, e con procedure altamente inquinanti. In altre parole, non è affatto certo che le “rinnovabili intermittenti” possano davvero ridurre le emissioni di anidride carbonica. Eccessiva, secondo Tverberg, l’aspettativa creata sull’energia verde: «Dopo sviariati anni in cui si è cercato di aumentare l’eolico e il solare fotovoltaico, nel 2012 l’eolico ammonta a poco meno dell’1% della fornitura mondiale di energia. Il solare a meno dello 0,2% dell’energia globale. Sarebbero necessari sforzi enormi per raggiungere il 5%». Grande problema: «L’eolico e il solare fotovoltaico tendono a essere più cari rispetto ad altri modi di generazione dell’elettricità».Se si incrementano le rinnovabili, scrive Tverberg su “Our Finite World” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, le emissioni di CO2 aumentano. «Una delle ragioni è che questo fa incrementare l’economia cinese, grazie alle nuove attività necessarie per la produzione di turbine eoliche e pannelli solari, e per l’estrazione delle terre rare utilizzate in questi impianti. I benefici che la Cina ha dalle vendite relative alle rinnovabili sono tanti, e così potrà costruire nuove case, strade, scuole, e imprese per servire le nuove produzioni». Ma in Cina «la stragrande maggioranza della produzione viene fatta col carbone». La Cina è al centro della produzione mondiale delle rinnovabili, proprio per il fatto che usa il carbone, tuttora molto economico (e molto inquinante) come fonte energetica principale. «Le celle solari al silicone necessitano della cottura della roccia silicea in forni che superano i 3000 gradi, un qualcosa che può essere fatto a basso costo, col carbone».Rilevante il problema dell’inquinamento: «Se dovessimo incrementare l’eolico e il fotovoltaico di un fattore 10 (così da poter alimentare il 12% della fornitura mondiale, invece dell’1,2%) avremmo bisogno di una quantità gigantesca di terre rare e di altri minerali inquinanti, tra cui l’arsenide di gallio, il diselenide del rame, dell’indio e del gallio, e il telluride di cadmio, utilizzati nelle sottili pellicole fotovoltaiche». Sia le turbine eoliche che il solare fotovoltaico utilizzano, per la loro produzione, questi metalli speciali che vengono soprattutto dalla Cina. Le attività minerarie e la lavorazione di queste “terre rare” generano un’enorme quantità di “sottoprodotti radioattivi e pericolosi”. Nelle zone della Cina in cui vengono estratti questi minerali rari, la terra e le acque sono sature di sostanze tossiche, e ciò rende impossibile la coltivazione. E non possiamo aspettarci che la Cina si tenga per sé tutto questo inquinamento, osserva Tverberg: anche il resto del mondo avrà bisogno di produrre questi materiali tossici.«È probabile che molti paesi introdurranno rigidi controlli ambientali per avviare queste estrazioni. Questi controlli richiederanno un uso ancor maggiore di energia derivante dalle fonti fossili. Se anche i problemi ambientali verranno tenuti a freno, il maggiore utilizzo di fonti fossili farebbe probabilmente alzare le emissioni di CO2, oltre ai prezzi dell’eolico e del solare fotovoltaico». Sempre secondo Tverberg, viene fatta molta confusione sul fatto che l’eolico e il solare fotovoltaico possano davvero essere dei sostituti. «Possono sostituire l’elettricità, o sostituiscono il petrolio che produce elettricità? I costi del petrolio sono di solito solo una piccola parte dei costi della fornitura elettrica, e per questo è difficile che le rinnovabili possano raggiungere la parità di costo se dovessero solo sostituire i costi petroliferi». Ad esempio, «l’elettricità non può alimentare le auto di oggi, e non alimenterà trattori, o macchinari per l’edilizia, o velivoli. E anche se avessimo più elettricità, ciò non risolverebbe il nostro problema col petrolio».Un guaio innanzitutto economico: «I consumatori non possono permettersi elettricità ad alti costi, senza che il proprio livello di vita precipiti», dal momento che «gli stipendi non aumentano quando l’energia sale di prezzo, e quindi il reddito disponibile viene colpito duramente su tutti e due i fronti», sia per le famiglie che per lo Stato, sotto forma di tasse. Gli alti costi delle fonti alternative – sole e vento – fanno anche sì che «le merci destinate all’esportazione siano meno competitive sul mercato globale», indebolendo l’economia dei paesi ecologicamente “virtuosi”. Inoltre, se il vento in sé è assolutamente “rinnovabile”, non necessariamente hanno vita lunga gli impianti che lo sfruttano: una torre eolica funziona per 20-25 anni (contro i 40 delle centrali a carbone, a gas o nucleari) ma le turbine “lavorano” senza problemi solo alcuni anni, poi necessitano di costosa manutenzione, che nelle centrali off-shore richiede l’impiego di elicotteri.L’alto costo delle rinnovabili contraddice la storia dello sviluppo degli ultimi secoli, basato sulla disponibilità di energia a basso costo (carbone, petrolio e gas). «Cercare di sostituire un’energia economica con una costosa è come cercare di far andare l’acqua in salita: incrementare le rinnovabili potrebbe far avvicinare il collasso per i paesi che si stanno sempre più affidando a queste fonti energetiche». Per contro, sappiamo bene che il modello della “crescita” illimitata sta rendendo drammatica la crisi ecologica e climatica del pianeta. Che fare? Primo, non aspettarsi miracoli dalle fonti rinnovabili: «Anche se molte persone ci hanno fatto credere che l’eolico e il solare fotovoltaico risolveranno tutti i nostri problemi, tanto più si osserva da vicino la questione, tanto più diventa chiaro che l’eolico e il solare fotovoltaico, se aggiunti alla rete elettrica, sono parte del problema e non una soluzione». Secondo Tverberg, l’unica vera alternativa è l’abbandono dell’attuale modello di sviluppo, non importa con quale fonte energetica sia sostenuto. E quindi: «andare in direnzione di un’agricoltura locale, con i semi più adatti zona per zona», tagliando i trasporti. Riconvertire l’economia, impiegando disoccupati in agricoltura. E finanziare la ricerca, per rendere la terra più produttiva nel lungo termine. In altre parole: fare decrescita: cioè produrre meno, tagliando sprechi e inquinamento.Rinnovabili sì, ma anche convenienti? Purtroppo no, risponde la scienziata Gail Tverberg, citando recenti studi internazionali: sole e vento non potranno mai sostituire petrolio, carbone e gas. E inoltre – altra sorpresa – l’attuale produzione industriale dei nuovi dispositivi energetici, come centrali eoliche e pannelli solari e fotovoltaici, viene sostenuta essenzialmente con l’energia fornita dal carbone, e con procedure altamente inquinanti. In altre parole, non è affatto certo che le “rinnovabili intermittenti” possano davvero ridurre le emissioni di anidride carbonica. Eccessiva, secondo Tverberg, l’aspettativa creata sull’energia verde: «Dopo sviariati anni in cui si è cercato di aumentare l’eolico e il solare fotovoltaico, nel 2012 l’eolico ammonta a poco meno dell’1% della fornitura mondiale di energia. Il solare a meno dello 0,2% dell’energia globale. Sarebbero necessari sforzi enormi per raggiungere il 5%». Grande problema: «L’eolico e il solare fotovoltaico tendono a essere più cari rispetto ad altri modi di generazione dell’elettricità».
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Ciao Bankitalia: guai se ridiventiamo un paese sovrano
«Si vuole evitare che, anche in caso di uscita dall’Italia dall’euro, il paese possa tornare ad esercitare in futuro la piena sovranità monetaria con una banca nazionale attiva». Per l’economista Nino Galloni, già docente alla Cattolica di Milano, all’università di Modena e alla Luiss, il vero obiettivo della manovra che ha fatto indignare i grillini – la “ghigliottina” di Laura Boldrini che taglia il dibattito in aula per impedire di discutere un decreto-truffa, truccato da provvedimento anti-Imu – è l’amputazione (anche per il futuro) della sovranità monetaria nazionale, cioè la capacità teorica di Bankitalia di tornare un giorno ad essere il “bancomat del Tesoro”, permettendo al governo di fare spesa pubblica per investire in occupazione e risollevare l’economia nazionale, finanziando investimenti con sano debito pubblico sovrano. In altre parole: chi “consegna” definitivamente la banca centrale al credito privato vuole mettere una pietra tombale sulla libertà democratica del paese.Il decreto-vergogna, dice Galloni ad Alessandro Bianchi in un’intervista su “L’antidiplomatico”, è stato approvato grazie all’inaudita “tagliola” della Boldrini, per imporre una rivalutazione delle quote di Bankitalia, ferme ai 156.000 euro di valore del 1936. Così, il capitale di riserva passerà a 7,5 miliardi di euro. E agli azionisti – principalmente banche private – sarà garantito un dividendo del 6%, quindi fino a 450 milioni di euro di profitti l’anno. Infine, le quote della Banca d’Italia potranno essere vendute a soggetti stranieri, purché comunitari. Ma l’ennesimo regalo alle banche disposto dal governo Letta nasconde un disegno ancora più pericoloso: la vera posta in gioco, sottolinea Galloni, è la fine (definitiva) della sovraniotà italiana. «Mentre oggi con un capitale di 156.000 euro sarebbe piuttosto agevole rendere nuovamente pubblica la banca centrale e salvare anche le nostre lire, con il decreto deciso dal governo Letta diventa praticamente impossibile».Per ripristinare la sovranità monetaria, aggiunge Galloni, in caso di uscita dall’euro «l’unica soluzione sarebbe creare una nuova Banca d’Italia», operazione ovviamente «molto complessa». Se non altro, si consola l’economista, «la vicenda è un segnale di forte debolezza da parte di chi oggi combatte per sostenere l’euro», non-moneta sempre più indifendibile. Per questo, Palazzo Chigi – che di fatto si limita ad eseguire i diktat neoliberisti che l’élite oligarchico-finanziaria affida alla Troika – vuole assolutamente evitare che lo Stato possa tornare nelle condizioni di poter finanziare il proprio sviluppo. Un dettaglio determinante, infatti, riguarda il caso del Monte dei Paschi di Siena. Il suo presidente, Alessandro Profumo, ha appena dichiarato che, senza una immediata ricapitalizzazione di Mps, salta tutto il sistema bancario italiano. «Traduzione: se non si fa la ricapitalizzazione e Mps diventa pubblica comprerà il denaro dalla Bce allo 0,25%, lo rivenderà allo Stato allo 0,30% e, quindi, quella differenziale di guadagno che oggi hanno le banche dai tassi d’interesse sui titoli di Stato e lo 0,25% non lo ricaveranno più».Obiettivo strategico del decreto messo a punto da Saccomanni per conto del governo Letta-Napolitano: impedire allo Stato di riappropriarsi della sua sovranità monetaria, condizione indispensabile per poter affrontare la crisi economica prodotta dall’Eurozona. «La vera battaglia in corso non è solo tra pro-euro o anti-euro», dice Galloni, ma ormai coinvolge anche «lo scenario che abbiamo in mente in caso di uscita dalla moneta unica». Ovvero: «Lo si farà ripristinando la sovranità monetaria e degli Stati o rimanendo schiavi con monete diverse dall’euro?». Oggi, il fronte anti-euro non è ancora una realtà omogenea: si divide tra chi vuole uscire dall’euro a qualunque costo e chi invece vorrebbe farlo ripristinando la sovranità monetaria. «E l’obiettivo, oggi, è tagliare la strada a questi ultimi ed evitare che il giorno dopo che salta l’euro, magari nei modi più imprevedibili, lo Stato possa tornare ad esercitare la piena sovranità monetaria».Un’uscita confusa dalla moneta unica – cioè senza il ripristino della piena facoltà di spesa da parte dello Stato grazie alla libera emissione di valuta – è destinata a produrre «conseguenze che non si possono oggi prevedere, ma gravi». Nino Galloni sostiene che dovremmo prendere a modello la Gran Bretagna, l’Australia e anche gli Usa. Di fatto, in tutto il mondo, «solo la vecchia Europa ha deciso di abdicare alla propria sovranità monetaria: non è da tutti avere rinunciato ad una funzione così essenziale». Quantomeno, nonostante la disinformazione “militare” organizzata dai media mainstream, l’opinione pubblica si è mobilitata, grazie anche alla ferma opposizione condotta dal M5S. C’è da augurarsi che il governo venga travolto dalle polemiche e faccia retromarcia. «Ora che è stata raggiunta una piena consapevolezza è importante proseguire in questa azione», dice Galloni. «Per il “Movimento 5 Stelle” sarebbe una vittoria mediatica importante, in risposta a tutti coloro che l’accusano di muoversi solo su questioni secondarie». Questa, al contrario, «è una vicenda di fondamentale importanza per il futuro del nostro paese».«Si vuole evitare che, anche in caso di uscita dell’Italia dall’euro, il paese possa tornare ad esercitare in futuro la piena sovranità monetaria con una banca nazionale attiva». Per l’economista Nino Galloni, già docente alla Cattolica di Milano, all’università di Modena e alla Luiss, il vero obiettivo della manovra che ha fatto indignare i grillini – la “ghigliottina” di Laura Boldrini che taglia il dibattito in aula per impedire di discutere un decreto-truffa, truccato da provvedimento anti-Imu – è l’amputazione (anche per il futuro) della sovranità monetaria nazionale, cioè la capacità teorica di Bankitalia di tornare un giorno ad essere il “bancomat del Tesoro”, permettendo al governo di fare spesa pubblica per investire in occupazione e risollevare l’economia nazionale, finanziando investimenti con sano debito pubblico sovrano. In altre parole: chi “consegna” definitivamente la banca centrale al credito privato vuole mettere una pietra tombale sulla libertà democratica del paese.
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Ttip, fuorilegge Stati e diritti: vogliono ucciderci così
«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».Le fondamenta di questo trattato clamorosamente eversivo – il grande business che emana i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e i politici compiacenti, ma ormai alla luce del sole, e addirittura per legge – comparivano già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai 29 stati membri dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, come ricorda la Wallach in un intervento su “Le Monde Diplomatique”, il giornale che divulgò la notizia in extremis, sollevando un’ondata di proteste senza precedenti, fino a costringere i suoi promotori ad accantonare il progetto. Quindici anni più tardi, scrive oggi Lori Wallach sempre sul giornale francese, in un intervento ripreso da “Micromega”, la grande “trappola” fa il suo ritorno in pompa magna, sotto nuove sembianze.L’accordo di partenariato transatlantico (Ttip), negoziato a partire dal luglio 2013 tra Usa e Ue – accordo che dovrebbe concludersi entro due anni – non è che una versione aggiornata del Mai. Prevede infatti che «le legislazioni in vigore sulle due coste dell’Atlantico si pieghino alle regole del libero scambio» stabilite dalle corporations, «sotto pena di sanzioni commerciali per il paese trasgressore, o di una riparazione di diversi milioni di euro a favore dei querelanti». Se dovesse entrare in vigore, aggiunge Lori Wallach, «i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti». Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, il trattato «si applicherebbe per amore o per forza, poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari». Ciò riprodurrebbe in Europa «lo spirito e le modalità del suo modello asiatico», ovvero l’Accordo di Partenariato Transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in 12 paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.«In virtù di numerosi accordi commerciali firmati da Washington, 400 milioni di dollari sono passati dalle tasche del contribuente a quelle delle multinazionali a causa del divieto di prodotti tossici, delle normative sull’utilizzo dell’acqua, del suolo o del legname». Sotto l’egida di questi stessi trattati, le procedure attualmente in corso – nelle questioni di interesse generale come i brevetti medici, la lotta all’inquinamento e le leggi sul clima e sulle energie fossili – fanno schizzare le richieste di danni e interessi a 14 miliardi di dollari. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata». Basta osservare gli attori sul terreno: negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali, ciascuna delle quali può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”. Dal canto loro, i paesi dell’Unione Europea si vedrebbero esposti a un rischio finanziario ancora più grande, sapendo che 14.400 compagnie statunitensi dispongono in Europa di una rete di 50.800 filiali. In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici.Gli accordi-capestro per Atlantico e Pacifico «formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione Europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune». E dato che i proponenti «mirano a liquidare interi compartimenti del settore non mercantile», i negoziati si svolgono a porte chiuse. Le delegazioni statunitensi contano più di 600 consulenti delegati dalle multinazionali, che dispongono di un accesso illimitato ai documenti preparatori. «Nulla deve sfuggire. Sono state date istruzioni di lasciare giornalisti e cittadini ai margini delle discussioni: essi saranno informati in tempo utile, alla firma del trattato, quando sarà troppo tardi per reagire». Vana la protesta della senatrice Elizabeth Warren, secondo cui «un accordo negoziato senza alcun esame democratico non dovrebbe mai essere firmato».L’imperiosa volontà di sottrarre il cantiere del trattato all’attenzione del pubblico si comprende facilmente, aggiunge la Lori Wallach: «Meglio prendere tempo prima di annunciare al paese gli effetti che esso produrrà a tutti i livelli: dal vertice dello Stato federale fino ai consigli municipali passando per i governatorati e le assemblee locali, gli eletti dovranno ridefinire da cima a fondo le loro politiche pubbliche per soddisfare gli appetiti del privato nei settori che in parte gli sfuggono ancora». Nulla sfugge alle fauci dei super-privatizzatori: sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali, libertà della rete, protezione della privacy, energia, cultura, diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato». Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro».È già stipulato che i paesi firmatari assicureranno la «messa in conformità delle loro leggi, dei loro regolamenti e delle loro procedure» con le disposizioni del trattato. Non vi è dubbio che essi vigileranno scrupolosamente per onorare tale impegno. In caso contrario, potranno essere l’oggetto di denunce davanti a uno dei tribunali appositamente creati per arbitrare i litigi tra investitori e Stati, e dotati del potere di emettere sanzioni commerciali contro questi ultimi. «L’idea può sembrare inverosimile: si inscrive tuttavia nella filosofia dei trattati commerciali già in vigore». Lo scorso anno, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha condannato gli Stati Uniti per le loro scatole di tonno etichettate “senza pericolo per i delfini”, per l’indicazione del paese d’origine sulle carni importate, e ancora per il divieto del tabacco aromatizzato alla caramella, dal momento che tali misure di tutela sono state considerate degli ostacoli al libero scambio. Il Wto ha inflitto anche all’Unione Europea delle penalità di diverse centinaia di milioni di euro per il suo rifiuto di importare Ogm come quelli della Monsanto, che finanziò l’elezione di Obama.«La novità introdotta dal Ttip e dal Tpp – osserva Lori Wallach – consiste nel permettere alle multinazionali di denunciare a loro nome un paese firmatario la cui politica avrebbe un effetto restrittivo sulla loro vitalità commerciale». Sotto un tale regime, «le aziende sarebbero in grado di opporsi alle politiche sanitarie, di protezione dell’ambiente e di regolamentazione della finanza», reclamando danni e interessi davanti a tribunali extragiudiziari. «Composte da tre avvocati d’affari, queste corti speciali rispondenti alle leggi della Banca Mondiale e dell’Onu «sarebbero abilitate a condannare il contribuente a pesanti riparazioni qualora la sua legislazione riducesse i “futuri profitti sperati” di una società». Questo sistema, che oppone le industrie agli Stati, sembrava essere stato cancellato dopo l’abbandono del Mai nel 1998, ma è stato «restaurato di soppiatto» nel corso degli anni. Di fatto, l’adozione del super-trattato riduce in schiavitù le istituzioni pubbliche, per le quali i cittadini votano, affidando ad esse il compito di governare il proprio paese. Con le mostruose norme in via di approvazione semi-clandestina, i poteri pubblici dovranno mettere mano al portafoglio se la loro legislazione ha per effetto la riduzione del valore di un investimento, anche quando questa stessa legislazione si applica alle aziende locali. In altre parole: la civiltà democratica finisce qui.«Negoziato in segreto, questo progetto fortemente sostenuto dalle multinazionali permetterebbe loro di citare in giudizio gli Stati che non si piegano alle leggi del liberismo». Si chiama Trattato Transatlantico ed è l’uragano devastante che minaccia il futuro degli europei, o quel che ne resta. All’allarme – da più parti lanciato nei mesi scorsi – si associa ora anche Lori Wallach, direttrice del Public Citizen’s Global Trade Watch, prestigioso osservatorio indipendente di Washington. «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri».
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Via i parassiti della finanza, e avremo ancora un futuro
Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.Di conseguenza, osserva Colonna su “Clarissa”, torna alla ribalta il ruolo del Mediterraneo: decisivo snodo geografico e culturale tra Africa, Vicino Oriente ed Europa, il “mare nostrum” «diverrà, se possibile, ancora più rilevante di quanto non lo sia già stato dalla fine del XIX secolo, quale linea di comunicazione vitale per gli imperi anglosassoni, oltreché frontiera fra il Nord ed il Sud del mondo». Di recente, il protagonismo neo-coloniale della Francia (appoggiato da Usa e Israele) ha relegato l’Italia a «alla semplice condizione di piattaforma logistica dei grandi alleati occidentali». Ma se l’Occidente deve comunque fare il conti con la Cina, questo influisce anche sul nuovo ruolo della Russia di Putin, la cui condizione ricorda quella dell’impero zarista di cent’anni fa, schiacciato a oriente dalla potenza giapponese e ad occidente dall’impero germanico.Oggi, riconosce Colonna, la politica estera russa ha costruito un asse preferenziale con la Cina, dato che in Occidente la pressione della Nato e degli Usa non si è minimamente allentata, né l’Unione Europea ha saputo smarcarsi dalla vecchia politica atlantica ereditata dalla guerra fredda. Smaltita la «passeggera ubriacatura filo-occidentale» del disastroso governatorato di Eltsin, «pur non perseguendo più una politica da superpotenza» la Russia post-sovietica «non rinuncia al suo ruolo di grande potenza sullo scenario mondiale», e per questo non rinuncia «ad una propria forte capacità militare, in grado di tutelare i propri fondamentali interessi strategici». Ora, alla luce della nuova gravitazione del mondo sull’Oceano Pacifico, si tratta di vedere se la Russia di Putin «seguirà la propria vocazione asiatica oppure quella europea».E’ davvero singolare, osserva Colonna, che l’Europa «continui a seguire pedissequamente i desiderata americani, rivolti ad isolare la Russia sul piano internazionale, invece di perseguire una propria assai più realistica politica di avvicinamento ed integrazione con il grande paese che costituisce la sola efficace copertura del nostro continente rispetto a qualsiasi ambizione cinese». Ma il peggio è in assoluto l’Italia: ancora una volta, il nostro paese si “scopre” collocato – dalla geografia e dalla storia – al crocevia delle forze da cui dipende il futuro del pianeta, ma le classi dirigenti italiane non se ne sono accorte. In loro c’è una «evidente mancanza di coscienza» dell’importanza geopolitica dello Stivale. E questo è «uno dei fattori più gravi e preoccupanti della nostra attuale condizione storica». Colonna la definisce «devastante pochezza» di uomini «privi di un sentire vivamente operante e non retorico per la patria». Mezzi uomini, «colpevolmente ignari delle prove che anche l’Italia si troverà presto a dover affrontare».Là fuori, infatti, impazza la grande crisi: ci si muove tra macerie economiche, provocate dall’oligarchia finanziaria che ha devastato la “democrazia del lavoro”. «La lezione del 2007-2008 non è stata compresa: basterebbe questa affermazione per definire lo scenario dell’economia mondiale dei prossimi mesi e anni», sostiene Colonna. «I grandi centri finanziari mondiali, che elaborano le strategie sistemiche dell’economia mondiale, dimostrano di non volere e di non potere rinunciare all’orientamento speculativo che è insieme all’origine della crisi che ha investito il sistema-mondo nell’ultimo quinquennio». Questa avidità cieca è anche «il fondamento stesso del potere dei “padroni dell’universo”, come questi oligarchi amano definirsi». Lo dimostra il fatto che «nessuna delle regolamentazioni statunitensi o europee ha affrontato le tre questioni che avrebbero dovuto essere preliminari all’adozione di qualsiasi modalità di risoluzione della crisi». Ovvero: paradisi fiscali, finanza speculativa fuori controllo e agenzie di rating che si fingono soggetti terzi, ma sono in realtà pilotati e pienamente complici dei grandi speculatori.L’Occidente ha risposto in un solo modo, cioè tutelando i monopolisti del crimine finanziario: negli Usa coi salvataggi delle banche “troppo grandi per fallire”, tenute in piedi coi dollari della Fed, e in Europa spremendo senza pietà paesi interi, con super-tasse e tagli selvaggi alla spesa vitale, cioè “fiscalizzando” le rovinose perdite del sistema finanziario internazionale, il cui conto viene fatto pagare ai lavoratori. Nessuna alternativa in campo, finora, «per il semplice fatto che, da oltre mezzo secolo, sono i centri finanziari mondiali a condizionare gli Stati-nazione dell’Occidente, grazie alla formazione di una vera e propria classe dirigente internazionale che occupa con continuità le posizioni chiave, indipendentemente dalle alternanze di governo e dalle competizioni elettorali». Classe dirigente «cui viene affidata la puntuale esecuzione di strategie economiche, monetarie e legislative costruite a livello globale». Si tratta di «una vera e propria oligarchia economico-politica internazionale, che ha progressivamente svuotato di significato la democrazia parlamentare occidentale», visto che il popolo è stato privato della sua prerogativa essenziale (la sovranità) e anche della sua principale forza politica (il lavoro).La finanziarizzazione dell’economia ha infatti trasformato i sistemi industriali, togliendo al lavoro ogni potere contrattuale: dagli anni ’80 la finanza controlla le aziende, i cui pacchetti azionari sono diventati “merce” sui mercati finanziari mondiali, distogliendo il management dall’economia reale, cioè strategie produttive e commerciali. Conseguenza: progetti dalla vita sempre più breve, anziché investimenti, ricerca e sviluppo. Da parte della proprietà industriale, si è così «accentuata la tendenza a servirsi degli utili per entrare nel grande gioco finanziario, piuttosto che reinvestire nel futuro delle imprese». Per questo, oggi, i grandi gruppi bancari «preferiscono investire i generosi aiuti ottenuti a spese della collettività nell’acquisto di titoli di Stato piuttosto che nel credito alle Pmi». E il peggio è che tutto questo è avvenuto nel silenzio generale della politica, incapace di elaborare un’alternativa «ai dogmi dell’economia speculativa».Risultato: «Si è persa l’occasione per prendere coraggiosamente atto della crisi come di un evento globale e non contingente, esigendo quindi, da parte delle classi dirigenti, un radicale mutamento di rotta». Pre-condizione: l’emancipazione dell’economia reale. «Imprenditori, lavoratori e consumatori» dovrebbero cioè liberarsi «dal controllo dell’oligarchia finanziaria e dalla strumentalizzazione politica dei partiti», prendendo il mano «istituzioni autonome dell’economia reale», in grado di «esigere il controllo, per esempio, della moneta e del credito». Inoltre, la crescente consapevolezza dei “limiti allo sviluppo” «impone anch’essa che le forze dell’economia reale, piuttosto che rincorrere le asticelle statistiche della “ripresa”, si impegnino a riorganizzare la produzione», in tutti i campi: energia, tecnologia, servizi, beni di largo consumo. Servono «prodotti a basso impatto, recuperabili, di elevata qualità e durata». In sostanza, per Colonna, serve una nuova alleanza strategica: imprenditori, lavoratori e consumatori devono accordarsi per sconfiggere la finanza parassitaria, e quindi «liberare l’economia dal peso congiunto del debito e della speculazione, realizzando quella democrazia del lavoro senza la quale la democrazia politica è ormai divenuta un guscio vuoto».Il principale processo storico che sta segnando il nuovo secolo, cioè lo spostamento del baricentro geopolitico dall’Atlantico al Pacifico, condanna l’Europa a diventare sempre più periferica. La crescente proiezione internazionale di una Cina punta chiaramente a diventare potenza navale oltreché commerciale, in Estremo Oriente ma anche in direzione dell’Africa e del Medio Oriente. Questo impegnerà direttamente gli Usa e li obbligherà ad una scelta fondamentale: Cina o ancora Giappone, come alleati strategici? Certo, Russia e India non staranno a guardare. E’ questo lo scenario nel quale Gaetano Colonna invita ad analizzare la grande crisi che sta travolgendo l’Eurozona. Se il vecchio continente perde terreno nel forziere petrolifero mediorientale, l’influenza cinese continua a crescere in teatri strategici per gli Stati Uniti, dall’Iran al Pakistan fino al continente nero, che rappresenta un’enorme riserva di materie prime e terre coltivabili.
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Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.
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Graziani, il maestro che previde la catastrofe dell’euro
Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».Attualissimi, in questo senso, i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi, ricorda Brancaccio. «La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’Eurozona», vittime già allora della «grancassa dell’ideologia» che in quei giorni «operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica». Quanto a Graziani, «i suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa».Il pessimismo di Graziani, continua Brancaccio in un post ripreso da “Megachip”, era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: «Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio». Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria.Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria, continua Brancaccio, «hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti». In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla “International Review of Applied Economics”, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Previde cioè che i capitalisti italiani «avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo».Oggi, conclude Brancaccio, sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. E sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, «l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti». I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni “tra e dentro” le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. «Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti». Eppure, in tempi più illuminati del nostro, «è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare: chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento», proprio come fece Augusto Graziani.Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».
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Mujica: non sono povero, sono sobrio (quindi felice)
Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.Ha detto nei suoi discorsi più famosi, primo fra tutti quello davanti alla platea dell’Onu: «Si parla di sviluppo sostenibile, ma che cosa ci frulla in testa? Il modello di sviluppo e di consumo è quello attuale delle società ricche? Di nuovo mi sono chiesto cosa succederebbe a questo pianeta se gli indiani avessero lo stesso numero di auto per famiglia che hanno i tedeschi. Quanto ossigeno ci resterebbe da respirare? Il mondo ha forse oggi risorse sufficienti per far sì che 7-8 miliardi di persone possano avere lo stesso livello di consumo e spreco che hanno le più opulente società occidentali? O dovremo forse fare un altro tipo di ragionamento? Abbiamo creato una civiltà figlia del mercato, della concorrenza che ha portato a un progresso materiale esplosivo. Siamo in una società di mercato e questo ci ha portato alla globalizzazione cui assistiamo. Ma noi stiamo governando la globalizzazione o è la globalizzazione a governarci? E’ possibile parlare di solidarietà in una società basata sulla concorrenza spietata? Fin dove arriva la nostra fratellanza?».«La sfida che abbiamo davanti è grandissima, colossale, e la grande crisi non è ecologica, è politica. L’essere umano non governa oggi; sono le forze che l’uomo ha scatenato a governarlo. Non veniamo al mondo per svilupparci in termini generali; veniamo al mondo per cercare di essere felici, perché la vita è breve e ci sfugge. E nessun bene vale quanto la vita, è elementare. Ma se consumo la mia vita lavorando senza sosta per consumare sempre di più, aggredisco il pianeta e per mantenere quel consumo dovrò produrre sempre di più cose che durano sempre meno. Siamo in un circolo vizioso, ci sentiamo costretti a mantenere una civiltà usa e getta. Questi sono problemi di carattere politico e ci stanno dicendo che bisogna iniziare a lottare per un’altra cultura».Mujica profeta, dunque, ma anche leader, più di moltissimi altri. Ultima sua mossa, ai primi di dicembre, quella di spiazzare i cartelli della droga legalizzando e nazionalizzando in Uruguay la coltivazione e la vendita della marjuana. Qualcosa di eclatante che forse può rinvigorire altre e decisive azioni volte a erodere il mito perverso del consumo senza freni e l’utilizzo senza limiti delle sempre più scarse riserve del pianeta. L’Uruguay non è certo l’America, ha tre milioni di abitanti, è uno dei paesi sudamericani con storie di dittature, di persecuzioni. E prima ancora una storia ancor più tragica, quella della colonizzazione ispanica, di vessazioni, di massacri. Una piccola nazione, dunque, ma ciò che sta facendo Mujica è grande, così grande e potente che i media convenzionali ne parlano pochissimo, perché questo agire fa tremare certuni nelle altissime sfere.Pepe Mujica era, da giovane, un convinto oppositore della dittatura; si era convertito ai Tupamaros, il movimento armato che si rifaceva al leggendario Tupac Amaru, un cacique che aveva capeggiato una lunga e sanguinosa lotta contro i conquistadores spagnoli. Mujica ha pagato, assieme a molti compagni, la sua ribellione con quattordici anni di carcere e torture. Oggi Il suo vivere spartanamente da presidente della sua nazione gli appare cosa scontata: «Yo no soy pobre, Yo soy sobrio», usa dire d’abitudine. Una formidabile coerenza con lo stato del mondo costituito più di poveri che di ricchi. I fasti della sua carica altrove dispiegati (basti pensare all’enormità delle spese per la presidenza della Repubblica che Napolitano si ostina a voler mantenere) Mujica li ritiene un semplice e incongruo retaggio del Medio Evo. Filosofo di formazione, cita volentieri Seneca, Diogene – colui che ricevette Alessandro Magno e i suoi dignitari sulla soglia del suo poverissimo ricovero, pare fosse una botte. Alessandro che gli veniva promettendo tutto e di più, una personalità così grande. Al gentile rifiuto di Diogene sul presupposto che nessuno fa niente per niente, per cui lui non si sarebbe più sentito libero, Alessandro deluso rispose: «Ma allora non possiamo proprio fare niente per te». «Certamente, Alessandro, ero qui seduto al sole per scaldarmi un poco dal freddo della notte, basta che vi facciate un poco più in là».(Carlo Carlucci, “Io non sono povero, sono sobrio – quindi felice”, da “Il Cambiamento” del 17 dicembre 2013).Mujica è un lucidissimo ottantenne che è stato eletto presidente dell’Uruguay e che ha rinunciato agli appannaggi del suo status vivendo con cinquecento dollari o giù di lì in una casetta di due stanze; si sposta con un vecchio Maggiolino Volkswagen. Quando parla all’Onu o nei congressi internazionali, senza nessuna enfasi ma con un vigore che ammutolisce l’uditorio, ripete instancabile cose già note ma dando alla sua voce una vibrazione profetica: anno dopo anno stiamo intaccando, divorando il futuro delle giovani generazioni, le pubblicità di tutto il mondo reclamizzano stili di vita che ci porteranno al disastro inevitabile. Stili di vita che già ora, ove potessero imporsi globalmente, presupporrebbero non un solo pianeta ma tre! E dunque il modello propagandato e agognato è di una colossale falsità, un imbroglio planetario. Gli altri capi di Stato non fiatano quando don Pepe si rivolge a loro. Soffrono e non vedono l’ora di ritornare alle loro alchimie, alle convergenze parallele. Ma puntualmente, cioè al convegno successivo, Mujica scompagina quei loro discorsi, ridicolizza cifre utopiche spacciate come verità sacrosante, il tutto con toni dimessi, senza astio.
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
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Basta rigore, candidiamo Tsipras alla guida dell’Ue
Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli Stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa. La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie? Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea.Non è semplice, perché abbiamo pochissimo tempo per creare qualcosa. Per farlo ci vorrà tutta l’intelligenza di Alexis Tsipras, come quella che gli ha permesso di formare una coalizione tra le anime della sinistra radicale greca. E’ chiaro che non dovrebbe essere una coalizione dei vecchi partiti della sinistra radicale, perché non avrebbe alcuna possibilità di successo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società, con l’obiettivo di unire le forze della società colpite dalla crisi. Il confronto con l’Europa dell’austerità e della barbarie necessita di una maggiore convergenza delle forze sociali. In Grecia si usa il concetto di ricostruzione e rifondazione dell’Europa. Questo è esattamente l’obiettivo che abbiamo di fronte per presentare una candidatura di Alexis Tsipras in Italia e nell’Europa del Sud. Questa è la sfida. E’ come lasciare alle spalle una guerra, perché gli anni di austerità equivalgono ad una guerra. Soprattutto in Grecia. Dopo la guerra l’Europa è uscita con una voglia di ricostruzione, con un enorme entusiasmo, che dobbiamo ritrovare.L’Europa è nata dopo la guerra per finire le guerre e per lottare insieme contro la povertà. Il ragionamento dei fondatori dell’Europa, che per l’Italia sono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, ha sostenuto che la povertà in Italia e nella Repubblica di Weimar ci ha portati al fascismo e al nazismo. Non è solo la questione di avere la pace invece della guerra, ma di avere lo stato sociale invece della povertà. Lo stato sociale è una protezione dalle guerre, così come la giustizia sociale. Ci possono essere periodi di crisi economiche, ma bisogna affrontarle tutti insieme e non con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Per questo dobbiamo cambiare anche il nostro concetto di sviluppo.In queste elezioni europee i cittadini possono esprimersi con molta forza su quale sia la direzione in cui vogliono andare. La prima è di sostegno alla posizione dei “poteri forti”: la Troika e gli Stati più forti. Questa linea sostiene che l’Europa, così com’è oggi, va bene e che le terapie di austerità hanno successo. Perché questo si dice oggi, da Barroso alla Merkel. La terapia mortifera che è stata attuata ha avuto successo, perché la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e l’Irlanda hanno ormai il bilancio dei pagamenti in pareggio. Ma come diceva Keynes l’intervento è riuscito ma il paziente è morto. Una seconda linea di pensiero dice basta all’Europa, usciamo, perché l’euro è un disastro e un cappio al collo. La terza scelta è quella che ha fatto Alexis Tsipras. Io spero molto in una lista italiana per Tsipras per le elezioni europee, una lista che sostenga che dobbiamo imparare la lezione da quello che è successo: noi vogliamo l’Europa, ma la vogliamo radicalmente cambiata.In un certo senso penso che l’euroscetticismo sia una cosa benefica in questo momento, perché mette in questione una realtà che viene considerata apparente. Interroga la realtà, la mette in questione. Con la rielezione di Merkel alla cancelleria abbiamo visto due grandi famiglie politiche in Europa, i cristiano-democratici e i socialdemocratici, formare una “grande coalizione” per applicare l’austerità. I socialdemocratici sono stati assolutamente rinunciatari sul negoziato con la Merkel, anzi hanno ribadito di essere contrari a qualsiasi europeizzazione del debito. Questo è pericoloso. Il problema è che in tanti paesi d’Europa siamo purtroppo di fronte a “grandi coalizioni” di questo tipo, perché nessuno dei partiti può avere la maggioranza, cominciando dall’Italia, dove siamo in uno stato di immobilità a causa della “grande coalizione”. Vogliamo un’unione vera, come i padri fondatori l’hanno pensata. Un’Europa della solidarietà, con una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza, una vera federazione.(Barbara Spinelli, dichiarazioni rilasciate ad Argiris Panagopoulos nell’intervista “Con Tsipras contro l’Europa dell’austerità”, pubblicata il 22 dicembre 2013 dal giornale greco “Avgi” e ripresa da “Micromega”).Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli Stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa. La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie? Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea.
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Chi è davvero Matteo Renzi: quello che Firenze insegna
Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».Nella vulgata renziana, continua Pardi in un intervento ripreso da “Micromega”, la sua candidatura a sindaco «passa come atto di coraggio: ingigantisce la difficoltà di sfidare una nomenclatura cittadina esausta per sopravvalutare il successo della sua parte di nomenclatura». Sulle sue gesta da sindaco è istruttiva la lettura di Tomaso Montanari, “Le pietre e il popolo” (Minimum Fax, 2013). «Voleva rivestire il San Lorenzo con una facciata posticcia; e bucare la Battaglia di Marciano per trovarvi sotto un improbabile Leonardo. La logica pubblicitaria domina: piazza della Signoria affittata per le nozze di un ricchissimo sultano, il Ponte Vecchio concesso alla festa della Ferrari. Ma questo è colore». La sostanza, continua Pardi, è l’assenza di una qualsiasi logica di governo del territorio. «Firenze è presentata come città a sviluppo edilizio zero, ma ci si dimentica di dire che il piano strutturale acquisisce come dato di partenza tutte le procedure insediative avviate in precedenza: una massa enorme di spazi è già impegnata».Secondo Pardi, anche il delicatissimo sottosuolo di Firenze è minacciato. «Si può sperare che i numerosi parcheggi sotterranei nel centro storico restino allo stadio di minaccia. Ma il sottopasso dell’alta velocità è un danno certo. Gli abitanti della striscia di città interessata stanno già preparando le cause civili. Qui il coraggio del sindaco tace». Eppure, la “tecnica del trampolino” sembra proprio funzionare: «Chi ha scelto il mestiere più bello del mondo dovrebbe portarlo a termine e sottoporsi al giudizio dei cittadini per il secondo mandato. Renzi invece vuole bruciare le tappe e prima di finirlo vuole già cominciare un altro lavoro che gli appare ancora più bello». Per fare cosa? «Basta sentirlo parlare. Presenta il responso delle primarie come il momento definitivo in cui comincia l’avvenire. L’egotismo forse supera perfino quello di Berlusconi».Renzi? E’ senza dubbio giovane, ma che sia nuovo è dubbio: è in politica fin dai tempi della rappresentanza di classe nel liceo. Poi ha prosperato a lungo nella Margherita e, come suo esponente, divenne presidente della Provincia di Firenze. Per un motivo elementare: i Ds avevano allora il presidente della Regione (Martini) e il sindaco di Firenze (Domenici). Perciò alla Margherita “spettava” la presidenza della Provincia. «L’indubbia capacità di Renzi si rivelò nell’eliminazione della concorrenza interna», annota Pancho Pardi. Ora Renzi si esibisce tra i fautori più convinti dell’eliminazione delle province? «Sarà l’effetto dell’esperienza diretta. Ma a suo tempo usò sapientemente la presidenza come trampolino di lancio per la candidatura a sindaco di Firenze». Inoltre, della sua legislatura in Provincia «si ricorda una lunga serie di mostre ed eventi culturali di mezza tacca, il cui centro unificatore era il logo: Il Genio Fiorentino. Al di là dell’insopportabile retorica fiorentinocentrica, passava il messaggio subliminale: il Genio era lui».
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Iper-globalizzazione: noi, sudditi della fabbrica-mondo
Neutralizzare lo Stato, lasciarlo senza soldi e imbrigliarlo in una rete sempre più fitta di vincoli. Sta avvenendo da tempo. Obiettivo: disarticolare le funzioni pubbliche sovrane, a vantaggio di un super-potere esterno – dominante, affaristico, privatizzatore. Dietro a politiche regolarmente insufficienti, deludenti e in apparenza incomprensibili, c’è un orizzonte chiarissimo, chiamato iper-globalizzazione. Funziona così: la catena produttiva delle merci è spezzettata e subappaltata nelle regioni del mondo dove il lavoro costa meno. Così, le istituzioni nazionali – completamente svuotate – anziché a tutelare i propri cittadini sono chiamate essenzialmente a facilitare il nuovo business, rimuovendo ostacoli e regole. Quello che ormai abbiamo di fronte, sostiene Christophe Ventura, è una integrazione mondiale delle élite, come «super-classi oligarchiche mondializzate». Sono “avanti” anni luce: hanno di fronte sindacati inoffensivi, politici compiacenti e media colonizzati. L’area nazionale, con le sue crisi economiche, è solo l’ultimo livello, ormai irrilevante, del grande gioco planetario.Nonostante la crisi finanziaria del 2008 e la conseguente riduzione della domanda negli Usa, in Cina e in Europa, nel 2012 il volume mondiale del commercio è aumentato del 2% contro il 5,1% del 2011, e ci si aspetta un incremento del 2,5% per il 2013. Il trading ormai rappresenta il 33% del Pil mondiale. Questo inedito aumento della combinazione commerciale planetaria, secondo gli economisti Arvind Subramanian e Martin Kessler costituisce la prima caratteristica della iper-mondializzazione che ci sta letteralmente travolgendo. Lo dice il Wto: tra il 1980 e il 2011, il volume delle merci scambiate su scala globale si è quadruplicato. E ogni anno il commercio cresce due volte più rapidamente della produzione. La nuova mappa mondiale della merci, annota Ventura in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, rivela una clamorosa frammentazione geografica della produzione e della disgregazione delle funzioni produttive su scala mondiale: «I flussi commerciali si inscrivono attualmente in “catene internazionali di valore” che organizzano i processi di produzione secondo distinte sequenze, realizzate (spesso contemporaneamente) in differenti luoghi del pianeta, secondo logiche di ottimizzazione del territorio».Tutto questo, aggiunge Ventura, è in funzione della strategia delle multinazionali: fisco, organizzazione sociale, salari, dimensione finanziaria, sviluppo tecnologico e persino educazione e assetti istituzionali. Così, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla nascita di uno schema consolidato: la proprietà delle società, dei brevetti e dei marchi, incluse ricerca e sviluppo, si concentrano al centro dell’economia mondiale (specialmente nei paesi della Triade – Usa, Europa e Cina), mentre la creazione e l’assemblaggio dei prodotti si realizzano in paesi minori (Asia, America Latina, Africa, Oriente) attraverso aziende alle quali si subappalta questa funzione, come anche la distribuzione, la vendita e i servizi post-vendita (nel Maghreb o in India, per esempio). In questo modo, riassume Ventura, le 80.000 multinazionali registrate nel mondo (che assorbono i due terzi del commercio internazionale) controllano la manodopera del pianeta.Secondo la Cepal, organismo economico delle Nazioni Unite, a trainare il business mondiale sono tre grandi reti di produzione: la “fabbrica America” guidata dagli Usa, la “fabbrica Europa” con a capo la Germania e la “fabbrica Asia”, di cui Pechino ha assunto la leadership, superando Tokyo. «Queste tre “fabbriche” si caratterizzano per l’alto livello del commercio intra-regionale, che a sua volta si organizza attorno alla produzione di beni intermedi per questi stessi centri». Secondo le stime del ministero per il commercio francese, nel mondo la metà del valore delle merci esportate è composta da parti e componenti importati. «In Francia la proporzione è del 25%. Nei paesi in via di sviluppo è del 60%. L’iPhone e la Barbie sono i simboli di questo mercato “Made in the World”». Ne emerge un contesto dove si nota come, a partire dal 2010 e ancor di più nel 2013, sono nate nuove forme di accordi di libero commercio al di fuori dei contesti multilaterali del Wto. Sono chiamati accordi “mega-regionali” o “mega-bilaterali”, e investono ogni aera del mondo, dall’Atlantico al Pacifico. «La loro funzione è allo stesso tempo politica, geopolitica ed economica», spiega Ventura. «Si tratta di organizzare a lungo termine la sicurezza degli investimenti e delle attività – come pure facilitare le loro operazioni – degli attori finanziari ed economici globalizzati».Facilitare il business, scavalcando ogni ostacolo: «Tutto questo con l’obiettivo di consolidare e sviluppare il valore aggiunto delle merci nel contesto degli spazi transnazionali adeguati alle catene globali della produzione, nell’agire e nel dispiegare le multinazionali del centro dell’economia mondiale che dividono interessi comuni con gli attori economici, commerciali e finanziari locali e regionali». Il grande traguardo dei globalizzatori è sempre lo stesso: bypassare la geografia locale (incluse le sue leggi a tutela del lavoro) e disegnare nuove frontiere economiche, finanziarie e commerciali tra i paesi. Non si punta solo ad “armonizzare” i diritti doganali, ma anche ad imporre «gli standard giuridici dei paesi egemoni della Triade», oltrepassando la cosiddetta barriera “senza tariffe: norme sanitarie e fitosanitarie, condizioni di accesso ai mercati pubblici, diritti di proprietà, sicurezza degli investimenti, politiche di competenza. «Questa nuova trasformazione del capitalismo – rileva Ventura – tonifica le dinamiche di fusione tra gli Stati interessati ai mercati, disconnettendo così la capacità di controllo democratico del popolo – l’unico capace di controllare il potere del capitale – e in ultimo sottomettere le nostre società alla sua distruttiva dominazione».Neutralizzare lo Stato, lasciarlo senza soldi e imbrigliarlo in una rete sempre più fitta di vincoli. Sta avvenendo da tempo. Obiettivo: disarticolare le funzioni pubbliche sovrane, a vantaggio di un super-potere esterno – dominante, affaristico, privatizzatore. Dietro a politiche regolarmente insufficienti, deludenti e in apparenza incomprensibili, c’è un orizzonte chiarissimo, chiamato iper-globalizzazione. Funziona così: la catena produttiva delle merci è spezzettata e subappaltata nelle regioni del mondo dove il lavoro costa meno. Così, le istituzioni nazionali – completamente svuotate – anziché a tutelare i propri cittadini sono chiamate essenzialmente a facilitare il nuovo business, rimuovendo ostacoli e regole. Quello che ormai abbiamo di fronte, sostiene Christophe Ventura, è una integrazione mondiale delle élite, come «super-classi oligarchiche mondializzate». Sono “avanti” anni luce: hanno di fronte sindacati inoffensivi, politici compiacenti e media colonizzati. L’area nazionale, con le sue crisi economiche, è solo l’ultimo livello, ormai irrilevante, del grande gioco planetario.