Archivio del Tag ‘sviluppo’
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Volete la verità? Ve la offre Pandora, col vostro aiuto
Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi offre un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.«Ci stanno portando in guerra», avverte Giulietto Chiesa, che da anni vigila sulla grande crisi del capitalismo imperiale, globalizzato e finanziarizzato. Tesi ben riassunta dal suo ultimo saggio, “Invece della catastrofe”, che parte dallo storico allarme lanciato dal Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo: l’élite mondiale non tollera più di dover spartire le risorse vitali del pianeta con una popolazione di 7 miliardi di esseri umani. E se i Brics alzano la testa – crescita accelerata e fame di consumi – è ovvio che sulla “coperta troppo corta” si accende una disputa strategica e geopolitica che i meno ottimisti chiamano “terza guerra mondiale”. Tradotto: mettere le mani su quel che resta del pianeta, battendo sul tempo i cinesi, prima che esploda in modo apocalittico una qualsiasi delle grandi crisi innescate: quella economico-finanziaria, quella energetica, quella climatica, quella dell’acqua o quella del cibo. Unico strumento di autodifesa: la democrazia. Che però è accecata da un filtro prodigioso: la disinformazione.«La verità è che non sappiamo quello che sta davvero succedendo», sostiene Giulietto Chiesa, che punta il dito contro le omissioni e i depistaggi del mainstream, colonizzato dall’élite esattamente come i maggiori partiti politici, tutti infiltrati dai poteri forti che – da Wall Street a Bruxelles – impongono la “loro” agenda, a colpi di diktat e recessioni pilotate. Ultimo scenario offerto dall’attualità: la dirompente crisi scatenata in Ucraina per indebolire la Russia e “intrappolare” l’Europa, pensando già, ovviamente, soprattutto alla Cina. Dai servizi di “Russia Today” proposti da “Pandora”, la tempestiva denuncia della strategia della tensione organizzata a Kiev per rovesciare il (pessimo) regime di Yanukovich, grazie a milizie-fantasma addestrate in segreto e appoggiate da potenti frange neonaziste. “Pandora” si candida a rappresentarla, “un’altra visione del mondo”, dando spazio all’analisi anche italiana della grande crisi, ospitando le voci dei nostri territori. Un canale sociale, aperto a tutti, che – per affermarsi – ha bisogno del contributo di tutti.Non ve la siete mai bevuta, la storia delle armi di distruzione di massa di Saddam? E nemmeno la versione ufficiale dell’11 Settembre o quella del gas Sarin usato dall’esercito siriano contro la popolazione civile di Damasco? Allora “Pandora Tv” potrebbe fare al caso vostro, perché – oltre alla voce di Giulietto Chiesa – vi propone un aggiornamento quotidiano sull’attualità internazionale attraverso i servizi di “Rt”, offerti in esclusiva e tradotti in italiano per garantire “un’altra visione del mondo”, come recita il claim della nuova web-tv aperta su iniziativa del giornalista e scrittore che ha fatto della battaglia contro le menzogne del mainstream il proprio marchio di fabbrica. Una scommessa, quella di “Pandora”, basata sulla garanzia di assoluta indipendenza: proprio per questo, l’esperimento si affida al contributo diretto del pubblico, mediante lo strumento democratico del social crowdfunding: bastano 10 euro per sostenere la produzione della programmazione. Informazione libera, democrazia nella comunicazione.
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L’ipocrita Bono, falsa coscienza umanitaria dell’élite
La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.E proprio della star degli U2 e di Africa parla il libro del giornalista irlandese Harry Browne, “The Frontman”. Un volume smaccatamente che proviene dalla sinistra militante, pubblicato in Italia dalle edizioni no global Alegre e in Inghilterra dalla Verso, celebre per pamphlet di cultura alternativa e di critica al sistema. Il libro soffre dunque di eccesso di moralismo quando fa le pulci a Bono per i suoi soldi e la sua rete di banchieri, industriali e leader politici con legami con il Fmi e la Banca Mondiale, come Paul Wolfowitz. Ma il libro è audace nella critica all’umanitarismo di quello che Oprah Winfrey ha definito “il re della speranza in carica”. «Ovunque due o tre siano riuniti nel nome della ricchezza e del potere, là c’è anche Bono, a garantire per la loro bontà. Bono non si limita a riempire di belle parole posti come i meeting di Davos: lancia progetti, illustra piani d’azione, promuove cause. Tanto lavoro per l’eminenza planetaria della filantropia, per questo è certo di meritarsi il titolo».Alcuni giorni fa anche il “Daily Mail”, giornale di segno ideologico opposto a quello di Browne, ha massacrato Bono con un lungo articolo che ha messo insieme tutte le incoerenze del cantante e, soprattutto, tutte le sue sconfinate ricchezze: un patrimonio immobiliare da sceicco, un parco macchine da emiro, un tenore di vita da faraone e un’attrazione fatale per la grande finanza e per la Borsa, grazie al coinvolgimento di noti “squali” che gli permetteranno, se tutto andrà per il verso giusto, di raddoppiare in dieci anni il patrimonio personale, che lo stesso “Daily Mail” quantifica oggi in un miliardo di sterline. «Da quasi tre decenni, e soprattutto nel nuovo secolo, Bono ha quasi sempre fatto da megafono ai discorsi dell’élite, difeso soluzioni inefficaci, parlato dei poveri in modo paternalistico e leccato i culi dei ricchi e dei potenti».Browne non fa mistero di detestare la rock star: «Bono è ricco: indossa abiti firmati, vola su jet privati, guida cinque diverse automobili di lusso, adora i cibi e i vini più raffinati. Bono è famoso: è il leader del gruppo musicale più stabilmente popolare degli ultimi trent’anni, ha milioni di fan, è l’interprete di alcune delle canzoni più conosciute della nostra epoca. Indossa occhiali da sole che attirano l’attenzione su di lui anziché ripararlo dagli sguardi. Bono è potente: la sua opinione è ricercata, ascoltata e apprezzata ai più alti livelli governativi nazionali e internazionali». Browne è perfido con Bono, definito «ispirato cercatore di verità» e «ultrà dell’euro-postmodernismo», campione del «filantrocapitalismo» ed esponente del «potere taumaturgico dello sviluppo dell’Africa elaborato dalle élite occidentali». L’Africa di Bono e delle altre star come Bob Geldof, anziché essere un luogo reale, viene trasformato in «un progetto per la coscienza occidentale, una specie di vocazione».Secondo il giornalista irlandese, «i discorsi sulla grande benevolenza, sull’impegno e la compassione dell’Occidente, mentre sembrano con ogni apparenza occuparsi della vita di coloro che cercano di salvare e risollevare, in realtà collocano attivamente ‘i nostri ragazzi’ come le star dello spettacolo dello sviluppo, mentre chi è oggetto della benevolenza nazionale (e del nord del mondo) non è altro che lo sfondo di una storia che in realtà si occupa di ‘noi’, individui del Primo mondo». In altre parole, scrive Browne, la figura della celebrità umanitaria incarnata da Bono «funziona come fantasia di redenzione in cui gli abitanti del sud del mondo sono collocati retoricamente come lo sfondo su cui ‘i bravi ragazzi del Primo mondo’ possono mettere in risalto il senso di sé». Per usare le parole di Alex de Waal, «è il grande carnevale umanitario, la moda delle celebrità».(Giulio Meotti, “Un libro di sinistra contro Bono, «leccaculo di ricchi e potenti»”, da “Il Foglio” del 26 febbraio 2014. Il libro: Harry Browne, “The Frontman. Bono, nel nome del potere”, Edizioni Alegre, 283 pagine, 15 euro).La star degli U2? «Ha creato un’Africa che funziona come fantasia di redenzione per le élite occidentali». Verso la fine dell’estate del 2010 Louis Vuitton pubblicò una pubblicità per una serie di valigie in tela Monogram prodotte in numero limitato, le Keepall 45, dal costo di mille dollari al pezzo. La pubblicità mostra Bono e la moglie, Ali Hewson, nella savana africana, portando le borse dietro di sé, come se fossero appena scesi da un aeroplanino. “Ogni viaggio comincia in Africa”, dice il sottotitolo, nel caso avessimo dubbi su quale continente fosse reso importante dalla presenza di Bono. La coppia è molto glamour (Ali mostra un velato décolleté), ma al tempo stesso risulta molto sobria, impegnata. Non sembrano in vacanza: non c’è altro da vedere se non erba, montagne basse e cielo. Il lettore è portato a immaginare che, appena fuori dall’inquadratura, ci sia un campo di rifugiati o un orfanotrofio o un pozzo, con bambini pronti a essere salvati, vaccinati o dissetati dalla grazia avvincente della coppia.
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Banca Mondiale e maxi-dighe, ma l’Africa resta al buio
La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.Già dal luglio 2013 la Banca Mondiale ha adottato un nuovo programma energetico che prevede appunto di aumentare i prestiti ai grandi progetti idroelettrici e ai gasdotti. Ha finanziato più di 600 grandi dighe in 60 anni e supporta attualmente 150 progetti in corso nel settore idroelettrico. La metà di essi sono in Africa e nel Sudest Asiatico. Questi progetti sono tuttavia meno colossali rispetto alla prossima generazione di opera che si preannuncia.Un esempio è costituito dalle dighe Inga 1 e 2 costruite sul fiume Congo. Dopo che un gruppo di finanziatori ha speso miliardi in questi progetti, l’85% dell’elettricità della Repubblica Democratica del Congo è destinata a grandi industrie forti consumatrici di energia e… alla popolazione urbana! Mentre meno del 10% della popolazione delle zone rurali ha accesso all’elettricità.La Banca ha scelto nel luglio 2013 di finanziare il progetto Inga 3 sempre sul fiume Congo per 12 miliardi di dollari, il più costoso mai proposto in Africa, oltre a due progetti di parecchi miliardi sullo Zambesi. Queste tre opere dovrebbero servire a produrre elettricità per le compagnie minerarie e i consumatori delle classi abbienti dell’Africa del Sud. Le Ong che lavorano sulla dipendenza energetica sono allarmate per questa scelta, fatta in uno dei paesi più poveri e più corrotti dell’Africa. I progetti Inga 1 e 2 non hanno portato alcuno sviluppo economico, ma hanno aumentato il peso del debito e in un periodo di fragilità idrogeologica le grandi dighe aumenteranno la vulnerabilità climatica dei paesi poveri.A chi paventa e prevede disastri ecologici e tragedie umane per le popolazioni private di terra e sostentamento e costrette a sfollare, la Bm si difende. «Non si tratta più delle dighe dei vostri nonni», ha detto infatti Julia Bucknall, responsabile del settore idrogeologico dell’istituto internazionale. Cosa cambia rispetto alle dighe “dei nostri nonni”? Soltanto il fatto che vengono pubblicati miriadi di rapporti sull’impatto ambientale che, così come le dighe stesse, verranno addebitati ai paesi che ne “beneficiano”, il cui debito aumenterà e con esso la loro dipendenza dalle grandi industrie e istituzioni finanziare occidentali. La diga Lom Pangar in Camerun è un esempio di medio progetto finanziato dalla Banca. Inonderà 30.000 ettari di foresta tropicale tra cui il parco nazionale Deng Deng, un rifugio per gorilla, scimpanzè e altre specie minacciate. Il progetto è destinato ad alimentare un’industria di alluminio, che consuma già la maggior parte di energia del Camerun. E tutto quell’alluminio non serve di certo al Camerun. Magari servirà per le lattine delle nostre bibite.Soluzioni migliori esistono già. In questi ultimi dieci anni a livello mondiale i governi e gli investitori privati hanno prodotto più energia dall’eolico che dalle dighe. Anche il solare ha reso più degli investimenti idroelettrici. Queste due fonti di energia sono più efficaci delle dighe per rifornire l’Africa sub sahariana. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha dimostrato che l’elettrificazione in rete ottenuta dai grandi progetti idroelettrici non è efficace per le zone rurali, che non sono densamente popolate. Sono efficaci invece le energie rinnovabili e decentrate. Queste presenterebbero il triplo beneficio di aumentare l’accesso all’energia, proteggere l’ambiente e non incentivare il cambiamento climatico. L’Agenzia raccomanda che più del 60% dei fondi siano investiti nelle energie rinnovabili. Ma la Banca Mondiale tra il 2007 e il 2012 ha accordato 5,4 miliardi di dollari per le dighe contro 2 miliardi complessivi per eolico e solare. Il programma si concentra sempre su progetti di grandi opere idrauliche. Ne sorgeranno anche in Nepal, nella fragile regione dell’Himalaya, con l’obiettivo di esportare l’energia in India.E in Italia? Il nostro territorio fortemente antropizzato non consente di realizzare progetti di grande portata ed è ormai finita l’era delle dighe che, complice lo sviluppo industriale ed economico, sono state realizzate in gran parte dagli anni 50’ alla fine degli anni 90’. Ma se nel nostro paese non ci sono più vallate e fiumi da sfruttare in maniera massiccia, le aziende del settore non stanno con le mani in mano. Infatti Enel collabora nella costruzione di grandi dighe nel mondo a discapito di popoli indigeni e di patrimoni naturalistici, come nel caso degli enormi impianti da realizzare in Cile e in Guatemala. Se l’acqua è un diritto per tutti i cittadini del mondo, ne consegue che nessuno dovrebbe avere il diritto di sciuparla, deviarla, imbrigliarla nel nome del profitto monetario ed energetico; ma si sa, in questi tempi di globalizzazione i diritti degli alberi, dei popoli primitivi e dei fiumi sono sempre meno considerati, soprattutto da istituzioni il cui scopo è salvaguardare e incrementare ad ogni costo i profitti dei potenti, come la Banca Mondiale.(Martino Danielli, “Alla Banca Mondiale piacciono le grandi dighe”, da “Il Cambiamento” del 5 marzo 2014).La realizzazione di dighe di grandi o grandissime dimensioni comporta danni ambientali e costi economici e umani che risultano, stando ai dati, assolutamente controproducenti. Questo però non sembra preoccupare la Banca Mondiale, anzi essa è da molto tempo in prima linea nel finanziamento di dighe e sbarramenti fluviali tra i più grandi del mondo. In Italia la storia ha dimostrato la pericolosità e i costi delle grandi dighe, che fortunatamente non hanno avuto una così larga diffusione come in altre nazioni. La Banca Mondiale da molto tempo è impegnata con tutte le sue forze nel promuovere la costruzione di tali opere e si prepara a finanziare enormi progetti idraulici. In tempi di crisi economica mondiale, la Bm imbocca la via percorsa ormai anche da paesi come il Brasile e la Cina. I progetti riguardano in particolare il Congo, l’Himalaya e il bacino dello Zambesi.
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L’euro-pirla che offre alla Merkel lo scalpo degli italiani
Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.«Eppure, a fare un piccolo conto – scrive la Billi nel suo blog – scopriamo che appena 10 milioni di persone riceveranno 1.000 euro a fine anno, mentre tutti i 50 milioni di cittadini i 1.000 dovranno pagarli proprio per il Fiscal Compact». Saldo negativo: «Conto paro per alcuni, meno 1.000 euro per tutti gli altri». Ma poco importa, aggiunge la blogger: «Tutti si affannano col mantra del “meglio che niente”, ovvero quell’elemosina dei potenti che da sempre tiene buono il popolino nei momenti di magra o di scontento. Che qualcuno regali soldi sembra ai più un miracolo, mentre il fatto che ci rapinino ogni giorno è ormai dato normale e acquisito. L’eccezione, si sa, fa notizia. Che gli 80 euro “facciano girare l’economia” poi è hard fantasy». Continua la Billi: «Alzi la mano chi non ha una multa arretrata, una cartella Equitalia, un aumento di tasse comunali o regionali o Tarsu o Taris o quel che l’è da pagare. Gli 80 euro torneranno nelle tasche dello Stato più veloci della luce, e pochi saranno quelli che riusciranno a spenderli al negozietto in affanno».Il succo? Stanno cercando di comprarci il voto: «Una vecchia usanza dei politici italiani, che credono da sempre di aver a che fare con dei pezzenti che si vendono per poche lire. Grazie per la stima, ragazzi. Se ci aggiungete due paia di calze e un sacco di carbone magari vi voto anch’io, che qua fa freddo e Putin è cattivo». Nel 1999, riassume Paolo Barnard, l’Italia era la quinta potenza mondiale, una delle maggiori economie d’Europa secondo “Standard & Poor’s”: «Esportavamo più della Germania e avevamo il Pil pro capite più alto d’Europa». Vent’anni dopo, eccoci tra i Piigs: «Siamo i “maiali d’Europa”, abbiamo il 23esimo reddito dell’Ocse, la disoccupazione maggiore da 40 anni». Ogni anno, il nostro Pil perde 800 miliardi, mentre «falliscono oltre 300.000 aziende all’anno e si suicidano più imprenditori che operai per la prima volta nella storia». Inontre, dal 1992 al 2012 l’Italia ha fatto avanzo primario. «Vuol dire che se dai conti dello Stato si tolgono le sue spese per pagare gli interessi sui titoli come i Btp o i Cct, lo Stato ha sempre incassato più tasse di quanto ci desse di denaro. Ci dava 100 e ci tassava 110. Così per 20 anni».E’ la catastrofe della finanza pubblica “privatizzata”, cioè affidata agli “investitori” internazionali che acquistato i titoli del debito pubblico da quando, nel 1981, Bankitalia divorziò dal Tesoro e cessò di essere il “bancomat del governo”, emettendo denaro a costo zero per finanziare i servizi. Poi, con l’euro, il colpo da ko: impossibilità di fare retromarcia, con lo Stato costretto a rivolgersi alle banche private, uniche destinatarie della non-moneta emessa dalla Bce. E quindi, per restare a galla, più tasse. «Se lo Stato spende 100 e tassa 80, al settore di cittadini e aziende rimane al netto 20», ragiona Barnard. «Se spende 100 e tassa 100, rimane 0, se spende 100 e tassa 120 – cioè se lo Stato fa l’avanzo primario – vuol dire che il settore privato deve andare in rosso di 20 ogni volta». Così per vent’anni.Ed ecco come s’è ridotto il settore privato italiano. Oggi, «quasi la metà dei titoli di Stato italiani sono in mani straniere, per cui quasi la metà di quel reddito se n’è andato via dall’Italia. Sono cifre enormi, miliardi su miliardi». Danni limitati, «se questa emorragia di denaro fosse stata giustamente compensata da maggiore spesa pubblica nell’interesse pubblico italiano». Invece, «montagne di denaro» sono volate per pagare interessi stranieri, mentre lo Stato «ci tassava per più di quello che ci dava, privandoci di miliardi su miliardi di spesa essenziale allo sviluppo della nazione». Ora siamo all’inevitabile: economia ko, mutui che saltano, banche che non concedono credito, super-tassazione e “spending review”, privatizzazioni, servizi pubblici in agonia. E’ in arrivo anche il Fiscal Compact, la maxi-tassa europea? Niente paura, Renzi assicura che pagheremo anche quello. Per la gioia della Merkel. Felice, finalmente, del programma di “riforme strutturali” (amputazione definitiva dello Stato, morte economica del paese) che Mario Monti ed Elsa Fornero non erano riusciti a completare.Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.
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Ucraina, non solo gas: le mani sull’ex granaio di Russia
Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».Le “guerre del grano” esistono, eccome, ricorda Jalife-Rahme in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: «Si potrebbe sostenere che altre guerre per il grano e i cereali sono in atto in forma occulta tanto in Sudan quanto in Argentina». Il Sudan, «leggendario fienile d’Africa», è stato «ridotto a un continuo disordine politico con l’emergenza del Sud Sudan, ricco di petrolio, cosa che ha attirato gli interessi di Stati Uniti e Israele». E l’Argentina, potenza ceralicola fin dall’inizio del ventesimo secolo, «sta soffrendo una brutale guerra multidimensionale, specificatamente nel suo molto vulnerabile sistema finanziario controllato dall’accoppiata Stati Uniti-Inghilterra, con mire sulla Patagonia, il più grande granaio sudamericano». Sul Mar Nero – quello in cui si protende la Crimea – si affacciano invece i porti attraverso cui l’Ucraina esporta i suoi cereali. Secondo il governo di Kiev, più del 50% dell’economia della Crimea dipende dalla produzione e dalla distribuzione alimentare.Il World Fact Book della Cia dichiara che l’Ucraina produceva il 25% delle esportazioni agricole dell’Urss, mentre oggi esporta sostanziali quantità di grano, il cui valore è esploso durante la delicata crisi di cambio di regime pro-Fmi a Kiev, che ha suscitato la reazione russa in Crimea. Le esportazioni agricole dell’Ucraina sono dirette al 20% in Russia e al 17% in Europa; seguono Cina, Turchia e Stati Uniti. Il “Financial Times” ricorda che sono state fatte guerre tra Russia, Polonia e l’Impero Ottomano per il controllo del prezioso “chernozem”, la prateria fertile dell’Ucraina. Nel 2011 l’Ucraina ha ottenuto un raccolto record di 57 milioni di tonnellate. Secondo la Berd, la Banca per la Ricostruzione e Sviluppo in Europa, le adeguate trasformazioni e applicazioni delle nuove tecnologie nell’agricoltura ucraina potrebbero duplicare la produzione di grano già nella prossima decade.Nell’ultimo decennio, scommettendo sull’enorme potenziale agricolo dell’Ucraina, molte delle sei multinazionali del cartello anglosassone che controlla il grano e i cereali (tra cui Cargill, Adm e Bunge, in pieno accordo con Nestlè e Kraft) hanno investito miliardi di dollari. Anche la temibile Monsanto, aggiunge Jalife-Rahme, si è messa in coda per il “chernozem” ucraino assieme alla DuPont Pioneer. «Oggi l’Ucraina ottiene 12 miliardi di dollari dalle sue esportazioni di grano e cereali e dalla sua particolare partnership commerciale con l’Europa», che ovviamente – insieme agli Usa – ha “acceso la miccia” della crisi a Kiev. «L’interesse ad incorporare l’Ucraina nel mercato europeo includeva l’obiettivo ad avere un “supermercato del pane e carne” in Europa mediante una maggiore disponibilità ad affittare o vendere i suoi terreni fertili».L’analista australiana Anna Vidot considera che la scalata all’Ucraina possa avere un impatto significativo nei mercati mondiali del grano. Washington stima che l’Ucraina fornisca il 16% del totale mondiale di mais e grano, la maggior parte del quale passa per il porto di Sebastopoli, in Crimea, sede della flotta russa nel Mar Nero, in una penisola che vanta abbondanti riserve marine di gas naturale. «La realtà è che la balcanizzazione di questo paese comporta come corollario la frattura catastale delle sue riserve di shale gas e del suo grano». I prezzi schizzano rapidamente alle stelle: «La corsa alla conquista della Crimea ha portato già ad un aumento del 40% del petrolio, dell’oro e del grano», conclude Jalife-Rahme. E avverte: «Gli incroci geopolitici per gli idrocarburi, il grano e i cereali sono soliti essere spesso tragici».Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda l’analista economico messicano Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».
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Vedrete, Renzicchio riuscirà a farci rimpiangere Letta
Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.E il fatto che la scure di Sua Maestà si sia abbattuta proprio su Gratteri la dice lunga sul livello di non detto dei patti inconfessabili che Renzi ha voluto o dovuto stringere col partito trasversale del Gattopardo. Se il premier fosse quello che dice di essere, avrebbe dovuto tener duro su Gratteri o mandare tutto a monte. Invece s’è democristianamente genuflesso a baciare la pantofola e ha nominato il ragionier Orlando, ultimamente parcheggiato all’Ambiente («Orlando chi?», avrebbe detto Renzi qualche giorno fa), rinunciando a dare una sterzata alla Giustizia. Complimenti vivissimi a lui e a Giorgio Napolitano, che si conferma il peggior presidente della storia repubblicana: se Scalfaro nel ‘94 usò il potere di nominare i ministri per sbarrare la strada a Previti, lui l’ha usato per fermare un pm competente, efficiente, onesto ed estraneo alle correnti. E non per un’allergia congenita ai Guardasigilli togati: nel 2011 firmò l’incredibile nomina del magistrato forzista Nitto Palma, amico di B. e di Cosentino.Il veto è proprio ad personam contro Gratteri, che la Giustizia minacciava di farla funzionare sul serio, senza più indulti, amnistie, svuota carceri e leggi vergogna. Davvero troppo per lo Stato che tratta con la mafia e per il suo capo. Accettando senza batter ciglio i veti del Colle, della Bce e di Bankitalia, Renzicchio si candida al ruolo di rottamatore autorottamato. Poteva tentare una svolta, costi quel che costi: s’è prontamente fatto fagocitare dalla “palude” che rinfacciava a Letta. Voleva essere il primo premier della Terza Repubblica: sarà il terzo premier a sovranità limitata, circondato da un accrocco di partitocrati di nuova generazione che non danno alcuna garanzia di esser meglio degli antenati. Con due sole eccezioni: il ministro dell’Economia Padoan, finto tecnico che rassicura le autorità europee e mastica politica da una vita, infatti era consigliere di D’Alema (Renzi voleva Delrio, poi anche lì ha alzato bandiera bianca); e l’addetta allo Sviluppo Federica Guidi, che ha soprattutto il merito di essere una turbo berlusconiana e la figlia di papà Guidalberto.Alfano, che Renzi voleva cacciare dal Viminale per l’affare Shalabayeva, resta a pie’ fermo al Viminale. Lupi, che persino il renziano De Luca accusava di farsi gli affari suoi alle Infrastrutture, rimane imbullonato dov’è. Un altro formidabile conflitto d’interessi porta con sé Giuliano Poletti, ras delle coop rosse, al Lavoro. Notevole anche la Pinotti, genovese come Finmeccanica, alla Difesa. La catastrofe Lorenzin farà altri danni alla Salute. Il multiuso Franceschini passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura. La Giannini, segretaria di quel che resta di Scelta civica, va all’Istruzione. Il cerchietto magico renziano si aggiudica gli Esteri con la Mogherini, le Riforme con la Boschi, la Pubblica amministrazione con la Madia (avete capito bene: Madia). Un po’ di fumo negli occhi con la sindaca antimafia Lanzetta alle Regioni, poi due figuranti come Martina all’Agricoltura e il casiniano Galletti che, essendo commercialista, va all’Ambiente. “Ora mi gioco la faccia”, ha detto Renzi. Già fatto.(Marco Travaglio, “Il Renzicchio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.
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Brown: saremo 9 miliardi, grano e riso non ci basteranno
Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.«Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo», scrive Andrea Bertaglio su “La Stampa”, in un articolo che gli è valso il premio “Rendi l’informazione + Sostenibile”, al forum WiGreen di Milano. «Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono finiti», fa presente Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per aver sviluppato diversi “Piani-B” per salvare il pianeta. L’agricoltura sta frenando: «Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno», rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti. Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico: in India, paese che cresce ogni anno di 18 milioni di abitanti, «il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale». Un discorso, aggiunge Bertaglio, che ovviamente «vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina».In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: «I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli», assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività. La Fao sembra dar ragione a Knight: secondo il suo ultimo rapporto trimestrale, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 sarebbe aumentata di circa il 7% rispetto all’anno precedente, portando la produzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. «Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito», insiste però Brown, preoccupato per la “scarsità” che ci attende: limitate risorse idriche, consumo di suolo, rese in calo e instabilità crescente dovuta al global warming.Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Ogm. La pensano così il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. «Nonostante i massicci sforzi, però – rileva Bertaglio – i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana». Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari, che dilagano nonostante la crisi. «Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati Fao, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone».Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.
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Argentina e Grecia presentano Padoan, il rovina-paesi
«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».Padoan era responsabile dell’Argentina per conto del Fondo Monetario Internazionale nell’anno in cui il paese sudamericano fece default. A cosa si riferiva Krugman? Padoan è stato l’uomo che ha gestito per conto del Fondo Monetario Internazionale la crisi argentina. Nel 2001, Buenos Aires fu costretta a dichiarare fallimento dopo che le politiche liberiste e monetariste imposte dal Fmi (quindi, suggerite da Padoan) distrussero il tessuto sociale del paese. In quegli anni il neo ministro si occupò anche di Grecia e Portogallo. Krugman scrisse in un altro articolo che furono proprio le ricette economiche «suggerite da Padoan» a «favorire la successiva crisi economica nei due Paesi».Ecco cosa dichiarò Padoan a proposito della crisi greca: «La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario. La Grecia deve riformarsi, nell’amministrazione pubblica e nel lavoro». In altre parole, Atene avrebbe dovuto rendere il lavoro molto più flessibile, alleggerendo (licenziando) la macchina della pubblica amministrazione. Nel marzo del 2013, quando la Grecia era sull’orlo del collasso, l’allora numero due dell’Ocse suggerì più esplicitamente: «C’è necessità che il governo greco adotti una disciplina di bilancio rigorosa e di un continuo sforzo di risanamento dei conti pubblici, condizioni preventive per il varo di misure a sostegno dello sviluppo». Padoan è stato per quattro anni responsabile per conto del Fmi della Grecia. Successivamente, ha influenzato le politiche economiche di Atene in qualità di vice presidente dell’Ocse.(Franco Fracassi, “L’uomo che spinse l’Argentina nell’abisso”, da “Popoff” del 21 febbraio 2014).«La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo Monetario Internazionale, ex consulente della Bce ed ex vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo. Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul “New York Times” il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman: «Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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Meno e meglio: oggi sprechiamo metà del nostro cibo
Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’uniformativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.In Spagna, sottolinea Guzmàn in un post su “Rebeliòn” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ogni anno finiscono nella spazzatura 2,9 milioni di tonnellate di alimenti, in un paese dove secondo la Caritas ci sono 9 milioni di persone ridotte in povertà, con meno di 6.000 euro all’anno. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri a impegnarsi a dimezzare gli sprechi entro il 2050. Sempre in Spagna, il ministero dell’agricoltura ha chiesto alla grande distribuzione di ridurre gli sperperi alimentari. In realtà, sostiene Guzmàn, si tratta di campagne che mirano a «nascondere deliberatamente le responsabilità dell’attuale industria agroalimentare», a cominciare dalla reale quantità – tenuta nascosta – dei rifiuti alimentari prodotti. Tesi: «Provano a farci credere che l’attuale spreco alimentare non è una conseguenza del modello agroalimentare imposto negli ultimi anni dalle grandi aziende». Sprechi osceni, a livello globale? Sì, ma secondo loro la colpa è nostra, dei consumatori “spreconi”: compriamo troppe merci, non sappiamo utilizzare al meglio i prodotti, trascuriamo le date di scadenza. Siamo stupidi, compulsivi e irresponsabili.«Scegli i tuoi prodotti secondo le necessità della tua casa», raccomanda la campagna del ministero spagnolo dell’agricoltura. «Prima di programmare un acquisto controlla lo stato degli alimenti che hai in casa, soprattutto i prodotti freschi o con data di scadenza. E pianifica il menù giornaliero o settimanale tenendo conto del numero di persone che mangiano». Ma le grandi aziende agroalimentari e i governi non hanno nessuna colpa? «Se mettiamo a fuoco le industrie e le loro strategie – osserva Guzmàn – cominceremo a vedere i contorni di una responsabilità immensamente superiore». Primo fronte, le quantità di merci immesse: l’Europarlamento insiste sul fatto che gli “agenti della catena alimentare” sono i primi responsabili. L’industria apporta il 39% dei rifiuti, mentre ristoranti, catering e supermercati contribuiscono ad appesantire il sistema ecologico per un altro 20%. Naturalmente, «imprese, governi e lobby alimentari danno per inevitabili queste percentuali». L’industria è responsabile anche nel consumo finale, visto che la maggior parte dei rifiuti domestici sono dovuti gli imballaggi. In Spagna, l’80% degli acquisti alimentari è effettuato all’ipermercato (infatti i piccoli negozi, che prima del 2000 erano ancora 95.000, in pochi anni si sono ridotti a 25.000).Inoltre, con la scusa di “migliorare l’efficienza del processo”, le industrie «integrano le “banche alimentari” nella catena agroalimentare», e così «prendono due piccioni con una fava», perché «migliorano l’immagine aziendale e riducono i costi del trattamento dei rifiuti». Una strategia che, alla fine, «rende cronico un intervento assistenziale che di norma sarebbe d’emergenza temporanea» come il “last minute market” dei prodotti vicini alla scadenza, «facendolo invece diventare parte integrante della “catena”», tra l’altro «dimenticando che questi interventi generano stigmatizzazioni sociali e molte volte l’offerta alimentare non è poi adeguata, con mancanza di alimenti freschi, con alimenti trasformati, poveri di nutrimento e sproporzionati a livello di energie, grassi saturi e carboidrati, favorendo così malattie cardiovascolari e diabete». Tuttavia, continua Guzmàn, queste campagne «vengono spacciate come punti di forza», sia dalla Ue che dalla Fao, come fossero davvero utili per ridurre i rifiuti alimentari e promuovere agricoltura territoriale piccoli negozi locali. Le filiere corte evitano dispersioni sia nella produzione, non soggetta ai canoni standard dell’agroindustria, sia nella distribuzione, perché il prodotto locale «non necessita di una grande catena del freddo e di trasporto per arrivare al consumatore finale».Inoltre, la vendita diretta «migliora l’incontro tra offerta e domanda, consumando esattamente ciò di cui necessitiamo». Così, si creano «prezzi equi per i produttori, posti di lavoro e indotto, dinamizzazione del territorio e rivalorizzazione del mondo rurale, incremento generale della qualità nutritiva degli alimenti». E’ la strada che sta battendo la Francia, fino a ieri “regina” europea della grande distribuzione. Il governo di Parigi, ricorda Guzmàn, si sta impegnando anche a livello legislativo per favorire l’economia a chilometri zero: incentivi per la produzione e la trasformazione locale, adeguamento delle norme igienico-sanitarie alle caratteristiche della piccola produzione e iniziative di sostegno diretto come l’acquisto di alimenti per scuole, ospedali e università, presso agricoltori e allevatori locali, «convertendo lo sviluppo dell’agricoltura locale in uno dei pilastri centrali della strategia contro gli sprechi». La Spagna resta lontana. Solo il 3% degli agricoltori iberici ha accesso alla vendita diretta, contro il 20% dei colleghi francesi. Volendo, conclude Guzmàn, basterebbe imitare la Francia per rilanciare l’economia virtuosa dei territori, abbattendo così anche il costo dei rifiuti agroalimentari.Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’informativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.
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Fiat-Chrysler, futuro all’estero. E dal governo, silenzio
La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.Devono veramente amare molto le grandi scacchiere e le partite complicate Sergio Marchionne e John Elkann, per avere aperto quasi contemporaneamente tanti fronti di gioco, ed essere riusciti finora a condurre la partita piuttosto che farsela imporre dall’avversario. Essi sanno bene che dall’altra parte vi sono molti altri attori a progettare ed eseguire le prossime mosse, e alcuni di essi, oltre ad essere abili, non hanno accolto troppo bene l’acquisizione di Chrysler. In Usa, molti investitori e analisti hanno patito la mossa del cavallo consistente nell’acquisire la Chrysler in parte con i soldi del governo americano, e in maggior parte con i soldi della Chrysler e dei fondi dei suoi sindacati. Ma più di questa operazione, che ha costituito senza dubbio un successo strategico da parte del Lingotto sul piano finanziario, essi hanno scarsamente gradito che il rilancio della società americana sia avvenuto soprattutto mediante il rilancio di modelli stagionati e non proprio ecologicamente corretti come la Jeep Grand Cherokee, piuttosto che investire gli utili in nuovi modelli idonei a rinfrescare gli allori di Chrysler. Per tacere dei loro giudizi sulla difficile situazione dell’auto Fiat nel nostro paese, che ha portato molti a parlare di salvataggio del Lingotto da parte della casa di Auburn Hills.Non ci siamo solo noi a chiederci quanti nuovi posti di lavoro si creeranno in Italia grazie all’operazione Chrysler; ci sono anche tanti americani che si chiedono quanti posti saranno creati nel loro paese grazie all’operazione Fiat. Dall’altra parte della scacchiera ci sono ovviamente anche le agenzie di rating. Sono attori che non giocano in proprio, ma sono consiglieri assai ascoltati dagli investitori, in specie fondi di investimento e fondi pensione; proprietari, va ricordato, di metà dell’economia mondiale. Li ha resi potenti e influenti la finanziarizzazione delle imprese industriali, a partire proprio dal settore auto. Quando qualcuno, anni fa, definì le corporation del settore «istituti finanziari che producono anche auto», aveva sott’occhio la situazione della General Motors, la cui divisione finanziaria che contava forse trentamila persone produceva il 40% degli utili della società, che aveva allora 300.000 dipendenti.Da allora, il peso della finanza sulle corporation industriali è ancora cresciuto, donde segue che produrre buone automobili in giro per il mondo non basta per assicurare un successo duraturo al costruttore. Il fatto che Moody’s abbia messo sotto osservazione Fiat per una possibile riduzione del rating, che già non è alto (Ba3), a causa della sua situazione finanziaria, può essere soltanto una mossa intermedia in una partita particolarmente complessa. Ma Marchionne ed Elkann sono in due, mentre dall’altra gli attori che si assiepano attorno alla scacchiera suggerendosi a vicenda le mosse sono dozzine. Manca, ai lati della scacchiera, il governo italiano, che non solo non ha la minima idea o intenzione di entrare in partita, ma non si è nemmeno degnato di rivolgere alla ferrata coppia del Lingotto la madre di tutte le domande: mentre auguriamo al lieto evento le migliori fortune, in concreto, cifra su cifra, documento su documento, qui e ora e non nel decennio prossimo, che cosa ne viene al nostro paese, ai lavoratori italiani, al pubblico bilancio, dalla nascita della Fiat Chrysler Automobiles?(Luciano Gallino, “Fiat-Chrysler, il silenzio del governo”, intervento pubblicato su “Repubblica” il 30 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).La nuova Fiat Chrysler Automobiles avrà la sede sociale in Olanda. Quella fiscale nel Regno Unito, ma il gruppo continuerà a pagare le tasse nei paesi in cui gli utili saranno prodotti. La società sarà quotata alla borsa di New York, dove i titoli trattati sono migliaia e il loro valore si misura in trilioni di dollari, e in quella di Milano, dove i titoli e il loro valore totale sono grosso modo otto o dieci volte di meno. Ricerca, sviluppo, progettazione e adattamento evolutivo dei vari modelli saranno concentrati in Usa, poiché essi vanno per forza dove si realizza il grosso della produzione, ma forse un pezzo resterà a Torino per sostenere il cosiddetto polo del lusso. Gli stabilimenti principali sono sparsi tra Usa, Canada e Messico (Chrysler), ovvero tra Brasile, Polonia, Turchia e Italia (Fiat). La rete dei fornitori dei tre principali livelli (sistemi, sottosistemi e componenti minori) sarà distribuita in gran parte del mondo.