Archivio del Tag ‘sviluppo’
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Euro e Russia: grillini beffati, Di Maio cambia il programma
Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».Per recuperare il vecchio programma, scrive il “Foglio”, basta andare su “Internet Archive” – la più grande biblioteca della rete – e utilizzare la funzione “Wayback Machine”, che consente di risalire alle pagine web modificate o cancellate. Fino al 2 febbraio sul sito del M5S c’era un programma, ma il 7 marzo – tre giorni dopo le elezioni – ce n’era già un altro, «totalmente diverso e spesso diametralmente opposto». E’ il caso del “programma Esteri”, di stringente attualità vista la crisi in Siria. «Gli iscritti avevano votato per un’impostazione radicale, terzomondista, filo-russa e anti-atlantica. Il nuovo “programma Esteri” è stato bonificato: tolte le contestazioni alla Nato e agli Stati Uniti, addolcite le critiche all’euro e all’Ue, smussati gli elogi alla Russia». Il capitolo su “Sovranità e indipendenza” si apriva così: “Il caos che regna in Libia dimostra che l’unilateralismo dell’intervento umanitario è fallito”. E ancora: “Ripudiamo ogni forma di colonialismo, neocolonialismo e ingerenza straniera”. Tutto sparito, rileva il “Foglio”. «Nella nuova versione si parla di “affrontare insieme in Europa” le sfide del domani “come Stati sovrani liberi e indipendenti” nel mondo multipolare. Un’altra musica, più soft».Il capitolo sul “Ripudio della guerra” partiva secco: “Iraq, Somalia, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Ucraina, Siria. L’elenco dei paesi distrutti dall’unilateralismo occidentale potrebbe essere molto più lungo”. E proseguiva catastrofico: “Le guerre di conquista dell’ultimo periodo hanno portato il mondo a un passo dall’Apocalisse e hanno prodotto centinaia di migliaia di morti, feriti, mutilati e sfollati. Territori devastati, smembrati, economie fallite, destabilizzazioni estese a intere regioni e milioni di persone”. Tutto cancellato, osserva Capone sul “Foglio”: «Ora il tono è più posato e burocratico, si parla di “ricerca del multilateralismo, della cooperazione e del dialogo tra le popolazioni” e si ribadisce che “le operazioni per il mantenimento della pace debbano svolgersi in stretta ottemperanza ai principi della Carta dell’Onu”». Ma il passaggio dall’“Apocalisse” alla “stretta ottemperanza” è niente, rispetto alla metamorfosi della posizione sulla Nato: “Il ‘sistema di sicurezza occidentale’ non solo non ci ha reso più sicuri, ma è il primo responsabile del caos odierno. Dall’invasione della Libia fino alla distruzione pianificata della Siria – c’era scritto – il sistema di sicurezza occidentale ha registrato una serie di fallimenti che hanno portato alle popolazioni dei paesi membri, miliardi di euro di perdite, immigrazione fuori controllo e destabilizzazione di aree fondamentali per la sicurezza e l’economia dell’Europa”.L’alleanza atlantica veniva descritta come la causa principale dell’instabilità globale, arrivando a vagheggiare una rottura del patto: ci sarebbe ormai “una discordanza tra l’interesse della sicurezza nazionale italiana con le strategie messe in atto dalla Nato”. Per questo il M5S proponeva un “disimpegno da tutte le missioni militari della Nato in aperto contrasto con la Costituzione”. Tutti gli attacchi alla Nato sono stati eliminati, prende nota il “Foglio”. «Nella nuova versione, cambiata poco prima o poco dopo le elezioni, il passaggio più duro parla dell’“esigenza di aprire un tavolo di confronto in seno alla Nato”». Anche la parte sul Medio Oriente era una dura accusa all’Occidente: “I nostri governi hanno distrutto intere popolazioni, come quella siriana, seguendo l’interventismo occidentale della Nato, cui l’Italia ha colpevolmente prestato il fianco rompendo le relazioni diplomatiche con Damasco”. Ora è stato tolto ogni riferimento al regime di Assad e compaiono le responsabilità dei paesi arabi, che hanno “un sistema di governo a dir poco inadeguato agli standard universali”. Il capitolo sulla Russia? E’ stato emendato da alcune critiche sulle sanzioni. “L’Ue, adeguandosi agli Usa – c’era scritto – ha gradualmente imposto misure restrittive nei confronti della Russia”. Le “azioni di Mosca” in Crimea e Ucraina? Erano “volte al mantenimento della sua sfera di influenza nello spazio ex sovietico a fronte del progressivo allargamento della Nato”. Tutto sparito.Analogamente, aggiunge il “Foglio”, sono state riviste le critiche all’euro: dal passaggio-chiave iniziale (“La situazione italiana nella zona euro è insostenibile, siamo succubi della moneta unica”), il neo-programma di Di Maio approda a lidi più rassicuranti per l’establishment: “Questo non significa abbandonare perentoriamente la moneta unica”. Non che i 5 Stelle siano mai stati chiari, in materia: hanno persino cercato di approdare al gruppo iper-eurista dell’Alde a Strasburgo, senz’altro proporre – in Italia – che la vaghezza di un ipotetico referendum consultivo sulla moneta unica. Hanno sparato volentieri sull’euro, a parole, ma senza mai impegnarsi in una posizione politica ufficiale (come ad esempio quella espressa da Borghi e Bagnai, in quota Lega). Ora la retromarcia di Di Maio conferma agli elettori no-euro che sì, hanno proprio sbagliato a votare 5 Stelle. «Questi esempi – scrive il “Foglio” – riguardano solo le dieci paginette del “programma esteri”, ma vanno moltiplicati per le altre diciannove aree tematiche, più le quattro aggiunte senza alcuna votazione». Nel “programma Banche” sono state inserite proposte mai votate, dal “programma Lavoro” è stato rimosso il capitolo sui “Sindacati senza privilegi”.Ci sono programmi stravolti come quello sullo “Sviluppo economico”, sceso da 92 a 9 pagine, e altri rielaborati da capo a piedi come quello sull’agricoltura. Chi ha scritto il nuovo programma e deciso di sostituirlo a quello votato dagli iscritti? «Probabilmente Di Maio e la sua cerchia ristretta», scrive Capone. «Ma di certo il ruolo di Davide Casaleggio, che materialmente attraverso Rousseau ha cambiato i documenti, mostra come chi si è posto al di sopra di tutti non sia il “garante” della democrazia diretta ma il suo “manipolatore”». Questa manovra, che per il “Foglio” riguarda il principio più sacro (la democrazia diretta) nonché lo strumento più importante (il programma) della vita politica del partito, «svela la grande finzione del M5S e la potenza totalitaria del suo meccanismo». Aggiunge Capone: «La storia è piena di partiti che hanno tradito il programma elettorale, non è la prima volta e non sarà l’ultima. Ma qui si fa un passo ulteriore: il programma viene stravolto in segreto per far credere a militanti ed elettori che è quello che loro hanno sempre voluto e consacrato con il voto. Più che la volontà generale di Rousseau, è un sistema che ricorda la fattoria degli animali di Orwell».Due cattivoni assoluti – la guerra e l’euro – sono letteralmente spariti dalla fiaba “flessibile” dei 5 Stelle: prima delle elezioni funzionavano per ottenere voti, ma ora sono stati “sbianchettati” in funzione governativa. Della serie: perché nulla cambi, delle cose che contano davvero. Nessuno tocchi l’egemonia corrente: a contrastare i bombardamenti Usa, le sanzioni alla Russia e il dominio oligarchico di Bruxelles resta solo Salvini, visto che Di Maio, con l’ovvio placet del padrone Casaleggio, ha sostituito il programma votato dagli iscritti con un altro, assai più morbido e sfuggente sui temi che dovrebbero impegnare il “governo del cambiamento” richiesto da almeno il 55% degli italiani votanti (senza contare il 27% rimasto a casa, forse temendo di assistere esattamente a questo tipo di spettacolo post-elettorale). Il classico imbroglio? Alla faccia del “primo e unico programma politico basato sulla partecipazione e sulla democrazia diretta online grazie al sistema operativo Rousseau”. «La versione del programma elettorale attualmente disponibile sul sito del movimento è completamente diversa da quella che c’era a febbraio», scrive Luciano Capone sul “Foglio”. «Una manipolazione della volontà degli iscritti, una presa in giro degli elettori, una violazione delle regole del partito (democrazia diretta e trasparenza), la negazione della retorica sul cittadino vero “sovrano” e il politico semplice “portavoce”».
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Reddito di cittadinanza: è il piano (infernale) degli oligarchi
Mark Zuckerberg non ha bisogno di presentazioni: mister Facebook vale 64 miliardi di dollari. Altro paperone-prodigio: il sudafricano Elon Musk, patron di Tesla e Space-X. Cos’hanno in comune, a parte i giacimenti aurei? La fede nel reddito di cittadinanza. La pensano così anche l’americano Richard Branson della Virgin e il canadese Stewart Butterfield, l’inventore della banca-immagini Flickr e di Slack, applicazioni per messaggerie. Uomini d’oro e potenti oligarchi, improvvisamente anche umanitari: si stanno battendo a favore del reddito di base garantito, osserva Chris Hedges, a lungo corrispondente estero del “New York Times”. «Sembra che siano dei progressisti e che esprimano queste loro proposte con parole che parlano di morale, prendendosi cura degli indigenti e dei meno fortunati». Ma dietro questa facciata, scrive Hedges, c’è una cruda consapevolezza: soprattutto la Silicon Valley «vede un mondo – quello che questi oligarchi hanno contribuito a creare – tanto iniquo che i consumatori di domani, che dovranno sopportare la precarietà del lavoro, salari sotto i minimi, l’automazione e la schiavitù di un debito che blocca tutto, non saranno in condizione di spendere abbastanza per comprare i prodotti e i servizi offerti dalle grandi corporations».
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Cabras: Siria, solo bugie. Per annullare le elezioni italiane?
Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.Molti missili, spiega Cabras, sono stati lanciati contro il centro di ricerca e sviluppo di Barzah, ritenuto colpevole, secondo le dichiarazioni ufficiali, di “produrre clorina e Sarin”. Solo che il 22 novembre scorso, aggiunge, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw) aveva ispezionato proprio il centro di Barzah e aveva escluso che producesse armi chimiche. I risultati sono stati riconfermati il 23 e il 28 febbraio di quest’anno, come documentato da un report del 13 marzo. «In pochi minuti – scruve Cabras su “Megachip” – le forze armate statunitensi hanno mandato in fumo proprie dotazioni per un valore di duecento milioni di dollari e i fornitori di missili si sono sfregati le mani perché saranno loro a ricostituire le scorte. Mi pare chiaro – aggiunge – che a Washington non abbiano nemmeno lontanamente voluto sfidare la vera capacità di risposta dell’alleato di Damasco, la Russia, che disponeva sia di sistemi antimissile di trent’anni più avanzati rispetto a quelli delle forze armate siriane, sia di capacità di rappresaglia in grado di annichilire tutti i punti di lancio dei missili (navi o altro)». Questo, secondo Cabras, significa che all’interno dell’amministrazione Trump «quelli che volevano una guerra di grandi proporzioni sono stati gentilmente accompagnati a un vicolo cieco, almeno per ora».Altra deduzione: «C’erano canali di comunicazione fra le capitali occidentali e Mosca per assicurarsi che la costosissima e rischiosissima rappresentazione teatrale non generasse equivoci ed escalation». Risultato: «Alla fine tutti salvavano la faccia». Nondimeno, «fa impressione che dentro questa consapevolezza in qualche misura “collaborativa” sul limite da non oltrepassare (dove comunque i russi erano in massima allerta), la pièce dovesse comunque svolgersi con tutti i suoi sviluppi obbligati, dalle esplosioni alle indignazioni ai titoloni alle riunioni Onu. Tutto dannatamente teatrale, eppure autentico». Le armi di distruzione di massa? Fantasma evocato poche settimane prima a Londra, con il presunto “gas” impiegato contro l’ex spia in pensione Sergeij Skripal. «Vengono richiamate come un feticcio, un’allusione a un tabù storico che fa oltrepassare una “linea rossa”: laddove si allude a un gas si allude a un qualche nuovo Hitler da strapazzare. Per chi spinge alla guerra, le prove non contano più nulla: conta solo un’opinione sul gas, non importa se sia cloro, Sarin, o il misteriosissimo gas “di consistenza gelatinosa” di cui parla l’imprenditore mediatico Roberto Saviano», unitosi al coro russofobo (non si sa in basi a quali informazioni e competenze).«Si prendono per oro colato notizie inverificabili provenienti da ambienti compromessi con l’oscurantismo jihadista e le si usa per una rapida hitlerizzazione di un qualche governante da abbattere con i mezzi della guerra totale in un contesto alle soglie della guerra atomica, come se i disastri e le menzogne delle aggressioni all’Iraq e alla Libia non avessero insegnato nulla», sottolinea Cabras. «Di fronte a rischi così forti risulta essere un gravissimo errore intellettuale e politico (purché non si tratti di malafede) il sollecitare nel pubblico reazioni emotive incontrollate ed esasperate, basate su dicerie rilanciate da un circuito politico-mediatico gravato da pessimi precedenti che lo rendono inattendibile». Se non alro, aggiunge il neo-parlamentare, è confortante notare che in questo contesto difficoltoso, in cui le pressioni sono molto intransigenti, emergano prese di coscienza ragionate come quella dell’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, che punta il dito sull’ultimo “caso gas” in Siria, da lui visto come «l’ennesima creazione della premiata ditta jihadista per giustificare il pretesto per una guerra totale». E comunque, per quanto il bombardamento del 15 aprile fosse sostanzialmente “contraffatto”, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno violato in modo “vero” la legalità internazionale, eccome.«Si è trattato di un’aggressione – l’ennesima – a carico di un paese sovrano che fa parte dell’Onu, con effetti indiretti in grado di generare comunque pericolose ripercussioni». Ad esempio, aggiunge Cabras, non è la prima volta che in occasione di aggressioni dirette delle potenze occidentali a danno delle forze armate siriane, i tagliagole dell’Isis lancino delle offensive con qualche successo: anche in questa circostanza, infatti, l’esercito siriano – in vista dell’attacco annunciato – ha dovuto lasciare sguarnite certe aree contese con l’Isis, che ne ha approfittato all’istante. «Non va mai dimenticato che chi ha retto l’urto dell’Isis fino a infliggergli sconfitte decisive è stata la Siria, con l’aiuto decisivo della Russia. È imperdonabile oggi voler offrire altre chances all’Isis». Usa, Gran Bretagna e Francia sono, al tempo stesso, membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto e membri del “club nucleare”: «In questa veste si sono ripreso ancora una volta il ruolo abusivo di potenze sciolte dal vincolo di dover sottostare a importantissime norme internazionali». Con queste azioni, «fanno valere un peso speciale che comprime le alleanze sovranazionali di cui fanno parte, soggette costantemente a subire la loro preponderanza».Nella Nato e nella Ue, questi paesi sono “animali più uguali degli altri”, per usare la metafora orwelliana. «Dispongono di mezzi diplomatici fortemente orientati a far valere questa preponderanza», e quindi «presidiano abilmente l’ordine del giorno dei principali media per stabilire l’agenda delle notizie e condizionare le mosse degli attori internazionali nonché il sentimento medio dell’opinione pubblica». E così facendo «zavorrano gli spazi di manovra delle personalità politiche nazionali con lacci e lacciuoli». In Italia, nella scorsa legislatura, la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro «ha messo agli atti alcune importanti scoperte sulle dinamiche che hanno condizionato nel corso dei decenni la sovranità italiana per via del peso di alleati che da un lato ci sono amici, dall’altro ci investono con mille pressioni e azioni ostili e perfino golpiste», ricorda Cabras. «Non è solo materia sanguinosa di una storia passata, è ancora carne viva e dolente della politica italiana attuale: vi saremo ancora dentro finché non rinunceremo ad esercitare un ruolo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente». Per uscirne, dovremmo smettere di «appaltare tutta la nostra politica estera a potenze straniere», e cessare di concepire le alleanze «come meri vassallaggi, anziché come partecipazioni più equilibrate».Ognuno degli attori politici attuali, aggiungeil neo-deputato Cabras, sa perfettamente di affrontare «una perenne corrente di influenze esterne profondamente radicate nel sistema», influenze «a cui non par vero di sfruttare ogni spiraglio generato da una crisi di governo difficilissima come quella di oggi». Per cuio, se “nulla è come appare”, ogni parola spesa per risolvere la crisi di governo «nasce in un contesto che non ammette semplificazioni». Il quadro degli accordi di governo possibili in Italia, ammette Cabras, «è gravemente condizionato dal fatto che pezzi significativi del sistema politico (e molti apparati) hanno un’abitudine ormai rodata a sottomettersi a coloro che dicono “fate presto”». Lo spiega bene Debora Billi su “ByoBlu”: «I media come sempre fanno la loro parte, che è poi quella del leone. Remano con forza nella direzione del governo “responsabile”, con la speranza che le leve del comando siano riconsegnate a chi le ha tenute saldamente finora, tradendo così la volontà popolare del 4 marzo. Ma anche molti media alternativi sul web – forse non volontariamente – contribuiscono allo stesso “frame”, pretendendo a gran voce dai politici più in vista dichiarazioni adamantine contro la guerra, contro la Nato, contro gli alleati, e stigmatizzando come servo e zerbino chi non ottempera all’istante».I social fanno il resto – aggiunge la Billi – alimentando tra gli stessi cittadini quella battaglia ideologica, «e chiudendo così il cerchio destinato a legare inestricabilmente il futuro governo agli eventi di questi giorni in Siria». Molti stanno inconsapevolmente lavorando, come si usa dire, per il Re di Prussia. E rischiano di far sì che si abbiano «i missili sulla Siria come movente perfetto per cancellare con un colpo di spugna la scomoda volontà popolare: sta quindi a noi non cadere nella trappola, e continuare a reclamare un governo che rispecchi ciò che è accaduto il 4 marzo e non ciò che è accaduto il 14 aprile». Per Cabras, è importante risolvere la partita del governo senza farsi vincere dalla fretta, anche in materia di politica estera. Il programma esteri con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato alle elezioni – sostiene Cabras – offre spunti «decisivi» per costruire assieme ad altre forze parlamentari «un accordo di governo grazie al quale la Repubblica Italiana possa recuperare il proprio importante ruolo di grande mediatore del Mediterraneo, con un governo in grado di vantare un approccio profondamente iscritto nella vocazione storica dell’Italia democratica». Un approccio «molto più equilibrato rispetto a quello imposto da chi in questi anni ha usato la guerra per nuove avventure neocoloniali, tutte dannose anche per la nostra repubblica».Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.
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Grimaldi: droga, terrore e migranti, ecco il piano del potere
Tre sono le grandi operazioni con cui la cupola finanzcapitalista persegue nel terzo millennio il dominio totalitario politico, militare, economico e culturale sull’umanità. Lo Stato unico della sorveglianza e del controllo senza spiragli o crepe. Hanno tutte origine nel cosiddetto riflusso degli anni ’80 del Novecento, risposta all’onda insurrezionale del decennio precedente e prodromo dell’offensiva scatenata vent’anni dopo, a partire dalla “normalizzazione-passivizzazione” delle coscienze e dei saperi con gli strumenti hi-tech degli apprendisti stregoni di Silicon Valley. La diffusione della droga per la guerra alla droga; la diffusione del terrorismo per la guerra al terrorismo; la migrazione di massa finalizzata a un unico superstato che persegue la distruzione di ogni statualità attraverso la creazione di masse, estratte dal proprio contesto storico, omologate dall’abbandono, dalla disperazione, dalla perdita di anima e nome collettivi e da un destino di subalternità irrimediabile. Strategia di distruzione dei diritti umani (intesi come libertà, riservatezza, lavoro, autonomia, rapporti sociali), se va bene sostituiti da diritti detti civili (per lo più intesi come superamento di quelli biologici) e dal diritto di muovere guerra e distruzione a chi si pretende di accusare di violazione dei diritti umani.
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Molinari: serve una donna a Palazzo Chigi, dopo 71 anni
Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».Numerosi studi, secondo Molinari, dimostrano che il ritardo nella parità di genere frena lo sviluppo economico: «Una premier in Italia sarebbe un evento-spartiacque, tale da favorire un ruolo maggiore delle donne nel sistema produttivo nazionale, con una pioggia di ricadute postive». Chi sosterrebbe l’eventuale esecutivo “in rosa”? Teoricamente le ipotesi possibili sono quattro, ricorda l’“Agi”: coalizione M5S-Lega, coalizione M5S-Pd, governo di larghe intese, coalizione M5S-centrodestra. Quali le eventuali candidate per Palazzo Chigi? Nel caso toccasse alla berlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati, appena eletta a Palazzo Madama anche coi voti dei grillini, potrebbe liberarsi la presidenza del Senato per il Pd, in vista di ipotetiche larghe intese. Tradizionale riserva della Repubblica, scrive sempre l’“Agenzia Italia”, la Corte Costituzionale ha nei suoi ranghi la vicepresidente Marta Cartabia (area centrosinistra) e Daria De Pretis, ancora più a sinistra. Ma se a scegliere dovesse essere il Movimento 5 Stelle – sostiene l’“Agi” – probabilmente a Palazzo Chigi andrebbe Silvana Sciarra, che in passato ha colpito duramente la legge Fornero, costringendo le forze politiche a una sua parziale revisione. Si parla anche dell’ex ministro Paola Severino, invisa però a Berlusconi (sua la legge che l’ha reso incandidabile), e tra i nomi sempre spesi volentieri c’è quello della Bonino, «reduce sì da una delusione elettorale, ma ben attenta a non legare troppo il suo nome a quello dei democratici».Curriculum ecumenico, quello della Emma nazionale: Berlusconi la volle alla Commissione Europea, il centrosinistra alla Farnesina. «Di profilo più basso i nomi al femminile che può presentare la Banca d’Italia, anch’essa tradizionale serbatoio di premier traghettatori e super partes». La stessa “Agi” fa i nomi di dirigenti come Orietta Maria Varnelli, Franca Alacevich e Donatella Sciuto. Poi le outsider: «Deboli, almeno a momento, anche i nomi di Anna Finocchiaro, più volte indicata in passato come possibile candidata al Quirinale, e di Linda Lanzillotta. Quanto a Lucrezia Reichlin, l’economista ha uno splendido curriculum ma potrebbe risultare poco gradita a Lega e 5 Stelle: troppo tecnica, soprattutto vicina ai mondi di Bruxelles e Londra che le due formazioni dicono di non apprezzare». Archiviate la Boschi e la Boldrini, insieme a Debora Serracchiani, Beatrice Lorenzin e Daniela Santanchè, a bordo campo qualcuno avvista Mara Carfagna, o meglio ancora Anna Maria Bernini, capogruppo forzista al Senato, già candidata alla presidenza da Salvini. Debuttanti assolute, dalla cosiddetta società civile? C’è chi ricorda che i grillini volevano Milena Gabanelli, giornalista fondatrice di “Report”, addirittura al Quirinale. Ma la donna più impegnata in politica – capo di un partito – è Giorgia Meloni, battagliera leader di “Fratelli d’Italia”, costola minore della coalizione vincente alle elezioni. Non esattamente una figura di mediazione: toni sempre accesi, contro l’ignobile “burocratura” di Bruxelles.Una donna a Palazzo Chigi, per la prima volta dopo 71 anni? Nelle trattative tra i partiti per trovare una maggioranza in Parlamento si fa strada l’ipotesi di un nome super partes, in grado di sciogliere le resistenze dei diversi schieramenti sui candidati che hanno vinto le elezioni. Comincia a farsi strada l’idea di un premier donna, lanciata dal direttore della “Stampa”, Maurizio Molinari. «Per l’Italia che il 4 marzo si è recata alle urne chiedendo un forte rinnovamento della classe politica – scrive – è arrivato il momento di avere una donna alla guida del governo». Il risultato del voto non potrebbe essere più evidente, ammette Molinari, perché oltre la metà degli elettori ha votato per partiti anti-establishment. A prescindere da quale sarà la combinazione di forze che esprimerà il nuovo presidente del Consiglio, «l’opportunità di avere in Italia la prima donna premier ha un valore strategico», è addirittura «un interesse nazionale», perché «potrebbe trasformare l’entusiasmo per il voto in entusiasmo per il governo, contribuendo a rafforzare la credibilità delle istituzioni rappresentative in una stagione segnata dal loro indebolimento». E’ quasi euforico, Molinari; con una donna primo ministro «l’Italia lancerebbe un segnale folgorante».
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Massoni: pressing sul Pd, via Renzi e alleanza con Di Maio
Fortissime pressioni massoniche sul Pd per archiviare Renzi e puntare all’abbraccio con Di Maio, a sua volta in attesa di essere accolto dalla supermassoneria internazionale alla quale ha bussato. Lo scenario verso il quale premono i poteri forti, l’alleanza tra Pd e 5 Stelle, sarebbe perfetto per Salvini, che – dall’opposizione – continuerebbe indisturbato a spolpare Forza Italia, accreditandosi come leader unico del centrodestra. Il problema? Si chiama Matteo Renzi: non è facile farlo fuori. Parola di Gianfranco Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Dal giorno dopo le elezioni – ricorda Carpeoro, saggista e attento osservatore della situazione italiana – ho detto che non si sarebbe andato da nessuna parte, se non facendo delle acrobazie istituzionali non solo inutili, ma dannose per il paese». Un mese dopo, ribadisce il concetto: l’unica cosa seria da fare, dice, sarebbe varare un governo destinato a durare solo 90 giorni. Un esecutivo di scopo, sostenuto da tutti i partiti, con un unico obiettivo: cambiare la legge elettorale, reintroducendo il premio di maggioranza. «Chi vince, anche di poco, deve poter governare. E’ un problema pratico, non ideologico. Bisogna uscire da questa ipocrisia assoluta, imposta dalla Corte Costituzionale, per la quale il premio di maggioranza nel 90% dei casi è illegittimo. Basta: chi vince, governi».Di Maio oggi parla di Pil e mercati, equilibrio di bilancio e rispetto dei parametri europei? «Cos’altro aspettarsi, da Di Maio?». Per Carpeoro, il leader dei 5 Stelle «sta cercando di farsi accogliere nella Ur-Lodge dove si è proposto». Quale? «Se posso fare una previsione, dovrebbe essere la “Three Eyes”», ovvero la superloggia storica della destra reazionaria, incarnata per decenni da figure di vertice del massimo potere mondiale come Kissinger, Rockefeller e Brzezinki, incluso – secondo Gioele Magaldi – lo stesso Giorgio Napolitano. Secondo l’autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere), della “Three Eyes” fanno parte anche Mario Draghi nonché Christine Lagarde del Fmi, in compagnia di esponenti dell’élite italiana come Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), il top manager Giuseppe Recchi, Marta Dassù di Finmeccanica, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani, l’economista Carlo Secchi e Federica Guidi, già ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. Questo il salotto buono al quale, secondo Carpeoro, avrebbe chiesto asilo il candidato premier dei 5 Stelle. «Dieci giorni prima delle elezioni – ricorda – Di Maio è andato a parlare col mondo finanziario di Londra, che è quello che organizza i grandi complotti e le grandi speculazioni».Un progetto partito da lontano, il ruolo di Di Maio come “cavallo di Troia” del grande potere? Anche no: la sua leadership è emersa strada facendo. Il grande momento del Movimento 5 Stelle «ha portato Di Maio a essere un personaggio esteticamente opportuno per fare quest’operazione». E come avrebbe fatto, l’ex steward dello stadio di Napoli, ad avvicinare il mondo supermassonico delle Ur-Lodges? Ha sempre avuto alle spalle Casaleggio, sottolinea Carpeoro. «In fin dei conti, Casaleggio è uno che ha progettato il Nuovo Ordine Mondiale: guardatevi i suoi documenti, i filmati». Beninteso: «Mica è una parolaccia, il Nuovo Ordine Mondiale: dipende da come lo fai, può essere anche una cosa non necessariamente drammatica». La storia dell’uomo, aggiunge Carpeoro, è fatta di epoche di ordine e epoche di disordine: è strano, eppure «si somigliano sempre sinistramente, l’ordine e il disordine». Carpeoro ne parla nel libro “Summa Symbolica”, di cui sta per uscire il secondo volume: «Non essendo possibile un ordine assoluto, tutto finisce per essere un ordine». Gianroberto Casaleggio? «Era un mistico, quindi ha disegnato il progetto di una società perfetta, a suo avviso. E aveva un socio – Enrico Sassoon – che faceva parte di una Ur-Lodge». Carpeoro diffida, dei progettisti di mondi perfetti: «Nessuno fa più danni di chi pensa di fare il bene degli altri: Hitler era uno così, no?».Ora i giornali dicono che l’alleanza tra Pd e 5 Stelle sarebbe una falsa pista, mentre il vero obiettivo di Di Maio sarebbe l’intesa con Salvini? Favole: «Di Maio sa che non potrà mai fare un’alleanza con Salvini, a meno di non considerare Salvini un idiota», taglia corto Carpeoro. La ragione è ovvia: «Salvini è motivato a essere il leader del centrodestra. Automaticamente, se scaricasse gli altri per fare da stampella a Di Maio, non potrebbe mai più essere il leader del centrodestra (lo dimostrano tutti i casi precedenti: Fini, Casini, Follini)». Il capo della Lega, aggiunge Carpeoro, sa perfettamente che in un governo coi 5 Stelle andrebbe a fare il passacarte. Molto meglio, per lui, essere il leader dell’opposizione. Quindi, Salvini propone a Di Maio di accettare anche Forza Italia, mettendosi alla pari con il centrodestra. Ipotesi abbastanza impercorribile: «Se Di Maio accettasse, l’idiota sarebbe lui». Non resta che l’altra sponda, il Pd, che in questo momento sta subendo «fortissime pressioni – paramassoniche, massoniche, internazionali – per cambiare la sua posizione e archivare Renzi». Ma eliminare l’ex premier è difficile: «Renzi si è cautelato, ha il predominio numerico sul partito: se si fanno le primarie, le rivince lui». E soprattutto: senza più Renzi, il Pd teme di poter scomparire. «Ne va della sua sopravvivenza politica». Vie d’uscita? Una sola, per Carpeoro: un governo che duri solo tre mesi. Obiettivo: voto anticipato, con una nuova legge elettorale che garantisca il governo di un vincitore sicuro.Fortissime pressioni massoniche sul Pd per archiviare Renzi e puntare all’abbraccio con Di Maio, a sua volta in attesa di essere accolto dalla supermassoneria internazionale alla quale ha bussato. Lo scenario verso il quale premono i poteri forti, l’alleanza tra Pd e 5 Stelle, sarebbe perfetto per Salvini, che – dall’opposizione – continuerebbe indisturbato a spolpare Forza Italia, accreditandosi come leader unico del centrodestra. Il problema? Si chiama Matteo Renzi: non è facile farlo fuori. Parola di Gianfranco Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Dal giorno dopo le elezioni – ricorda Carpeoro, saggista e attento osservatore della situazione italiana – ho detto che non si sarebbe andati da nessuna parte, se non facendo delle acrobazie istituzionali non solo inutili, ma dannose per il paese». Un mese dopo, ribadisce il concetto: l’unica cosa seria da fare, dice, sarebbe varare un governo destinato a durare solo 90 giorni. Un esecutivo di scopo, sostenuto da tutti i partiti, con un unico obiettivo: cambiare la legge elettorale, reintroducendo il premio di maggioranza. «Chi vince, anche di poco, deve poter governare. E’ un problema pratico, non ideologico. Bisogna uscire da questa ipocrisia assoluta, imposta dalla Corte Costituzionale, per la quale il premio di maggioranza nel 90% dei casi è illegittimo. Basta: chi vince, governi».
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Pallante: come salvarci dalla catastrofe globale della crescita
Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.L’unica terapia? Fermare la crescita tumorale delle merci. Serve qualcosa di enorme, paragonabile alla Rivoluzione Industriale, ma di segno opposto. Valori da capovolgere: il “tanto-avere” è il grande nemico del “ben-essere”. Nel suo ultimo saggio, che definisce “un manifesto politico e culturale”, Pallante denuncia il capitalismo industriale degli ultimi 250 anni. Una forza tellurica eversiva, segnalata da Marx come pericolo: se prima il denaro era solo un mezzo per scambiare merci, è diventato l’unico fine dell’intero ciclo economico. E’ Keynes, nel 1931, il primo a parlare di “disoccupazione tecnologica”: scopriamo sempre nuovi sistemi per «risparmiare forza lavoro», senza riuscire a ricollocarla. Succede perché siamo avidi, dice Pallante: riducendo l’orario di lavoro, l’innovazione di processo non comprometterebbe l’occupazione. Al contrario: sarebbero le macchine a lavorare per noi. Il guaio? Il nostro obiettivo non è vivere bene, in armonia con gli altri e con il pianeta. Vogliamo solo avere tanti soldi, costi quel che costi. Alle conseguenze, semplicemente, non pensiamo: la guerra sociale, la predazione globale delle risorse, il collasso della biosfera. Il paziente è grave: consuma più di quanto la Terra possa dargli. Ogni anno la “deadline” si accorcia: prima del Duemila la linea rossa veniva superata a ottobre, poi a settembre. Ora siamo “in riserva”, ogni anno, già dal mese di luglio.Non ci vuole un indovino per intuire che di questo passo andremo a sbattere. L’emissione di anidride carbonica non smaltibile dalla fotosintesi vegetale è quasi raddoppiata, sugli oceani galleggiano “continenti” di plastica, il pesce s’è dimezzato, il clima terrestre sta per raggiungere i 2 gradi sopra la soglia di sicurezza. E non abbiamo ancora visto niente: si calcola che interi paesi, come il Bangladesh, saranno sommersi. Noi che facciamo? Niente. Anzi, peggio: acceleriamo la corsa verso lo schianto. La globalizzazione violenta del mercato, dice Pallante, riproduce su scala mondiale quanto avvenne con la Rivoluzione Industriale: masse ingenti di contadini e artigiani sradicate dai loro territori e trasformate in folle di profughi economici. Obiettivo: accrescere la platea dei consumatori di merci superflue. Esaurite le capacità dell’Occidente, si punta al resto del mondo. Interi continenti da depredare di materie prime a basso costo, attraverso guerre coloniali permanenti. Decine di paesi devastati, dai quali non resta che scappare. Il sistema li accoglie a braccia aperte, i migranti che ha messo in fuga: diventeranno nuovi consumatori e contribuenti, in termini di tasse e versamenti pensionistici, senza contare il loro sfruttamento schiavistico e il business criminale che specula sull’accoglienza, mortificando la solidarietà di migliaia di volontari.Proprio la mano tesa, offerta ai rifugiati, rivela che la vittoria del mostro (da noi stessi alimentato ogni giorno) non è ancora definitiva. Sopravvivono religioni, cresce a vista d’occhio la fame di spiritualità. In modo spesso confuso, si va in cerca di valori. «Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica – scrive Pallante – la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile». Consente di recuperare la solidarierà «non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi», e arricchisce la pulsione all’uguaglianza di un profilo anche esistenziale. Cosa manca? Una politica, capace di aggregare milioni di individui per invertire il corso degli eventi, scongiurando la catastrofe. Destra e sinistra? Un lungo equivoco. E’ lo stesso Hayek, nume tutelare dei criminali architetti dell’austerity europea, a chiarire che il liberalismo non è stato conservatore, ma rivoluzionario. La sinistra ha arrancato dietro al capitale, cercando solo di distribuirne i profitti in modo più largo. Ma, secondo Pallante, persino l’ossigeno del deficit teorizzato da Keynes è controproducente: siamo al punto in cui – come predetto dal Club di Roma, cioè dal Mit di Boston – ogni espansione dei consumi ci accorcerebbe ulteriormente la vita.Come se ne esce? In un solo modo: tagliando il Pil. Decrescita infelice? No: selettiva. Nel mirino, gli sprechi. Non la barzelletta delle auto blu, ma cifre spaventose, che valgono intere finanziarie: la sola riconversione ecologica degli edifici farebbe crollare di 2/3 la spesa energetica nazionale, creando un oceano di posti di lavoro (utili) e abbattendo in modo vertiginoso l’impatto ambientale. Nel gelido Nord Europa c’è chi vive in “case passive” tecnologicamente avanzate, senza riscaldamento convenzionale, a emissioni zero. Noi invece siamo ancora impelagati nelle guerre geopolitiche per i gasdotti, come se vivessimo all’inizio del ‘900. Le ultime elezioni italiane hanno rottamato la vecchia politica e in particolare la sinistra? Ovvio: proprio la sinistra ha abbandonato i territori che storicamente si era candidata a tutelare. In ordine sparso, si va organizzando localmente un arcipelago di comunità fondate sulle filiere corte, ancora senza rappresentanza istituzionale. Riuscirà a nascere un partito che punti alla sostenibilità dell’economia, anziché all’impossibile “sviluppo sostenibile”? Matematica: benché “sostenibile”, cioè con minor impatto immediato sull’ecosistema, qualsisasi “sviluppo” (crescita illimitata) diventa comunque insostenibile alla distanza, perché farà crescere consumi superflui e veleni.«E’ l’equivoco delle rinnovabili: sono meno impattanti oggi, ma quell’energia “verde” aggraverà il bilancio ecologico domani, se ci sarà ancora “sviluppo”». L’alternativa? Vivere benissimo e diventare tutti ricchissimi: non per forza di denaro, ma di beni (prodotti con “valore d’uso”, anziché merci “usa e getta”). Nel suo libro – densamente argomentato e documentato, numeri alla mano – Pallante ammette che il suo pensiero è necessariamente eretico, di fronte al non-pensiero del “mercato”. «La decrescita selettiva degli sprechi – insiste – è l’unica via d’uscita a una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime». Mentre la disoccupazione ci devasta, nessuno mette in cantiere le attività utili, quelle adatte ad affrontare la crisi sociale e l’emergenza ambientale. «Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e non commissiona i lavori più necessari, che ripagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del Pil. Prima ce ne liberiamo e meglio sarà».Inutile spiegarlo agli oligopolisti del denaro, i ras della finanza che stanno schiantando il pianeta alla velocità della luce. Dovranno essere i molti, non i pochi, a disertare dall’esercito del Pil, additando questo “sviluppo” come il vero nemico di un’umanità ancora intenzionata ad abitare la Terra. E’ in arrivo un cataclisma definitivo o sarà ancora possibile metter mano al nostro destino, fermando la corsa verso il baratro? Dipende da noi, secondo Pallante, che intanto propone di uscire dal grande imbroglio della fiction mainstream. Svegliarsi: rottamare il culto di vocaboli-totem come progresso, modernità e innovazione. Continuare a scambiarli per sinonimi di miglioramento, sostiene, significa restare prigionieri di un inganno saguinoso, ormai esiziale per le sorti della società e del pianeta. Tornare all’antico? Al contrario: «Occorre utilizzare l’enorme patrimonio scientifico e tecnologico delle società industriali», non più per incrementare la produttività e la produzione di merci, ma «per sviluppare le tecnologie che aumentano l’efficienza con cui le risorse della Terra vengono trasformate in beni». Raffinate tecnologie, che riducono gli sprechi, tagliano le emissioni e recuperano i rifiuti.Oggi, insiste Pallante, difendere la democrazia significa affrontare i problemi creati dalla gobalizzazione: «Occorre porre al centro della politica economica l’autosufficienza alimentare ed energetica». Filiere corte, dall’energia al cibo. Parola d’ordine: «Rilocalizzare tutte le attivitù produttive che rispondono ai bisogni fondamentali della vita e possono essere svolte più vantaggiosamente a livello nazionale che a livello globale». Settori d’impiego teoricamente infiniti: basterebbe «ristrutturare ecologicamente il patrimonio edilizio, rinaturalizzare il paesaggio, ripulire i fiumi, rifare le reti idriche che perdono mediamente il 65% dell’acqua». Solo così, conclude Pallante, si può rianimare l’economia creando lavoro “utile”, che risana l’ecosistema. Serve un nuovo umanesimo, un patto tra comunità consapevoli: «Occorre ridare slancio alla convinzione che il lavoro di ognuno può contribuire in maniera determinante al benessere di tutti», restituendo un futuro ai giovani e alle generazioni a venire. Utopia? Sì, necessaria e urgente. Non c’è più tempo per i sogni, serve una politica operativa basata su un paradigma opposto a quello della crescita, cieca e suicida. Anche perché l’alternativa è già scritta: siamo noi, il famoso tonno da tagliare con un grissino.(Il libro: Maurizio Pallante, “Sostenibilità equità solidarietà”, sottotitolo “Un manifesto politico e culturale”, Lindau, 185 pagine, 16 euro).Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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La Cina sa che persino la corruzione fa volare l’economia
La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.La questione centrale non è se la Cina possa continuare a trasgredire o confondere le norme, semmai quanto gli è richiesto di farlo. E ciò, come sempre, dipende dal fatto che il governo cinese possa trovare un equilibrio tra l’intervento statale e le forze di mercato. Il potere autoritario centralizzato ha i suoi pregi, inclusa la capacità – per gli imprenditori che lo “subiscono” – di costringerli a correggere rapidamente la rotta. Ciò ha permesso ai leader cinesi di mettere l’economia su un binario di crescita più sostenibile negli ultimi anni. Il tasso di crescita del prodotto interno lordo è rimbalzato lo scorso anno. I salari sono aumentati. La recente abolizione dei limiti di mandato per i termini della carica di presidente e vicepresidente fornisce al presidente Xi Jinping più tempo e margine per promuovere la sua visione di una Cina prospera, moderna e potente, e con l’aiuto di consulenti fidati: il suo ex zar della corruzione, Wang Qishan, dovrebbe essere nominato vice-presidente e Liu He, vice-capo responsabile dell’economia.Gli scettici sul futuro della Cina di solito indicano il debito in crescita nel paese. In verità si tratta di un aumento abbastanza nella media: superiore a quello della maggior parte delle economie dei mercati emergenti, ma inferiore a quello della maggior parte dei paesi ad alto reddito. Onere al debito della Cina: nella media ma in decisa impennata… Il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia sul fatto che altre economie che hanno registrato rapporti di indebitamento così rapidamente in aumento – il Brasile e la Corea del Sud qualche decennio fa, e diversi paesi europei più recentemente – alla fine hanno ceduto a una crisi finanziaria. Perché la Cina dovrebbe essere diversa? Una ragione è che non tutto il debito è stato creato uguale. Come alcuni ottimisti osservano, il debito della Cina è pubblico, non privato, il che significa che i rischi sono in gran parte sostenuti dallo Stato. Il prestito viene in gran parte dall’interno, piuttosto che dall’esterno. E nonostante l’aumento dei mutui, le famiglie cinesi hanno un peso del debito complessivo basso rispetto alle loro controparti in giro per il mondo. Nonostante tutta la sua crescita inebriante, il sistema finanziario cinese rimane relativamente semplice, senza l’incubo della cartolarizzazione esotica che ha fatto crollare l’economia americana un decennio fa.Anche il rapporto debito/Pil della Cina – che sembra così preoccupante – è spesso frainteso. Le banche cinesi non servono più solo gli attori statali; ora servono anche il settore privato, in particolare dopo la privatizzazione delle abitazioni di proprietà pubblica alla fine degli anni ’90 e all’inizio degli anni 2000 ed hanno creato un ampio mercato immobiliare commerciale. La rapida crescita del credito riflette in gran parte una crescita della finanza, piuttosto che una bolla immobiliare. Secondo i miei calcoli, i prezzi delle proprietà in Cina sono aumentati di sei volte dal 2004. Tuttavia, le transazioni immobiliari non sono incluse nelle valutazioni del prodotto interno lordo. Si dice che la corruzione impedisca la crescita inibendo gli investimenti. Non così in Cina, dove lo Stato controlla le maggiori risorse, come i terreni e l’energia, eppure genera rendimenti più bassi su tali attività di quanto non faccia il settore privato. Privatizzare quelle risorse è stato un inizio di vita sotto il comunismo, e così la corruzione è servita come opportunità di fare successo, consentendo a più attori privati di utilizzare risorse statali dopo aver stretto accordi con i funzionari. Poiché le pratiche di questi attori sono state redditizie, l’economia ne ha tratto beneficio in generale.Alcuni osservatori cinesi temono anche che la rapida crescita della Cina non possa essere sostenuta a meno che il consumo non sostituisca gli investimenti come principale motore dell’economia (il governo cinese sembra d’accordo, o almeno lo afferma.) Sottolineano che mentre gli investimenti rappresentano una quota insolitamente elevata del prodotto interno lordo, il consumo rappresenta una quota insolitamente bassa. Ma dire questo è fraintendere la natura della crescita squilibrata della Cina. La causa principale di questo squilibrio è l’urbanizzazione. Negli ultimi quattro decenni il rapporto di urbanizzazione della Cina è aumentato da meno del 20% a quasi il 60%. Nel processo, i lavoratori delle attività rurali ad alta intensità di lavoro sono passati a lavori industriali ad alta intensità di capitale nelle città. E così, una quota sempre maggiore del reddito nazionale è andata in investimenti. Ma anche i profitti delle imprese sono aumentati, portando a salari più alti, che hanno stimolato i consumi. Il consumo è cresciuto molto più velocemente in Cina che in qualsiasi altra grande economia.(Massimo Bordin, “La corruzione non ha fatto per niente male all’economia cinese”, dal blog “Micidial” del 14 marzo 2018).La straordinaria crescita della Cina negli ultimi decenni ha generato due tipi di analisi. Una scuola di pensiero ritiene che la Cina sia una potenza economica in ascesa pronta a conquistare il mondo. L’altra, sostiene che l’economia cinese è diventata così distorta da essere destinata a crollare o, almeno, come ha suggerito un ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti, “regredire fino a dimezzare”. Entrambe le opinioni sono sbagliate. Per prima cosa, la Cina non è mai stata un’economia normale. Ha registrato una media di tassi di crescita di quasi il 10% per quasi quattro decenni, un record; è la prima nazione in via di sviluppo a diventare una grande potenza. Quindi, perché non potrebbe continuare? Ciò che alcuni ritengono essere le debolezze dell’economia cinese sono state, in effetti, dei punti di forza. La crescita sbilanciata non prova affatto un rischio incombente, tanto quanto un segno di industrializzazione di successo. I livelli di indebitamento in frenata sono un indicatore di sviluppo finanziario piuttosto che una spesa dissoluta. Soprattutto, e curiosamente: la corruzione ha stimolato, non bloccato, la crescita. Almeno finora.
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Dopo Tillerson, Pompeo: il super-lobbista dei fratelli Koch
La sostituzione del segretario di Stato americano Rex Tillerson con il direttore della Cia, Mike Pompeo, era prevedibile: secondo gli analisti geopolitici russi di “Fondsk”, dietro ai dissidi delle ultime settimane – caso Skripal, nucleare iraniano, Corea del Nord, Gerlusalemme capitale “unilaterale” di Israele – si celano in realtà «profonde contraddizioni tra le realtà imprenditoriali rappresentate da Tillerson e quelle che fanno riferimento a Trump». Come ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Tillerson «ha difeso gli interessi di quella parte di business americano che ha già messo radici in Medio Oriente e che non è interessata ad un peggioramento ulteriore delle relazioni con il mondo islamico». Allo stesso tempo, la scelta di promuovere Pompeo a capo della politica estera Usa «mostra chiaramente chi brama alla nuova spartizione delle sfere di influenza economica nella zona e al rafforzamento dell’infrastruttura militare statunitense in essa». Pompeo, ricorda “Fondsk” in un’analisi tradotta da “Come Don Chisciotte”, ha dato ampiamente prova di essere «una creatura dei fratelli David e Charles Koch, comproprietari della più grande società privata d’America, la Koch Industries (i guadagni per il 2017 ammontavano a 100 miliardi di dollari, il numero di dipendenti superiore a 120 mila persone)».I fratelli Koch sono noti per i loro punti di vista ultra-conservatori, per il sostegno a movimenti corrispondenti (come il “Tea Party”) e per un livello eccezionalmente alto di “sponsorizzazione politica”. «Le loro elargizioni annuali per “attività sociali” ammontano a decine di milioni di dollari. Per questa famiglia, il concetto di “oligarchi” è pienamente applicabile». Il loro campo di attività riguarda principalmente la raffinazione del petrolio, nonché la costruzione e l’esercizio delle condutture, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Avendo una vasta rete di filiali e vasti investimenti all’estero, i fratelli Koch fino a poco tempo fa avevano scarsa presenza in Medio Oriente, regione chiave per le loro attività». E ora, con Mike Pompeo, hanno finalmente la possibilità di rimescolare le carte, estromettendo la concorrenza. «Pompeo è strettamente associato ai fratelli sin dalla fondazione di una grande azienda per la produzione e la manutenzione delle attrezzature per la produzione di petrolio, la Sentry International, che ha sede nella per loro fondamentale città di Wichita, nel Kansas». L’ex capo della Cia era membro del consiglio di amministrazione del Kansas Policy Institute, centro informativo-analitico dello schieramento dei conservatori, fondato dai fratelli.«Con il sostegno finanziario della famiglia Koch – continua “Fondsk” – nel 2010, Pompeo ha condotto la campagna per la sua elezione alla Camera dei rappresentanti del Congresso, dove ha sufficientemente salvaguardato le loro opinioni e interessi: prima nel comitato dell’energia e del commercio, e poi nel comitato speciale per l’intelligence». Tra i colleghi, ha ricevuto il soprannome “Congressman dei fratelli Koch”. Durante la sua permanenza al Congresso, «Pompeo ha ricevuto legalmente, dalla famiglia Koch, 375.500 dollari». A favore dei suoi sostenitori, il futuro segretario di Stato «ha fatto pressione per le leggi di diminuzione dei provvedimenti normativi nei confronti delle compagnie petrolifere e del gas, nonché per il blocco delle agevolazioni fiscali per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili. Basti dire che il capo dello staff di Pompeo nel Congresso era l’avvocato corporativo della Koch Industries, Mark Chenoweth. E nel 2012, Pompeo ha persino scritto per “Politico” un articolo dal titolo dal carattere forte, “Stop Harassing the Koch Brothers”» (finitela di tormentare i fratelli Koch).Per questa famiglia, Pompeo è un affermato promotore degli interessi che la coinvolgono: dati i forti legami con le forze di sicurezza, è una figura ideale per il nuovo incarico. «Il successore di Rex Tillerson è adeguato sia per le forze armate che per il complesso militare-industriale», assicura “Fondsk”. Formatosi all’accademia militare di West Point e cresciuto nell’esercito durante la guerra fredda in Est Europa, nel 1991 – crollata l’Urss – Pompeo (nel frattempo laureatosi in legge a Harvard) è passato ai fratelli Koch gestendo la società aerospaziale Thayer Aerospace, legata al complesso militare-industriale del Pentagono. «Gli esperti collocano univocamente Mike Pompeo nel novero dei falchi», sottolinea l’analisi pubblicata da “Come Don Chisciotte”. «La sua posizione si distingue per particolare intransigenza nei confronti dell’Iran, contro il quale ha invocato l’uso della forza militare già nel 2014». Come direttore della Cia, alla fine del 2017 ha messo l’Iran e lo Stato Islamico (Isis) sullo stesso piano. «È facile presumere che Pompeo sosterrà l’uscita promessa da Trump dall’accordo nucleare con l’Iran, al quale Tillerson, in tutta franchezza, si è opposto».Ugualmente rigide sono le opinioni di Pompeo su ciò che sta accadendo in Siria: «Ha ripetutamente affermato che non può immaginare una Siria “stabile”, con Bashar Assad al potere». Ha definito il processo di riconciliazione nazionale e la cessazione delle ostilità «uno stratagemma degli ayatollah e di Vladimir Putin». Si è anche convinto che scambiare con la Russia informazioni di intelligence sulla Siria è «un’idea dannosa», dato che Mosca può usare queste informazioni per colpire i jihastisti siriani fedeli a Washington. Non proprio all’unisono con il capo della Casa Bianca, Pompeo ha dichiarato addirittura che «l’ingerenza della Russia» nella vita politica degli Stati Uniti non era cosa sporadica, che era una “costante minaccia” esistente già «da molti anni». In generale, quello dei falchi di Washington (ex e attuali) è mix pericoloso: pensano ancora di dominare in esclusiva il Medio Oriente, cioè l’area più esplosiva della Terra. «Rimane la speranza che il caratteristico pragmatismo che si configura come professionale e militare li costringa a essere guidati ancora prima di tutto dal buon senso, piuttosto che dalle chimere della geopolitica e dell’ideologia», chiosa “Fondsk”. Sempre che i piani dei fratelli Koch non prevedano proprio la guerra, per incrementare il loro business.La sostituzione del segretario di Stato americano Rex Tillerson con il direttore della Cia, Mike Pompeo, era prevedibile: secondo gli analisti geopolitici russi di “Fondsk”, dietro ai dissidi delle ultime settimane – caso Skripal, nucleare iraniano, Corea del Nord, Gerlusalemme capitale “unilaterale” di Israele – si celano in realtà «profonde contraddizioni tra le realtà imprenditoriali rappresentate da Tillerson e quelle che fanno riferimento a Trump». Come ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Tillerson «ha difeso gli interessi di quella parte di business americano che ha già messo radici in Medio Oriente e che non è interessata ad un peggioramento ulteriore delle relazioni con il mondo islamico». Allo stesso tempo, la scelta di promuovere Pompeo a capo della politica estera Usa «mostra chiaramente chi brama alla nuova spartizione delle sfere di influenza economica nella zona e al rafforzamento dell’infrastruttura militare statunitense in essa». Pompeo, ricorda “Fondsk” in un’analisi tradotta da “Come Don Chisciotte”, ha dato ampiamente prova di essere «una creatura dei fratelli David e Charles Koch, comproprietari della più grande società privata d’America, la Koch Industries (i guadagni per il 2017 ammontavano a 100 miliardi di dollari, il numero di dipendenti superiore a 120 mila persone)».
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Fasanella: sabotare l’Italia, tutti complici dei killer di Moro
Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.Tutta da riscrivere, la verità su Moro: ora lo sa anche la magistratura, che ha appena ricevuto la dirompente relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Nel suo nuovo lavoro, “Il puzzle Moro”, edito da Chiarelettere, Fasanella riassume le sconvolgenti conclusioni della commissione: tutti i grandi poteri concorsero al rapimento, affidato alla manovalanza Br. Ma l’autore aggiunge un elemento inedito, altrettanto pesante, tratto dalle carte desecretate dell’archivio di Stato britannico: rivela l’iniziativa di Londra per “sovragestire” l’Italia, con il concorso dei maggiori servizi segreti, a cui Moro (vivo) faceva paura. Fasanella ne ha parlato in due recenti interviste, con Claudio Messoria su “ByoBlu” e poi con Stefania Nicoletti a “Border Nights”, offrendo una sintesi decisamente vertiginosa. Punto primo: nel 1976, due anni prima del sequestro, la Gran Bretagna propone di organizzare un classico golpe militare, in Italia, per bloccare l’azione politica di Moro, considerato una minaccia mortale per gli interessi post-coloniali inglesi, in Medio Oriente e in Africa, dove l’Italia – come già all’epoca di Mattei – sta ridiventando un interlocutore privilegiato per i paesi poveri, in via di sviluppo, impegnati nella grande impresa della decolonizzazione. Seconda notizia: la Francia appoggia con entusiasmo l’idea di schierare carri armati nelle strade italiane. Ma a inglesi e francesi – terza notizia – si oppongono tedeschi e americani.La Germania, ancora divisa in due e impaurita dall’Urss, teme che possa vacillare lo scudo Nato di fronte alla prevedibile reazione della sinistra italiana, allora fortissima, di fronte a un colpo di Stato militare in stile greco. Quanto agli Usa, la loro intelligence ha ancora le ossa rotte dopo la scandalo Watergate che ha appena travolto Nixon: meglio non impelagarsi in qualcosa di orrendo (e imbarazzante) in Italia. Al che, racconta Fasanella, Londra fa scattare il Piano-B: un progetto “eversivo” per sabotare l’Italia, dall’interno. Il progetto è ancora protetto dal segreto, ammette il giornalista, ma il titolo del dossier compare negli archivi: è la prova che la Gran Bretagna ha programmato precise azioni per destabilizzare il nostro paese. «Non a caso, da allora, esplose in modo inaudito la violenza politica tra gli opposti estremismi». Fino alla crescita rapida ed esponenziale delle Brigate Rosse, che culmina con il caso Moro: un delitto perfetto. Soddisfatti gli inglesi, che insieme ai francesi hanno coronato il loro disegno neo-coloniale (amputare la politica estera italiana, filo-araba e filo-africana), e soddisfatti anche gli americani e i sovietici: i primi temevano che l’apertura di Moro al Pci trasformasse l’Italia in una nuova Jugoslavia, mentre i secondi vedevano in Berlinguer un pericoloso “eretico”, capace di allontanare dall’ortodossia di Mosca gli altri partiti comunisti europei.Questo spiegherebbe la sostanziale collaborazione di tutte le strutture di intelligence, amiche e nemiche: le une e le altre, interessate a incassare la fine di Moro come risultato politico. Obiettivo principale, in Europa: mortificare le aspirazioni dell’Italia, congelandone la politica. Non andò esattamente così: con Craxi, il paese divenne un protagonista del G7, e l’Italia rialzò la testa anche in politica estera (inaudita la crisi di Sigonella). Quindi, dopo l’inevitabile liquidazione del leader socialista ribelle, arrivò la normalizzazione definitiva: il rigore Ue, la camincia di forza dell’Eurozona, il vecchio Prodi rimesso in campo per raccontare agli italiani le meraviglie dell’euro. Caduto l’ultimo alibi (Berluconi, l’Uomo Nero da odiare) ora affiorano verità scomode, incresciose, che risalgono agli anni ‘70. La trama è sempre la stessa: l’ha raccontata anche Gioele Magaldi, nel bestseller “Massoni”. Tema: impedire, ad ogni costo, che l’Italia diventi importante. Tutte le volte che ci ha provato – con Mattei e Moro, persino con Craxi – ha mandato nel panico i “sovragestori”, i veri signori dell’élite finanziaria (ieri industriale) che detesta la democrazia. Gli unici italiani tollerati, nei salotti che contano, sono quelli prontissimi a obbedire: Prodi e Ciampi, Draghi e Napolitano. Ora – dopo 40 anni – si scoperchia la vera tomba di Moro. Compaiono i veri killer, e si scopre che i mandanti sono ancora in circolazione. Stanno lassù, come sempre, godendosi lo spettacolo del nostro “populismo” inconcludente: una protesta elettorale che non fa paura a nessuno.(Il libro: Giovanni Fasanella, “Il puzzle Moro”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 17,60).Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.
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Piccole alchimie parlamentari per un paese in rottamazione
Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che torna protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite finanziaria che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.Tiene banco, ancora, il surreale connubio tra i 5 Stelle e i rottami del Pd, cioè il “nemico” dei grillini; accordo invocato da quell’Eugenio Scalfari che, a Di Maio, avrebbe preferito l’odiato Berlusconi. Tra i “pontieri”, dopo Scalfari, figurano personaggi come Gustavo Zagrebelsky e Salvatore Settis, Barbara Spinelli e Massimo Cacciari. Un giornalista come Marco Travaglio accusa Di Maio di non ascoltarli. Arrivare primi con quasi il 33% significa partire favoriti per l’incarico di formare un governo – scrive Travaglio sul “Fatto” – ma questo non conferisce «il diritto divino di fare un governo con i voti altrui, per giunta gratis». E’ vero che l’inciucio lo vogliono solo i due “trombati” del 4 marzo, cioè Berlusconi e Renzi, «terrorizzati dalle rispettive ininfluenze e soprattutto da nuove elezioni», ma una maggioranza parlamentare va costruita, «facendo ai partner una proposta che non possano rifiutare». Ovvero? «La cosa sarebbe meno difficile se Di Maio aprisse la sua squadra di esterni ad altri indipendenti di centrosinistra, per un governo senza ministri parlamentari, e bilanciasse la sua premiership lasciando la presidenza di una Camera alla Lega». E poi «è sul programma che dovrebbe garantire il cambiamento che gli elettori hanno appena chiesto». Già: quale programma?Travaglio ricorda la proposta di Grillo nel 2013: «Eleggiamo Rodotà al Quirinale e poi governiamo insieme». E aggiunge: «Fu il Pd napolitanizzato e lettizzato, cioè berlusconizzato, a rifiutarla» (per Travaglio, dunque, il grande manovratore era Berlusconi, cioè l’omino ricattato e brutalmente disarcionato, due anni prima, dai padroni della Borsa). L’obiettivo di Napolitano, all’epoca: mantenere i 5 Stelle lontano dall’area di governo, dato che nel 2013 i grillini facevano ancora paura (più che al “povero” Silvio, ai veri poteri forti rappresentati da Napolitano: quelli che con Draghi e Trichet firmarono la condanna dell’Italia, affidata al commissario Monti). E oggi? Tutto è cambiato; da Scalfari in giù, è il vecchio mainstream a tifare per un’intesa che pare spaventi solo Renzi. Piccoli tatticismi, dove a contare non sono tanto le mosse dei leader, quanto il futuro dei rispettivi elettorati. Un italiano su quattro si è rifiutato di votare. Tra i votanti, il 55% ha scelto Di Maio, Salvini e la Meloni per gridare un “no”, forte e chiaro. Se il reddito di cittadinanza (arma vincente per mietere voti) è una misura ascrivibile alla voce welfare (sinistra), è piuttosto la Lega a sfidare il sistema europeo, con il taglio delle tasse (destra), sia pure da un’angolazione ancora liberista.Tra veti incrociati e opposte convenienze, resta solo lo spiraglio per il mini-governo a cui starebbe lavorando Mattarella, inevitabilmente imbottito di “tecnici” per incoraggiare tiepide convergenze eterodosse. Niente a che vedere, in ogni caso, con il “no” proclamato dalla maggioranza assoluta degli elettori italiani, cui si aggiunge l’astensionismo del 25% della popolazione, che non ha letto niente di convincente (o realisticamente praticabile) né sul programma grillino né su quello leghista. Se siamo a questo non-risultato, ribadisce Gianfranco Carpeoro, è perché – ancora una volta – abbiamo votato “contro” qualcuno, innanzitutto (votare “per qualcosa”, probabilmente, era impossibile). E senza una gestione nazionale autonoma, la regia delle operazioni passerà alla consueta “sovragestione” internazionale. E’ il potere-ombra che – licenziati Andreotti e Craxi – da 25 anni fa dell’Italia quello che vuole: fabbricando partiti, movimenti e leader senza idee né progetti, costruiti per durare una sola stagione, prima di essere rottamati da altri, futuri rottamandi. Una spirale senza fine, dove a essere rottamata è l’Italia, a cui è stato raccontato che il debito pubblico (cioè lo sviluppo, il benessere diffuso) è roba che non ci possiamo più permettere.Di Maio ha stravinto nel centro-sud promettendo il reddito di cittadinanza (ma annunciando con Fioramonti di dimezzare il debito pubblico), mentre Salvini ha spopolato al nord garantendo di sbriciolare le tasse e sbarrare le frontiere ai migranti. Nell’offerta politica dei due schieramenti, svetta lo squillante sovranismo della Lega con la candidatura dell’economista Alberto Bagnai, che contesta il dirigismo dell’oligarchia di Bruxelles da posizioni keynesiane (lo Stato che deve tornare protagonista dell’economia), mentre Di Maio si affanna a ricordare che sono i mercati, semmai, ad avere l’ultima parola. Premiante, per grillini e leghisti, la fedina politica immacolata, dopo anni di opposizione al renzismo, il regime propagandistico che all’Italia in crisi ha raccontato che tutto andava bene, anzi benissimo. Né i 5 Stelle né la Lega contestano organicamente il sistema liberista, di cui il Pd è stato il più zelante esecutore: si propongono soltanto di correggerne gli eccessi, con l’avvento di politici “dalle mani pulite” (ma legate alla finanza anglosassone o, nel caso di Salvini, all’alleanza con un Berlusconi che si è prostrato come il Pd all’obbedienza feudale nei confronti dell’élite che ha privatizzato le istituzioni europee). In questo contesto, appaiono piuttosto lunari le chiacchiere sull’ipotetica intesa, a distanza, tra i due vincitori delle elezioni – il Di Maio senza programmi e il Salvini con programmi vincolati agli umori di Arcore.