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Rinuncia a 4 milioni per regalare l’azienda ai dipendenti
«Altro che Paperon de Paperoni, esistono anche milionari dal cuore d’oro e dal portafoglio meno gonfio a causa della generosità», scrive l’“Huffington Post” presentando il caso – davvero insolito – di Éric Belile, patron francese della Générale de Bureautique, un colosso della cancelleria che offre attrezzature per ufficio, stampanti, dispositivi digitali, sistemi per l’archiviazione. Un’azienda importante, quella di Nantes, basata sulla qualità dei suoi prodotti: un fatturato di 8 milioni di euro l’anno, addirittura impennatosi negli ultimi 12 mesi con uno squillante incremento del 25%. Ma, alla soglia del suo pensionamento, Belile «ha deciso di rinunciare a una buonuscita di 4 milioni di euro per donare l’attività a chi gli era stato davvero accanto in tutti quegli anni di lavoro: i dipendenti». Aggiunge l’“Huffington”: «Davanti alla decisione da prendere, se vendere la Générale a un manager esterno per una cfra a 6 zeri o se cederla ai suoi sottoposti ad un prezzo di favore, Belile non ha avuto dubbi e ha fatto prevalere le ragioni del cuore a quelle economiche». Meglio cedere l’azienda ai dipendenti, veri co-protagonisti del suo successo.«Non mi importa di perdere 4 milioni di dividendi in 7 anni», ha spiegato il capo dell’azienda d’oltralpe a “Ouest France”: «Preferisco avere meno soldi in tasca ma sapere che l’impresa resterà ai miei ragazzi». Per consentire ai dipendenti di riscattare la Générale, Belile ha proposto loro un accordo chiaro e vantaggioso: dopo il versamento di una somma iniziale, la “cordata” interna restituirà poco a poco l’intera cifra, prendendo l’importo dai ricavi aziendali. «E per far sì che l’impresa rimanga in attivo, l’ex capo si è impegnato a formare e affiancare il personale per i prossimi 5 anni». Cose dell’altro mondo? Ovviamente, specie di questi tempi. A Nantes e dintorni, sembra possibile – benché pazzesco – spendere la parola “umanesimo”, in questo caso intesa come promozione del lavoro in quanto bene sociale primario, non svendibile per denaro – molto denaro: 4 milioni di euro.«Devo tutto ai miei dipendenti», insiste Éric Belile, con sconcertante candore. «Per me è naturale che l’azienda rimanga nelle loro mani: abbiamo sviluppato i progetti insieme». Si schermisce, il patron: «Il mio non è un gesto altruista, è il giusto risarcimento». E’ anche un modo per mettere in sicurezza quei posti di lavoro, aggiunge. Perché, del resto, vendere a qualcuno di esterno avrebbe significato una sola cosa: «Ci sarebbero stati dei licenziamenti», ammette l’imprenditore. Secondo il “Post”, Belile «ha capito un concetto essenziale ma poco in voga tra i grandi imprenditori: per fare grande un’azienda, non c’è niente di meglio che puntare sul proprio personale». E’ il fantasma, buono, di personaggi come Adriano Olivetti. Scomparsi dai radar mille anni fa. Azienda e fatturato, certo. Dipendenti. Ma anche, e soprattutto, cittadini.«Altro che Paperon de’ Paperoni, esistono anche milionari dal cuore d’oro e dal portafoglio meno gonfio a causa della generosità», scrive l’“Huffington Post” presentando il caso – davvero insolito – di Éric Belile, patron francese della Générale de Bureautique, un colosso della cancelleria che offre attrezzature per ufficio, stampanti, dispositivi digitali, sistemi per l’archiviazione. Un’azienda importante, quella di Nantes, basata sulla qualità dei suoi prodotti: un fatturato di 8 milioni di euro l’anno, addirittura impennatosi negli ultimi 12 mesi con uno squillante incremento del 25%. Ma, alla soglia del suo pensionamento, Belile «ha deciso di rinunciare a una buonuscita di 4 milioni di euro per donare l’attività a chi gli era stato davvero accanto in tutti quegli anni di lavoro: i dipendenti». Aggiunge l’“Huffington”: «Davanti alla decisione da prendere, se vendere la Générale a un manager esterno per una cfra a 6 zeri o se cederla ai suoi sottoposti ad un prezzo di favore, Belile non ha avuto dubbi e ha fatto prevalere le ragioni del cuore a quelle economiche». Meglio cedere l’azienda ai dipendenti, veri co-protagonisti del suo successo.
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La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia
Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».Nella sua analisi sul biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, Dezzani smonta la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui le “menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? «Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno». Le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? «Sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato». E le bombe del 1993 «sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica».In questo contesto, scrive Dezzani nel suo blog, «la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla». E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dezzani esplora altri momenti cruciali del Belpaese, scovandovi lo zampino della malavita. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978: «E’ ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al “commando12” che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci». Non solo: il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha dichiarato che «avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti». Prima ancora, la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969: l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione «è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta». E ancora: l’omicidio di Enrico Mattei, 1962. «E’ Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle».Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu un altro famosissimo sbarco, quello di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnari a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Domande: cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, scrive Dezzani, «campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”». Nessuno di loro, però, secondo Dezzani, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese».Con un approccio storico e geopolitico che analizza gli interessi strategici, Dezzani arriva a concludere che mafia, camorra e ‘ndragheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento». Sarebbe una verità «perfettamente nota agli “addetti ai lavori”», cioè «vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, Cia, Mi6». Una realtà «spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi», ancge se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Dezzani parte dal quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti sono di natura socio-economica: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. «Sono risposte fuorvianti», vosto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato». Inoltre, «la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia» e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli».Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso, secondo Dezzani occorre «tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca». E’ lo stesso procedimento che porta a dimostrare come l’Isis «non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico». Così, Dezzani si tuffa nella storia, partendo dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez».Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, continua Dezzani, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale».Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, continua Dezzani, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”».La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.Nel 1848, continua Dezzani, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, prosegue Dezzani, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento».È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così «il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe». Nasce in questo modo il Regno d’Italia, «che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale». Ovvero: «È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico».Londra, sottolinea Dezzani, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. «Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa». E attenzione: «Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia». Dezzani cita le Triadi cinesi che smerciano nel Celeste Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come notava Falcone, sono incredibili. «Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong».Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». Per Dezzani, «massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso». La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto del drammatico 1992. Il fenomeno mafioso, aggiunge Dezzani, è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale «abdica a favore del baronato». E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: «Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica».Secondo Dezzani, è la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, «determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali». Un cambiamento, ammette Dezzani, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, che certo «è una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”», ed vero che «conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù», ma il duce del fascismo «tende ad emanciparsi in fretta». Secondo Dezzani, «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)».Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Al che, aggiunge Dezzani, «mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi».È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. «Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano Ciro Cirillo». Inutile stupirsi, insiste Dezzani: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane».Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici». Secondo Gullà, «la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, «l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone», ma questo vale solo «per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica». La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta». E quindi, «se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto». La “Santa”, conclude Dezzani, è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. L’eventuale fine della mafia? Di ordine geopolitico: «È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze». Per Dezzani sarebbe il caso di sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana «per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia».Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».
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E adesso si vendono anche la Cassa (Depositi e Prestiti)
Occorreranno studi approfonditi di psicologia per riuscire un giorno o l’altro finalmente a capire come mai, ogni volta che si parla di debito pubblico, al ministro dell’economia di turno brillino gli occhi, si guardi furtivamente intorno e con riflesso pavloviano decida di mettere sul mercato un altro pezzo di ricchezza sociale. Come fossimo agli albori della dottrina neoliberale, ci tocca ogni volta sentire la litania: «Servono le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico». Nel frattempo, ci siamo venduti quasi tutto e il debito pubblico ha continuato allegramente la sua irresistibile ascesa. Poco importa. Ormai sappiamo che ogni volta che si “accende” lo “scontro” tra il nostro governo e l’Unione Europea, dobbiamo controllare le nostre tasche perché è quasi automatica la soluzione: la sottrazione di un bene comune. Per carità, questa volta siamo solo alla fase istruttoria, ma il fatto che sia già uscita sulla stampa appare una studiata strategia di sondaggio preventivo per vedere di nascosto l’effetto che fa.Il ministero dell’economia sta studiando un nuovo assetto della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), che prevede la cessione di una quota del 15%, che porterebbe la proprietà pubblica al 65% (essendo il 15,93% già in possesso delle fondazioni bancarie). Essendo il patrimonio complessivo pari a 33 miliardi, nelle casse dello Stato entrerebbero 5 miliardi che naturalmente sarebbero destinati all’abbattimento del debito pubblico. Inutile sottolineare come la parola “abbattimento” nel dizionario italiano ha un preciso significato: demolizione, distruzione, abolizione. Può chiamarsi abbattimento un’operazione che porterà il nostro debito pubblico dagli attuali 2.217,7 miliardi (dicembre 2016) ai futuri 2.212,7 miliardi? In compenso, se l’ultimo dividendo staccato da Cdp corrispondeva a 850 milioni di euro (dei quali, 680 milioni sono andati allo Stato), in futuro, su ogni dividendo simile, lo Stato ne incasserà solo 550. Non è neppure chiaro ad oggi a chi verrà ceduto il 15% se a investitori istituzionali, a fondi o banche estere.La svendita di un ulteriore pezzo di Cdp si incrocia anche con le grandi manovre intorno alla privatizzazione di Poste: l’idea del ministero dell’economia è quella di cedere entro l’anno il residuo 29,3% (dopo aver ceduto il 35% a Cdp e il 36,7% a investitori individuali e istituzionali). Grandi manovre finanziarie, fatte all’oscuro di tutti i detentori della ricchezza di Cassa Depositi e Prestiti, ovvero quelle oltre 20 milioni di persone che vi depositano i risparmi (oltre 250 miliardi) e che sapranno sempre meno intorno alla loro tutela e utilizzo. Forse è davvero giunto il momento di rilanciare una campagna di massa per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, per il suo decentramento territoriale e per la gestione partecipativa dell’utilizzo del risparmio postale. Hanno venduto tutti i beni comuni e ora scappano con la Cassa. È il momento di riprenderci la ricchezza sociale che rappresenta.(Marco Bersani, “Si vendono persino la Cassa”, dal “Manifesto” del 18 marzo 2017, articolo ripreso da “Attac Italia”).Occorreranno studi approfonditi di psicologia per riuscire un giorno o l’altro finalmente a capire come mai, ogni volta che si parla di debito pubblico, al ministro dell’economia di turno brillino gli occhi, si guardi furtivamente intorno e con riflesso pavloviano decida di mettere sul mercato un altro pezzo di ricchezza sociale. Come fossimo agli albori della dottrina neoliberale, ci tocca ogni volta sentire la litania: «Servono le privatizzazioni per abbattere il debito pubblico». Nel frattempo, ci siamo venduti quasi tutto e il debito pubblico ha continuato allegramente la sua irresistibile ascesa. Poco importa. Ormai sappiamo che ogni volta che si “accende” lo “scontro” tra il nostro governo e l’Unione Europea, dobbiamo controllare le nostre tasche perché è quasi automatica la soluzione: la sottrazione di un bene comune. Per carità, questa volta siamo solo alla fase istruttoria, ma il fatto che sia già uscita sulla stampa appare una studiata strategia di sondaggio preventivo per vedere di nascosto l’effetto che fa.
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Il Def 2018: aumentare l’Iva o svendere Trenitalia e Poste
Aumentare l’Iva, o cedere altre quote di Trenitalia e Poste Italiane, attraverso privatizzazioni-svendita per placare Bruxelles e arginare il debito pubblico. «Dimenticate per un attimo la scaramuccia fra Roma e Bruxelles sulla correzione dei conti da tre miliardi attesa entro fine aprile. Le probabilità che l’Italia vada al voto prima del 2018 sono ormai prossime allo zero. Ciò permette a Gentiloni di allungare lo sguardo oltre quello che nella Prima Repubblica chiamavano l’orizzonte balneare», scrive Alessandro Barbera sulla “Stampa”, alludendo alle riunioni in corso a Palazzo Chigi sulla manovra per il 2018, che si annuncia una super-stangata. Bruxelles attende entro il 10 aprile il testo del Def, il Documento di economia e finanza, di fatto la bozza della legge di bilancio per l’autunno. «Oggi le procedure europee rafforzate impongono che quei numeri siano scritti con coerenza e realismo». Insieme a Gentiloni, se occupano i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, «il trio che ha preso le redini del governo dopo l’uscita di scena di Renzi». Punto di partenza: una clausola di salvaguardia da quasi 20 miliardi di euro, pari ad un aumento dell’ultima aliquota Iva al 25% per cento dal 1° gennaio.«A Bruxelles sono perfettamente consapevoli delle conseguenze potenzialmente devastanti di un simile aumento delle tasse sulla crescita italiana, così come lo sarebbe un taglio alle spese della stessa entità», scrive Barbera sulla “Stampa”, in un articolo ripreso da “Dagospia”. «Nelle trattative già avviate fra Roma e Bruxelles si ragiona già su un compromesso per dimezzare quel pesante fardello». Nei piani europei, l’Italia avrebbe dovuto far scendere il deficit di quest’anno all’1,8%, e poi all’1,2 nel 2018. Quest’anno si è fermato al 2,3%, ma la correzione chiesta entro aprile da Bruxelles dovrebbe far ridiscendere l’asticella al 2,1. «Se la trattativa andrà in porto, il Def per il 2018 potrebbe indicare un deficit fra l’1,9 e il 2%, sette-otto decimali sopra gli attuali obiettivi ma in ogni caso in una traiettoria ancora discendente». Per l’Italia, significherebbe uno “sconto” di circa 10-11 miliardi di euro. «Ciò non significa che la manovra per il 2018 non sarà impegnativa», avverte Barbera. «La finestra di opportunità spalancata due anni fa da Mario Draghi con il piano di acquisto titoli della Bce si sta lentamente chiudendo: l’inflazione sta salendo, e con essa la pressione tedesca perché viri la rotta della politica monetaria».Il Def ne prenderà atto, prevedendo per il 2018 l’inizio del “tapering” da parte di Francoforte; la conseguenza sarà un aumento dei rendimenti sui titoli pubblici e della spesa per onorare il debito. «Se l’azionista di maggioranza del governo – ovvero Renzi – insisterà nel dire no ad un aumento anche solo lieve dell’Iva (al Tesoro da tempo accarezzano l’ipotesi di ritoccarla di un punto), dovrà accettare una forte riduzione della spesa pubblica nell’ordine di qualche miliardo di euro». La questione che più preoccupa Bruxelles, conclude “La Stampa”, resta la sostenibilità del debito italiano: «Per questo, il Def prometterà anche quest’anno una lieve riduzione dello stock da finanziare con i proventi da privatizzazioni: su tutte Trenitalia e una nuova tranche di Poste. Quelle privatizzazioni che ormai trovano l’aperto dissenso di esponenti e ministri Pd», anche rappresentano un altro duro colpo al futuro del paese, costretto a tagliare su tutto a causa del rigore imposto dal regime monetario dell’euro.Aumentare l’Iva, o cedere altre quote di Trenitalia e Poste Italiane, attraverso privatizzazioni-svendita per placare Bruxelles e arginare il debito pubblico. «Dimenticate per un attimo la scaramuccia fra Roma e Bruxelles sulla correzione dei conti da tre miliardi attesa entro fine aprile. Le probabilità che l’Italia vada al voto prima del 2018 sono ormai prossime allo zero. Ciò permette a Gentiloni di allungare lo sguardo oltre quello che nella Prima Repubblica chiamavano l’orizzonte balneare», scrive Alessandro Barbera sulla “Stampa”, alludendo alle riunioni in corso a Palazzo Chigi sulla manovra per il 2018, che si annuncia una super-stangata. Bruxelles attende entro il 10 aprile il testo del Def, il Documento di economia e finanza, di fatto la bozza della legge di bilancio per l’autunno. «Oggi le procedure europee rafforzate impongono che quei numeri siano scritti con coerenza e realismo». Insieme a Gentiloni, se occupano i ministri Pier Carlo Padoan e Carlo Calenda, «il trio che ha preso le redini del governo dopo l’uscita di scena di Renzi». Punto di partenza: una clausola di salvaguardia da quasi 20 miliardi di euro, pari ad un aumento dell’ultima aliquota Iva al 25% per cento dal 1° gennaio.
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Se l’Italia cambia padrone, qualcuno la sta “sovragestendo”
«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».Cambiano i musicisi, non la musica. Renzi? «Pur dicendosi “di sinistra” ha bussato per anni, inutilmente, alle porte della super-massoneria conservatrice», afferma Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Non gli è stato aperto: «Persino Napolitano si è rifiutato di fargli da garante». Ora, sembra arrivato l’avviso di sfratto: per via giudiziaria, tanto per cambiare. «Via Renzi, è già pronto Di Maio», diceva Carpeoro, mesi fa. Alla luce degli ultimi sviluppi, in effetti, suona meno “strano” l’improvviso voltafaccia di Grillo al Parlamento Europeo, con il rocambolesco abbandono di Farage dopo la vittoria sulla Brexit per tentare di approdare al gruppo centrista pro-euro, in cui milita Mario Monti. Come se il capo dei 5 Stelle avesse voluto inviare un segnale chiarissimo di “affidabilità”, rispetto al vero potere che gestisce l’Europa, l’economia, la finanza. Altro dettaglio, fondamentale: nel “MoVimento”, chi dissente è perduto: condannato alla pubblica esecrazione, e persino – se cambia casacca – invitato a pagare una penale.Impossibile coltivare idee diverse da quelle del Capo: è dunque un esercito di terracotta, quello che domani – tramontato Gentiloni – potrebbe prendere in mano il governo del paese? Tiene ancora banco il refrain dell’“uno vale uno”, ma – beninteso – ammesso che sia allineato con l’unico, vero Numero Uno. In libri come “Il golpe inglese”, scritto con Mario Josè Cereghino, il giornalista Mario Fasanella sostiene che l’Italia sia sempre stata “sovragestita” da poteri esterni, stranieri, economici e finanziari. Lo stesso Jobs Act, rivela Paolo Barnard, è stato scritto – due anni prima dell’adozione, da parte di Renzi – dalla potentissima “Business Europe”, think-tank che “detta le leggi” alla Commissione Europea. L’Italia politica è nel caos: il Pd si spappola, Renzi è sotto attacco (il padre indagato, nell’inchiesta che sta coinvolgendo il ministro Lotti e altri renziani) e i 5 Stelle che serrano i ranghi, dichirando guerra al dissenso interno: come se si stesse avvicinando una grande burrasca (le elezioni francesi, la Le Pen, l’euro che vacilla insieme all’Ue). Serviranno “soldati”, addestrati a obbedire? E nel caso, a chi? Chi sta “sovragestendo”, oggi, la palude italiana?«Renzi finirà asfaltato dai No, e il suo successore lo stabilirà il Vaticano», disse, mesi prima del referendum, il “profeta” Rino Formica, già ministro socialista nella Prima Repubblica. Bingo: Paolo Gentiloni è discendente della famiglia dei conti Gentiloni Silveri, “nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata”, storicamente al servizio della Santa Sede. Dai media mainstream, sempre lontani anni luce dalle “fake news” (leggasi: notizie scomode) contro cui si sta abbattendo l’offensiva di Laura Boldrini (una legge speciale per imbavagliare il web, come se già non esistessero leggi a tutela dei cittadini diffamati), è impossibile ricavare analisi di scenario, oltre alla piccola agenda tattica di partiti e leader. Chi sta “sovragestendo” il paese, oggi, a parte il Vaticano che sicuramente “apprezza” Gentiloni? Carpeoro è pessimista: «Non emerge un piano-B che contesti l’attuale sistema, in base al quale, perché noi si stia meglio, qualcuno deve per forza stare peggio». Unico spiraglio: «La base elettorale dei 5 Stelle, animata da forti motivazioni etiche».Più ottimista invece Magaldi, che dopo aver segnalato (mai smentito da nessuno) la presenza di D’Alema, Napolitano, Monti e Padoan nella super-massoneria oligarchica, responsabile della globalizzazione antidemocratica, privatizzatrice e mercantilista, oggi scommette sul collasso del Pd, che «darebbe fiato a nuove istanze progressiste e democratiche finalmente autentiche», archiviata la “finta sinistra” che ha svenduto il paese ai potentati economici stranieri precipitando l’Italia in questa crisi senza fine. Troppo ottimista, Magaldi? Da più parti si fa notare il ritorno della “giustizia a orologeria” denunciata per anni da Berlusconi: l’inchiesta che lambisce Renzi coincide alla perfezione con il calendario della condanna in primo grado dell’alleato Verdini. Sembra un messaggio all’ex premier, mai accolto nel “salotto buono” in cui siedono molti altri italiani, da Mario Draghi a Emma Marcegaglia. Il caos cresce, e del Piano-B (restituire sovranità finanziaria a un governo finalmente eletto, autorizzato a investire denaro pubblico per produrre occupazione) non c’è neppure l’ombra.«Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».
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La gang dell’euro, associazione a delinquere per derubarci
La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.Ma ciò non accadrà, poiché l’Ue non era affatto nata per favorire l’integrazione economica dell’Europa. Gli interessi erano soltanto finanziari e militari. La deflazione causata dall’euro rende più forti i creditori nei confronti dei debitori, e quindi va a favore delle multinazionali finanziarie. Gli Usa sono stati determinanti nella nascita dell’euro e nella sua conservazione, poiché l’euro consente di compattare in funzione anti-russa paesi che, come l’Italia, rischiavano di farsi risucchiare economicamente nell’orbita della Russia. Sino a qualche anno fa gli Usa erano disposti a pagare il prezzo salato che l’euro comportava in termini di depressione dell’economia mondiale. Pare che non siano più disposti oggi, dato che le merci tedesche hanno invaso il mercato statunitense a causa della sottovalutazione dell’euro rispetto all’effettivo potenziale dell’economia della Germania. D’altro canto il presunto “disimpegno” americano in Europa potrebbe davvero cambiare qualcosa? E’ vero che gli Usa non sono riusciti a mettere Putin all’angolo, che i costi dei loro impegni militari sono mostruosi, ma sembra esserci la necessità di una riorganizzazione della gerarchia internazionale senza la quale il “protezionismo coloniale” avrebbe qualche difficoltà.Senza una ostentazione di forza militare da parte degli Usa, altri paesi potrebbero rispondere a loro volta col protezionismo. Certo è che l’Ue e l’euro sarebbero travolti non tanto dai dazi ma da una svalutazione del dollaro che, per ora, non è arrivata. Non sarebbe comunque la prima volta che gli Usa distruggono ciò che essi stessi hanno creato perché non gli fa più comodo. Nel 1919 il presidente Usa, Woodrow Wilson, impose la nascita della Jugoslavia per impedire all’Italia il controllo del Mare Adriatico. Per sostenere la sua posizione Wilson non esitò ad accusare l’Italia di imperialismo (per la serie del bue che dice cornuto all’asino). La stessa Jugoslavia negli anni ‘90 è stata poi distrutta dagli Usa in concerto con la Germania e, grazie ad una notevole manipolazione mediatica, anche le “sinistre radicali” furono indotte a plaudire al “risveglio etnico” che dissolveva stati che erano apparsi prima inamovibili.Pur collocata dagli Usa sul maggiore scranno della Ue, la Germania non ha mai mostrato di credere realmente in questa costruzione. Nel 2003 tramontava l’illusione del governo francese di poter usare l’euro per acquistare direttamente materie prime sui mercati internazionali, poiché l’invasione Usa dell’Iraq servì appunto a punire Saddam Hussein per il fatto che vendeva petrolio in cambio di euro invece che di dollari. Nello stesso 2003 il governo tedesco lanciò il piano Hartz per ridurre i salari in Germania. Il governo tedesco non si accontentava quindi del vantaggio che l’euro consentiva alle merci tedesche, ma apiva addirittura una corsa a comprimere il costo del lavoro in modo da accumulare il maggior surplus commerciale possibile. Ciò indica che i governi tedeschi non hanno mai creduto alla sopravvivenza dell’Ue e dell’euro; e che l’Ue e l’euro, nati come armi da guerra contro la Russia, venivano usati dalla Germania anche per deindustrializzare il suo principale concorrente commerciale, cioè l’Italia, non a caso bersaglio preferito della Commissione Europea.La Germania non deve neanche affannarsi più di tanto per raggiungere il suo scopo, poiché ci pensa la lobby dello spread. La moneta “unica” è infatti un inganno. La moneta è composta di banconote e di debito pubblico, cioè di titoli del Tesoro: nel caso dell’euro le banconote sono controllate dalla Banca Centrale Europea, mentre i titoli del Tesoro sono ancora emessi dagli Stati, che però pagano interessi diversi. In questa tenaglia è stata stritolata la Grecia e si può stritolare l’Italia. Risulta quindi fuori luogo la sorpresa suscitata dalla minaccia della Commissione Europea di mettere l’Italia in procedura d’infrazione per il famoso “zero virgola due”. La Brexit e “CialTrump” non hanno per niente indotto Juncker e colleghi a maggiore prudenza e buonsenso poiché la Commissione Europea, e l’apparato che la supporta, non si pongono affatto problemi di sopravvivenza dell’Ue, ma ragionano esclusivamente in base agli interessi della lobby dello spread, cioè la lobby di finanzieri internazionali che esige alti interessi sul debito pubblico da paesi che sono ancora in grado di pagarli, come l’Italia.L’Unione Europea è un allevamento di lobbisti e costituisce il paradiso delle porte girevoli tra cariche pubbliche e carriere nel privato, e il tutto è rigorosamente documentato da tempo, con dovizia di dettagli. La porta girevole che ha portato l’ex presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, alla dirigenza di Goldman Sachs dovrebbe costituire una preoccupazione urgente per tutti gli “europeisti”, i quali insistono invece a distrarci con voli pindarici. Ma gli europeisti non esistono, i lobbisti invece esistono, eccome. La delegittimazione delle istituzioni europee è tale che oggi la vera domanda che tutti si pongono è in quali multinazionali finanziarie concluderanno felicemente la loro carriera gli autori della lettera dello “zero virgola due”, Juncker e Moscovici. A proposito di lobbisti mascherati, ci si è chiesti da più parti come si collochi l’ultima sortita del Super-Buffone di Francoforte in questo contesto di sfaldamento dell’Ue. Mario Draghi farnetica di trecentoquaranta miliardi di euro di tangente da versare per permettere all’Italia di uscire dall’euro, quando ormai sarebbe evidente che è l’euro che sta uscendo dall’Europa.La farneticazione del presidente della Bce contiene comunque un messaggio recondito, e cioè che la vita dell’euro dovrà perpetuarsi oltre la sua morte, con una scia di ulteriori sacrifici da imporre a lavoratori e risparmiatori. La risposta immediata a Draghi dovrebbe essere quella di sottrarre il debito pubblico ai cosiddetti “mercati” (cioè la lobby dello spread) per usare i titoli del Tesoro solo all’interno, per effettuare i pagamenti della pubblica amministrazione e per mettere al sicuro il risparmio delle famiglie. Si tratta di una vecchia proposta, ripresa qualche giorno fa – non si sa quanto seriamente – anche dalla Lega. A rendere improbabile una tale misura di autonomia finanziaria non sono soltanto gli enormi rischi personali di chi dovrebbe adottarla, ma anche il fatto che lo spread e l’austerità si avvalgono di una lobby interna, tutta italiana, che lucra sugli alti interessi del debito pubblico, sul credito al consumo (e sul relativo recupero crediti), sul caporalato istituzionalizzato, sulle privatizzazioni e sull’intermediazione per la svendita all’estero dei patrimoni immobiliari.(“Dopo i sacrifici per entrare nell’euro e i sacrifici per restare nell’euro, i sacrifici per uscire dall’euro”, dal blog Anarchismo.Comidad del 9 febbraio 2017).La cronaca “europea” della scorsa settimana è stata segnata dalle dichiarazioni, poi parzialmente rimangiate, del cancelliere tedesco Angela Merkel su una “Europa a due velocità” da formalizzare già al prossimo vertice di Roma. I media hanno sbrigativamente tradotto le posizioni della Merkel con l’ossimoro di una “doppia moneta unica”, una per i paesi del nord ed un’altra per i paesi del sud. Non sono mancati i consueti commenti circa l’influenza della campagna elettorale in Germania su questa presa di distanze della Merkel dalla consueta dogmatica dell’Unione Europea. In realtà i tedeschi sono scontenti dell’Ue perché gli è stato fatto credere che il crollo dei loro redditi sia causato dalla necessità di sacrificarsi per soccorrere i cosiddetti Piigs. Dato che così non è, alla Merkel basterebbe consentire un aumento dei salari in Germania per fare tutti contenti, all’interno come all’esterno. Un aumento della domanda in Germania stimolerebbe l’economia dei paesi Ue più in difficoltà e il contestuale aumento del costo del lavoro nella stessa Germania renderebbe le merci tedesche un po’ meno competitive, diminuendo così il destabilizzante surplus commerciale tedesco.
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Gli 8 super-miliardari? Dei poveretti, confronto ai Rothschild
Gli 8 super-ricchi della Terra? Poveracci, in confronto ai Rotschild. I media, è vero, hanno strombazzato la ricerca di Oxfam International, da cui risulta che la ricchezza degli 8 principali miliardari supera quella della metà povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi di individui. Al vertice dei “magnifici otto” c’è Bill Gates, il patron della Microsoft, con 75 miliardi di dollari. Poi lo spagnolo Amancio Ortega, della catena di abbigliamento Zara, con 67 miliardi. Quindi il finanziere Warren Buffett (60,8 miliardi) e il messicano Carlos Slim Helu, che ha messo insieme 50 miliardi con telefonia e finanza, tabacco e petrolio. Al quinto posto figura Jeff Bezos di Amazon (45,2 miliardi), seguito da Mark Zuckerberg, a cui Facebook ha fruttato 44,6 miliardi. Chiudono la lista un altro Re Mida del digitale come Larry Ellison di Oracle, con 43,6 miliardi, e un campione di Wall Street come Michael Bloomberg, coi suoi 40 miliardi. Sommate insieme, le loro ricchezze valgono 426,2 miliardi di dollari. Ma la vera notizia riguarda appunto i famosissimi, leggendari e vituperati Rotschild, da sempre in cima a tutte le classifiche della letteratura complottista. Loro sarebbero ben più ricchi: con un patrimonio cinque volte più grande di quelli dei “magnifici otto” messi assieme, cioè pari a 2 trilioni, duemila miliardi di dollari.Naturalmente, scrive Maurizio Blondet nel suo blog, è ovvio che nel novero dei primi otto non compaia il nome Rotschild. Per varie ragioni: «Qui non abbiamo a che fare con persone fisiche, ma con una dinastia, i cui membri presiedono a fiduciarie private a capitale fisso – niente società per azioni (scalabili), ma solo aziende familiari, accuratamente sottratte ai mercati finanziari “goyim”», cioè non-ebrei, «e partecipazioni incrociate». Insomma, quella dei Rotschild sarebbe ancora «la struttura instaurata dal capostipite del 18mo secolo, Mayer Amschel Rotschild». Basato in Germania, l’augusto antenato sparse i suoi cinque figli nelle diverse capitali europee, ciascuno munito di capitale e conoscenze per aprirvi una banca d’affari: Parigi e Francoforte, Londra, Vienna e Napoli (che allora era la capitale di uno degli Stati dalle finanze più prospere). «E’ stata dunque la prima multinazionale del credito, che profittò delle guerre europee scatenate dalla Rivoluzione giacobina e da Napoleone. Prestando agli Stati che la guerra indebitava (tipicamente, all’impero austro-ungarico e a quello britannico), da cui accettava titoli e buoni del Tesoro, e cogliendo tutte le buone occasioni per prendere il controllo finanziario delle più diverse industrie, a corto di liquidità».Il figlio che ebbe maggior successo, continua Blondet, fu quello che si stabilì a Londra, Nathan Meyer Rotschild: sposò Hanna Barent Cohen, da cui ebbe 7 figli e una cospicua dote finanziaria. «Nel 1811, durante le guerre napoleoniche, finanziò di fatto lo sforzo bellico britannico quasi da solo – senza trascurare di finanziare in segreto anche il Bonaparte». Il 18 luglio 1815, aggiunge Blondet, fu un corriere della Rothschild & Sons a informare il governo britannico che a Waterloo le cose si mettevano male per Napoleone: «Il governo non ci credette, e allora Nathan stette al gioco: si mise a svendere titoli del debito inglese, come se sapesse che presto sarebbero stati carta straccia. Gli altri ricchi inglesi, nel panico, lo imitarono, e la Borsa collassò». Mani anonime (agenti dei Rotschild) avevano già fatto incetta di titoli a prezzi da liquidazione: così, quando arrivò la notizia che a Waterloo Napoleone aveva davvero perso, «Nathan era il padrone della London Stock Exchange». La notizia pazzesca, dice sempre Blondet, è che, ancora nel 2015, il Regno Unito stava restituendo a rate i capitali ottenuti in prestito dai Rotschild nell’800.«Oggi, le ricchezze della dinastia restano inimmaginabili», sostiene Blondet. «Riesce in gran parte a dissimularle con il metodo delle ditte non quotate, dove non si pubblicano bilanci, dove lavorano e sono impiegati direttamente i membri della famiglia», con «matrimoni fra consanguinei ed eredi che continuano a collaborare strettamente». Va da sé che, «da due secoli, non è mai apparso alla luce un litigio fra i parenti, che abbia prodotto un frazionamento di ricchezze, capitali e imprese: non a caso il motto della famiglia, sotto lo scudo rosso, è (in latino) “Concordia, Integritas, Industria”». Oltre alla finanziaria N.M. Rotschild & Son di Londra e all’Edmond de Rotschild Group in Svizzera, la dinastia «ha incalcolabili partecipazioni in istituti di credito, nel settore immobiliare, minerario ed energetico». Quanto ai vigneti che l’uno o l’altro membro della famiglia ha in Francia, in Sudafrica, in California e in Australia, be’, «sono attività da tempo libero».Parlare dei Rotschild, però, non è mai semplice. Le loro partecipazioni che contano, in termini di investimenti globali, non sono affatto visibili. «Non è chiaro se i Rotschild siano oggi quello che fu la ditta di Nathan, che divenne praticamente il banchiere centrale d’Europa, coprendo debiti pubblici e salvando banche nazionali, ma anche finanziando infrastrutture pubbliche durante la rivoluzione industriale». Sicché, ammette Blondet, non si può valutare se dice il vero il sito “Investopedia”, che ha provato a fare una valutazione approssimativa, decretando (senza specificare i cespiti e le attività) che la ricchezza controllata dalla dinastia ammonterebbe a 2 trilioni di dollari. Una fortuna immensa, maturata però attraverso secoli, benché connessa alla famigerata creazione bancaria di denaro e debito. Quello dei baby-miliardari di oggi, in fondo, è un boom assai più strabiliante: Facebook è nato solo nel 2004.Gli 8 super-ricchi della Terra? Poveracci, in confronto ai Rothschild. I media, è vero, hanno strombazzato la ricerca di Oxfam International, da cui risulta che la ricchezza degli 8 principali miliardari supera quella della metà povera della popolazione mondiale, 3,6 miliardi di individui. Al vertice dei “magnifici otto” c’è Bill Gates, il patron della Microsoft, con 75 miliardi di dollari. Poi lo spagnolo Amancio Ortega, della catena di abbigliamento Zara, con 67 miliardi. Quindi il finanziere Warren Buffett (60,8 miliardi) e il messicano Carlos Slim Helu, che ha messo insieme 50 miliardi con telefonia e finanza, tabacco e petrolio. Al quinto posto figura Jeff Bezos di Amazon (45,2 miliardi), seguito da Mark Zuckerberg, a cui Facebook ha fruttato 44,6 miliardi. Chiudono la lista un altro Re Mida del digitale come Larry Ellison di Oracle, con 43,6 miliardi, e un campione di Wall Street come Michael Bloomberg, coi suoi 40 miliardi. Sommate insieme, le loro ricchezze valgono 426,2 miliardi di dollari. Ma la vera notizia riguarda appunto i famosissimi, leggendari e vituperati Rothschild, da sempre in cima a tutte le classifiche della letteratura complottista. Loro sarebbero ben più ricchi: con un patrimonio cinque volte più grande di quelli dei “magnifici otto” messi assieme, cioè pari a 2 trilioni, duemila miliardi di dollari.
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L’Italia resta terra di conquista, non si vedono vie d’uscita
L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.E’ il rimbalzo europeo dell’ondata neoliberista cavalcata da Reagan e Thatcher negli anni ‘80, cui – secondo un economista come Nino Galloni – l’Italia si allineò prontamente, staccando il “bancomat” di Bankitalia (allora retta da Ciampi) dal Tesoro, di cui era ministro Andreatta, un pioniere delle privatizzazioni. Travolti per via giudiziaria i leader della Prima Repubblica, discutibili e controversi ma arroccati sulla difesa della sovranità nazionale, fonte del loro potere, a rovinare la festa all’ex Pci – unica forza risparmiata da Mani Pulite – irruppe il Cavaliere, che però non andò oltre gli slogan (rivoluzione liberale, meno tasse) e si limitò a congelare la situazione, senza osare sfidare Bruxelles. Proprio gli interessi di bottega (Mediaset, Mondadori) resero Berlusconi vulnerabile, nel 2011, di fronte all’assalto finale della Troika, con l’imposizione del commissario Monti, sorretto anche dal Pd di Bersani fino all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, norma esiziale che di fatto esautora definitivamente governo e Parlamento privandoli di ogni residua sovranità, rendendo le elezioni puro esercizio rituale, senza efficacia politica.Dopo Berlusconi, Renzi: altro giro, altro abbaglio. Il suo programma: scritto, come gli altri, sotto dettatura. Consiglieri: Yoram Gutgeld, Marco Carrai, Michael Ledeen. Ispiratori: Tony Blair, e il Ceo di Jp Morgan, Jamie Dimon, con la collaborazione di Larry Fink, patron del maggior fondo d’investimenti del pianeta, BlackRock, a cui Renzi ha regalato una grossa fetta di Poste Italiane, azienda in super-attivo che all’Italia fruttava quasi mezzo miliardo all’anno. La riforma di Renzi? Il Jobs Act, su ordine dell’élite finanziaria, atlantica e tedesca, fanaticamente decisa a imporre ad ogni costo il dogma mercantilista: svalutare il lavoro in Europa per reggere la globalizzazione senza mai mettere a rischio i capitali, ma solo e sempre i lavoratori. Renzi però è caduto sul referendum: voleva una sola Camera elettiva, per un governo con più potere (più efficace, quindi, nell’eseguire direttive esterne senza “complicazioni” democratiche) ma gli italiani gli hanno detto no. Il super-potere, quelle riforme, le vuole. E continuerà a premere, sull’Italia ex-sovrana in balìa dell’euro, con l’arma del ricatto finanziario. Di fronte a elezioni anticipate, non emerge nessun Piano-B. I leader uscenti sono in crisi, gli altri sono deboli o non chiari. Nessuno pare in grado di imporre all’Europa di riscrivere, da cima a fondo, le regole che hanno devastato l’Italia, declassandola da potenza industriale a paese costretto a mendicare aiuti per il terremoto.L’Italia obbedisce, da decenni, a “padroni” stranieri: americani, inglesi, francesi. L’ultimo capitolo, quello del Britannia, tra le macerie di Mani Pulite: via libera alla grande privatizzazione del paese, smantellando quello che ne era stato il principale volano economico, l’industria pubblica. Esecutori: Prodi, Amato, D’Alema, Ciampi, Padoa Schioppa. Ma l’ordine era partito dall’alto, dai dominus internazionali che, per gli affari “regionali”, potevano puntare su affiliati di ferro come Mario Draghi e Giorgio Napolitano. Via i ladri di Tangentopoli: al loro posto, obbedienti servitori per il progetto di sottomissione denominato Unione Europea, che si avvale della politica di rigore indotta dall’euro e imposta a tutti, tranne a banche e multinazionali. Austerity che trasforma lo Stato in una periferia indigente, senza più sovranità, costretta a elemosinare tasse sempre più soffocanti, col risultato – scontato – di deprimere l’economia: meno consumi, meno lavoro, meno reddito, erosione dei risparmi, crisi e disoccupazione dilagante, tagli a pensioni e sanità, svendita del patrimonio pubblico. E soprattutto: assenza di futuro, mancanza di alternative all’agonia di un paese da cui i giovani scappano, non si sposano più, non fanno più figli.
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Sterlina inesauribile, Londra non potrà mai fallire per debito
Tra i fatti che ci mettono proprio un’eternità per essere capiti, eccone uno: i paesi che si indebitano nella propria valuta non saranno mai costretti a fare default sul debito. Nei mesi appena trascorsi abbiamo avuto un’ulteriore prova di questo fatto. Quando il Regno Unito stava per votare nel referendum sulla propria appartenenza all’Unione Europea, alcuni investitori e analisti hanno messo in guardia sul fatto che gli stranieri, spaventati, avrebbero potuto sbarazzarsi dei titoli del debito pubblico britannico, facendo così impennare i costi di finanziamento per il governo. Avevano torto. Il giorno dopo la Brexit il valore di quei titoli è aumentato del 3,5%. Di recente, una svendita dei titoli ha spinto molti – di nuovo – a sostenere che gli investitori stranieri stavano fuggendo dal paese. Dato che essi detengono circa un quarto del mercato attuale, perfino il ministero del Tesoro britannico ha affermato che sarebbe stato un serio problema. Ma i dati pubblicati lunedì mostrano che gli investitori non-residenti nel Regno Unito a settembre detenevano un valore netto totale di 13,2 miliardi di sterline in titoli, cioè il valore massimo da quasi un anno a questa parte.Nel corso del mese di ottobre, il valore dei titoli, che si muove in direzione opposta rispetto al valore dei rendimenti, è sceso di oltre il 5%. Nel mese successivo al referendum le vendite nette ammontavano a soli 4,4 miliardi di sterline, un valore che sta assolutamente all’interno delle tipiche oscillazioni mensili. È vero che quelli che hanno comprato i titoli a settembre ci hanno rimesso, a causa dell’ampia svendita che è avvenuta in ottobre – cosa di cui i nuovi dati riferiti a settembre non tengono conto. Ma non c’è nessun segnale del fatto che gli investitori stranieri siano in qualche modo preoccupati per i titoli del debito pubblico britannico dopo la Brexit. Ma dunque, come sono variati gli asset britannici dopo lo shock della Brexit? Risposta: dato che la sterlina stessa si è svalutata, non ce n’è stato bisogno. Gli asset britannici sono diventati automaticamente più convenienti da comprare per gli stranieri, fornendo così un ammortizzatore per i mercati.I dati mostrano che non c’è stato nessun particolare deflusso dalla Gran Bretagna – piuttosto, gli stranieri si sono limitati a ridefinire il valore della sterlina. Pertanto, anche se alcuni stranieri possono sbarazzarsi dei titoli, è improbabile che questi restino svalutati a lungo. Ciò perché la Gran Bretagna è un paese sviluppato con mercati finanziari liquidi, che può emettere debito nella propria valuta. A differenza della Grecia o della Spagna, che possono certamente esaurire gli euro, la Gran Bretagna potrà sempre emettere le proprie sterline. Inoltre non deve affrontare gli stessi problemi di molti paesi emergenti, che spesso si indebitano in valuta straniera perché non posseggono un sistema finanziario funzionale, o perché hanno governi instabili che decidono di dichiarare default per motivi politici.Benché l’indipendenza delle banche centrali – una scelta che sono i paesi stessi a fare – venga spesso sottolineata come contro-argomento rispetto all’idea che i paesi che emettono la propria valuta non siano obbligati a fare default, le loro operazioni nei mercati valutari avvengono tramite titoli di Stato, assicurando ai titoli pubblici un mercato liquido e stabile. Di fatto il ruolo delle banche centrali è sempre stato intimamente connesso alla gestione del debito pubblico. I programmi di quantitative easing lo hanno reso ancora più evidente: la Banca d’Inghilterra possiede oggi più o meno un terzo del mercato dei circa 1.500 miliardi di sterline di titoli. Anche nell’Eurozona la Banca centrale europea ha mostrato di avere il potere di mettere fine alle svendite di titoli. Per decenni le agenzie di rating hanno ammonito sui pericoli del sempre crescente debito pubblico giapponese, eppure la compravendita di titoli pubblici giapponesi resta sempre a livelli record.Nelle interviste ben pochi investitori hanno detto di avere avuto in mente il rischio di credito quando hanno deciso di vendere titoli il mese scorso – la loro preoccupazione era piuttosto che la caduta della sterlina avrebbe spinto la Banca d’Inghilterra ad una reazione eccessiva. Dato che i titoli del debito pubblico sono sicuri tanto quanto il contante – se non di più – il loro valore dipende principalmente dalle aspettative sulle azioni della banca centrale. È ora chiaro che il valore dei titoli del Regno Unito ha per lo più seguito quello dei titoli di altri paesi del mondo sviluppato, che si sono attestati a livelli massimi a causa della diffusa aspettativa che i decisori politici avrebbero fornito meno stimolo monetario da ora in avanti.(Jon Sindreu, “Il Regno Unito non potrà mai esaurire le sterline”, dal “Wall Street Journal” del 31 ottobre 2016, tradotto da “Voci dall’Estero”).Tra i fatti che ci mettono proprio un’eternità per essere capiti, eccone uno: i paesi che si indebitano nella propria valuta non saranno mai costretti a fare default sul debito. Nei mesi appena trascorsi abbiamo avuto un’ulteriore prova di questo fatto. Quando il Regno Unito stava per votare nel referendum sulla propria appartenenza all’Unione Europea, alcuni investitori e analisti hanno messo in guardia sul fatto che gli stranieri, spaventati, avrebbero potuto sbarazzarsi dei titoli del debito pubblico britannico, facendo così impennare i costi di finanziamento per il governo. Avevano torto. Il giorno dopo la Brexit il valore di quei titoli è aumentato del 3,5%. Di recente, una svendita dei titoli ha spinto molti – di nuovo – a sostenere che gli investitori stranieri stavano fuggendo dal paese. Dato che essi detengono circa un quarto del mercato attuale, perfino il ministero del Tesoro britannico ha affermato che sarebbe stato un serio problema. Ma i dati pubblicati lunedì mostrano che gli investitori non-residenti nel Regno Unito a settembre detenevano un valore netto totale di 13,2 miliardi di sterline in titoli, cioè il valore massimo da quasi un anno a questa parte.
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Il Censis: i giovani non hanno nulla. L’Italia sta crollando
Lo scenario “follow the money” è un’altra volta imminente, avverte Pepe Escobar: le banche dell’Unione Europea sono preoccupate della vittoria del No, e questo renderà molto più difficile salvare il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo e attualmente la terza più grande dell’Italia, che ha urgente bisogno di raccogliere 5 miliardi di euro in equity e di svendere 28 miliardi di crediti deteriorati. «L’intero sistema bancario italiano è alle corde, ha bisogno di un pacchetto di salvataggio da almeno 40 miliardi di euro», scrive Escobar su “Rt”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «L’Italia si è affidata alla Jp Morgan per trovare una soluzione». Un uomo come Ewald Nowotny, membro del board della Bce nonché capo della banca centrale austriaca, «insiste che l’Italia potrebbe dover spendere tanti soldi pubblici per il salvataggio», e questo «sarà considerato deleterio dalla maggioranza degli italiani», alle prese con una crisi devastante: la produzione industriale ha perso il 10%. E la disoccupazione, ad un pesante 13%, è «il doppio di quanto non lo fosse durante la crisi economica del 2008». Una fotografia impietosa, aggiunge Paolo Barnard, è quella scattata dal Censis. Che scrive: «Gli anziani si tengono stretto ciò che hanno accumulato dagli anni ’70, i giovani non hanno nulla».La verità, sottolinea Barnard sul suo blog, è che il No «viene da milioni di cittadini furiosi fino all’odio con quel fesso fiorentino che prometteva ma ha solo leccato culi negli executive offices d’Europa, per lasciare a chi già aveva, ma togliere a chi già aveva troppo poco. Guardatevi la mappa del No». Le Austerità, «mai veramente sfidate da Matteo Renzi», secondo il Censis «hanno lasciato 11 milioni di italiani a rimandare esami diagnostici o a cancellarli del tutto». Per l’istituto di statistica, «i poveri assoluti in Italia sono oggi 4,5 milioni». I risparmiatori? «Accumulano, ma non spendono», perché «terrorizzati dal dover pagare di tasca propria i servizi essenziali», cosa che funzionava all’incontrario prima dell’Eurozona, ricorda Barnard, quando cioè era lo Stato a sostenere il welfare, attraverso la lira. Ma a pesare sono soprattutto i giovani, che – infatti – hanno votato No in massa. «Non hanno niente», afferma il Censis. I giovani sono «intrappolati in mini-lavori a bassissimo reddito e zero produttività a causa del Job Act di Renzi». Una riforma che – lo denunciò a “La Gabbia” lo stesso Barnard – è stata scritta «quasi del tutto dalla lobby Business Europe a Bruxelles».E così, conclude il Censis, «la classe media italiana sta scomparendo sotto la ritirata degli investimenti». In più, aggiunge Barnard, «Renzi ha lasciato il 50% delle pensioni sotto i 1.000 euro al mese, ha regalato solo mance di Nano-Economia spostando eurini da un salvadanaio all’altro, la produzione industriale italiana è collassata al 22% nel 2016, il dato peggiore dal 2007, e il Pmi Index delle aziende è al punto più basso da 2 anni». La verità è che a Renzi non glien’è mai importato nulla dell’interesse nazionale, continua Barnard: «Infatti la sua eminenza grigia in economia, Yoram Gutgeld, era un ex executive della McKinsey con l’ossessione della spending review di Bruxelles piantata in testa». Alla fine, «gli italiani più dimenticati hanno impiccato Renzi in piazza». E Goldman Sachs scrive, in un “paper” destinato agli investitori: «Il rapporto fra la disoccupazione giovanile in ogni data regione di voto e il voto No è incredibilmente diretto». E state attenti, avverte Barnard: «Questi sono gli stessi italiani che nelle europee del 2014 avevano dato a Renzi un trionfo. Cosa cazzo ha combinato in soli 2 anni e un po’? Semplice: non ha mantenuto nulla, perché l’uomo di Bruxelles gli diceva sempre No».Dunque che cosa c’è in vista, ora? Una crisi politica «contenibile», secondo Escobar, visto che lo scenario dell’offerta politica italiana «non è esattamente edificante»: c’è un Renzi azzoppato col Pd in rivolta, poi Silvio “bunga bunga” Berlusconi, Grillo, Salvini. In altre parole: nessun Piano-B in campo. «Mentre l’Unione Europea osserva», scrive Escobar, «la linea di fondo è che l’Italia non è vicina ad alcun referendum per lasciare l’Eurozona, per non parlare dell’Unione Europea, in quanto la maggior parte degli italiani sono europeisti (eccetto quando si parla della dominazione tedesca nella Banca Centrale Europea)». La prossima battaglia elettorale vedrà opporsi «l’anti-casta Movimento 5 Stelle» che non sfida apertamente l’Ue né ripudia l’euro, il Pd renziano «ora allo sfascio» e comunque “fedele alla linea” di Bruxelles, e Forza Italia di “nonno Silvio”, probabilmente alleato con la Lega. A tutto penserà, l’Italia, fuorché liberarsi dell’euro, scrive Escobar. «Ma questo implica un intreccio secondario: Angela Merkel, proprio lei, dovrà farsi avanti per dare una mano a “salvare” l’Unione Europea, salvando il Partito Democratico di Renzi».Lo scenario “follow the money” è un’altra volta imminente, avverte Pepe Escobar: le banche dell’Unione Europea sono preoccupate della vittoria del No, e questo renderà molto più difficile salvare il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo e attualmente la terza più grande dell’Italia, che ha urgente bisogno di raccogliere 5 miliardi di euro in equity e di svendere 28 miliardi di crediti deteriorati. «L’intero sistema bancario italiano è alle corde, ha bisogno di un pacchetto di salvataggio da almeno 40 miliardi di euro», scrive Escobar su “Rt”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «L’Italia si è affidata alla Jp Morgan per trovare una soluzione». Un uomo come Ewald Nowotny, membro del board della Bce nonché capo della banca centrale austriaca, «insiste che l’Italia potrebbe dover spendere tanti soldi pubblici per il salvataggio», e questo «sarà considerato deleterio dalla maggioranza degli italiani», alle prese con una crisi devastante: la produzione industriale ha perso il 10%. E la disoccupazione, ad un pesante 13%, è «il doppio di quanto non lo fosse durante la crisi economica del 2008». Una fotografia impietosa, aggiunge Paolo Barnard, è quella scattata dal Censis. Che scrive: «Gli anziani si tengono stretto ciò che hanno accumulato dagli anni ’70, i giovani non hanno nulla».
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Euro-barbarie, Zanni: incostituzionale è l’Unione Europea
Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».Tuttavia, «è ormai chiaro che il castello di carta crollerà sotto la fragilità delle sue stesse fondamenta: il 2017 sarà un anno fondamentale, perché dopo la Brexit e Trump potranno esserci sorprese in Italia, Olanda, Francia e Germania», scrive Zanni nel suo blog. L’Eurozona non è riformabile e quindi collasserà, perché politicamente insostenibile, anche se «molti ancora non vogliono capirlo, perché interessati a mantenere questo stato di perenne agonia in cui aumentano le diseguaglianze tra i più ricchi (sempre meno e sempre più ricchi) e i poveri (sempre di più e sempre più poveri)». Una costruzione «tecnicamente e politicamente irriformabile», che quindi «imploderà sotto i colpi della sua stessa insostenibilità». L’obiettivo dell’Ue, esplicitato dal Trattato di Maastricht fondativo dell’euro: «Una restaurazione liberista che ha smontato a colpi di “crisi telecomandate” e “ce lo chiede l’Europa” lo stato sociale e le tutele dei lavoratori tipiche delle Costituzioni nazionali democratiche degli Stati della periferia europea, operando, attraverso anche una deregolamentazione finanziaria spinta alla follia, una redistribuzione dei redditi dal lavoro al capitale».In questo scenario, continua Zanni nel suo blog, la Germania è stata abile nell’imporre il suo modello di sviluppo socio-economico, l’ordoliberismo mercantilista, creando un set di regole asimmetriche per punire “le cicale del Sud Europa” che “si indebitano” e “vivono al di sopra delle proprie possibilità”. Maastricht, Patto di Stabilità, Fiscal Compact, unione bancaria, Six-Pack e Two-Pack. Stesso obiettivo: «Per curare le asimmetrie andavano puniti severamente gli Stati in deficit», dimenticando che, «se c’è un deficit da una parte, dall’altra c’è un surplus (il gioco è a somma zero)», e quindi «se c’è qualcuno che è tanto irresponsabile da essersi indebitato troppo, dall’altra parte c’è un creditore altrettanto irresponsabile che gli ha prestato i soldi». E invece, nell’Eurozona «le regole sono state costruite e interpretate sempre per far ricadere il peso degli aggiustamenti sugli Stati in deficit e sui loro cittadini». E se l’Ue ha provato timidamente a far notare che la colpa delle “asimmetrie” è anche dei creditori, «l’egemone Stato tedesco ha preso a schiaffi Bruxelles e ha ributtato violentemente la palla dall’altra parte, infischiandosene di quelle regole che invece con tanto zelo impone ai partner europei».In un sistema a cambi fissi come quello dell’Eurozona, continua Zanni, i differenziali d’inflazione tra gli Stati membri causano perdita di competitività, squilibri della bilancia commerciale e indebitamento estero, soprattutto nel settore privato dei paesi in deficit, non potendo aggiustare la situazione con il cambio. La Germania, paese in costante surplus commerciale e fiscale, dovrebbe inflazionare (quindi alzare la spesa pubblica e alzare il livello dei salari), mentre la periferia dovrebbe deflazionare, come sta facendo, al prezzo della distruzione della propria economia. Regole sempre asimmetriche: «La periferia è stata costretta a deflazionare, con austerità e contenimento dei salari, mentre la Germania se n’è infischiata delle regole e ha continuato a mantenere inflazione vicina allo zero, a registrare surplus fiscali di bilancio e ad aumentare il suo surplus commerciale, sfruttando il suo tasso di cambio reale pesantemente sottovalutato, come fatto notare anche dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Ocse». Dopo il 2013, anche su sollecito dell’Italia, la Commissione Europea ha segnalato a Berlino il mancato rispetto delle regole da parte dei tedeschi, chiedendo alla Germania di aumentare la sua spesa pubblica e di alzare i salari, «ricevendo puntualmente la porta in faccia».Questa è l’essenza dell’Eurozona, sottolinea Zanni: «Un sistema asimmetrico, in cui i più forti interpretano le regole a loro favore, non le rispettano e in cui si creano vincitori e vinti a un prezzo altissimo, in barba a quella cooperazione socio-economica tra gli Stati membri scritta a chiare lettere nei Trattati». Bruxelles è appena tornata alla carica chiedendo alla Germania una sterzata per il 2017, ma la risposta di Wolfgang Schaeuble non è cambiata: Berlino si appella al pareggio di bilancio inserito in Costituzione, fornendo ai tedeschi un vantaggio competitivo che la Germania si è costruita «plasmando a suo favore le regole europee e soffocando gli Stati europei più minacciosi per la propria sopravvivenza e prosperità», Italia in primis. «Invece che rispettare i precetti della cooperazione socio-economica sancita nei trattati», i tedeschi «hanno preferito seguire la più semplice filosofia del “mors tua vita mea”. La Germania – aggiunge Zanni – se ne fregherà delle regole europee, farà registrare il quarto bilancio pubblico consecutivo in surplus e continuerà con la sua politica di ricatto e soppressione del vicino, anche a costo di danneggiare e soffocare i “cugini” europei».Dando per scontato che a farlo non saranno politici come Hollande e Merkel, chi dovrà gestire la transizione dovrà arrivare estremamente preparato, perché non sappiamo se sarà un processo soft o turbolento. Obiettivo: risollevare l’economia dei paesi devastati dalle politiche imposte dall’euro. Misure sovraniste, quindi. La prima, ovvia: il ripristino della flessibilità dei cambi con una valuta controllata dalla banca centrale nazionale. E in parallelo, una riforma di Bankitalia «che dovrà eliminarne l’indipendenza e il divieto di finanziamento del deficit pubblico, facendola tornare sotto l’egida pubblica e operare in sintonia con il Ministero del Tesoro per non lasciare in mano ai mercati finanziari il destino del nostro debito pubblico e la determinazione dei tassi d’interesse che paghiamo su di esso». Zanni evoca anche il ripristino del Glass-Stegall Act abolito da Bill Clinton, cioè «il ripristino della separazione tra banche d’affari e banche commerciali». Quindi, misure keynesiane: «Un massiccio piano di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, in riqualificazione energetica degli edifici, con la messa in sicurezza del patrimonio pubblico e del suolo contro il rischio sismico e le catastrofi ambientali, finanziato attraverso la monetizzazione del deficit da parte della banca centrale».Zanni propone anche più controlli sulla libera circolazione dei capitali e il ripristino di una stringente regolamentazione dei mercati finanziari, da riportare «a supporto dell’economia reale». Corollario: una imponente riforma sociale, che azzeri che “riforme” degli ultimi decenni. E cioè: «Il ripristino di tutte le tutele ai lavoratori e alle altre categorie di cittadini come previste dalla Costituzione italiana del 1948», perché «il lavoro deve rimanere un diritto costituzionalmente garantito». L’Europa? «Rapporti con i partner europei sulla base del rispetto reciproco e della cooperazione verso obiettivi comuni di prosperità, sempre però nel rispetto delle democrazie nazionali e dei precetti costituzionali». In altre parole, si tratterebbe di una rivoluzione copernicana. Attuata da quali forze politiche? Non è dato saperlo, per ora. Quella che Zanni auspica, in ogni caso, è una svolta epocale, necessaria per «ricostruire le macerie di un paese raso al suolo dall’adesione incondizionata al folle progetto» dell’Eurozona. «Ma la cosa più importante – aggiunge – sarà tener vivo nelle generazioni future il ricordo di queste scempio e delle cause che hanno portato alla più grande recessione economica della storia moderna».Se c’è qualcosa di “incostituzionale” è proprio l’Unione Europea. Si spera quindi che la frana dell’Eurozona diventi una valanga nel 2017, con elezioni che protrebbero “pensionare” i politici che finora hanno sostenuto l’euro-follia, da Parigi a Berlino. Non c’è mai stata cooperazione, ma solo una competizione giocata con armi illecite, alla quale sopravvivrà solo il più forte, la Germania. «Come è possibile – si domanda Marco Zanni, europarlamentare grillino – che istituzioni sovranazionali come quelle dell’Ue non siano dichiarate incostituzionali perché incompatibili con l’articolo 11 della nostra Costituzione, che delimita chiaramente i confini entro cui lo Stato italiano può partecipare a organizzazioni internazionali?». E infine: «Perché i nostri governi non rifiutano le distruttive e insensate regole europee quando queste creano pericolose asimmetrie e ledono i diritti fondamentali dei propri cittadini?». L’attuale classe politica italiana, e in particolare la sinistra, ha «svenduto il paese, i diritti dei cittadini e quelli dei lavoratori al capitale finanziario, che ha agito incontrollato nella distruzione di quanto di buono fatto in Europa dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale». Ergo, «non potranno essere loro a portarci fuori dal baratro».
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Regalare l’Italia ai suoi predatori, fingendo di difenderla
Il piano era semplice: «Creare euforia e consenso legati alle riforme di Renzi per trasformare l’Italia in un paese governabile, “marionettando” un solo uomo», cioè il capo del Pd. Corollario: rendere costituzionale «la subordinazione di Roma a Berlino e Parigi», e soprattutto «completare il trasferimento-svendita» del paese, con le aziende strategiche (inclusa Bankitalia) affidate al controllo di banche straniere. Renzi? E’ stato solo l’ultimo atto di una tragica farsa che risale agli anni ‘80, scrive Marco Della Luna nel suo blog, in cui denuncia il pericolo di brogli che incomberebbe sul referendum del 4 dicembre, dato l’altissimo rischio che Renzi lo perda, costringendo i suoi padroni occulti a rallentare l’assalto all’Italia. «Al governo e ai potentati che esso serve – scrive Della Luna – non resta che puntare su brogli massicci per vincere il referendum e insieme prepararsi a guidare gli sviluppi, in caso che perdano, mediante i soliti strumenti dei premi e dei ricatti finanziari e giudiziari». Niente di nuovo: «La principale occupazione dei governanti italiani, perlomeno da Andreatta in poi, è stata quella di trasferire, senza che l’opinione pubblica capisse che cosa facevano, il risparmio, le risorse finanziarie, le migliori aziende, le imprese strategiche, tra cui soprattutto la Banca d’Italia, a multinazionali finanziarie straniere».Una colossale spoliazione, che la “casta” al potere ha consentito «in cambio di carriera assicurata», in patria ma anche «in Europa, o nelle grandi banche saccheggiatrici che essi hanno servito, secondo il noto schema delle “porte girevoli”». Questo, aggiunge Della Luna, «è il regime che predica tanto su corruzione ed evasione, e presenta il supergarante Cantone». Guardiamo ai fatti: «Il governo Monti, solo per citarne uno, ha raccolto 57 miliardi di tasse in più dagli italiani, affondando il settore immobiliare ed esasperando così la recessione, per dare aiuti alle decotte banche greche e non solo, con cui pagassero alle banche franco-tedesche i loro illeciti profitti ottenuti con prestiti predatori precedentemente concessi». Im pratica, «fu un enorme aiuto di Stato a banche private, imposto dall’“Europa”», la stessa Europa che oggi «non consente al governo italiano di aiutare le proprie banche in crisi». Motivo del divieto: «Devono essere spolpate da Jp Morgan e soci, il cui uomo di fiducia, Morelli, è già stato messo da Renzi a capo di Mps».Questi governi, continua Della Luna, «sopravvivono solo perché e finché la Bce continua ad assicurare artificialmente l’acquisto dei loro titoli pubblici». Nel regime dell’Eurozona non puiò che essere così: è la Bce a tenerli in vita in questo modo, «per evitare che collassino mentre procede il programma di espianto e trasferimento all’estero delle risorse italiane: capitali, cervelli, aziende, mercati». Matteo Renzi paladino degli interessi nazionali? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. «A parte gli effetti provvisori e già scemati della costosa decontribuzione, il Jobs Act ha ridotto i diritti del lavoro e non ha aumentato strutturalmente gli impieghi», sottolinea Della Luna. «Le promesse di superare l’austerity merkeliana ed europea si sono dissolte o sono rinviate sine die di fronte al “nein” di chi comanda in Europa». Inevitabilmente, quindi, «malgrado le mancette degli 80 euro», la festa è finita subito: «L’euforia si è sgonfiata e consensi per Renzi sono fortemente scesi dal 40% iniziale dovuto al marketing e all’effetto novità». I sondaggi dicono che vincerà il No: «Salvo un loro errore clamoroso, il piano è fallito». La “riforma” renziana? L’ennesimo tassello del grande piano, che «mira ad abolire lo Stato di diritto, la rappresentanza democratica, la possibilità di opposizione e alternanza interna al sistema giuridico», quindi «l’obbedienza dell’Italia a Berlino e Parigi via Ue, dietro la simulata polemica con la Commissione Europea e il governo Merkel».Il piano era semplice: «Creare euforia e consenso legati alle riforme di Renzi per trasformare l’Italia in un paese governabile, “marionettando” un solo uomo», cioè il capo del Pd. Corollario: rendere costituzionale «la subordinazione di Roma a Berlino e Parigi», e soprattutto «completare il trasferimento-svendita» del paese, con le aziende strategiche (inclusa Bankitalia) affidate al controllo di banche straniere. Renzi? E’ stato solo l’ultimo atto di una tragica farsa che risale agli anni ‘80, scrive Marco Della Luna nel suo blog, in cui denuncia il pericolo di brogli che incomberebbe sul referendum del 4 dicembre, dato l’altissimo rischio che Renzi lo perda, costringendo i suoi padroni occulti a rallentare l’assalto all’Italia. «Al governo e ai potentati che esso serve – scrive Della Luna – non resta che puntare su brogli massicci per vincere il referendum e insieme prepararsi a guidare gli sviluppi, in caso che perdano, mediante i soliti strumenti dei premi e dei ricatti finanziari e giudiziari». Niente di nuovo: «La principale occupazione dei governanti italiani, perlomeno da Andreatta in poi, è stata quella di trasferire, senza che l’opinione pubblica capisse che cosa facevano, il risparmio, le risorse finanziarie, le migliori aziende, le imprese strategiche, tra cui soprattutto la Banca d’Italia, a multinazionali finanziarie straniere».