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Antisionismo e antisemitismo, per Salvini tutto fa brodo
Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa”, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».Attenti alle parole: è noto che nessuno, sano di mente, dice o pensa che “gli ebrei” siano “i nazisti di oggi”. Semmai, l’accusa investe il governo israeliano, da decenni dominato dalla destra. E’ stato Netanyahu a compiere spaventosi abusi verso i palestinesi, come i bombardamenti su Gaza costati 1.400 morti tra la popolazione civile (e la coraggiosa protesta dei Refuseniks, i militari israeliani che esercitano l’obiezione di coscienza rifiutandosi di partecipare ad azioni che rischiano di provocare vittime tra i civili). Le cronache di questi anni sono gremite di proteste: a quelle degli arabi e degli occidentali si aggiungono quelle degli stessi ebrei, scandalizzati per la brutalità della violenza israeliana. L’olandese Henk Zanoli (che salvò ebrei dalle persecuzioni naziste) ha chiesto che il suo nome venisse rimosso dal sacrario dei Giusti di Israele, dove si commemorano gli eroi che misero in salvo innocenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il giovanissimo soldato Udi Segal ha preferito andare in carcere, pur di non partecipare alle operazioni militari di repressione contro la popolazione di Gaza. «Ho letto i libri di Ilan Pappe», ha spiegato Segal, alludendo al maggiore storico israeliano contemporaneo, ora costretto a insegnare lontano da Israele dopo aver ricordato che la “pulizia etnica” contro gli arabi in Palestina fu avviata ben prima dell’avvento di Hitler.A descrivere la radice violenta di una certa declinazione del sionismo – sostiene Paolo Barnard – bastano i diari di David Ben Gurion: se il sionismo originario era il sogno di Theodor Herzl (una patria ebraica in Palestina, capace di convivere con gli altri popoli della regione), Ben Gurion lo interpretò in modo anche brutale, non esistando a raccomandare di sterminare donne e bambini nei villaggi palestinesi. Solo più tardi l’immane catastrofe della Shoah spinse il mondo a concedere agli ebrei il loro Stato (accompagnato però dalla nascita di quello parallelo per i palestinesi: uno Stato mai nato, quest’ultimo, in seguito alle guerre che costrinsero il neonato Israele a difendersi dai paesi arabi, che non accettarono la costituzione dello Stato israeliano). La pace separata dell’Egitto con Tel Aviv costò la vita al presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato da fondamentalisti islamici, mentre l’unico vero accordo strategico tra israeliani e palestinesi, a metà degli anni ‘90, fu sabotato dall’omicidio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista ultra-sionista. Da allora il conflitto non ha fatto che marcire, impugnato come eterno alibi per giustificare la reciproca ostilità arabo-israeliana, costringendo i palestinesi a pagare un prezzo smisurato. Bombe al fosforo bianco su Gaza, dopo che la Striscia è finita sotto il controllo degli islamisti di Hamas, e incentivo (senza più freni) alla politica degli insediamenti israeliani nei Territori Occupati in Cisgiordania.Recenti gli ultimi due atti, fortemente simbolici: Gerusalemme promossa come futura “capitale israeliana” con la benedizione di Trump, e la trasformazione costituzionale di Israele in “Stato ebraico”, a danno della popolazione non ebrea. Protesta un grande artista come Moni Ovadia, promotore in Occidente della cultura ebraica: «La propaganda più sleale continua ad accusare di antisemitismo chi, come me, si batte semplicemente contro la politica violenta e razzista del governo israeliano». Uno dei leader occidentali del movimento che contesta gli abusi del sionismo contemporaneo è l’inglese Roger Waters: il frontman dei Pink Floyd accusa apertamente Israele di “apartheid” ai danni dei palestinesi, e invita a boicottare i prodotti israeliani. Durissimi con Tel Aviv anche musicisti come Brian Eno e il jazzista ebreo Gilad Atzmon, secondo cui non sono in alcun modo giustificabili le vessazioni quotidiane e le violenze a cui il governo di Israele sottopone l’inerme popolazione palestinese. Con Israele non si scherza: durante l’Operazione Piombo Fuso, i devastanti bombardamenti su Gaza a cavallo tra 2008 e 2009, i Refuseniks furono costretti a ricorrere ad annunci a pagamento, sul quotidiano “Haaretz”, per informare i cittadini della loro protesta: non c’era posto per la voce dei militari dissidenti nella decantata democrazia di Israele, per decenni unico paese a non proporre nelle scuole “Se questo è un uomo” data la posizione di Primo Levi, estremamente critico rispetto al sionismo.Tutt’altra storia è invece quella delle cronache europee che, specie in paesi come la Francia, ripropongono l’abominio dell’antisemitismo, un sentimento che infetterebbe ancora alcuni strati dell’opinione pubblica. Nel convegno romano di Palazzo Giustiniani, a denunciarlo è Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Pubblic Affairs: la lordura antisemita riemerge «nel cuore dell’Occidente», e questo «fa capire che combattere l’antisemitismo significa combattere in difesa della nostra civilizzazione». Oltre al neonazismo fanatico, Gold accusa anche una certa sinistra, che nel difendere i palestinesi tollera l’estremismo islamista, che nega ancora a Israele il diritto di esistere. Ma è proprio lo Stato di Israele, ha precisato l’ambasciatore in Italia Eydar Dror, «la polizza assicurativa di tutti gli ebrei del mondo: grazie a esso – dice Dropr – possono andare a testa alta in tutto il mondo, e in caso di necessità tornare a casa». Per l’ambasciatore, l’antisemitismo è una cartina di tornasole: «Indica il declino della società e ne prevede il crollo». È in questa chiave, sottolinea la “Stampa”, che la presidente Casellati ha parlato della necessità di preservare «una società forte della propria identità, che ripudia l’intolleranza e il razzismo».Temi tornati di attualità, secondo la Casellati, anche a causa di una globalizzazione esasperata che tende a sacrificare le nostre tradizioni e radici culturali. «Ma sono temi che chiamano in ballo Salvini e un pezzo del suo elettorato che viene dalla destra anche estrema», scrive Amedeo La Mattina sulla “Stampa”. «Il leader leghista rifiuta accostamenti con CasaPound e Forza Nuova», e nega di alimentare intolleranza e razzismo. «Accuse assurde», precisa, aggiungendo che il contrasto all’immigrazione e la difesa dei confini non c’entrano nulla con l’intolleranza, il razzismo, la Shoah. Salvini si è detto dispiaciuto che «qualcuno non sia venuto» al convegno. Chiaro il rifermento alla senatrice a vita Liliana Segre, che non ha accettato di partecipare. «Lei ha tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha scandito l’ex ministro. La “capitana” viene dunque presa a simbolo di quella sinistra “antisionista e antisemita” che inquieterebbe gli israeliani. Ma ad essere messa alla prova – scrive ancora La Mattina – sarà la sinistra di casa nostra: «Salvini chiede che presto il Parlamento voti sul documento dell’Ihra (International Holocaust Remembrance Alliance) che identifica l’antisemitismo oggi».Da Salvini, non una parola sugli abusi di Israele verso i palestinesi. Al contrario: per il leader della Lega, il vero problema è rappresentato da «una Ue che nega le radici giudaico-cristiane ed etichetta i prodotti israeliani, una Onu che nel 2018 dedica alla condanna di Israele 18 risoluzioni e neanche una a Iran e Turchia». Salvini fa l’ultra-israeliano, schierandosi con il blocco di potere che fa capo a Netanyahu, ignorando le posizioni critiche che emergono dalla stessa società israeliana. Quanto a Gerusalemme capitale, nell’antichissima “città santa” (per ebrei, arabi e cristiani) gli abitanti ultra-ortodossi del quartiere Mea Shearim condannano il sionismo, sostenendo che nemmeno la Bibbia autorizza in alcun modo l’esistenza di uno Stato ebraico. Ma si tratta di argomenti non abbordabili per il capo della Lega, abituato a tagliare tutto a fette grosse. Dopo aver suscitato imbarazzo anche tra i cattolici per l’ostentazione del crocifisso nei comizi politici, è stato l’unico politico europeo (insieme all’inglese Johnson) ad esultare pubblicamente per l’omicidio terroristico del generale Soleimani, eroe nazionale dell’Iran ed emblema di un paese di cui l’Italia resta, a quanto a pare, il primo partner economico. Assediato dalle indagini (tra cui quella sulla missione russa di Savoini), il leghista che ambisce a guidare l’Italia chiede aiuto all’asse Usa-Israele e confonde volutamente l’antisionismo con l’antisemitismo, dopo aver insultato 80 milioni di iraniani.Visto che in Europa sopravvive la vergogna strisciante dell’antisemitismo, la follia criminale che attribuisce responsabilità politiche agli ebrei in quanto tali, Matteo Salvini coglie la palla al balzo per confondere l’antisemitismo con le critiche agli eccessi del sionismo, l’ideologia che consente a una potenza nucleare (lo Stato di Israele) di perseguitare con ogni mezzo i palestinesi, destabilizzando il Medio Oriente da mezzo secolo. Il leader della Lega, scrive Amedeo La Mattina su “La Stampa“, «ha puntato su Gerusalemme da quando, lo scorso anno, è stato accolto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu con tutti gli onori». In quell’occasione, l’ex ministro dell’interno «aveva sostenuto che la Città Santa dovrà essere la capitale di Israele, come ha sempre detto il presidente americano Donald Trump». Salvini lo ha ripetuto il 16 gennaio nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani, alla presenza della presidente del Senato Elisabetta Casellati, in un convegno sulle “nuove forme dell’antisemitismo”. La “Stampa” segnala «un costante riallineamento a Washington e un conseguente allontanamento da Mosca», da parte del leghista. Barra dritta su alcuni concetti, ripetuti come un mantra: «L’antisemitismo di certa destra tradizionalista e di certa sinistra è nostro nemico», dichiara Salvini. «Abbiamo il dovere di combattere chi dice che gli ebrei siano i nazisti di oggi: c’è chi lo pensa nel mondo islamico ma anche in certi mondi in Europa».
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Master Roosevelt: per conoscere i segreti del grande potere
Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.Il corso è destinato a italiani disposti a ricevere una formazione speciale, che li metta nelle condizioni di vedersela alla pari con i grandi player dell’attualità. Storia della conoscenza, storia del potere e delle civiltà umane. E poi: economia post-keynesiana e rooseveltiana, finanza etica e conti pubblici, geopolitica. Comunicazione: marketing e pubblicità, giornalismo, media e televisione. Ma anche “scienza, polis e potere”, filosofia politica, ecologia, salute, arte e letteratura, cinema, musica e “affabulazione collettiva”. Sono alcune delle materie del “Master Roosevelt in Scienze della Polis”, al via a fine gennaio: 12 weekend intensivi, tra Roma e Milano, con anche il supporto video per chi non potrà partecipare a tutte le lezioni. «Solo il nostro master – assicurano i promotori – offre insegnamenti teorico-pratici che coprono tutto lo “scibile” contemporaneo». Informazioni preziose per affrontare il buongoverno della cosa pubblica, consapevoli dei propri diritti e doveri, oltre che della propria sovranità di cittadini. «Inoltre – aggiungono gli organizzatori – questo master soddisfa esigenze di conoscenza inter-disciplinare (di natura sia “materiale” che “spirituale”) che nessun’altra alta scuola di formazione può garantire».Basta dare un’occhiata alle docenze proposte. Per esempio: storia, teoria e pratica dei servizi segreti e dell’intelligence pubblica e privata. Oppure: esoterismo, iniziazioni e massoneria. Ancora: introduzione alla Kabbalah. E poi simbologia, ideologie e sistemi di pensiero. Un lavoro in profondità: si parlerà di archetipi psicologici e comportamenti politico-sociali, svelando «i segreti delle energie sottili e delle arti marziali e venusiane». Premessa: è il potere stesso – per chi non l’avesse ancora capito – a padroneggiare queste materie. E il Master Roosevelt è dunque la prima opportunità, offerta a tutti, di esplorare quel mondo elusivo, precluso ai più. Ad affermarlo è lo stesso Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha tolto il velo all’aspetto più segreto dell’establishment: «A muovere anche i massimi oligarchi è una sorta di “aristocrazia dello spirito”, che li induce a ritenersi gli unici depositari dei destini del mondo». Non la pensa così l’autore di “Massoni”, già inziato alla superloggia progressista “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. La sua tesi: «La vera massoneria è costituzionalmente progressista. Storicamente, è stata proprio la “libera muratoria” a produrre le forme della modernità, lo Stato di diritto, la relativa libertà del cittadino non più suddito e la facoltà di auto-governarsi mediante elezioni democratiche, una volta conquistato il suffragio universale».Pietra miliare: la Rivoluzione Francese, con la caduta dell’Ancien Régime. Da allora, lotte e rivolte in tutto il mondo, fino al Risorgimento italiano. Quindi i decenni gloriosi del boom, nell’ultimo dopoguerra: «Era massone Franklin Delano Roosevelt, che volle il Piano Marshall dopo aver sconfitto il nazismo. Era “libera muratrice” sua moglie Eleanor, madrina dei diritti umani. Era massone Keynes, lo stratega del benessere diffuso in Occidente. Ed erano massoni John Rawls e William Beveridge, gli inventori del welfare (concepito per eliminare il gap tra ricchi e poveri)». Nel suo saggio – un vero e proprio bestseller italiano – Magaldi scrive che la leadership culturale e politica delle superlogge progressiste fu sabotata con la violenza alla fine degli anni Sessanta, negli Usa, con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King: i rooseveltiani li avevano scelti, come presidente e vice, per cambiare faccia al mondo. Non è andata così: nel 1973 (proprio l’11 settembre) la superloggia “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller organizzò il golpe in Cile introducendo il neoliberismo con i carri armati. Due anni dopo, la Trilaterale avrebbe spiegato, con il manifesto “La crisi della democrazia”, che era iniziata la grande retromarcia storica: meno diritti, meno pace e meno benessere per tutti. Sulla base di cosa? Di un piano egemonico: la riconquista del pianeta, da parte di un’élite massonica che i sodali di Magaldi definiscono “controiniziata”, avendo rinnegato l’impegno massonico per il progresso democratico dell’umanità.Nel 2011, in televisione, lo stesso Magaldi si espose in prima persona per segnalare la militanza – nella supermassoneria reazionaria – di primattori come Mario Monti, il presidente Napolitano e lo stesso Draghi. Sei mesi dopo l’uscita del suo dirompente saggio (silenziato dai grandi media), Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt, un soggetto meta-partitico che si propone di “risvegliare” la politica italiana in modo trasversale, appellandosi a tutti i partiti per il ripristino della democrazia sostanziale nella governance, dominata da un’Ue non democratica. Nel 2019, viste le incertezze deludenti del governo gialloverde, Magaldi (insieme all’economista Nino Galloni, vicepresidente “rooseveltiano”) ha anche aperto il cantiere del “Partito che serve all’Italia”, work in progress politico-programmatico: fine dell’austerity, istruzioni per l’uso. E ora, con il master, si passa direttamente all’attività formativa. Nel corso di un anno, il programma affronta materie vaste e complesse: istituzioni democratiche e meccanismi elettorali, amministrativi e parlamentari, approfondendo anche le leggi ordinarie e quelle costituzionali. E poi relazioni istituzionali pubbliche e private, euro-atlantismo e Nato, area mediterranea e strategie militari globali, storia contemporanea e dinamiche planetarie.Tra le docenze non mancano “polis e disabilità”, rigenerazione urbana e architettura, organizzazione del lavoro, “percezione di sé e osservazione dell’ambiente”. Un impegno a 360 gradi: modelli democratici ed elettorali a confronto. Una bussola precisa: mente, coscienza ed etica, tra politica e società. In altre parole: si tratta di formare super-cittadini, capaci di misurarsi senza timidezza con qualsiasi interlocutore, per arrivare – domani – a irrobustire finalmente una classe politica diversa, più preparata, in grado di tutelare l’Italia nel solo modo che Magaldi e i suoi ritengono possibile, e cioè recuperando la sovranità democratica di concerto con il resto d’Europa e del mondo. Da qualche tempo, lo stesso Magaldi segnala indizi di un possibile cambiamento in corso: «L’élite massonica neoaristiocratica che ha messo in piedi quest’Europa post-democratica sta per cedere, di fronte al disastro socio-economico che ha prodotto: lo dimostrano anche le esternazioni pubbliche e private di un supermassone come Mario Draghi, tra i massimi architetti dell’austerity, che ora si dichiara pronto a tornare sui suoi passi, recuperando la lezione di Keynes e quella personalmente ricevuta dal grande economista italiano Federico Caffè».Durissimo nel denunciare le peggiori malefatte del potere e i suoi aspetti più occulti, Magaldi ha fiducia nel futuro: crede sinceramente che la democrazia sociale sperimentata in Europa nel dopoguerra possa riprendere il suo corso. Ma per sbriciolare il potere degli oligarchi, dice, occorre una nuova generazione di italiani, all’altezza della sfida. Occorre anche gettare nella spazzatura l’ipocrisia che, nel nostro paese, impedisce di riconoscere il ruolo della massoneria, menzionando le logge solo per demonizzarle. E se sono massoni molti dei protagonisti negativi dell’attuale establishment, è meglio acquisire quelle stesse competenze, anche senza entrare in massoneria. Pure questa, in fondo, è tra le missioni del Master Roosevelt: fare in modo che nessuno detenga il monopolio della conoscenza. Avverte Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine” sui misfatti neo-feudali del neoliberismo: ai “mostri” del vero potere, menti raffinatissime e preparatissime, non puoi opporre un branco di politicanti spesso mediocri e ignoranti come quelli italiani. Prima ancora che il servilismo, è la loro incompetenza a trasformarli fatalmente in docili maggiordomi, meri esecutori di decisioni prese altrove.Se siamo ridotti così, con governi-fantasma che prendono ordini da Bruxelles, da una Commissione Europea che è solo la cinghia di trasmissione del volere di potentati privati, secondo Magaldi dipende dagli snodi cruciali della storia recente. Per esempio l’eliminazione del massone progressista Olof Palme, campione del welfare svedese, alla vigilia delle trattative che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Da quel “frame” sciagurato non siamo ancora usciti: ci hanno fatto credere che il debito pubblico sia una colpa, e che lo Stato sia come una famiglia che, se s’indebita, poi deve ripagare tutto (e con gli interessi). Solo nel 2018, sulla base di questi presupposti – a essere sovrani sono i mercati finanziari, non i cittadini – Mattarella impedì a Paolo Savona l’accesso al ministero dell’economia. In quell’occasione, Magaldi chiese le dimissioni del presidente della Repubblica, che definì «un servizievole paramassone». Rispetto all’epoca del governo Monti, l’informazione alternativa ha fatto passi da gigante, grazie al web. E’ cresciuta una forte minoranza, finalmente informata. Fioriscono iniziative, convegni, gruppi. Ma manca ancora un progamma organico per mettere a fuoco il problema in modo esauriente, forgiando autentici esperti. Ed è esattamente a questo che punta il Master Roosevelt, prima scuola italiana che nasce per insegnare a sfidare, domani, questo potere che tiene prigioniero il paese.(L’avvio del Master Roosevelt in Scienze della Polis è previsto per sabato 25 gennaio 2020, ore 9, presso l’Istituto Sant’Orsola di via Livorno 50/a, Roma).Cani da guardia della democrazia: così amavano lasciarsi definire i veri reporter, all’epoca in cui Bob Woodward e Carl Bernstein, dalle colonne del “Washington Post”, trascinavano Nixon verso l’impeachment e le dimissioni. Oggi, lo spettacolo è patetico: i mastini di un tempo sono stati rimpiazzati da barboncini scodinzolanti, che non osano avventurarsi oltre il recinto delle notizie ufficialmente autorizzate. Il grande freddo è calato dopo l’opaca tragedia dell’11 Settembre, che segna un drammatico spartiacque tra verità e autocensura. Vale per tutto, anche per la politica: vietato osare. Vent’anni di piombo e di sangue, costellati di guerre protette dalla disinformazione, tra crisi economiche generate dalla finanziarizzazione definitiva dell’economia globalizzata, in mano a poche famiglie potentissime. A prendere il potere, gettando la maschera, è stata un’élite neo-feudale. Obiettivo: saccheggiare il pianeta, svuotando la democrazia anche in Europa. Tutto è perduto? No, se si crede ancora nella sovranità democratica. Lo sostiene Gioele Magaldi, esponente italiano di quella stessa supermassoneria internazionale che, nelle sue forme più regressive, ha privatizzato il globo. La sua tesi: se le superlogge reazionarie hanno messo all’angolo quelle progressiste, protagoniste del boom economico, è ora di impegnarsi a rovesciare il tavolo. Come? Anche sfornando una nuova classe dirigente. Per esempio, con un master come quello ora in partenza, decisamente unico in Italia.
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Magaldi: bravo Salvini, si fa processare sfidando gli ipocriti
Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di fermare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato vent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.In video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi chiarisce la sua posizione: per i politici (almeno, fin che sono in carica) è necessaria la tutela dell’immunità parlamentare assicurata nel modo più forte, anche per salvaguardare la piena dignità della funzione politica. Quanto a Salvini, ben venga il salto di qualità della sua condotta: fino a ieri, di fronte ad analoghe contestazioni (nave Diciotti), il capo della Lega era passato dall’ostentare tranquillità al quasi-implorare l’immunità, fino a essere “salvato” da Conte e Di Maio. Oggi, con il quadro parlamentare ribaltato e i 5 Stelle al governo col Pd, il no” agli sbarchi diventa materia giudiziaria: un pretesto per cercare di indebolire il nuovo leader dell’opposizione. Eloquente il parere di Zingaretti, secondo cui Salvini (che starebbe esasperando la vicenda) agirebbe «per motivi personali». Il che la dice lunga sulla perdurante ipocrisia di un Pd che, in fondo, è l’erede diretto di quella “casta di maggiordomi” che accettò senza condizioni il vincolo esterno dell’Ue, pur di sedersi al governo dopo il crollo (giudiziario) della Prima Repubblica. Un Pd senza idee né identità, che strizza l’occhio al neo-ambientalismo propagandistico di Greta e all’imbarazzante exploit delle Sardine, che pretendono di imbavagliare i ministri negando loro accesso a Twitter.Salvini tira dritto: vuole andare a processo per la Gregoretti (spiazzando anche la Meloni e Forza Italia) e intanto si protegge le spalle omaggiando Trump e Netanyahu: clamoroso l’applauso del leghista per l’uccisione americana del generale iraniano Qasem Soleimani, temuto da Israele. E a proposito: Salvini è tornato sul tema mediorientale, tifando per la promozione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, dopo aver equiparato l’antisemitismo alle critiche al sionismo. In un recente convegno alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Italia, l’ex vicepremier si è rammaricato dell’assenza di Liliana Segre: «Lei avrebbe tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha aggiunto, attaccando la “capitana” della Sea Watch che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Il fatto che una tragedia come la Shoah venga costretta a galleggiare nello stesso mare in cui nuotano i migranti descrive bene il tenore della speculazione politica corrente, mentre l’Italia perde i pezzi: vessato dalla Commissione Europea, il Belpaese non riesce a risolvere nessuna delle sue crisi industriali, e in più assiste impotente anche alla perdita della Libia, ormai “appaltata” al duopolio russo-turco senza che il fantasmatico Conte-bis riesca a battere un colpo per dimostrare di esistere.«Salvini sta studiando», disse Magaldi la scorsa estate, dopo la diserzione del Papeete e la fine del governo gialloverde, clamorosamente rimpiazzato da quello giallorosso. Per i detrattori (e i grandi media), si trattò di un autogoal: il capo della Lega sperava nelle elezioni anticipate, mai si sarebbe aspettato che i 5 Stelle si stringessero al Pd – e a Renzi – per giunta mantenendo Conte a Palazzo Chigi. Salvini fornisce una versione diversa: gli sarebbe stato impossibile giustificare ancora, presso l’elettorato leghista, un governo senza risultati. Non solo la problematica autonomia regionale per il Nord-Est, ma soprattutto il miraggio della Flat Tax, o comunque il sollievo fiscale promesso da Armando Siri. Ai gialloverdi, leghisti inclusi, Magaldi non ha mai fatto sconti: «Bravissimi ad abbaiare contro Bruxelles, e altrettanto bravi a prendere ceffoni, tornando a Roma con le pive nel sacco e senza neppure la magra consolazione del 2,4% di deficit». Erano i tempi in cui il campione sovranista Salvini flirtava con Marine Le Pen e l’ungherese Orban, insieme all’intero cartello di Visegrad ostile alle frontiere aperte. Poi è arrivata la bombetta-Moscopoli, con i silenzi imbarazzati sulla presenza di Savoini al Metropol, intercettato (da quale servizio segreto?) mentre discuteva di forniture energetiche, non si sa a che titolo, con oligarchi russi.Nella conversione atlantista di Salvini, peraltro anticipata già nella visita in Israele lo scorso anno, Magaldi vede il bicchiere mezzo pieno: «Salvini si sta schierando, dopo esser stato tacciato di essere inaffidabile in quanto filo-russo». Per la precisione, si sta allineando a Trump e Netanyahu. Magaldi apprezza: «Sono a favore della creazione di uno Stato palestinese e denuncio gli abusi della politica israeliana», premette, non senza aggiungere: «Israele resta pur sempre l’unica democrazia dell’area: se si vuole la pace, è più facile partire proprio dagli elementi israeliani progressisti, piuttosto che dai paesi – tutti autoritari – che circondano lo Stato ebraico». E cita il coraggioso tentativo di Yitzhak Rabin, «massone progressista» assassinato nel ‘95 da un colono ultra-sionista per aver tentato, davvero, di stringere una pace storica coi palestinesi. Nulla di simile è oggi all’orizzonte: era ancora vivo Arafat quando la scelta della pace fu pagata, dall’Olp, con la secessione di Gaza, finita sotto il controllo di Hamas, «una formazione fondamentalista sciita, vicina all’Iran, che nega tuttora a Israele il diritto di esistere». Mala tempora currunt: Medio Oriente nel caos, Libia contesa da potenze lontane dall’Ue, Europa inesistente, Italia paralizzata da una crisi che sembra senza vie d’uscita. E in mezzo a questo disastro, l’impresentabile Pd pretende di crocifiggere Salvini, per via giudiziaria, con il pretesto dell’opposizione agli sbarchi?A far salire la temperatura, ovviamente, sono le imminenti regionali in Emilia Romagna: una lunghissima campagna elettorale, punteggiata dai comizi casa per casa dell’onnipresente Salvini, cui si oppone – agitando addirittura l’antifascismo – l’ambigua ciurma delle Sardine prodiane. Per Magaldi, sono tappe della guerra tattica che, dietro le quinte, vede contrapposti due supermassoni occulti, «il “fratello” Romano Prodi e il “fratello” Mario Draghi, entrambi proiettati verso la conquista del Quirinale, dopo Mattarella». Quanto all’Emilia, si tratta di una Regione «ben governata dall’uscente Stefano Bonaccini». Se dovesse perdere, però, non sarebbe una tragedia: «E’ inconcepibile – dice Magaldi – la pretesa di mantenere al potere sempre la stessa parte politica, ininterrottamente, per mezzo secolo: non bisogna avere paura dell’alternanza, che è il sale della democrazia, e questo dovrebbe valere anche per la Lega». Nel frattempo, resta comunque inevasa la questione di fondo: «L’Italia – sintetizza Magaldi – ha bisogno di un cambio radicale nella governance dell’Ue, ottenendo il via libera a investimenti per 200 miliardi non computabili nel deficit. C’è un paese da ricostruire, facendolo uscire dall’incubo artificiale dell’austerity, progettata da un’élite reazionaria di cui sia Draghi che Prodi sono stati al servizio, con la differenza che oggi Draghi si dice pentito del suo operato, mentre Prodi se ne guarda bene».Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di neutralizzare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato trent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite, ai tempi in cui la Lega Nord, in Parlamento, agitava il cappio. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.
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Iran, la crisi ha un vincitore: la Germania, lontana dagli Usa
La crisi iraniana ha una conseguenza inattesa, almeno da quanti l’hanno creata. Ed è la nuova distanza che si sta palesando tra Germania e Stati Uniti. Non un accadimento improvviso, ma un processo iniziato da tempo, che fa più larghe le sponde dell’Atlantico. Ma prima occorre tornare all’omicidio di Qassem Soleimani, avvenuto in terra irachena, e precisamente all’aeroporto di Baghdad, che ha reso furibondi gli sciiti del paese. Non solo per l’uccisione del generale iraniano da loro venerato, ma anche per quella del vice comandante delle Forze di mobilitazione popolare, Abu Mahdi al-Muhandis. Un atto di guerra contro l’Iraq che si associa a quello perpetrato contro l’Iran per l’assassinio di Soleimani, perché le milizie sciite sono coordinate con l’esercito regolare iracheno, riconosciute quindi a livello statale, dato il loro contributo alla lotta contro l’Isis. Non solo, la strage è stata compiuta sul loro territorio, contro tutte le norme del diritto internazionale. Una duplice azione di guerra, dunque, che ha spinto il Parlamento iracheno a votare per l’espulsione delle forze americane dal paese, delibera diventata esecutiva con la nota del premier Adil Abd al-Mahdi, che ha invitato il Pentagono a definire un percorso per il loro ritiro.Sorprendente, e contro tutte le norme del diritto internazionale, la risposta degli Stati Uniti, che per bocca di Mike Pompeo hanno incredibilmente riaffermato la “partnership” strategica con l’Iraq. Altra dichiarazione di guerra, che rischia di provocarne una vera, peraltro nel paese che gli Usa hanno invaso nel 2003 con false motivazioni (vedi armi di distruzione di massa). Ecco che a questo punto si segnala la decisione della Germania, che per prima ha ritirato le sue truppe dall’Iraq, dando il “la” al ritiro-dispiegamento dei militari inviati dagli altri paesi europei. Decisione secca e irreversibile, a sorpresa. Alla quale segue l’annuncio che la Germania costruirà nuove navi da guerra per 6 miliardi di euro (”Reuters”), cosa che prospetta un paese più assertivo sulla scena internazionale. Nello stesso giorno, la notizia della creazione di un “networking d’élite” per “rafforzare i legami tra Germania e Cina” (”Reuters”), che suona come una ribellione aperta all’approccio aggressivo di Washington nei confronti di Pechino. Tutto questo segnala un distacco dagli Usa, che sta allontanando la Germania dalla tutela americana, che grava su di essa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Non è cosa di adesso, ma adesso è palese. Un distacco che nasce con Trump e il suo approccio aggressivo al mondo e alla globalizzazione. Il presidente Usa ha più volte ipotizzato e imposto sanzioni contro le industrie tedesche, in particolare quelle automobilistiche (identificate come una “minaccia alla sicurezza nazionale”), e la sua amministrazione ha minacciato sfracelli contro il Nord Stream 2, che porterà il gas russo direttamente in Germania. Una pressione insistente che però non ha spaventato i tedeschi, che nel recente incontro Merkel-Putin hanno ribadito la loro determinazione a portare a termine il contestato gasdotto. Peraltro, in questo incontro, si è delineato il summit di Berlino, che il 19 ospiterà un incontro sulla Libia, alla quale sembrano disposti a partecipare sia Serraj che Haftar, che si contendono il governo del paese, cosa che sottende un interesse anche mediterraneo della Germania. Il fatto che l’annuncio ufficiale di tale vertice sia stato dato subito dopo quello analogo di Mosca (fallito a metà: comunque Putin è riuscito a convocare i due irriducibili duellanti), indica che la collaborazione con la Russia va ben oltre il Nord Stream 2.Berlino va avanti, dunque, nonostante il contrasto americano. E forse la criticità iraniana, che ha rischiato la Terza Guerra Mondiale, spaventando tanti, ha contribuito ad accelerare tale processo. Nel mondo non più globalizzato – la globalizzazione sopravviverà, ma in altra forma – la Germania si sta attrezzando alla corsa in solitaria. Allentati, anche se non rotti, i vincoli che la costringevano nella ristretta sfera occidentale, si sta predisponendo a competere con gli altri Stati-nazione, America compresa, dispiegando una libertà d’azione nuova. Resta da capire come ciò inciderà sull’Unione Europea, ma è prematuro fare analisi prima dell’ormai prossima Brexit, che peraltro potrebbe rilanciare il vecchio e innato antagonismo tra l’insulare Britannia e il continente a trazione teutonica. In attesa degli sviluppi europei, va registrata come novità questa nuova proiezione tedesca, che da gigante economico e nano politico vuole acquisire un peso geopolitico mai rincorso finora. Nuovo e importante tassello verso la de-globalizzazione del mondo.(Davide Malacaria, “La crisi iraniana accelera la corsa in solitaria della Germania”, dall’inserto “Piccole Note” sul “Giornale” del 13 gennaio 2020).La crisi iraniana ha una conseguenza inattesa, almeno da quanti l’hanno creata. Ed è la nuova distanza che si sta palesando tra Germania e Stati Uniti. Non un accadimento improvviso, ma un processo iniziato da tempo, che fa più larghe le sponde dell’Atlantico. Ma prima occorre tornare all’omicidio di Qassem Soleimani, avvenuto in terra irachena, e precisamente all’aeroporto di Baghdad, che ha reso furibondi gli sciiti del paese. Non solo per l’uccisione del generale iraniano da loro venerato, ma anche per quella del vice comandante delle Forze di mobilitazione popolare, Abu Mahdi al-Muhandis. Un atto di guerra contro l’Iraq che si associa a quello perpetrato contro l’Iran per l’assassinio di Soleimani, perché le milizie sciite sono coordinate con l’esercito regolare iracheno, riconosciute quindi a livello statale, dato il loro contributo alla lotta contro l’Isis. Non solo, la strage è stata compiuta sul loro territorio, contro tutte le norme del diritto internazionale. Una duplice azione di guerra, dunque, che ha spinto il Parlamento iracheno a votare per l’espulsione delle forze americane dal paese, delibera diventata esecutiva con la nota del premier Adil Abd al-Mahdi, che ha invitato il Pentagono a definire un percorso per il loro ritiro.
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Biglino e l’Israele del Nord: la Bibbia ambientata nel Baltico?
Dove pensate che sia, il Sinai? Giusto: tra Egitto e Israele. E dove scorre, il Giordano? In Palestina, certo. E il Nilo? Che domande: nasce in Etiopia e attraversa il Sudan, prima di lambire la terra dei faraoni per poi sfociare nel Mediterraneo. E se un giorno si scopre che esiste un altro Nilo, le cui acque finiscono tra le onde nordiche del Mar Baltico insieme a quelle dell’altro Giordano, che scorre anch’esso in Finlandia non lontano dal Sinai finlandese, a due passi dai toponimi Sodoma e Gomorra, gemelli di quelli biblici? Fa letteralmente girare la testa, l’ultima fatica editoriale di Mauro Biglino: “Gli dei baltici della Bibbia”, scritto con Cinzia Mele, ribalta letteralmente la geografia storica alla quale siamo abituati. Pagine sconcertanti, che scoperchiano un insospettabile Israele del Nord, perfettamente speculare alla Terra Promessa di Abramo e Mosè. Chi ha dato quei nomi a fiumi, foreste, alture e cittadine scandinave? Mistero: a quanto pare, non esistono spiegazioni a portata di mano. E’ uno stranissimo Medio Oriente quello che vive tra i nomi di località sepolte a due passi dalla tundra lappone: Arabia e Canaan, Cipro, Egitto, Gaza, Gerico, Gerusalemme. E ancora, in ordine alfabetico: Giudea, Golan, Libano, Magog e Mar Rosso, addirittura Nazareth.Uno scherzo? Architettato da chi, e quando? Tra i fiordi e gli abeti compaiono Tiro, Troia, Sparta e il monte Taigeto: la Grecia degli dei, quella di Omero. E soprattutto le rive meridionali e orientali del Mediterraneo, le sabbie dei profeti. Vertigini: la Bibbia è una fotocopia segreta della Scandinavia o, al contrario, sulle rive del Baltico fu riprodotta la toponomastica dell’Antico Testamento? Un sospetto: data la debolezza delle conferme archeologiche nell’area mediorientale, non può essere che l’ambientazione egiziana e palestinese del racconto biblico – data per certa dalla tradizione – sia stata completamente inventata? Gli autori non hanno la risposta, ma solo un consiglio: forse, l’archeologia dovrebbe decidersi ad aprire vere ricerche nel Nord Europa, per scoprire cosa c’è dietro quell’affollatissimo presepe di nomi, attualmente inspiegabile. Domanda centrale: è stato il Nord a colonizzare il Sud, o viceversa? Di certo, colpisce in modo immediato la verità che Biglino e Mele documentano: i rapporti tra Mediterraneo e Baltico, nell’antichità, erano intensissimi, più di quanto si possa credere. Lo provano, tanto per cominciare, i relitti di navi egizie scoperti nelle isole britanniche, risalenti al secondo millennio avanti Cristo.Si tratta di navi che, evidentemente, avevano solcato l’Atlantico fino al Mare del Nord, per poi insediare nelle latitudini boreali una strana dinastia di regnanti, alti di statura, con gli occhi azzurri e i capelli rossi, esattamente come il Noè biblico e gli Elohim, i signori dell’Antico Testamento (di cui lo Yahwè poi divinizzato dai successivi monoteismi, secondo Biglino, altro non sarebbe che uno dei tanti esponenti). Finora lo studioso torinese, già traduttore ufficiale della Bibbia per le cattoliche Edizioni San Paolo, si era limitato, per così dire, alla demistificazione del testo antico, trasformato in testo “sacro” solo successivamente, dalle religioni ebraica e cristiana. Usando la ferrea logica del traduttore, Biglino ha rivelato per intero la nudità dei passi biblici, alla lettera: la storia del patto tra lo spietato dominatore Yahwè e la tribù degli israeliti, in guerra permanente contro tutte le altre tribù ebraiche, protette da Elohim rivali. Ma quella guerra infinita, a colpi di stragi, dove fu combattuta? Nella terra di mezzo tra Egitto, Giordania e Siria o, invece, nelle latitudini oggi freddissime della costa baltica settentrionale? Premessa: stiamo pur sempre parlando della Bibbia, un insieme di libri privi di fonti. Non si sa chi li abbia scritti, né in che lingua, attorno al V secolo avanti Cristo.Si sa invece che la Bibba fu riscritta da cima a fondo nel III secolo, in greco, dagli ebrei della colonia egiziana di Elefantina, ansiosi di farsi rispettare dal mondo ellenistico dopo che l’Impero Persiano li aveva liberati dalla umiliante “cattività babilonese” che aveva comportato, a quanto pare, la sparizione di Yahwè. Secondo i biblisti, la Bibbia dei Settanta nasce dal desiderio degli ebrei mediterranei di vantare un’ascendenza illustre, paragonabile a quella che per i greci si riverbera nell’Iliade e nella Teologia di Esiodo. Inventandoselo di sana pianta, proprio gli ebrei alessandrini (imbevuti di cultura ellenica, ormai dominante) introdussero il concetto di “spirito” manipolando il testo originario, mentre lo stesso Antico Testamento – poi adottato dal cristianesimo – fu continuamente rimaneggiato fino all’epoca medievale di Carlomagno. A noi è giunta una delle tante versioni prodotte, in aperta “concorrenza” tra loro, cioè il Codice di Leningrado: è la Bibbia riscritta con l’aggiunta delle vocali dai biblisti Masoreti della scuola di Tiberiade. Una narrazione “aggiornata” quindi in un’epoca molto tarda, dopo che la casta sacerdotale ebraica, oltre mille anni prima, aveva comunque cominciato a fornire di quei testi un’interpretazione metafisica, in linea con la filosofia platonica.La posizione di Biglino è nota: senza nemmeno entrare nell’immenso problema dell’esistenza di una divinità universale, e senza contestare le interpretazioni religiose, simbologiche e cabalistiche di quelle pagine, è bene sapere che, in ogni caso, la lettura in ebraico dell’Antico Testamento – anche nella sua versione attuale, largamente ritoccata – non presenta nessun indizio dei principali concetti metafisici (dunque greci, non ebraici) introdotti più tardi nella nostra cultura. Nel testo ebraico, conferma Biglino, sono completamente assenti le nozioni di divinità, spiritualità, onnipotenza e onniscienza, eternità e immortalità. Quell’aggregato di narrazioni si rivela semmai un ruvido libro di guerra, essenzialmente, nel quale l’El dei giudei – non di tutti gli ebrei: solo dei discendenti di Giacobbe – viene celebrato come valoroso condottiero, feroce coi nemici e temibile anche per i suoi, che infatti non esita a uccidere al minimo segno di disobbedienza, senza alcuna pietà nemmeno per donne e bambini. E fin qui, tutto bene – si fa per dire, perché Biglino, pubblicato anche da Mondadori oltre che da UnoEditori, resta un autore controverso, amatissimo e al tempo stesso detestato da schiere di detrattori. Tradotto all’estero in vari paesi, solo in Italia ha venduto oltre 300.000 copie, dando alle stampe una quindicina di volumi.Generosamente disponibile, per dieci anni ha girato la penisola, isole comprese, animando straordinarie conferenze, le cui visualizzazioni su YouTube sono ormai milioni. Per inciso: nessuno si è permesso di stroncare le sue traduzioni. Lui stesso precisa: «La lettura letterale della Bibbia non è certo l’unica possibile; solo, vorrei che non fosse l’unica sconosciuta, scoraggiata e “proibita”». La tesi: «Se facciamo finta che la Bibbia dica il vero, storicamente, ne vien fuori ben altra storia: nessun “dio”, ma solo un condottiero dispotico, un guerriero piuttosto anomalo». Tecnicamente: un El, appartenente alla categoria degli Elohim, «parola di cui, peraltro, nessuno al mondo conosce l’esatto significato». Un potente personaggio non umano, tecnicamente “alieno” (diverso e distinto da noi), in possesso di tecnologie avanzate. Forse extraterrestre, come gli Anunnaki sumeri e gli altri Figli delle Stelle di cui parlano le tradizioni di tutti i popoli della Terra? Chissà. Ma poi: la Bibbia la dice realmente, la verità? «Anche qui: non possiamo saperlo». E tutto si complica – di moltissimo – se poi si scopre che la toponomastica biblica è riprodotta, in modo prodigioso, nelle regioni baltiche.Che effetto fa, pensare a Venezia come a una capitale fenicia? Dove scomparvero, esattamente, i grandi marinai libanesi che sfidarono Roma dall’avamposto di Cartagine? Perché i linguisti (e non solo loro) accostano i Veneti ai Finni, da cui poi la Finaldia? Se Baal era il loro “dio”, perché non individuare quella stessa radice fonetica nella parola Baltico? Fenici nel Nord, insieme ad egizi e antichi greci? Suggestioni, tra mille ridondanze analogiche: se lo Jutland danese potrebbe essere tradotto come Giudea (Territorio di Giuda), la stessa Danimarca potrebbe essere letta come Terra di Dan, l’unica tribù ebraica in confidenza con l’arte marinara? E dunque: egizi o forse greci, se non addirittura ebrei, in un unico contesto nordico? O forse: ebrei che in realtà sarebbero sovrapponibili ad egizi, fenici e greci? I Daniti potrebbero esser diventati i Danai, gli “achei” di cui parla l’Iliade. Se Felice Vinci crede di poter scorgere “Omero nel Baltico”, come recita il titolo del suo interessante volume uscito nel 2008, Mauro Biglino e Cinzia Mele sembrano andare oltre: attorno al Mar Rosso del Nord (cioè il Golfo di Botnia, che separa la Finlandia dalla Svezia) rintracciano, lungo le antiche rotte marittime dell’ambra, anche i legami col Medio Oriente biblico e persino indizi che potrebbero essere all’origine della stessa fondazione di Roma.L’archeologia recente sembra incoraggiare ipotesi spiazzanti. La tradizione delle isole britanniche celebra l’antico sbarco di Scota: la sorella di Tutankhamon avrebbe dato il proprio nome alla Scozia, estendendo poi il suo dominio su Inghilterra e Irlanda. E a interrogare la storiografia, oltre agli inequivocabili relitti navali, sono comparsi gioielli che, secondo gli esperti, sono identici a quelli rinvenuti nella tomba del celebre faraone. E’ un caso che la radice Dan ricorra nel nome dei Thuata de Danaan, protagonisti della mitologia irlandese? Non è tutto: gli strani regnanti dai capelli rossi, venuti dal Sud, avrebbero fronteggiato per lungo tempo un’altra dinastia di dominatori, insediatisi lungo le coste della Norvegia: il loro nome, Fomoire, può sembrare consonante con quello dei signori delle piramidi, i faraonici antenati di Tunankhamon. Va da sé: “Gli dei Baltici della Bibbia” è una lettura avvolgente e sbalorditiva, specie quando si inoltra nel clamoroso parallelo toponomastico (e tuttora misterioso) tra l’Antico Testamento e la Finlandia occidentale. Attorno allo stupefacente Sinai boreale si dipana, con precisione imbarazzante, l’esatta geografia dell’Esodo, riprodotta nella terra dei lapponi. Non manca niente: dalla foresta affiora persino la Pentapoli dei filistei, a volte appena “finlandizzata” nei nomi delle città.Re Salomone e le sue famose miniere, i Giganti come Golia, i mitici Iperborei. Nella ricostruzione di Biglino e Mele, tutto si collega: ebrei e fenici cananei, antichi greci ed egizi, in una geografia dove il Nilo nordico – esattamente come uno dei rami di quello africano – nasce dal Lago Tana (solo che quello finlandese non è circondato dall’Acrocoro Etiopico, ma dalla foresta degli abeti e delle renne). Domande, ancora e sempre: da dove vengono, quei nomi? E com’è possibile che persino le distanze tra un sito e l’altro, insieme alla loro disposizione geografica, riproducano alla perfezione la configurazione della latitudine quasi tropicale di vicende che la storia ci ha abituati a considerare solo mediterranee o africane? «Per quanto suggestiva – precisano gli autori – la semplice osservazione della geografia finlandese non può colmare le lacune storico-geografiche che scaturiscono dal testo biblico». Questo scenario, però, «apre alla possibilità di formulare ipotesi e domande fino a oggi improponibili, auspicando che futuri studi e ricerche possano fare luce su quanto sin qui emerso». Il grande problema, a monte? Gli scavi israeliani tendono a non confermare l’ambientazione mediorientale delle vicende veterotestamentarie.Ribadiscono gli autori: riguardo al Medio Oriente, a lungo sondato dagli studiosi, «i riscontri storici e geografici, tecnologici e archeologici minimizzano la possibilità che il testo biblico (e il Libro dell’Esodo in particolare) possa essere considerato attendibile, dal punto di vista storico, e toponomasticamente riconducibile alla penisola sinaitica». E appena più a ovest, dalle parti dell’antico Egitto, la visione ufficiale sembra ignorare certi tasselli “impossibili” da inserire nel modello storico attuale, benché siano scaturiti da studi accademici: «Ci riferiamo agli studi genetici degli ultimi anni, che indicano la classe dominante egiziana di alta corporatura e dai capelli rossi». Ovvero: i faraoni erano originari dell’Africa o, invece, del nord Europa? Le ultime ricerche tendono a confermare che proprio i “faraoni dai capelli rossi” possano esser stati gli strani padroni delle isole britanniche, e poi magari dell’intera area baltica, a partire dal 1350 avanti Cristo. Da quei presunti faraoni nordici si allontanò l’ipotetico Mosè, tra i canneti sulle rive del “rosso” Golfo di Botnia? Nessuno può dirlo con certezza. Biglino e Mele, intanto, aprono l’orizzonte in modo inatteso: per la prima volta offrono «chiavi di lettura sorprendenti e affascinanti, da cui potrebbero scaturire nuove visioni storiche in armonia con la geografia baltica».(Il libro: Mauro Biglino e Cinzia Mele, “Gli dei baltici della Bibbia. L’Israele che non ti aspetti”, UnoEditori, 299 pagine, euro 16,90. Il volume è corredato da mappe, illustrazioni e da un prezioso glossario che propone, in parallelo, i toponimi biblici e quelli baltici. Cinzia Mele, co-autrice, è un funzionario della polizia italiana; alla sua prima pubblicazione, è una attenta ricercatrice in campo storico-documentale, con particolare preparazione sui racconti mitologici, spesso fonte di preziosi indizi sulla possibile storia dell’uomo).Dove pensate che sia, il Sinai? Giusto: tra Egitto e Israele. E dove scorre, il Giordano? In Palestina, certo. E il Nilo? Che domande: nasce in Etiopia e attraversa il Sudan, prima di lambire la terra dei faraoni per poi sfociare nel Mediterraneo. E se un giorno si scopre che esiste un altro Nilo, le cui acque finiscono tra le onde nordiche del Mar Baltico insieme a quelle dell’altro Giordano, che scorre anch’esso in Finlandia non lontano dal Sinai finlandese, a due passi dai toponimi Sodoma e Gomorra, gemelli di quelli biblici? Fa letteralmente girare la testa, l’ultima fatica editoriale di Mauro Biglino: “Gli dei baltici della Bibbia”, scritto con Cinzia Mele, ribalta letteralmente la geografia storica alla quale siamo abituati. Pagine sconcertanti, che scoperchiano un insospettabile Israele del Nord, perfettamente speculare alla Terra Promessa di Abramo e Mosè. Chi ha dato quei nomi a fiumi, foreste, alture e cittadine scandinave? Mistero: a quanto pare, non esistono spiegazioni a portata di mano. E’ uno stranissimo Medio Oriente quello che vive tra i nomi di località sepolte a due passi dalla tundra lappone: Arabia e Canaan, Cipro, Egitto, Gaza, Gerico, Gerusalemme. E ancora, in ordine alfabetico: Giudea, Golan, Libano, Magog e Mar Rosso, addirittura Nazareth.
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Il coraggio civile di Pansa e l’omertà mafiosa che lo silenziò
Appena è morto, è cominciata la pansectomia; hanno fatto a pezzi Giampaolo Pansa, salvando il giornalista buono dallo storico cattivo. Ovvero il giornalista di sinistra dallo storico revisionista, che scopre gli orrori compiuti dalla Resistenza nel nome dell’antifascismo. Ma Pansa è stato l’uno e l’altro, e non si può cancellare l’uno per salvare l’altro, e questa la sua originalità e la sua forza. Pansa portò a fondo quel che Giorgio Bocca non ebbe il coraggio di fare. Anche lui, prima di lui, benché partigiano dei monti, ebbe un periodo revisionista nei primi anni Ottanta, scrisse di Mussolini socialfascista, rivide alcuni suoi giudizi d’epoca, dialogò con gente di destra, persino con Giorgio Almirante. Ma presto tornò all’ovile della Repubblica antifascista, anche per farsi perdonare la sua gioventù da fascista sfegatato. Dove finì Bocca, incominciò Pansa. Che il fascismo lo aveva conosciuto solo da bambino, ma scrisse una serie di formidabili opere, una vera e propria saga sul sangue dei vinti. Ed ebbe uno straordinario successo di pubblico che registrò un odio militante alla base e un’ostilità mafiosa nei giornali in cui lui stesso aveva scritto, con un ruolo primario.Il fatto che molte delle sue scoperte le avesse già fatte e scritte Giorgio Pisanò, e la pubblicistica neofascista, non sminuisce il coraggio di farle sue e l’amore aspro per la verità storica che lo contraddistinse. Con Giampaolo mai parlammo di un capitolo mancante al suo libro “La Grande Bugia”, o al suo libro sui “Gendarmi della memoria”, dedicati alle falsificazioni e omertà del conformismo sinistrorso nei suoi confronti. Riguardava la trasformazione del suo testo in racconto televisivo, in una fiction per la Rai. Pansa nel suo libro se la prendeva con Sandro Curzi, consigliere di Rifondazione comunista in Rai, che perlomeno alla luce del sole, senza peli sulla testa e sulla lingua, bocciò lo sceneggiato, invocandone altri politicamente corretti, come novene per estinguere il peccato di averlo solo pensato. Ma la storia è più ampia e merita di essere raccontata come un’appendice, o un’appendicite, del viaggio di Pansa nella viltà carognesca e ideologica del nostro paese. Ne parlo con cognizione di causa, avendo io proposto, quando ero nel Consiglio della Rai, di tradurre il “Sangue dei vinti” in sceneggiato Tv.L’emorragia postuma del “Sangue dei vinti” in versione televisiva avvenne in tre tappe. La prima. Per far passare uno sceneggiato sugli eccidi partigiani a guerra finita, furono portate al vaglio del consiglio della Rai, altre tre fiction che riguardavano i nazisti, anzi i nazifascisti, la persecuzione degli ebrei, le fosse ardeatine. Per ogni fiction considerata “revisionista” i medici della sinistra militante prescrivevano come protezione antibiotica tre ortodosse. E non fa niente se ripetevano cose già fatte, bisogna fare il lavaggio del cervello. Era già accaduto quando riuscimmo a varare la fiction sulle foibe che fu pesantemente controbilanciata e neutralizzata in parole, soggetti e testi. Ma andò ugualmente bene. Ma il terrore di quel successo aveva evidentemente allertato le caserme dei militanti. Il libro di Pansa era già esploso in libreria; se fosse esploso nelle case con la Tv, sarebbe stata una catastrofe. Bisognava correre ai ripari. Il secondo atto fu lo svuotamento e la deviazione dal libro di Pansa.Per cominciare furono proposti come sceneggiatori, consulenti e attori gente con rigoroso pedigree di sinistra e antifascista, magari militante. Come consulente storico del film non fu chiamato, come sarebbe stato normale, l’autore del libro ma uno dei suoi più acerrimi stroncatori e nemici, Claudio Pavone. Che di fronte agli eccidi a guerra finita e a fascismo sepolto come quelli descritti da Pansa, distinse tra violenza “per fini giusti” e “per necessità” e violenza fascista. Arrivando a dire, lui che non nascose mai la sua militanza e la sua partigianeria anche in tempo di pace, che il revisionismo storico è un fatto più politico che storiografico. Ma revisionisti sono stati definiti De Felice e i suoi allievi, i filosofi Del Noce e Nolte, gli storici Fest e Furet e molti rispettabili studiosi, assolutamente apolitici. Insomma il risultato fu una trama irriconoscibile, dove i massacri sparivano, il cattivo era comunque un ex fascista, i buoni erano naturalmente dalla parte opposta, e il male restavano comunque i nazisti. In Consiglio non proposi nessuna epurazione ma chiesi perlomeno una revisione del testo più fedele al libro da cui scaturiva la fiction e un riequilibrio dei consulenti con storici di estrazione defeliciana (come Giuseppe Parlato) e soprattutto con l’autore, Giampaolo Pansa che da me contattato, accolse l’invito. La cosa fu approvata. E poi? Silenzio.Terzo atto, il “Sangue dei vinti” scomparve dal palinsesto. Non se ne fece più nulla, mi pare. Il Consiglio andò via, ne arrivò un altro, l’oblio prevalse, misto a odio, anche se gli altri sceneggiati in programma, compresi quelli riparatori per bilanciare il “Sangue dei vinti”, poi si sono visti, eccome. Non andò più in onda il sangue dei vinti, ma lo sputo sui vinti. Ennesimo. Ecco come fu cancellato il sangue dei vinti, in tre atti gloriosi. Pansa perlomeno ha il privilegio di essere discusso e confutato, perché di sinistra, antifascista e coinquilino sui giornali dei medesimi accusatori. E non fu accusato di vittimismo e mania persecutoria. Agli altri si addice l’oblio e il disprezzo. E poi vi chiedete: ma perché non ci sono autori e storici di altra estrazione? Ma se vi mangiate vivi i vostri stessi amici, colleghi e compagni revisionisti, figuratevi gli altri. Oltre i gendarmi della memoria, c’erano pure gli agenti in borghese dell’oblio. Nella nostra epoca anemica, il sangue dei vinti non scorre più, ma il livore dei cretini scorre, eccome, nei titoli di testa e i veleni di coda.(Marcello Veneziani, “Giampaolo il buono, Pansa il cattivo”, da “La Verità” del 13 gennaio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Appena è morto, è cominciata la pansectomia; hanno fatto a pezzi Giampaolo Pansa, salvando il giornalista buono dallo storico cattivo. Ovvero il giornalista di sinistra dallo storico revisionista, che scopre gli orrori compiuti dalla Resistenza nel nome dell’antifascismo. Ma Pansa è stato l’uno e l’altro, e non si può cancellare l’uno per salvare l’altro, e questa la sua originalità e la sua forza. Pansa portò a fondo quel che Giorgio Bocca non ebbe il coraggio di fare. Anche lui, prima di lui, benché partigiano dei monti, ebbe un periodo revisionista nei primi anni Ottanta, scrisse di Mussolini socialfascista, rivide alcuni suoi giudizi d’epoca, dialogò con gente di destra, persino con Giorgio Almirante. Ma presto tornò all’ovile della Repubblica antifascista, anche per farsi perdonare la sua gioventù da fascista sfegatato. Dove finì Bocca, incominciò Pansa. Che il fascismo lo aveva conosciuto solo da bambino, ma scrisse una serie di formidabili opere, una vera e propria saga sul sangue dei vinti. Ed ebbe uno straordinario successo di pubblico che registrò un odio militante alla base e un’ostilità mafiosa nei giornali in cui lui stesso aveva scritto, con un ruolo primario.
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Billi: Travaglio ha “normalizzato” i 5 Stelle, ora globalisti
Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.Qualche illuso continua ad aggrapparsi all’idea del “torniamo al M5S delle origini”: ebbene, questo è impossibile. Il M5S delle origini rappresentava una sintesi di posizioni possibile in tempo di pace, a globalismo imperante. Questo momento storico, piaccia o no, impone invece di schierarsi: pro, o contro. Succede ovunque, in tutti i paesi, in tutti i continenti, e il M5S non può pretendere di starsene fuori dalla storia per rimanere aggrappato a un purismo ultras partes che avrà sì rappresentato in passato un successo politico, ma che ormai non è più quello che gli stessi elettori chiedono. Per questo perde voti (#stacce, direbbero su Twitter). Il dibattito interno del M5S è completamente fuori sintonia: dito e luna, in due parole. Questo è ciò che succede quando ci si fa orientare la discussione dai giornali, d’altronde. Il “Fatto”, in primis, sta schiacciando l’acceleratore: mi spiace per Luca De Carolis, persona perbene e giornalista serio (uno dei pochi), ma il suo “scoop” su Di Maio contribuirà a dare il colpo di grazia al M5S e normalizzarlo nella direzione voluta dal potere, ovvero l’allineamento al paradigma dominante.Ma soprattutto, lo scopo di tutta l’operazione in corso da mesi è scongiurare il coagularsi di una formazione antiglobalista in Italia: quindi distruzione dell’anima M5S statalista, pro-lavoratori, contro l’arroganza Ue, della finanza, delle banche, le ingerenze e i ricatti delle potenze straniere, via insomma quell’anima ribelle che non avrebbe potuto fare altro che appunto ribellarsi alla prepotenza di un potere che, messo in discussione ovunque, vuole ora imporsi in modo più aggressivo che mai. Tutto il panorama politico italiano va normalizzato, e la scheggia imprevedibile messa sotto controllo (così come è ancora sotto controllo la Lega, tante volte qualcuno si illuda). Non si possono correre rischi di Gilet Gialli nelle strade o peggio, che spunti qualche leader alla Johnson in Parlamento… non che se ne intravedano all’orizzonte del M5S, ma non si sa mai. Di Maio, seppur moderatissimo (ahimé, e questo è il suo errore) dovrà essere asportato in quanto rappresentante del vecchio M5S incontrollabile, e sostituito con qualche figura dal carisma zingarettiano che assicuri la transizione verso la soporifera reincarnazione piddina. Conte il liquidatore farà il resto, come sta peraltro già attivamente facendo.(Debora Billi, “La normalizzazione globalista del M5S”, dalla pagina Facebook della Billi dell’11 gennaio 2020).Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.
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Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia
Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.«Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.«Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.
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Giampaolo Pansa, l’ultimo gigante del giornalismo italiano
Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.E’ difficile immaginare il giornalismo italiano senza Giampaolo Pansa, scrive “Repubblica”: è stato protagonista di oltre mezzo secolo di carta stampata. Scomparso a Roma il 12 gennaio all’età di 84 anni, era nato nel 1935 a Casale Monferrato e aveva esordito a 26 anni alla “Stampa”, frequentando poi le redazioni delle testate più autorevoli, «lasciando ovunque una traccia della sua forte personalità: impetuosa, travolgente, anche generosa». La sua firma è legata ai capitoli più importanti della storia italiana, a cominciare dal disastro del Vajont. Sul “Giorno” di Italo Pietra si dedicò a fotografare le trasformazioni dell’Italia del boom, con le contraddizioni del passaggio all’età industriale. Tornato alla “Stampa”, nel 1969 fu incaricato da Alberto Ronchey di scrivere della strage di piazza Fontana. Pochi anni più tardi, al “Corriere”, firmò con Gaetano Scardocchia l’inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockeed. Nel 1977 l’approdo a “Repubblica” e l’inizio del suo lungo sodalizio con Eugenio Scalfari, ferocemente anticraxiano. Pietra miliare nell’attività saggistica di Pansa, il bestseller “Carte false” con cui, nel 1986, inquadrò profeticamente i maggiori vizi del giornalismo italiano “dimezzato”, al servizio del potere politico ed economico.In anni più recenti, la sua attività di storico lo ha posto al centro di furiose polemiche con volumi come “Il sangue dei vinti”, che smaschera i retroscena meno eroici della Resistenza: «Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti». Dopo tante pagine scritte «sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai “repubblichini”», disse Pansa a “Repubblica”, «mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia, ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale». Alla passione storiografica, Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza. Sul fascismo, Pansa non ha mai cambiato idea: ha definito la Resistenza partigiana la sua «patria morale». Lo ha ricordato ad Aldo Cazzullo, che l’ha intervistato per il “Corriere” nel 2018. La Resistenza come patria morale? «Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca». L’accusa: «La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa, e va riscritta da cima a fondo». Ancora: «Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è».Le guerre civili furono due, ricordava Pansa: «Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro». In pratica: «Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di Liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano, e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno». L’ottantenne Pansa probabilmente non scorse appieno – neppure voltandosi indietro – la grande manipolazione attorno a Mani Pulite che gambizzò l’Italia spazzando via l’intera classe politica italiana proprio alla vigilia della infelice stagione neo-europea, fatale per il nostro paese. Tendeva a liquidare sotto il peso delle loro colpe i campioni della Prima Repubblica, formidabilmente raccontati soprattutto nei loro difetti, fino a farne caricature magistrali (divertenti, e divertite). La penna acuminata di Pansa, tuttavia, restava lontana mille miglia dallo squadrismo post-giornalistico di oggi, che evita di farsi domande e si limita a colpire gli obiettivi indicati, di volta in volta, dai padroni del mainstream.Formatosi nella sinistra culturale italiana, era giunto a fustigare in modo impietoso sia la sinistra “baronale” dell’ex Pci, sbiadita nell’ossequio al neoliberismo, sia il populismo grillo-leghista, di cui Pansa temeva la possibile deriva fascistoide e xenofoba. Dell’antica classe politica che aveva contribuito a “picconare”, probabilmente Pansa rimpiangeva lo stile. E dopo aver fatto infuriare l’Anpi e la propaganda resistenziale egemonizzata dai post-comunisti, Pansa ricordava con immenso rispetto – anche di recente, sul “Corriere” – la sua storica intervista con il capo del Pci. «Durante tutte le tre ore del nostro colloquio, Berlinguer era rimasto teso come una corda di violino», scriveva, il 2 novembre 2019. «Prima di iniziare invece mi aveva accolto come un parente che incontra un lontano cugino. Mi aveva chiesto di mio padre, di mia madre, dei loro sacrifici per farmi studiare e, infine, della mia laurea all’università di Torino con una tesi dedicata alla guerra partigiana tra Genova e il Po. Mi aveva ascoltato con un’affettuosa attenzione». Alla fine, Berlinguer gli disse: «L’Italia ha bisogno di giovani come lei. Non perda entusiasmo per la cultura, continui a studiare e alla fine avrà reso un servizio al suo paese, la nostra povera Italia».Giampaolo Pansa, ovvero: quando il giornalismo in Italia esisteva ancora, sfidava il potere, cercava risposte e incideva sulla cultura del paese. Pesava persino sulla storia politica, registrandone l’attività sismica profonda: come quando il venerato capo dei comunisti italiani, Enrico Berlinguer, scelse proprio lui, Pansa, per annunciare al mondo (cioè agli Usa e all’Urss) che si sarebbe sentito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che all’ombra dei carri armati del Patto di Varsavia che avevano invaso l’Ungheria e soffocato la Primavera di Praga. Memorabile, l’intervista concessa al “Corriere della Sera” l’11 giugno 1976: «Di là, all’Est, forse vorrebbero che noi costruissimo il socialismo come piace a loro», gli disse Berlinguer, aggiungendo: «Ma di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero neppure lasciarci cominciare a farlo, anche nella libertà». Pansa l’avrebbe ribattezzato Re Enrico, chiamando Elefante Rosso il suo partito, contrapposto all’eterna Balena Bianca andreottiana. Un “bestiario” memorabile, il suo, ogni settimana aggiornato su “L’Espresso”. «Sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico – ricorda Simonetta Fiori, su “Repubblica” – con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito». In occasione di quello craxiano del ‘91 a Bari, Pansa ribattezzò il veemente e debordante Giuliano Ferrara “Cicciopotamo, il socialista islamico”.
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Gilad Atzmon: Soros e il totalitarismo dell’Ebreo Universale
Mentre la lobby ebraica e le sue squadre di psico-poliziotti sono indaffarate ad inquadrare e distruggere chiunque osi menzionare l’etnia di Soros, Avraham Burg, eminente politico israeliano, presidente dell’Agenzia Ebraica e già presidente ad interim di Israele, plaude a George Soros come alla perfetta icona di “ebreo-universale”. In un suo recente articolo su “Haaretz” intitolato “Preparatevi per il decennio ‘ebraico-universale’ di George Soros e della Open Society”, il politico israeliano afferma che solo «alcune persone hanno il coraggio di resistere ai nuovi tiranni del decennio al comando delle democrazie illiberali». Apparentemente «una di queste persone di coraggio è Soros». Secondo Burg, Soros «rappresenta un punto fermo ‘ebraico-universale,’ un simbolo ebraico alternativo a quello semplicistico abbracciato da Netanyahu, Trump e dai loro sostenitori». Secondo il concetto del cosiddetto “ebraismo-universale,” il 52% degli inglesi che vogliono separarsi dall’Ue sono da considerarsi una «rumorosa minoranza suicida». Sembra che il cosiddetto “ebreo-universale” non sia molto tollerante nei confronti delle persone che votano per i conservatori, Trump o Netanyahu.Questo “ebreo-universale” sembrerebbe essere anche piuttosto ostile nei confronti di coloro che apprezzano i punti di vista dei conservatori o che sono così sfortunati da avere la pelle bianca. E, come abbiamo scoperto, l’”ebreo-universale” non è molto tollerante neanche nei confronti della letteratura e della libertà di parola. Abbiamo visto gli enti finanziati da Soros lavorare instancabilmente per bruciare libri, eliminare testi e persino rimuovere reperti storici ritenuti importanti dalle persone con cui [Soros] è in disaccordo. Il concetto di Burg di ebreo-universale non ha alcuna relazione con la nozione greca di “universale ” o di “universalismo”. Anche se Burg non approva il volto barbaro di Israele e del sionismo, in qualche modo considera Soros come l’incarnazione dell’impegno ebraico al Tikun Olam, cioè al perfezionamento del mondo. «Mentre così tanti ebrei stanno facendo del loro meglio per diventare criminali ultra-nazionalisti e violenti, duri e insensibili, Soros rappresenta, forse inconsapevolmente, l’altro volto della civiltà ebraica, quello nascosto e incantato, il cui obbligo principale è l’impegno di riparare le ingiustizie del mondo, non solo per gli ebrei ma per tutti». Tendo a pensare che il mondo sarebbe un posto molto più bello e più sicuro se gli ebrei decidessero di essere leggermente meno appassionati nel salvare gli altri e si concentrassero invece nel mettere a posto il loro Stato Ebraico.Nel suo commento su “Haaretz”, Burg fa riferimento al mentore di Soros, Karl Popper, autore di “The Open Society and its Enemies” [L’Open Society e i suoi nemici]. Secondo Popper, nessuna persona o organizzazione ha il monopolio della verità, quindi, maggiore è il numero di opinioni diverse tra le persone che vivono in pace e tolleranza l’una con l’altra, maggiori sono i benefici che ne derivano per tutti. Sfortunatamente, Soros e la sua Open Society non seguono il mantra filosofico di Popper. L’”universalismo-ebraico” di Soros è un costrutto divisivo. Frantuma la società in una varietà di segmenti identitari che sono definiti dalla biologia (razza, genere, preferenza sessuale). Nel regno dell’”ebreo-universale”, le persone non vengono identificate come semplici esseri umani che cercano di vivere la loro comune esperienza umana. Al contrario, ogni identità impara a parlare nel dialetto di “come un” (“come una donna …,” “come un ebreo …,” “come un nero …,” “come un gay”, ecc.). Nel mondo dell’”ebreo-universale” le persone cercano caratteri identificativi che li differenziano dal resto dell’umanità. L’esclusività e la differenza vengono tenute nella massima considerazione, anche se contraddicono la ricerca del valore ultimo della fratellanza umana.La “giurisdizione” ebraica-universale riduce l’universo ad una semplice versione ampliata delle “tribù di Israele“: tribù di identitari impegnate in guerre settarie, razziali e di genere. La falsa “diversità” e la fasulla “tolleranza” offerte dall’”ebreo-universale” sono, in effetti, autoritarie e intolleranti nei confronti delle masse. Il cosiddetto “ebreo-universale” è un concetto eccezionalista, progettato per “estraniare” quelli con cui non si va d’accordo. Inavvertitamente, Burg ci ha rivelato che la «guerra tra aperto e chiuso, tra gli isolazionisti e i fautori dell’inclusione» è, in realtà, una battaglia interna ebraica tra i Netanyahu del mondo (Trump, Giuliani, Orban) e gli ebrei-universalisti che chiama “ebrei Soros”: quelli che, secondo Burg, «combattono senza paura affinché il nuovo decennio sia il nostro». Nostro?Immagino che un Gentile possa chiedersi, chi è il “nostro” e “sono compreso anch’io?”. Coloro che hanno votato Trump, Johnson, la Brexit, Orban o Bibi sono anch’essi inclusi nell’”utopia ebraica-universale”? Certamente no! Sono il paniere dei deplorevoli, come li definiva l’”ebrea-universalista” Clinton, appena prima che i suoi sogni presidenziali svanissero nel nulla. Quelli che si fanno infinocchiare da Soros e dal concetto di “ebreo-universale” non dovrebbero essere sorpresi dal successo travolgente della politica della destra. Nei sogni dell’”ebreo-universale” il mondo è spezzato in un amalgama di identità cosmopolite destinate a combattersi tra loro, invece di lottare contro Wall Street e la City. Nella realtà dell’”ebreo-universale“, la sinistra è tenuta in piedi da un “filantropo” capitalista. Se la sinistra intende sostenere i valori dei lavoratori e delle classi lavoratrici, dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di sostenere i valori e le esigenze dei lavoratori, piuttosto che accettare il denaro sporco di un magnate capitalista. Se la sinistra vuole essere rilevante, è meglio che capisca come ripristinare l’universale e l’universalismo. Chiudo questo breve articolo rilevando che non vi è alcuna indicazione che la sinistra voglia ripristinare il suo ruolo politico o sociale. Essere pagata da una istituzione della società ebraica-universale sembra essere il suo modo preferito di agire.(Gilad Atzmon, “Burg, Soros e l’Ebreo-Universale”, dal blog di Atzmon del 1° gennaio 2020; post tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”. Ebreo, Atzmon è uno scrittore e brillante musicista jazz formatosi a Gerusalemme, che vive e lavora a Londra. E’ noto come militante anti-sionista. Nel 2006 ha rilasciato la seguente dichiarazione ad “Al Jazeera”: «Non si può fare un confronto tra Israele e il nazismo: dobbiamo ammettere che Israele è il male assoluto, più della Germania nazista»).Mentre la lobby ebraica e le sue squadre di psico-poliziotti sono indaffarate ad inquadrare e distruggere chiunque osi menzionare l’etnia di Soros, Avraham Burg, eminente politico israeliano, presidente dell’Agenzia Ebraica e già presidente ad interim di Israele, plaude a George Soros come alla perfetta icona di “ebreo-universale”. In un suo recente articolo su “Haaretz” intitolato “Preparatevi per il decennio ‘ebraico-universale’ di George Soros e della Open Society”, il politico israeliano afferma che solo «alcune persone hanno il coraggio di resistere ai nuovi tiranni del decennio al comando delle democrazie illiberali». Apparentemente «una di queste persone di coraggio è Soros». Secondo Burg, Soros «rappresenta un punto fermo ‘ebraico-universale,’ un simbolo ebraico alternativo a quello semplicistico abbracciato da Netanyahu, Trump e dai loro sostenitori». Secondo il concetto del cosiddetto “ebraismo-universale,” il 52% degli inglesi che vogliono separarsi dall’Ue sono da considerarsi una «rumorosa minoranza suicida». Sembra che il cosiddetto “ebreo-universale” non sia molto tollerante nei confronti delle persone che votano per i conservatori, Trump o Netanyahu.
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Ecco chi costrinse Craxi a morire senza poter essere curato
Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo paese.Si ragiona, ad Hammamet, a Roma e a Milano, attorno a tre strumenti: grazia, amnistia, salvacondotto umanitario. Per un’amnistia generalizzata non ci sono le condizioni politiche, la famiglia stessa se ne rende conto: Tangentopoli è ancora lì e le reazioni dell’opinione pubblica sarebbero molto ostili, controproducenti per tutti: per l’etica collettiva e alla fin fine per lo stesso Craxi. Restano il salvacondotto e la grazia. Stefania Craxi chiede a Giuliano Ferrara di sondare il presidente del Consiglio Massimo D’Alema. La reazione non si fa attendere: ad appena 72 ore dalla sentenza Andreotti, Palazzo Chigi fa diffondere una nota che informa come il governo non abbia «certamente nulla in contrario» a un «atto umanitario» che consenta a Bettino Craxi di tornare in Italia per curarsi. Si aggiunge che non spetta al governo «decidere in materia di sospensione o differimento della pena per chi sia stato condannato con sentenze passate in giudicato», perché questa facoltà spetta alla magistratura. Una presa di posizione che ha un nesso diretto con quanto dichiarato in quelle stesse ore dal procuratore capo di Milano Gerardo D’Ambrosio, che aveva annunciato il parere favorevole della Procura a un differimento della pena per motivi di salute.A quel punto, siamo alla fine di settembre, si apre uno spiraglio sul quale lavoreranno per tre mesi gli amici e i figli di Craxi. Per trasformare quello spiraglio in un varco servivano atti di volontà, strappi, gesti impopolari. E bisognava convivere con l’irriducibile orgoglio di Bettino Craxi, che non era un malato qualunque: era un uomo pubblico che si sentiva vittima di una persecuzione politica e giudiziaria e dunque, al suo eventuale ritorno in Italia, non intendeva sottoporsi ad uno stato di arresto, seppur temporaneo. Il presidente del Consiglio D’Alema, lontano dai riflettori, tratta con la Procura e la risposta del procuratore Borrelli è chiara ed è la stessa contenuta in una lettera a Don Verzé, dominus del San Raffaele: «Il rientro volontario dell’onorevole Craxi comporterebbe il suo assoggettamento ai titoli di restrizione della libertà formatisi contro di lui». Diciotto anni dopo sarà D’Alema stesso a confermare una trattativa in una intervista del 2017 al “Corriere della Sera”: «Negoziai perché non lo arrestassero. Non fu possibile».In quell’autunno del 1999 ci si muove a tentoni. Per capire se sia percorribile la strada di una grazia presidenziale viene mobilitato Giuliano Vassalli, che chiarisce come stiano le cose: la grazia risolverebbe il problema solo a metà, perché rimuoverebbe gli effetti delle due sentenze che erano già passate in giudicato, ma senza cancellare i procedimenti ancora in corso, per i quali pendevano ordini di cattura non eseguiti. È in quel momento che si accarezza una suggestione, l’unica che avrebbe potuto concretizzarsi: spingere per la grazia, atto simbolico fortissimo, e su quella “costruire” una sospensione della pena per i processi ancora in corso. Per la grazia si muove Don Verzè, che scrive al capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi: «Craxi è condannato a morte vicina», e privarlo della possibilità di tornare in Italia «equivale a spingerlo nella fossa». Ma su questa fragile ipotesi irrompe Silvio Berlusconi. Il 19 novembre, davanti alla platea del congresso dei socialisti di Gianni De Michelis, pronuncia queste parole: «Credo che il capo dello Stato, che noi abbiamo contribuito a eleggere, possa mettere in campo ciò che la Costituzione assegna a lui, affinché questa vicenda possa risolversi presto. Altrimenti rimarrà una macchia sulla storia d’Italia, ma per fortuna non sulla nostra».Bobo Craxi capisce che Berlusconi l’ha fatta grossa: «La grazia non la concede il capo dell’opposizione». Ma la frittata, come suol dirsi, è fatta. E infatti Ciampi, tirato nella mischia, è costretto ad esporsi con una nota: «Ferma restando l’attenzione agli aspetti umanitari della vicenda, la posizione del Capo dello Stato impone il rispetto pieno, formale e sostanziale, delle leggi della Repubblica e delle procedure che le applicano». Nel frattempo c’è da allungare la vita a Craxi. I famigliari, costretti a restare in Tunisia, pensano di utilizzare una struttura privata, ma c’è un ostacolo: non si possono offendere i governanti tunisini, che offrono l’ospedale militare, che non garantisce standard accettabili. I medici italiani del San Raffaele di Milano, che inizialmente avevano resistito all’ipotesi di intervenire in condizioni approssimative, alla fine accettano: il 30 novembre l’intervento viene realizzato in condizioni di fortuna – una lampada è tenuta a mano da un medico – ma il paziente ne esce vivo. E anche molto provato, in particolare nell’apparato cardiaco, che secondo alcuni avrebbe dovuto essere risanato prima. Craxi è provatissimo. Per alleviarne le ultime sofferenze, non resta che farlo rientrare in Italia.Nelle ultime settimane del 1999 in Italia si lavora ad un’ultima ipotesi, che sarebbe rimasta sconosciuta anche in seguito: Craxi sarebbe dovuto rientrare a Fiumicino, di lì sarebbe stato trasportato nel carcere di Viterbo (appositamente scelto perché lontano dai riflettori), restando il tempo necessario agli arresti in infermeria, uno o due giorni, per accettare una domanda per i domiciliari. A quel punto sarebbe stato trasferito al San Raffaele di Milano. Conferma Marco Minniti, allora braccio destro di D’Alema: «Sì, esisteva un’ipotesi di quel tipo. Tutti i margini furono esplorati senza confliggere con l’ordinamento del paese». Quel corridoio non si aprì, ma fu proprio Craxi – pur non conoscendo nei dettagli il piano che era stato preparato – a dire no ad un rientro “condizionato”. Uno degli ultimi giorni dell’anno, con una voce flebile, telefonò a Donato Robilotta, un compagno socialista che lavorava a Palazzo Chigi, e gli disse: «Sono Bettino, dillo a quelli là, che io in Italia ci torno soltanto da uomo libero… Piuttosto muoio qui, in Tunisia…». E in quel no finale c’è tutto Craxi. Piaccia o no, un uomo tutto d’un pezzo. Pronto a mettere in gioco la sua stessa vita, pur di non subire l’umiliazione di una carcerazione, anche di una sola notte, su mandato di quei magistrati di cui non riconosceva l’autorità. Protagonisti, a suo avviso, di un «complotto giudiziario».Ma rinunciando a qualsiasi via d’uscita, Craxi era pienamente consapevole a cosa stesse andando incontro. Francesco Cossiga era andato a trovarlo il 18 dicembre e da lui Bettino si era congedato al solito modo, facendo finta di avere altro da fare. Ma quella volta, con le forze che gli restavano, mentre l’altro stava uscendo, richiamò ad alta voce l’ospite oramai sulla porta: «Francesco!». Quello rientrò e Craxi disse: «Tu lo sai, vero, che questa è l’ultima volta che ci vediamo…». Era vero. Il 19 gennaio del 2000, verso le 5 della sera, la figlia Stefania, inquietata dal prolungarsi del pisolino pomeridiano del padre, entra in stanza e lo trova senza vita, con un grosso ematoma all’altezza del cuore e una smorfia di dolore sul viso, angosciosa e indimenticabile per tutti quelli che la videro anche nelle ore successive, perché risultò irriducibile per chi ricompose la salma. Era stata «una morte amarissima, senza riscatto, profondamente disperata», come scrisse Giuliano Ferrara. Il presidente del Consiglio Massimo D’Alema offrì i funerali di Stato, la famiglia li rifiutò; e dal giorno del funerale nella cattedrale di Tunisi, Bettino Craxi riposa nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, in una tomba scavata nella sabbia e dominata da un eloquente epitaffio: «La mia libertà equivale alla mia vita».(Estratto da “Controvento”, libro di Fabio Martini su Craxi, uscito all’inizio del 2020 e pubblicato in anteprima dall’Huffington Post l’8 gennaio 2020. Il libro: Fabio Martini, “Controvento, La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino, 15 euro).Craxi aveva voluto politicizzare i processi, anziché rallentarli con tattiche dilatorie, e le sentenze definitive fioccarono: alla fine del 1999 sono già due (per corruzione e finanziamento illecito al Psi) e altri quattro erano in corso. Il 23 ottobre di quell’anno il Tg2 delle 13 annuncia l’assoluzione di Giulio Andreotti nel processo di Palermo. Come raccontò il figlio Bobo, nel padre c’era «un misto di soddisfazione e di stupore». In quel momento era come se avesse capito che alla fine lui, e soltanto lui, sarebbe rimasto incastrato. A sera disse: «Non sto per niente bene». L’indomani Craxi viene ricoverato nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Tunisi. La diagnosi è molto cruda. Oltre al diabete che ha attaccato la gamba (si era arrivati a ipotizzare l’amputazione) e oltre ai seri problemi di cuore, si scopre un tumore al rene. Da quel momento l’ultimo scorcio della vita di Bettino Craxi si consuma attorno a due angosce intrecciate: la malattia e il possibile ritorno in Italia. Per il complicarsi della malattia si apre un’inevitabile diatriba su dove e su come operare. Si pensa alla Francia, ma Manuel Valls, portavoce del governo francese guidato dal socialista Lionel Jospin, spegne ogni speranza: «L’arrivo di Craxi in Francia non è desiderabile». Per l’ex leader resta il problema: curarsi decentemente ma anche tornare una volta per sempre nel suo paese.
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Bradanini: gli Usa Stato-canaglia, ritiriamo le truppe italiane
La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.Però c’è un’altra cosa che mi preme dire: e cioè che, forse, gli eventi politici nella storia si giustificano anche quando una certa massa critica, in una determinata direzione, prende forma. Ora, l’America ha dimostrato negli ultimi anni di essere in declino, e di temere questo declino, sia pure relativo – rimane sempre una talassocrazia pericolosissima: ormai è uno Stato-canaglia, è il pericolo numero uno per la pace nel mondo. Tuttavia è un paese che si difende, e lo fa in maniera brutale: ad esempio stracciando quel poco di diritto internazionale di organizzazioni internazionali che eravamo riusciti a costruire. Ha messo in ginocchio il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Le Nazioni Unite ormai non contano più: l’America ha deciso di non pagare più il suo contribuito annuale, mettendo in ginocchio anche questa organizzazione. Poi ha strappato l’accordo nucleare con l’Iran, che era stato negoziato dalle grandi potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania, grande potenza aspirante). Per quanto riguarda Israele, l’America ha già dimostrato la sua affezione nei confronti delle politiche irrazionali israeliane, riconoscendo Gerusalemme come capitale dello Stato e riconoscendo le alture del Golan (che appartengono alla Siria).Tutta la comunità internazionale è insorta molto poco, davanti a queste due aberrazioni, dal punto di vista del diritto internazionale, e non fa che sostenere Israele nella sua politica degli insediamenti, che ormai impediscono in via definitiva la soluzione dei due Stati. In Medio Oriente tutto è cominciato lì, con la Palestina, che ancora non trova pace: anche i palestinesi hanno diritto a una patria. Il punto è che gli Stati Uniti vogliono agire come battitori liberi: non riconoscono più nessuna autorità morale, politica e giuridica alla comunità internazionale. Da parte dell’Europa ci vorrebbe un sussulto di tutela dell’etica politica, nella politica internazionale. E questo è un momento storico straordinario, per questo sussulto. L’Italia dovrebbe intanto ritirare tutti i suoi soldati presenti nell’area. Cosa ci stanno a fare, lì? Stanno facendo o il lavoro sporco al servizio degli interessi americani e israeliani, come nel Sud del Libano, oppure cose misteriose, in Iraq e in altre aree del Medio Oriente. Non sappiamo bene cosa stiano facendo; ma, se ci sono, è perché ce lo hanno imposto gli americani. Questo è il primo passo che un governo serio dovrebbe compiere.E’ un governo di due partiti che, sulla carta, si dicono contrari alla guerra, favorevoli alla pace, alla solidarietà e all’amicizia tra i popoli. Questo lo dovrebbero fare anche le altre nazioni europee. Quantop all’Ue, Josep Borrell non è il “ministro degli esteri dell’Europa”: è semplicemente un portavoce. La politica estera, in Europa, è appannaggio dei singoli Stati. L’Europa agisce e si fa sentire “ad una voce” quando lo vogliono le ex grandi potenze europee, cioè Francia e Germania, e fino a ieri anche la Gran Bretagna. Gli altri paesi, semplicemente, obbediscono. L’Italia non conta nulla. Questo è quello che, a mio avviso, si dovrebbe fare. Quello che l’Italia farà, molto probabilmente, è invece una sceneggiata: una presa di distanze soltanto formale, per poi allinearsi ai dettami americani. Questo è inevitabile, da parte di un paese colonizzato: non dimentichiamo che gli americani in Italia hanno 90 bombe atomiche, a prescindere da quelle che potrebbero arrivare dalla Turchia nei prossimi mesi, dislocate nei siti di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone). Inoltre gli Usa hanno oltre 100 siti militari, alcuni misteriosi, sparsi per tutto il paese. E la Germania è in una situazione analoga, insieme a piccoli paesi come l’Olanda e il Belgio. Poi ci sono le bombe atomiche inglesi, sempre al servizio dello Zio Sam, e quelle francesi, in apparenza più nazionali.In sostanza, la Nato (che al 90% significa “esercito americano”) e gli americani direttamente occupano l’Europa, che quindi è un territorio colonizzato. Quanto a noi, nessun governo italiano sarebbe in grado di fare quello che auspichiamo, in una situazione del genere: questo sarebbe il momento di cominciare a sbrogliare la matassa, per riconquistare la nostra indipendenza nazionale. E quindi: prendere le distanze da questo groviglio inestricabile, e da questo rischio gravissimo di un conflitto regionale e anche mondiale, che Trump ha messo in moto. Occorrerebbe rititare le nostre truppe e cominciare a ridiscutere una politica di indipendenza nei confronti della Nato e degli americani. Non c’è più nessun Patto di Varsavia che minaccia i paesi dell’Europa occidentale: semplicemente, la Nato non ha più senso.(Alberto Bradanini, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Maria Toscano. Bradanini, esponente di primissimo piano della diplomazia italiana, è stato a lungo ambasciatore a Teheran e poi a Pechino).La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.