Archivio del Tag ‘storia’
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Fred Vargas: svelare tutto il marcio che c’è in Europa
Non penso che le storie poliziesche possano cambiare la realtà sociale. Da storica so che non sono gli scrittori a ottenere le vittorie decisive nell’ambito delle questioni sociali e politiche. Émile Zola ci è riuscito con “J’accuse”, ma non si trattava di un romanzo. Il romanzo ha altri scopi, che sono altrettanto importanti e profondi, ma sono diversi dalla politica. Mio padre era un ottimo scrittore, ma pensava che i polizieschi fossero colossali sciocchezze. Quando aveva 17 anni si era ripromesso di diventare un nuovo Rimbaud o di lasciar perdere. È una cosa un po’ triste. Coltivavo l’ambizioso proposito di ottenere una lingua musicale, ma feci l’ errore di pensare che la trama non fosse importante. Ora spero che i miei libri contengano una storia ben fatta, ma credo ancora che anche la storia più bella non valga nulla se la scrittura non è musicale.
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Formica: l’America ci azzoppò con Silvio, Fini e D’Alema
Siamo nel 1992 e sulla scongelata frontiera Est-Ovest si moltiplicavano i punti di fuoco, l’impero russo si stava decomponendo, il dopo-Tito era un’incognita e le mafie dell’Est rischiavano di saldarsi a quella siciliana. L’Italia traballa, mette a rischio equilibri strategici e a quel punto Clinton decide di mandare da noi, non il solito Paperone che ha finanziato la campagna elettorale del Presidente, ma un grande ambasciatore di carriera, uno che ha già trattato con colonnelli e terroristi, capace di salvaguardare gli interessi strategici americani. Bartholomew capisce che l’Italia è sull’orlo della guerra civile, che democristiani e socialisti sono inutilizzabili e punta su Berlusconi, D’Alema e Fini, leader dal passato “ingombrante”.
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Mistero italiano: l’addio al Pendolino, super-treno perfetto
«Siamo unici al mondo: devastiamo il paese per aprire la strada agli Eurostar ma avevamo il Pendolino, che era un gioiello tecnologico veloce e super-confortevole, perfettamente adatto all’accidentata orografia italiana». Luca Giunti, guardiaparco in valle di Susa e attivissimo militante-divulgatore No-Tav, osserva lo stretto corridoio alpino della sua valle, già intasata dalle infrastrutture: due strade statali ai lati del fiume, poi l’autostrada, la linea ferroviaria internazionale Torino-Modane, i paesi, le fabbriche, l’autoporto, le aree commerciali. Là in mezzo, da qualche parte, dovrebbe passare un giorno anche la futura pista ferroviaria superveloce, il tracciato della fantomatica Torino-Lione. «E dire che il Pendolino andava benissimo. Inclinandosi in curva, offriva il massimo comfort. E soprattutto: poteva correre anche molto veloce sulle linee storiche, senza bisogno di nuove costosissime ferrovie».
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Barnard: come Hayek, Monti odia la giustizia sociale
Sono l’unico in Italia a dire queste cose. Vanno ripetute. L’economista austriaco Friedrich August Hayek così definì il concetto di giustizia sociale: «Una formula vuota, strettamente e interamente vuota e senza significato… Una frase che non significa assolutamente nulla… Un antropomorfismo primitivo… Una superstizione… Come credere alle streghe… Un incubo che oggi rende bei sentimenti come strumenti per la distruzione di tutti i valori della civiltà libera… Una insinuazione disonesta, intellettualmente sconcia, il segno di una demagogia e di un giornalismo squallido di cui gli intellettuali onesti dovrebbero vergognarsi» (da “Social Justice, Socialism and Democracy”, di F. A. Hayek).
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Desmond Tutu: perché rifiuto di parlare con Tony Blair
L’immoralità della decisione di Stati Uniti e Gran Bretagna di invadere l’Iraq nel 2003, fondata sulla menzogna che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa, ha destabilizzato e polarizzato il mondo in misura maggiore rispetto a qualsiasi altro conflitto nella storia. Anziché riconoscere che il mondo in cui vivevamo – con sempre più raffinate forme di comunicazione, trasporti e sistemi d’arma – necessitava di una leadership sofisticata che tenesse insieme la famiglia globale, i leader che allora guidavano gli Stati Uniti e il Regno Unito costruirono falsi pretesti per comportarsi come bulli al parco giochi e trascinarci più lontano. Ci hanno spinti sin sull’orlo del precipizio in cui ci troviamo ora, con lo spettro di Siria e Iran davanti a noi. Se i leader possono mentire, allora chi mai dovrebbe dire la verità?
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Onore al criminale Graziani, ma in Italia non è scandalo
Fa scandalo ovunque, tranne che in Italia, la notizia del monumento dedicato al criminale di guerra Rodolfo Graziani, il “macellaio d’Etiopia” che sperimentò i gas contro gli africani e finì la sua brillante carriera facendo fucilare partigiani come ministro della difesa della Repubblica di Salò. Dal “New York Times” alla “Bbc”, fino a “El Paìs”, la stampa internazionale oscilla tra indignazione e incredulità l’inaugurazione dell’11 agosto ad Affile, non lontano da Roma: il Comune, da cui proviene il ramo materno della famiglia di Graziani, ha dedicato al capo dell’esercito coloniale di Mussolini una sorta di sacrario della memoria. «Stupisce e preoccupa – scrive Antonio Maria Morone – lo scarso interesse dedicato alla vicenda dalla stampa nazionale, che ha relegato la notizia a una posizione marginale, soffermandosi più sul possibile sperpero di fondi pubblici in tempi di crisi economica per un manufatto che sarebbe costato 160.000 euro».
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La Bolivia mette al bando la Coca-Cola, simbolo del Male
C’è chi sostiene che finirà il mondo, chi annuncia l’invasione degli alieni, chi predice sciagure e cataclismi. Per adesso, l’unico effetto concreto della fine del calendario Maya è stato tutt’altro che pernicioso. Almeno per i boliviani. Il presidente indigeno Evo Morales ha infatti annunciato che a partire dal 21 dicembre 2012 la Coca-Cola sarà bandita dal paese. La multinazionale statunitense segue così a ruota le sorti toccate al connazionale McDonald’s, costretto a chiudere i battenti in Bolivia lo scorso gennaio a causa dello scarso successo dei suoi prodotti. In Sud America – come d’altronde in gran parte del mondo – la Coca-Cola ha una lunga storia di sfruttamento, inquinamento, condizionamenti politici. Emblematico è il caso della Colombia. Qui l’azienda, per mano della sua filiale Panamco S.A., sfrutta da oltre vent’anni la corruzione del governo nazionale e la tensione sociale del paese per imporre condizioni inumane ai propri lavoratori e attuare strategie di repressione verso le organizzazioni sindacali.
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Pallante: come tagliare il debito senza far soffrire nessuno
Uscire dalla crisi? La soluzione ci sarebbe: tagliare gli sprechi, quelli veri. Non certo la spesa sociale, che i tecno-devastatori stanno minando dalle fondamenta col risultato di far crollare la sicurezza quotidiana degli italiani, impoverendo il paese. Gli sprechi da tagliare – vere fabbriche di debito – sono le grandi opere inutili, l’immensa dispersione di energia e la peste chimica dell’agricoltura industriale, quella della grande distribuzione che oggi ci alimenta. Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, ha le idee chiare: si può creare nuova occupazione senza fare nuovo debito, ma addirittura tagliandolo. Lo dimostra uno studio pubblicato dal “Sole 24 Ore” il 13 febbraio: per ogni 10 miliardi di euro investiti nella riduzione degli sprechi si possono ricavare 130.000 posti di lavoro di buona qualità, mentre investendo la stessa cifra in grandi opere si darebbe lavoro al massimo a 7.300 persone.
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Facciamo come la Danimarca, l’equità conviene a tutti
Cattiva distribuzione dei redditi, debolezza delle imprese, fragilità del sistema bancario e pessima bilancia commerciale. Senza contare «la povertà del pensiero degli economisti». Questa la diagnosi della “grande crisi” del 1929 secondo John Kenneth Galbraith. Quasi un secolo dopo, ci risiamo: «Il capitalismo finanziario sregolato e ipertrofico produce disoccupazione e povertà, mentre arricchisce indecentemente i suoi protagonisti». Chi dice che il capitalismo è morto, e chi ripete che questo è l’unico sistema possibile. Sbagliato: se volessimo, anche noi potremmo imitare la Danimarca, un paese dove i poveri riescono a diventare ricchi e dove il benessere diffuso conviene a tutti. Lo sostiene Davide Reina nel blog “Cado in piedi”: il cambio di paradigma consiste nel passare dal “capitalismo esclusivo”, che tesaurizza la ricchezza a beneficio dei super-potenti, al “capitalismo inclusivo” che costruisce futuro per tutti in regime di equità.
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Ugo Mattei: ci salverà solo un governo dei beni comuni
Ogni cambio di paradigma ha il suo manifesto. Quello che Ugo Mattei ha scritto per Laterza è un pamphlet di forte impatto per iniziare a ripensare le scienze sociali secondo un modello ecologico, sistemico ed olistico. Giurista e docente all’università di Torino, fra i promotori del Forum nazionale del movimento dell’acqua pubblica, sostiene la necessità di interpretare i beni comuni come forme irriducibili «tanto alla logica del privato, quanto a quella del pubblico» e ne rivendica il significato di forma mentis, come specifico orientamento del singolo verso la realtà e l’ambiente che lo comprende, senza passare attraverso lo statalismo o le ambiguità della “green economy”. I beni comuni dischiudono una diversa apertura sul mondo perché presuppongono l’interrelazione dell’uomo con l’ambiente.
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Derubare i poveri: ieri il terzo mondo, oggi tocca a noi
Attenti, siamo al capolinea: dietro al crac mondiale della finanza, quello che oggi ci opprime con tagli drammatici al nostro benessere, c’è la fine di un’epoca, quella del capitalismo che si è globalizzato per sopravvivere e ora si ritorce contro i lavoratori dell’Occidente, ormai impoveriti e ridotti a consumatori con le tasche vuote. «Per spiegare la crisi si parla sempre di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia: come le metastasi di un tumore, non sono che lo sviluppo “naturale” del cancro stesso», afferma la saggista Sonia Savioli. Alla base di qualsiasi economia ci sono due cose: risorse e lavoro umano. «In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite». Quanto al lavoro, «significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza».
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Ma l’Europa siamo noi, non la larva che ci impone sacrifici
Che cos’è, insomma, l’Europa? Lontano da qui, disseminata tra Bruxelles e Strasburgo, c’è una selva di edifici in acciaio e cristallo, di uffici lussuosi, di sale da riunione e da conferenza; una pletora di dirigenti, di parlamentari, di funzionari, d’interpreti e di consulenti ben pagati, qualcuno strapagato; una Commissione Europea, un Consiglio d’Europa, un Parlamento Europeo, ma nessun leader nel quale la gente possa identificarsi o col quale possa prendersela se e quando le cose vanno male. C’è una Banca Centrale Europea che non è pubblica, quindi è in mano ai suoi anonimi o semianonimi azionisti: stampa euri e detta legge sui nostri bilanci e sulle nostre tasche.