Archivio del Tag ‘storia’
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Padoan, il “dolore utile” che stermina i bambini greci
«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».“Lancet” non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di “Repubblica”), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista». Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.Né è solo «questione di comunicazione» sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su “Lancet” dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi come Islanda e Finlandia che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro.Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. “Lancet” non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali» – «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale». Nessuno sa quale contributo. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza [...], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.(Barbara Spinelli, “Gli invisibili d’Europa”, da “La Repubblica” del 26 febbraio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
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L’Italicum? Peggio della legge elettorale del Duce
«Fra le questioni costituzionali non v’è n’è una tanto vitale per l’ordinamento delle garanzie pubbliche e che tocchi tanto da vicino la vita politica di tutto il popolo quanto la legge elettorale», affermava Togliatti, intervenendo alla Camera nella discussione in corso sulla “legge truffa”, l’8 dicembre 1952. Del resto, già duecento anni fa Gian Domenico Romagnosi aveva scritto che «la teoria delle elezioni altro non è che la teoria della esistenza politica della Costituzione», e che quindi «è manifesto essere la materia delle elezioni l’oggetto più geloso che l’ordinamento dello Stato deve statuire». Con parole più moderne, sostiene Domenico Gallo, potremmo dire che il sistema elettorale produce la “Costituzione materiale”, cioè determina l’ordinamento costituzionale vivente. L’Italicum, «legge elettorale concordata fra Renzi e Berlusconi ma effettivamente scritta da Verdini», secondo Gallo «ripropone gli stessi vizi di incostituzionalità del Porcellum», ovvero liste bloccate, maxi-premio di maggioranza e soglie d’accesso raddoppiate.Tutto questo «distorce profondamente la volontà manifestata dal corpo elettorale, creando lo stesso risultato di disuguaglianza nel voto censurato dalla Consulta», scrive Gallo su “Micromega”. In pratica, l’Italicum è un Porcellum peggiorato: «Laddove il Porcellum mirava ad imporre una sorta di bipolarismo forzato, l’Italicum tende ad imporre un bipartitismo forzato, ovvero a creare una maggioranza artificiale nelle mani di un unico partito». E’ stato creato «un meccanismo infernale», in base al quale «il premio di maggioranza effettivo non si limiterà al 15%, ma sarà molto superiore in quanto un partito potrebbe accedere al premio di maggioranza, cioè al 53% dei seggi, anche avendo il 20-25% dei voti popolari e giovandosi dei voti della coalizione che non producono seggi per i partiti minori». Meccanismo perverso, che nella legge Calderoli non esisteva.Nella tradizione italiana, per trovare un governo formato da un unico partito bisogna risalire al 1924, quando la legge Acerbo, «attribuendo un enorme premio di maggioranza alla lista che avesse ottenuto un solo voto in più di tutte le altre liste, determinò la formazione del listone che consentì a Mussolini di sbarazzarsi dei piccoli partiti e di catapultare alla Camera 355 deputati (più altri) da lui direttamente nominati». E’ storia: «Un unico partito ebbe in mano le chiavi della maggioranza parlamentare e non tardò a trasformarsi in partito unico. Con la legge Acerbo fu cambiata la natura del Parlamento come istituzione rappresentativa e la Camera dei deputati fu trasformata in un bivacco di manipoli». Tuttavia, pur mettendole nell’angolo, la legge Acerbo «non riuscì ad impedire l’accesso al Parlamento delle forze d’opposizione, perché non prevedeva le soglie di sbarramento per i partiti minori». Se Acerbo avesse adottato il metodo Verdini, aggiunge Gallo, «Mussolini non avrebbe avuto bisogno di far uccidere Matteotti per sbarazzarsi dell’opposizione parlamentare; ci avrebbe pensato la legge elettorale a tenere fuori dalla Camera Matteotti e Gramsci». Domanda: «Possibile, dopo 90 anni, dopo la Resistenza, dopo l’avvento di una Costituzione democratica, fare una legge elettorale peggiore della legge Acerbo?».«Fra le questioni costituzionali non v’è n’è una tanto vitale per l’ordinamento delle garanzie pubbliche e che tocchi tanto da vicino la vita politica di tutto il popolo quanto la legge elettorale», affermava Togliatti, intervenendo alla Camera nella discussione in corso sulla “legge truffa”, l’8 dicembre 1952. Del resto, già duecento anni fa Gian Domenico Romagnosi aveva scritto che «la teoria delle elezioni altro non è che la teoria della esistenza politica della Costituzione», e che quindi «è manifesto essere la materia delle elezioni l’oggetto più geloso che l’ordinamento dello Stato deve statuire». Con parole più moderne, sostiene Domenico Gallo, potremmo dire che il sistema elettorale produce la “Costituzione materiale”, cioè determina l’ordinamento costituzionale vivente. L’Italicum, «legge elettorale concordata fra Renzi e Berlusconi ma effettivamente scritta da Verdini», secondo Gallo «ripropone gli stessi vizi di incostituzionalità del Porcellum», ovvero liste bloccate, maxi-premio di maggioranza e soglie d’accesso raddoppiate.
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Kiev, golpe o rivoluzione? Il popolo conta più degli 007
Il mondo ribolle di rivoluzioni vere e presunte? Per favore, evitiamo di cadere nella tentazione totalizzante del complotto: che certamente esiste e ha un peso, ma non può essere determinante in assenza di reali, fortissimi motivi di scontento popolare. Lo disse, all’indomani della rivolta di Kiev, Mikhail Gorbaciov: nei rivolgimenti dell’Ucraina è stato innanzitutto determinante il “tradimento” del presidente Yanukovich, incapace di attuale la “perestrojka” democratica promessa. Con un governo più decente, difficilmente gli ucraini sarebvero scesi in piazza in quel modo. Torna sull’argomento il politologo italiano Aldo Giannuli, storico esperto di intelligence e strategia della tensione: «I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse. Possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’esasperazione popolare che non è cosa che si inventi».L’attualità è incandescente: Venezuela e Ucraina sono due scenari pericolosi, in cui è scontata la regia occulta dei servizi occidentali, che a Kiev sono accusati di aver addirittura impiegato cecchini per colpire e uccidere manifestanti, allo scopo di incolpare il regime di Yanukovich. «Può accadere che un tumulto di piazza sia più o meno stimolato da qualche servizio segreto o polizia politica e funga da innesco, ma se sotto non ci sono le polveri da sparo o le polveri non sono abbastanza asciutte, non scoppia niente», scrive Giannuli nel suo blog. «Viceversa, è altrettanto mitologica la visione di un irresistibile moto di popolo che vive solo della spontaneità delle masse, rispetto alla quale ogni tentativo di infiltrazione sarebbe votato all’inevitabile fallimento». Nelle rivoluzioni, continua Giannuli, «coesistono rabbia popolare spontanea, ruolo soggettivo delle organizzazioni rivoluzionarie, infiltrazioni poliziesche, condizioni ambientali». Il problema è «capire di volta in volta quale sia il peso e il ruolo di ciascuno di questi fattori».La “purezza rivoluzionaria” che molti esigono? E’ un sogno impossibile, nelle condizioni storicamente date. Ma quelle che Giannuli chiama «le lenti del passato», cioè «campo imperialista contro campo antimperialista, già abbondantemente fuorvianti a loro tempo», oggi rischiano di essere «solo dei formidabili diversivi, buoni a confondere le idee». C’è chi considera “rivoluzioni” «solo quelle che ci piacciono e che possono iscriversi a pieno titolo nel solco delle rivoluzioni socialiste e democratiche del novecento, mentre tutte le altre sono solo congiure di servizi segreti». Le rivoluzioni, continua Giannuli, «possono anche avere un segno che non ci piace o anche, semplicemente, avere aspetti molto criticabili, ma non per questo cessano di avere una loro spontaneità per essere ridotte a puro complotto». Per Giannuli, si tratta di «due atteggiamenti opposti ed ugualmente sbagliati: quello di chi pensa che le rivoluzioni siano sempre e solo movimenti sociali spontanei, nei quali i servizi segreti non c’entrano o comunque sono impotenti, e quello di chi pensa che i servizi segreti siano pressochè onnipotenti, in grado di suscitare eruzioni sociali che poi guidano a bacchetta. Mitologie: entrambe mitologie».Il mondo ribolle di rivoluzioni vere e presunte? Per favore, evitiamo di cadere nella tentazione totalizzante del complotto: che certamente esiste e ha un peso, ma non può essere decisivo in assenza di reali, fortissimi motivi di scontento popolare. Lo disse, all’indomani della rivolta di Kiev, Mikhail Gorbaciov: nei rivolgimenti dell’Ucraina è stato innanzitutto determinante il “tradimento” del presidente Yanukovich, incapace di attuale la “perestrojka” democratica promessa. Con un governo più decente, difficilmente gli ucraini sarebbero scesi in piazza in quel modo. Torna sull’argomento il politologo italiano Aldo Giannuli, storico esperto di intelligence e strategia della tensione: «I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse. Possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’esasperazione popolare che non è cosa che si inventi».
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Revelli: temo Renzi, pericoloso funambolo dilettante
L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del Governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.Tutto, come in una grande matrioska dal volto di roditore. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il Parlamento, si commissaria il Paese, si accelera la dissoluzione sociale… Motivo per cui, appunto, non resta che “sperare”. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che ci dice che così non può farcela. Renzi non ha né le competenze, né l’autorevolezza, né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare questo “miracolo”. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione mafiosa) assicuravano. Punta su un’unica risorsa: il mito della velocità.Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E problematico per uno che vanta tra i principali supporter quello che dello slow ha fatto un brand, sia pur rispetto al food… Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati scistosi, anche Matteo Renzi pratica il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin qui, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il fracking inquina le falde, così il renzismo rischia di inquinare il nostro spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciarci – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. Per questo è così necessario, e così pressante, costruire uscite di sicurezza. Piani di emergenza (e di evacuazione). Alternative politiche in cui i naufraghi possano approdare. Noi, che siamo prudenti e predichiamo il “principio di responsabilità!” di cui parla Hans Jonas, lavoriamo a questo.(Marco Revelli, “Il renzismo come esorcismo”, dal sito “Lista Tsipras” del 24 febbraio 2014).L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
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Il regno della Tv è finito, ora tocca al web dei giovani
Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.Gli italiani la considerano e la rispettano come un’istituzione, pur con la consapevolezza che si tratta della longa manus dell’establishment democristiano. Impaginata in un dignitoso bianco e nero, la tv costruisce l’identità nazionale a colpi di Tg monocratici, di sceneggiati e quiz a premi. Sono gli anni del boom economico e della Guerra Fredda, della Fiat e dell’Iri e la Rai, in quanto parte sostanziale del grande conglomerate parastatale, gode di immensi sostegni che le consentono di diventare la più grande industria nazionale della cultura. Siamo nell’era Bernabei e Agnes, i due instancabili alfieri di una cavalcata quasi trentennale. Il braccio tecnologico della Rai erige tralicci dovunque. La ricezione del segnale tende con fatica al 90% dell’aspro territorio italiano. C’è perfino una sezione nazionale dell’industria che costruisce Tv set e li alloca a rate nelle case. Tutti appaiono soddisfatti. La pubblicità è ridotta al mitico Carosello e la globalizzazione passiva non s’è ancora manifestata al suo peggio.Il matrimonio e la fedeltà tra il servizio pubblico e i suoi telespettatori cominciano ad incrinarsi verso la fine degli anni ‘70. In questo periodo la pressione della globalizzazione aumenta inverosimilmente. L’organizzazione dei consumi di massa ha bisogno della tv e certo Carosello non basta. I legislatori, ossequiosi delle richieste dell’industria internazionale e delle lobbies, non alzano vere barriere che impediscano la messa in discussione del monopolio. Del resto l’estetica e il gusto degli italiani, bramosi di costumi liberalizzati (costumi già sottoposti alle incursioni delle cosiddette radio libere che hanno fatto da apripista), esigono che ci sia un’alternativa alla limitata scelta dei tre canali offerti dalla Rai. Entra nella scena Silvio Berlusconi dopo aver prontamente sgominato i suoi competitors: Mondadori e Rusconi.L’imprenditore (che in realtà è un mercante di telespettatori) è sostenuto immediatamente dall’Upa – Utenti Pubblicitari Associati, un marchio che vede al suo interno un’agguerrita compagine di industrie multinazionali (travestite dalla loro sezione “Italy”), le quali pretendono e ottengono che nei palinsesti delle nuove tv, il 10-12% del tempo sia destinato ad ospitare filmati promozionali di merci e servizi. Il partito di Craxi prima e il suo governo poi, sostengono a loro volta. Il Pci non capisce, o fa finta di non capire che cosa sta succedendo, e si limita a una opposizione fiacca. La Dc appare molto divisa ma alla fine accetta di trasformare la Rai in quello che verrà definito il “sistema misto”: in parte servizio pubblico, in parte commerciale. A metà degli anni ‘80 la scena è profondamente mutata. Dall’idea di “qualità tv” si passa a tappe forzate all’idea di “quantità di audience”. Comincia con l’Auditel la “misurazione” e la conseguente compravendita di telespettatori inconsapevoli che vengono ridotti, anch’essi, a merce.Neanche il sindacato dei giornalisti Rai capisce un granché. Irrimediabilmente convinti che il consenso politico si costruisca solo con l’informazione, continuano per decenni una battaglia di retroguardia finalizzata a ridurre l’influenza dei partiti sulle nomine dei vertici Rai e dei Tg, senza rendersi conto che il consenso, e quello che a Madison Avenue chiamano puntualmente lo stile di vita, si organizza molto a colpi di film, miniserie e tanta, tanta pubblicità. L’infrastruttura tecnologica è ancora più o meno la stessa. La tv è analogica, diffusa da grandi antenne poste sui tralicci. Il passaggio, ormai digerito, da bianco e nero a colore, ha solo consolidato un parco utenti che esisteva. Debutta il videoregistratore, che modifica in modesta parte i consumi tv, ma in realtà il suo contributo alla storia della tv non è essenziale. Il suo vero contributo è quello di favorire il fenomeno della pirateria.La vera grande novità in questa fase è la frequentazione dei manager e di pochi autori ai mercati di Tv internazionale: Mip tv di Cannes, London Multimedia Market e Natpe di Las Vegas, oscurano progressivamente il ruolo svolto dal Mifed di Milano. In queste sedi internazionali si comprano al quintale (loro dicono “a pacchetti”) film, telefilm, serie e miniserie e si avviano coproduzioni faraoniche. Il prezzo dei contenuti tv si impenna vertiginosamente, mentre i messaggi da loro veicolati diventano sempre più orientati al liberismo qualunquista, alla violenza e sottostanno alla legge imperiale: “Chi prende il piatto ha sempre ragione”. Cominciano a scorrere fiumi di denaro per assicurarsi storie patinate, un po’ insulse ma seducenti, con le quali fare audience e conseguentemente soddisfare gli appetiti dei pubblicitari. Rai e Mediaset, con un finto terzo polo costituito da Telemontecarlo, si contendono di tutto: libraries, managers, uffici legali e intermediatori d’affari abili a sottrarre percentuali vistose nel corso delle compravendite (qualcuno finisce sotto inchiesta altri espatriano con il bottino).Sono gli anni di All Iberian e delle grandi manovre di Mediaset e dei suoi consulenti per evadere le norme fiscali e valutarie, che comunque appaiono esili e aggirabili. Il telespettatore medio è sempre più bombardato. Il “broadcasting” tipico della tv generalista comincia a lasciare spazio al “narrowcasting” mirato a audience segmentate e individuabili dalle tv “specializzate”. È nei primi anni ‘90 che appare con forza nella scena la prima grande innovazione tecnologica: i satelliti per televisione “diretta a casa”. L’Italia diventa velocemente un feudo Eutelsat, dopo che Giuliano Berretta, un ingegnere vicentino al comando del colosso parigino, sgomina il competitor Astra di base in Lussemburgo. I costruttori di apparati per ricezione tv esultano: oltre ai tv set, che diventano sempre più grandi e sempre più piatti, ora si apre lo sterminato mercato dei decoder.Tutto avviene ancora con tecniche analogiche ma si comincia ad intravvedere la grande rivoluzione digitale che gode delle esperienze informatiche. La parola d’ordine comincia ad essere “convergenza”: Tv, Pc e reti telefoniche tutti insieme appassionatamente. La tv è finalmente una vera industria, fondata su aree che interagiscono tra loro e determinano la scena complessiva: contenuti, reti e (ciò che in seguito verrà definito) modello di business. A questo punto i contenuti sono già tipici della globalizzazione passiva. A parte alcuni grandi sceneggiati da prime time nazional popolare, il calcio e alcuni programmi da studio, il resto della programmazione di successo arriva soprattutto dagli archivi internazionali, in barba alle “quotas” sancite dall’Europa e con grande gioia dell’industria del doppiaggio.Le reti di distribuzione e diffusione sono due: tralicci e satelliti. Il cavo è interdetto. Si accendono i riflettori sul modello di business, ovvero “quali sono le risorse che consentono alla tv di sopravvivere e eventualmente prosperare”? Se ne individuano 3. La prima è la risorsa pubblica: in arrivo dallo Stato o raccolta per legge. Parliamo del canone tv destinato (a quel tempo) solo ed esclusivamente alla Rai ma (come vedremo più avanti) posto in seguito in discussione. La seconda è la risorsa da pubblicità, gestita con mano sapiente e perversa dall’Upa e dalle agenzie non italiane, ovvero la compravendita di spot nei palinsesti, eventualmente integrata con sponsorizzazioni e product placement (dapprima occulto poi autorizzato). La terza (grande novità in Italia) è la risorsa “pay”, ovvero abbonamenti basic più costi addizionali per eventi speciali (pay per view). Il decoder è il vero protagonista di questa novità. I satelliti sono i primi a passare da trasmissioni analogiche a digitali e portano nelle case i decoder digitali, connessi eventualmente anche alla rete telefonica.È una opportunità imperdibile per alcuni soggetti, rigorosamente non italiani, che si avvicendano a godere dell’italica stoltezza. Prima Canal Plus e poi l’ineffabile Rupert Murdoch di Sky, a colpi di porno a notte alta e calcio, convincono 5 milioni di italiani a sottoscrivere abbonamenti alla pay tv. Uno scandalo di proporzioni inaudite, sul piano della sottrazione di risorse al mercato italiano, ma. Murdoch invita a cena tutti i politici e li convince a dargli di fatto il monopolio. Poi getta qualche piccola fiches sul tavolo dell’Anica e i produttori cinematografici fanno buon viso a cattivo gioco. Con la Lega Calcio continuerà a litigare per anni. La cavalcata trionfale della tv giunge a questo punto al guado. Di fronte ai protagonisti si pone il grande fiume che separa l’antico territorio della produzione e distribuzione analogica dal nuovo territorio sconfinato, promettente e sconosciuto del digitale. La Tv, da regina incontrastata dell’audiovisual, sta per abdicare al trono. Attorno a lei un coro di media digitali allevati nella rete internet e dalla telefonia le sottraggono il primato giorno dopo giorno.Sul piano dei contenuti la grande innovazione arriva prima da modesti siti internet, poi si afferma con le spallate di YouTube e altri social network. I contenuti generati dagli utenti mettono spesso in crisi i produttori di intrattenimento. Tremano perfino le grandi agenzie internazionali con le quali si imbottivano i Tg di news dall’estero. Comincia a saltare tutta la gerarchia di selezione talenti. Per far fronte al fenomeno la tv ricorre ai realities, grazie a format che danno lustro a sconosciuti nell’estremo tentativo di creare identificazione. La conta dell’audience però fa acqua. Nel frattempo la ripolarizzazione del mondo convince i pubblicitari a ridurre gli investimenti nelle tv occidentali a favore di quelle dei paesi del Brics. Nel 2009 si spostano con un solo colpo masse di risorse che non esisteranno più. Internet e i suoi succedanei, derivati dalla convergenza (smartphones, tablets, etc), cominciano una marcia trionfale che mette sempre più in discussione l’autorevolezza e il ruolo della tv.La digitalizzazione e il cosiddetto “riordino” dello spettro elettromagnetico (frequenze) tramutano le reti di distribuzione e diffusione in un groviglio sterminato difficile da tener sotto controllo, a meno di investimenti e capacità gestionali che le Old Tv non sembrano in grado di manifestare. È vero che si moltiplicano i canali ma l’audience – nella migliore delle ipotesi – resta la stessa. In realtà l’esodo dalla tv delle nuove generazioni è massiccio. Unico colpetto: Mediaset, approfittando della possibilità digitale, tenta con una sua “pay tv” la competizione con Sky di Murdoch. La Rai soffre: resta interdetta dal fare tv a pagamento, subisce l’avvicendarsi ai vertici di manager manovrati e inetti, assiste impotente al calo delle risorse pubblicitarie e comincia a tremare all’idea – ampiamente ventilata – che nel prossimo rinnovo di contratto del servizio pubblico possa essere affiancata da altri soggetti con i quali dovrà spartire la risorsa canone.È stato bello, vecchia Signora Tv. Ci hai dato tante gioie e tanti dolori. I tuoi addetti ai lavori hanno goduto di privilegi tali che, pur di non perderli, si sono prestati a mille ricatti da parte delle élites, prima nazionali e poi internazionali. Sei stata una degli strumenti più rilevanti della modernità. Tu, il telefono, gli aerei, le automobili, etc… avete aperto le porte del terzo millennio ad un’Italia comunque attonita e rimasta in gran parte inconsapevole delle mutazioni globali, anche grazie ai giornalisti e ai manager della tv. Resterai ovviamente nell’Olimpo dei grandi media insieme al cinema, alla radio e all’editoria. Ma d’ora in poi sarai chiamata a fare solo la tua parte, privata di quella maestà di cui hai goduto nel secolo scorso.(Glauco Benigni, “La Tv ha 60 anni ed è pronta ad abdicare”, dal blog di Benigni del 21 febbraio 2014).Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.
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Scanzi: il governo antani del gattopardo Matteo Letta
E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).Ci sono le lobby: Confindustria, Coop, Cl. C’è un dalemiano nel ruolo chiave dell’economia. C’è la Pinotti, che un anno fa votava Bersani, come tutti gli attuali ministri piddini (tranne Boschi). C’è la civatiana Lanzetta buttata là senza preavviso, giusto per isolare Civati e applicare alla perfezione il Manuale Cencelli, garantendosi quindi i voti di tutte le 812 correnti Pd. E c’è soprattutto Orlando, il carismatico e guizzante Andrea Orlando, uno che vorrebbe abolire ergastolo e 41 bis, uno che ha un’idea di giustizia al cui confronto Ghedini è antiberlusconiano. Uno che non ci doveva essere, perché Renzi (in una delle sue 2 o 3 idee di pregio avute negli ultimi mesi) voleva il “magistrato in servizio” Gratteri, ma con coraggio di Don Abbondio ha poi obbedito pure lui a Re Giorgio.Renzi, renziani (verso cui siamo sempre più solidali) e stampa folgorata sulla via di San Matteo da Rignano la meneranno nei prossimi giorni con il 50% di quota rosa, l’esiguo numero dei ministeri che “una roba così solo De Gasperi nel secolo scorso” e l’età mediapiù bassa nella storia della Repubblica Italiana. Tutte cose buone per glorificare le pagliuzze e nascondere le travi. La verità è che Renzi era e rimane un restauratore, un gattopardo: un Craxi-Berlusconi senza avere la bravura – anche maligna – di entrambi. Più che un Renzi I, questo è un Letta 2 o un Napolitano 3. Un rimpasto alla democristiana con supercazzola annessa, scappellamento a destra e qualche antani prematurato per indorare la pillola a un elettorato sempre più vilipeso (che pare accettare tutto o quasi). Renzi voleva essere il nuovo Blair, ma sembra più che altro il vecchio Rumor. Meno preparato, però.(Andrea Scanzi, “Il governo antani del gattopardo Renzi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).E menomale che Renzi era quello coraggioso, quello furbo: quello del cambiamento. Macché: nient’altro che un democristiano 2.0, un Enrico Renzi, un Matteo Letta. Un serial bugiardo che mira a cambiare affinché nulla cambi. Un Gattopardo ibridato con Peppa Pig. Un rottamatore, sì, ma intenzionato a desertificare non il “vecchio” quanto la buona politica, la credibilità e la competenza. Parafrasando due delle sue poetesse preferite, Jo Squillo e Sabrina Salerno, “oltre l’ambizione non c’è di più”. Il suo governo è uno strazio così evidente che non ha senso infierire. C’è la Mogherini, quella che a “L’aria che tira” si vantava che loro (il Pd) mai e poi mai avrebbero ridato i soldi pubblici del finanziamento-rimborso ai partiti. C’è la Madia, nota inesperta di tutto. C’è la Boschi, nota (ma poco) e basta. Ci sono Alfano, Lupi e Lorenzin, giustamente felicissimi (solo Renzi poteva allungargli la vita) e vicini al “cambiamento” come Povia a Jimi Hendrix. C’è Franceschini, uno che c’è sempre, e la sua sola presenza inamovibile rende pressoché impossibile votare Pd (a meno che non si sia intrisi di un masochismo bulimico).
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Costretto a usare la forza, Putin ha già perso l’Ucraina
I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.Ogni qual volta una o più potenze occidentali da un lato, e la potenza russa dall’altro, hanno deciso di sconvolgere, o viceversa, di tentare il consolidamento degli equilibri strategici consolidatesi in queste regioni, hanno frequentemente fallito. Ottenendo, talune volte, risultati catastrofici. Opposti alle rispettive aspettative iniziali. Accadde durante la guerra di Crimea. Accadde con le iniziative politiche e diplomatiche antecedenti le due guerre mondiali. E’ accaduto in parte durante la guerra fredda. Nonché successivamente al crollo dell’Urss. E’ appena accaduto con l’espansione frenetica ad est, effettuata dall’Unione Europea negli anni duemila. E accade oggi. Con la differenza che il colpo che si è tentato di assestare alla Russia, con l’inclusione nell’orbita occidentale ed europea dell’Ucraina, ha tutta l’aria del colpo definitivo. Inaccettabile per Mosca.Molti si ricorderanno la “Rivoluzione Arancione”, iniziata nel 2004. Esperienza terminata con la coabitazione ai vertici dello Stato fra i due leader rivali Yanukovich e Juscenko. Le recenti vicende di piazza Maidan sembravano molto simili a quelle del decennio scorso. A tratti speculari. Eppure il risultato è stato assai diverso, con il degenerare di un crisi che è parsa fin da subito inevitabile. Oggi, a differenza di allora, la crisi è sfociata in una occupazione militare ad opera della Russia. L’instabilità ha varcato i confini nazionali ucraini, ora rischia di diffondersi, destabilizzando l’intera regione. Le motivazioni di ciò sono diverse, ma alcune evidenti e di facile individuazione: oggi, a differenza di allora, lo scenario globale è cambiato.Dall’inizio della crisi economica, sono andate sempre più consolidandosi nuovi interessi e nuove alleanze strategiche. Alleanze che agli inizi del decennio scorso si intravvedevano appena. Terminato definitivamente il tentativo unipolare dell’America di Bush, il mondo è andato dividendosi. Sono aumentate le potenze regionali in competizione fra loro per il controllo di aree strategiche, economiche e commerciali. In questo contesto, la strategia obamiana prevede un rapido ridispiegamento, attraverso una riduzione drastica dell’esercito statunitense e la creazione di due zone di libero scambio, una Trans-Pacifica (Tpp) e l’altra Trans-Atlantica (Tap). Un ridispiegamento della potenza americana che lascerà molti spazi liberi sullo scacchiere mondiale. Spazi che altre potenze regionali tenteranno rapidamente di colmare. L’Europa si trova al centro di uno di questi spazi. L’Unione Europea “potrebbe” scegliere fra la possibilità di adesione al nuovo disegno obamiano delle aree di libero scambio, attraverso la Tap, o alternativamente valutare la possibilità di apertura e consolidamento delle relazioni con la Federazione Russa. Conseguentemente anche con il Caucaso, l’ Asia Centrale e poi l’intera regione euroasiatica.Ma per l’Est europeo l’amministrazione Obama ha piani ben precisi. Ereditati dalle precedenti amministrazioni e che si sostanziano nell’attività di contenimento della Federazione Russa. Da un lato attraverso lo scudo antimissilistico in fase di dislocamento nei paesi dell’Est e, dall’altro, attraverso l’adesione degli ex paesi europei del blocco socialista, alla Nato. Favorendo lo spostamento del “confine politico” dell’Unione Europea e dei paesi che ruotano nella sua orbita, a ridosso dei confini giuridici della Federazione Russa. Eliminando ogni governo filo-russo che si interponga fra questi confini giuridici e i “confini politici” dell’Unione. Un disegno fondamentale per gli interessi americani, funzionale all’inclusione dell’Unione Europea nell’area di libero scambio Trans-Atlantica. Un disegno che si scontra con la percezione russa dei propri “confini”, mai individuati come un limite statico, ma come un limite dinamico, a seconda dei propri interessi. Un disegno, quello americano, che ha ottenuto il sostegno favorevole di numerosi Stati europei.In questo contesto, il tentativo di sottrarre l’Ucraina alla sfera di influenza russa ha sconvolto un equilibrio che aveva profonde radici storiche. Inoltre, la Federazione Russa ha percepito il tentativo di passaggio dell’Ucraina nella sfera europea e occidentale come un passaggio potenzialmente definitivo e irreversibile. Come una minaccia senza precedenti. L’ipotesi di vedere, nell’arco di un decennio, lo Stato ucraino come un partner consolidato della Nato, dotato dello scudo antimissilistico americano, schierato lungo i confini con la Russia, è apparsa a Putin come uno dei peggiori incubi. Al quale si sarebbe aggiunto la perdita della Crimea, con il conseguente venir meno del controllo esercitato sul Mar Nero. Di fronte all’eventualità di questi cambiamenti radicali, Putin non poteva restare a guardare. Ma, nel medesimo tempo, si è trovato senza alternative. Ha dovuto optare per una reazione forte. L’utilizzo della forza militare. Oggi in Ucraina, come ieri in Georgia.Ma non si tratta di un punto di forza a suo favore, come molti credono. Anzi, si tratta dell’evidente dimostrazione che la Russia di Putin è sprovvista di validi strumenti di politica estera, diversi dall’uso della forza e dall’esercizio del ricatto energetico. Ricatto che può attuare solo in parte, necessitando dei proventi economici ottenuti dalla commercializzazione degli idrocarburi. Si tratta quindi di una Russia caratterizzata da una manifesta debolezza. Non in grado di esercitare nessun “Soft Power”. Obbligata ad aggrapparsi all’uso della potenza militare. La quale, a sua volta, non garantisce la possibilità di esercitare una influenza continuativa. Non garantisce nemmeno la stabilità interna, nel medio periodo, delle aree sottoposte a questa influenza. A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso alla forza può essere esercitato solo per periodi limitati, all’interno del contesto occidentale, pena la marginalizzazione dallo scenario internazionale.Quindi, uno dei vantaggi di Puntin, ovvero il fatto che l’Ucraina non ha un esercito degno di questo nome, non può esser sfruttato pienamente. Putin ne è consapevole e per questo la sua strategia odierna si protrae lungo tre direttrici. L’occupazione militare della Crimea, al fine di mantenere inalterati i vantaggi strategici che la penisola offre, compresa l’egemonia navale russa nel Mar Nero e sul Caucaso. Occupazione che Putin spera di consolidare con il “referendum” previsto per fine mese. “Referendum” che si limiterà a confermare una indipendenza da Kiev già sancita nei fatti. Si tratta inoltre di una occupazione che svolge una funzione di “sfogo” parziale delle tensioni e di riassetto, a favore della Russia, dopo il crollo dell’equilibrio precedente. Il secondo obbiettivo, in realtà di primaria importanza per Putin, è la destabilizzazione interna dell’Ucraina. Senza realizzare occupazioni estese ad ampie regioni del territorio. Destabilizzazione da realizzarsi semplicemente mantenendo una presenza militare minima, anche indiretta, ma accompagnata da una minaccia costante di un impiego massiccio della forza.Alcune zone si proclameranno indipendenti da Kiev, Mosca ne garantirà l’“indipendenza”, senza la necessità di intervenire in forze all’intero del territorio ucraino. L’intento di Putin è quello di impedire al governo di Kiev di consolidarsi. Sia all’interno del territorio ucraino stesso, sia come partner credibile nei confronti dei paesi europei. Questi due aspetti sono funzionali ad uno scopo ben preciso: poter esercitare maggior peso durante le trattative con la Germania e l’Unione Europea, volte alla risoluzione della crisi. Trattative in cui Putin si aspetta di ottenere quante più garanzie possibili sul futuro dell’Ucraina, sul ruolo che la Nato avrà in questo paese. Così come punta a veder riconosciute ampie garanzie sugli spazi di manovra che Mosca vorrà riservarsi, come prerogativa, sul futuro ucraino.Tuttavia Putin, in queste trattative, parte perdente. Questo Putin lo sa, chiaramente. Il suo sogno di fare della Federazione Russa un nuovo centro strategico nei confronti di Stati e potenze minori è fallito. Naufragato ad occidente, con pochi superstiti. Uno di questi è la Bielorussia, ormai rimasta sola, con un semplice salvagente che non le permetterà di restare a galleggiare di fronte ai prossimi cambiamenti europei. Fallito perché ancora una volta Mosca è dovuta ricorrere ai suoi blindati, alla forza, la forza bruta. Uno strumento, quest’ultimo, che può anche risultare funzionante nell’immediato, ma che usato nel contesto occidentale contemporaneo appare sempre più come uno strumento vecchio, un “ferro arrugginito”. Soprattutto se viene visto nelle mani chi voleva fare del proprio paese una potenza, dotata di una valida capacità attrattiva nei confronti di altri Stati della regione euroasiatica.L’uso della forza oggi, da parte di Mosca, appare come una mannaia nelle mani di un chirurgo. Allontanerebbe chiunque. Esattamente ciò che sta accadendo in queste ore. In molti Stati minori, all’interno dell’orbita della Federazione Russa, si registrano preoccupanti reazioni di fronte alla vicenda Ucraina. Di fronte al fatto, evidente, che la propria libertà finisce dove gli interessi della Russia hanno inizio. Il presidente russo è già stato sconfitto. Il suo progetto, il suo disegno del ruolo che la Federazione Russa avrebbe dovuto ricoprire nel mondo, agli inizi del XXI secolo, è fallito. Il suo paese non è in grado di esercitare nessuna pressione differente da quelle derivanti dal ruolo di semplice fornitore di risorse energetiche, materie prime e armi. La Russia non ha espresso nessun modello economico e culturale alternativo e, al tempo stesso, attrattivo nei confronti di altri Stati. Lo “spazio russo” rappresenta semplicemente un’alternativa per gli Stati che, non essendo integrati o integrabili in aree strategiche di altre potenze, non vogliono restare soli nel nuovo scenario internazionale.Putin ha perso l’Ucraina. Anche se dovesse riconquistarla interamente con l’uso della forza. Cosa che, quasi certamente, si guarderà bene dal fare. Tratterà quindi una soluzione con la Merkel, ma tratterà da perdente. Putin, in queste condizioni, può solo puntare al raggiungimento di un momentaneo pareggio, illusorio. A molti osservatori è sfuggito il fatto che questa è la più grave crisi europea dal dopoguerra ad oggi. Probabilmente la più grave, dal punto di vista internazionale, dalla crisi dei missili di Cuba. A molti è anche sfuggito il fatto che i fattori per una ulteriore destabilizzazione regionale, e un ulteriore deterioramento della crisi, ci sono tutti. Una grande potenza in declino, obbligata ad affidarsi all’uso della forza, lo scenario internazionale frammentato, una grave crisi della legittimità nel contesto internazionale, una crisi del multilateralismo, la crisi dell’ordine nella società internazionale, una crisi economica con pochi precedenti. E un leader non incline a compromessi. Il presidente russo è già stato sconfitto. Non serve umiliarlo. In queste condizioni è logico offrire a Putin un pareggio, dietro al quale possa nascondere l’irrecuperabile sconfitta. Offrire alla Russia una soluzione accettabile. Al più presto.(Lorenzo Andorni, “Nella crisi ucraina Putin entra sconfitto, ma da sconfitto non vorrà uscirne”, dal blog di Aldo Giannuli del 4 marzo 2014).I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.
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Vedrete, Renzicchio riuscirà a farci rimpiangere Letta
Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.E il fatto che la scure di Sua Maestà si sia abbattuta proprio su Gratteri la dice lunga sul livello di non detto dei patti inconfessabili che Renzi ha voluto o dovuto stringere col partito trasversale del Gattopardo. Se il premier fosse quello che dice di essere, avrebbe dovuto tener duro su Gratteri o mandare tutto a monte. Invece s’è democristianamente genuflesso a baciare la pantofola e ha nominato il ragionier Orlando, ultimamente parcheggiato all’Ambiente («Orlando chi?», avrebbe detto Renzi qualche giorno fa), rinunciando a dare una sterzata alla Giustizia. Complimenti vivissimi a lui e a Giorgio Napolitano, che si conferma il peggior presidente della storia repubblicana: se Scalfaro nel ‘94 usò il potere di nominare i ministri per sbarrare la strada a Previti, lui l’ha usato per fermare un pm competente, efficiente, onesto ed estraneo alle correnti. E non per un’allergia congenita ai Guardasigilli togati: nel 2011 firmò l’incredibile nomina del magistrato forzista Nitto Palma, amico di B. e di Cosentino.Il veto è proprio ad personam contro Gratteri, che la Giustizia minacciava di farla funzionare sul serio, senza più indulti, amnistie, svuota carceri e leggi vergogna. Davvero troppo per lo Stato che tratta con la mafia e per il suo capo. Accettando senza batter ciglio i veti del Colle, della Bce e di Bankitalia, Renzicchio si candida al ruolo di rottamatore autorottamato. Poteva tentare una svolta, costi quel che costi: s’è prontamente fatto fagocitare dalla “palude” che rinfacciava a Letta. Voleva essere il primo premier della Terza Repubblica: sarà il terzo premier a sovranità limitata, circondato da un accrocco di partitocrati di nuova generazione che non danno alcuna garanzia di esser meglio degli antenati. Con due sole eccezioni: il ministro dell’Economia Padoan, finto tecnico che rassicura le autorità europee e mastica politica da una vita, infatti era consigliere di D’Alema (Renzi voleva Delrio, poi anche lì ha alzato bandiera bianca); e l’addetta allo Sviluppo Federica Guidi, che ha soprattutto il merito di essere una turbo berlusconiana e la figlia di papà Guidalberto.Alfano, che Renzi voleva cacciare dal Viminale per l’affare Shalabayeva, resta a pie’ fermo al Viminale. Lupi, che persino il renziano De Luca accusava di farsi gli affari suoi alle Infrastrutture, rimane imbullonato dov’è. Un altro formidabile conflitto d’interessi porta con sé Giuliano Poletti, ras delle coop rosse, al Lavoro. Notevole anche la Pinotti, genovese come Finmeccanica, alla Difesa. La catastrofe Lorenzin farà altri danni alla Salute. Il multiuso Franceschini passa dai Rapporti col Parlamento alla Cultura. La Giannini, segretaria di quel che resta di Scelta civica, va all’Istruzione. Il cerchietto magico renziano si aggiudica gli Esteri con la Mogherini, le Riforme con la Boschi, la Pubblica amministrazione con la Madia (avete capito bene: Madia). Un po’ di fumo negli occhi con la sindaca antimafia Lanzetta alle Regioni, poi due figuranti come Martina all’Agricoltura e il casiniano Galletti che, essendo commercialista, va all’Ambiente. “Ora mi gioco la faccia”, ha detto Renzi. Già fatto.(Marco Travaglio, “Il Renzicchio”, da “Il Fatto Quotidiano” del 22 febbraio 2014, ripreso da “Micromega”).Bando alle ciance sul premier più giovane e sul governo più rosa della storia italiana. Chissenefrega della propaganda: il governo Letta vantava il record dell’età media più bassa, infatti è durato meno di una gravidanza. Fino a oggi avevamo concesso a Matteo Renzi – come sempre facciamo, senza preconcetti – il sacrosanto diritto di fare le sue scelte prima di essere giudicato. Ora che le ha fatte possiamo tranquillamente dire che il suo governicchio è un Letta-bis, cioè un Napolitano-ter che potrebbe addirittura riuscire nell’ardua impresa di far rimpiangere quelli che l’hanno preceduto. Già la lista con cui è entrato al Quirinale presentava poche novità vere, anzi una sola: quella del magistrato antimafia Nicola Gratteri alla Giustizia. Quella che ne è uscita dopo due ore e mezza di cancellature a opera di Napolitano è un brodino di pollo lesso che delude anche le più tiepide aspettative di svolta.
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Occhetto: rottamata la sinistra, nel Pd vince il potere
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.Eppure, nonostante il granitico impianto ideologico di Letta, Renzi e Napolitano – tagli allo Stato, privatizzazioni necessarie, “sacrifici” sociali inevitabili (secondo i dettami del pensiero unico dell’élite) per Occhetto evidentemente il Pd non è affatto liberista, è ancora “di sinistra”. Intervistato da “Il Giorno” a fine novembre 2013, l’ex segretario rievoca la sua “svolta” che aprì la strada alla Seconda Repubblica del bipolarismo berlusconiano. «La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista», dice Occhetto. «La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Grigio lo spettacolo offerto dai dirigenti Pd: «Sembrano zombie che si muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc». Tra loro, «ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».Manca un passaggio, fondamentale: il livello governativo nazionale – cui Occhetto fa riferimento – è ormai un dettaglio trascurabile. La politica di bilancio è subordinata alle indicazioni vincolanti dei decisori veri, quelli di Bruxelles, che rispondono a Draghi e alla Merkel, oltre che ai “mercati”, ormai padroni di quel che resta dello Stato. Occhetto preferisce limitarsi a denunciare le larghe intese, «una soluzione emergenziale che produce altra emergenza», e puntare il dito contro i difetti del Pd: «E’ afflitto dal male oscuro delle consorterie». Via d’uscita? «Raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica». A Renzi, Occhetto chiede «di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi: serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee».«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.
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Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia
Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.(Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
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Odifreddi: nepotismo e squallore, la Madia ministro
Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del Porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di «portare in dote la propria inesperienza». In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. E’ fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoritismo, come dovrebbe.In Parlamento la Madia brilla come una delle 22 stelle del Pd che non partecipano, con assenze ingiustificate, al voto sullo scudo fiscale proposto da Berlusconi, che passa per 20 voti: dunque, è direttamente responsabile per la mancata caduta del governo, che aveva posto la fiducia sul decreto legge. Di nuovo fa scandalo, questa volta per l’assenteismo. La sua scusa: stava andando in Brasile per una visita medica, come una qualunque figlia di papà. Invece di essere cacciata a pedate, viene ripresentata col Porcellum anche alle elezioni del 2013. Ma poi arriva il grande Rottamatore, e la sua sorte dovrebbe essere segnata. Invece, entra nella segreteria del partito dopo l’elezione a segretario di Renzi, e ora viene addirittura catapultata da lui nel suo governo: ministra della Semplificazione, ovviamente, visto che più semplice la vita per lei non avrebbe potuto essere.Altro che rottamazione: l’era Renzi inizia all’insegna del riciclo dei rottami, nella miglior tradizione democristiana. La riciclata ora rispolvererà l’argomento che aveva già usato fin dalla sua prima discesa paracadutata in campo: «Non preoccupatevi di come sono arrivata qui, giudicatemi per cosa farò». Ottimo argomento, lo stesso usato dal riciclatore che dice: «Non preoccupatevi di come ho ottenuto i miei capitali, giudicatemi per come li investo». Se qualcuno ancora sperava di liberarsi dai rottami e dai riciclatori, è servito. L’Italia, nel frattempo, continui ad arrangiarsi.(Piergiorgio Odifreddi, “La Madia ministro? Vergogna!”, inervento pubblicato nel blog di Odifreddi su “Repubblica” e ripreso da “Micromega” il 22 febbraio 2014).Alle elezioni del 2008, Walter Veltroni usa le prerogative del Porcellum per candidare capolista alla Camera per il Pd nella XV circoscrizione del Lazio la sconosciuta ventisettenne Marianna Madia. Alla conferenza stampa di presentazione, agli attoniti giornalisti la signorina dichiara gigionescamente di «portare in dote la propria inesperienza». In realtà è una raccomandata di ferro, con un pedigree lungo come il catalogo del Don Giovanni. E’ pronipote di Titta Madia, deputato del Regno con Mussolini, e della Repubblica con Almirante. E’ figlia di un amico di Veltroni, giornalista Rai e attore. E’ fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano. E’ stagista al centro studi Ariel di Enrico Letta. La sua candidatura è dunque espressione del più antico e squallido nepotismo, mascherato da novità giovanilista e femminista. E fa scandalo per il favoritismo, come dovrebbe.
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Cardini: soldati privati e polizie agli ordini dell’élite
«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».È facile supporre che un simile marchingegno verrà impiegato in situazioni dove si verifica una forte protesta sociale contro decisioni inique dei governi, argomenta Melotto, ragionando con Cardini sulla recente ripubblicazione del volume “Quell’antica festa crudele”, un viaggio – prima edizione nei primi anni ‘80 – lungo i secoli che vanno dal medioevo alla Rivoluzione Francese. Guerra e pace: «La guerra che crea nuove classi sociali, sollecita spostamenti di popolazioni affamate in cerca di ingaggi mercenari e terrorizza plebi contadine», e la pace che, dpo l’anno mille, «diffonde il proprio messaggio esigente e chiede risposte adeguate, col formarsi di movimenti che pongono seri limiti alle guerre private». Guerre private, organizzate da élite? La certezza del diritto si incrina appena viene meno la sovranità statale: «La sovranità nazionale – dice Cardini – l’Italia non ce l’ha più da quando il sistema Usa-Nato è entrato potentemente nella penisola, innervandola con le sue basi militari senza che i nostri governi abbiano mosso un dito, anzi sulla base di un’evidente loro connivenza».Cardini, osserva Melotto, nella sua analisi storica vuole «mettere l’accento su una civiltà che possedeva una forte consapevolezza di quel che significasse l’andare in battaglia, che trovava in sé gli anticorpi che potessero salvarla da un definitivo tracollo, da un totale cedimento alla barbarie del sangue versato». Consapevolezza che, secondo Cardini, risulta assente ingiustificata ai nostri giorni. Riproporre oggi “Quell’antica festa crudele”, infatti, «è utile per marcare la distanza che separa un periodo di impegno e di scontro culturale e politico dai nostri anni inconsapevoli». Se nei secoli passati la guerra poteva essere “umanizzata”, “razionalizzata” e quindi dominata, oggi «la mancanza di una morale condivisa nell’opinione pubblica pare far da preludio al trionfo delle guerre non più legate ai voleri degli Stati-nazione. Oggi, l’istituzione di una milizia come Eurogendfor fa pensare a un fronte di guerra interno: «È la prosecuzione della costruzione di Eurolandia a favore di chi la gestisce e ne ricava i frutti».Non era meglio la leva obbligatoria? Un esercito difensivo, una forza di protezione civile? «Un esercito che nasca con i soli scopi difensivi e di aiuto alla popolazione civile non è un esercito», dice Cardini. «Quello di cui avremmo bisogno sarebbe un vero esercito europeo, non un’organizzazione di ascari al servizio della Nato. La leva obbligatoria non è più concepibile: il processo di destrutturazione della società civile italiana è andato ormai troppo oltre». Altro segnale allarmante: il movimento pacifista si è quasi dissolto. «Siamo nella fase delle operazioni di polizia internazionali, funzionali al governo delle lobbies multinazionali che sta sempre più governando il mondo intero, con alcune zone ancora poco chiare. Per esempio, dove va la Cina? Si adatterà a questo tipo di gioco, e in che modo?». Quest’anno ricorre l’anniversario dello scoppio della Grande Guerra: quanto vi era di consapevole, nei governanti dell’epoca, nella decisione di mandare al massacro i proletari d’Europa l’un contro l’altro? «Il punto – replica Cardini – non era massacrare i proletari, ma perseguire una politica di potenza: la Russia voleva raggiungere il Mediterraneo, la Francia vendicarsi dei tedeschi e recuperare le aree ferrifere e carbonifere dell’area renano-mosellana. Certo, la guerra era un diversivo rispetto all’affrontare la questione sociale».La sinistra italiana, incarnata allora nel Partito Socialista – ricorda Melotto – fu l’unica in Europa a non chinare il capo alle intimidazioni del nazionalismo, diversamente da quanto fecero i socialisti francesi, che votarono i crediti di guerra dopo l’assassinio del loro dirigente Jean Jaurés. Non fu uno dei momenti più alti della storia del movimento operaio italiano? «Sì, e anche del mondo cattolico che in genere era nemico del conflitto», concorda Cardini. «Ma c’erano ormai larghe aree d’inquinamento nazionalista, tra i socialisti e tra i cattolici. Quanto all’interventismo rivoluzionario, che nasceva su altre basi, alla prova si rivelò un cavallo di Troia del nazionalismo». Oggi, la riflessione storica rischia di essere intorbidita: i «fanatici», decisi a «minimizzare le responsabilità dei nazisti» negando la tragedia della Shoah, finiscono col danneggiare anche «i ricercatori seri», che rivendicano il diritto di rivedere la storia, correggendo errori e mistificazioni. Cè poco da stare allegri: «Ci vorrebbe una Costituzione europea e una raggiunta maturità di coscienza appunto federale o confederale da parte dei popoli, che non c’è». C’è invece il dominio egemonico della Troika. «Chi lo ha voluto? Quali sono i suoi poteri? Chi li ha determinati? Una decisione di questo tipo non può esser presa nel totale silenzio dei governati».(Il libro: Franco Cardini, “Quell’antica festa crudele”, Il Mulino, 520 pagine, 30 euro).«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».