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Magaldi: dietro al terrore, menti massoniche e 007 traditori
«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.«I tragici fatti di Parigi, sia del 7 gennaio che dello scorso 13 novembre 2015, sono anzitutto opera di coloro che hanno creato a tavolino prima Al Qaeda e poi l’Isis», insiste Magaldi, intervistato da Lorenzo Lamperti per “Affari Italiani”. «Chi ha voluto realizzare la strage di Parigi, facendola compiere proprio un venerdì 13, ha mandato un segnale preciso di natura infra-massonica». Magaldi, già “gran maestro” della loggia Monte Sion e poi leader del Grande Oriente Democratico, si riserva di spiegare in seguito di che “segnale infra-massonico” si tratti e perché, «al lume delle notizie riservate che mi sono pervenute», dice, «sia stato scelto egualmente l’autunno per questo attentato, ma non il mese di ottobre, bensì quello di novembre». Magaldi afferma di annoverare «diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia e in particolare a Parigi». Gli hanno “suggerito” che «senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere».Troppo facile, il “lavoro” dei killer: «Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza? Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile». Puntuali, i riflessi politici dopo la strage: il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti, ha detto che “dobbiamo esser pronti a cedere una parte delle nostre libertà” di comunicazione. Un Patriot Act all’italiana? «Se Franco Roberti si è espresso cosi, il Movimento Roosevelt, entità politica metapartitica da me presieduta, chiederà ufficialmente le sue dimissioni», avverte Magaldi. Dimissioni «per manifesta incompatibilità ideologica con i principi e i fondamenti di quelle istituzioni democratiche e liberali che egli, con le strutture da lui guidate, dovrebbe difendere dalle minacce del terrorismo e della malavita organizzata».Magaldi ricorda che il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: «Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza». E dire che la soluzione, quella vera, sarebbe a portata di mano: «Se solo si volesse (ma non si vuole, perché lo show del terrorismo hollywoodiano a cura dell’Isis fa comodo a molti), si dovrebbe procedere con un’azione militare poderosa, per via aerea ma soprattutto via terra, concertata tra tutte le maggiori potenze almeno nominalmente democratiche, preferibilmente sotto l’egida dell’Onu». Un’azione risoluta, «per spazzare via il cosiddetto Califfato dell’Isis dalla faccia della terra». Se solo si volesse, aggiunge Magaldi, in poco tempo i miliziani dell’Isis sarebbero travolti. «Solo che, per essere credibile, legittimato, giustificabile e ben accetto, al presente come per il futuro, un tale intervento militare, una volta conseguita la vittoria, dovrebbe essere seguito rapidamente e seriamente dalla costruzione di infrastrutture materiali e immateriali, culturali, istituzionali ed economiche».Se si vuole la pacificazione occorre un colossale investimento, quindi, per «trasformare quei territori martoriati medio-orientali (ora dominati dal Califfato) in società libere, democratiche, laiche, con un grande dispendio di risorse per aiutare la popolazione locale». Attenzione: «Non si tratta di fingere di “esportare la democrazia”, come volevano far credere all’opinione pubblica mondiale i farabutti massoni contro-iniziati che, tramite la superloggia sovranazionale Hathor-Pentalpha (si legga il primo volume della serie di “Massoni”, per capire di che si tratti), andarono a mettere a ferro e fuoco l’Iraq nei primi anni ‘2000 e altri territori in tempi successivi». Per Magaldi si tratta di costruirla davvero una vita democratica, libera, laica, pluralista e pacifica in quello che ora è l’habitat totalitario, integralista e ierocratico dell’Isis, ma anche nel resto del Medio Oriente. «E per farlo, occorre che i governi delle maggiori potenze democratiche mondiali collaborino con gli ambienti islamici più laici e moderati dell’area nord-africana e medio-orientale».C’è il rischio che ora, in Europa, prendano sempre più forza i populismi e gli estremismi, come Le Pen in Francia o Salvini in Italia? Falso allarme: «E’ uno spauracchio, questo della possibile avanzata dei movimenti populistici ed estremistici, agitato strumentalmente da coloro che poi, per far fronte a questa eventuale avanzata, propongono governi consociativi che, per loro natura, annullano la normale dialettica democratica tra forze politiche alternative». Governi consociativi come quello di Mario Monti, che poi favoriscono l’approvazione, quasi sempre con scarso dibattito politico-mediatico, di misure legislative contrarie all’interesse del popolo sovrano ma assai utili ad interessi privati sovranazionali e apolidi: «Si ricordi l’approvazione totalitaria e silenziata del funesto Fiscal Compact, ad opera del governo Monti, in Italia, e altri provvedimenti simili presi in tutta Europa». Magaldi non tifa certo per i populismi e gli estremismi, tanto più se di natura neo-nazionalistica, ma osserva che «i gruppi dirigenti di questi movimenti, solitamente, quando vanno al governo, si dimostrano del tutto docili e subalterni a quegli stessi poteri apolidi che di consueto si servono di maggioranze consociative e formalmente “moderate”».Magaldi punta il dito contro la regia occulta una certa massoneria internazionale, ma coi dovuti distinguo: «Non bisogna confondere il carattere cinico e apolide delle élites massoniche neoaristocratiche e reazionarie, cui mi sto riferendo, e che in alcuni loro segmenti sono responsabili dell’atroce strage di Parigi del 13 novembre scorso, dal positivo cosmopolitismo dei gruppi massonici progressisti, per i quali la patria non è la propria nazione, ma ogni luogo dove occorra combattere per la democrazia, la libertà e i valori racchiusi nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata all’Onu il 10 dicembre 1948, grazie al “matrocinio” della libera muratrice Eleanor Roosevelt». Proprio nel nome dei Roosevelt, Eleanor e il marito Franklin Delano, promotore del New Deal che resuscitò l’America dalla Grande Depressione sulla base delle ricette macro-economiche di un altro massone, il grande economista John Maynard Keynes, ha dato vita al suo movimento italiano. Missione: democratizzare la politica, sfidando l’egemonia culturale dell’élite che terremota gli Stati con “armi di distruzione di massa” come l’austerity, basata sul taglio dell’investimento pubblico per dare mano libera all’oligarchia finanziaria. Dietro all’economia c’è un vertice politico occulto, insiste Magaldi, dominato da elementi massonici di stampo neo-feudale. E’ un disegno preciso, che avanza tra macerie e vittime. E va fermato nel solo modo possibile: con la democrazia.«Le menti e le mani che hanno prima pianificato ed effettuato gli attentati a “Charlie Hebdo” e poi le terribili stragi di venerdì 13 novembre 2015 sono le stesse, identiche. E sono menti e mani che amano particolarmente le simbologie della tradizione esoterica e massonica occidentale… in modo impressionante», afferma Gioele Magaldi, segnalando una sinistra coincidenza storica: «Non ho ancora sentito nessuno, a livello di mainstream mediatico, ricordare che il venerdì 13 ottobre del 1307, proprio in Francia, il re Filippo il Bello ordinò l’arresto dei Templari. Da allora, quella data ha assunto una rilevanza fondamentale in determinati ambienti appunto esoterici e massonici, e persino nella produzione letteraria e filmografica». Autore del bestseller “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, Magaldi ha denunciato già nel 2014 i piani criminali della superloggia “Hathor Pentalpha”, creata dai Bush reclutando anche leader come Blair, Sarkozy ed Erdogan per una sorta di strategia della tensione (mondiale) inaugurata l’11 Settembre con l’attacco alle Torri, che diede il via alla “guerra infinita”.
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Il massacro di Parigi e le rivelazioni-choc di Gioele Magaldi
Poi non dite che non vi avevano avvisato. Anche la nuova strage di Parigi era annunciata, e non solo dai proclami bellicosi dell’Isis. Da almeno un anno, nelle librerie italiane (non sui giornali che avrebbero dovuto recensirlo) fa bella mostra di sé lo sconvolgente libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, edito da Chiarelettere. Un saggio deliberamente ignorato dal mainstream, che presenta contenuti scomodi e addirittura devastanti, al punto da costringere a rileggere la storia del ‘900. Alla storiografia ufficiale – l’intreccio di dinamiche socio-economiche di massa – il libro aggiunge l’influenza di una regia occulta. E’ il “convitato di pietra”, il vertice massonico mondiale, spesso evocato ma mai prima “presentato”, con nomi e cognomi. Una struttura di potere marcatamente progressista fino ai primi decenni del dopoguerra, e poi – col doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King – rovinosamente degenerata in una parabola reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Dallo storico patto “United Freemasons for Globalization”, la nuova élite ha avuto mano libera fino al Pnac, il piano dei neo-con per il “nuovo secolo americano” su cui costruire il “nuovo ordine mondiale”, quindi l’11 Settembre e la “guerra infinita” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) che è sotto i nostri occhi, compreso l’ultimo spaventoso massacro di Parigi. E resta sempre nell’ombra uno dei soggetti-chiave degli ultimi sanguinosi sviluppi: si chiama “Hathor Pentalpha” ed è una delle 36 superlogge internazionali dell’oligarchia mondiale.“Hathor” è l’altro nome della dea egizia Iside, e non è un caso – per Magaldi – che si chiami proprio Isis l’armata di tagliagole del “califfo” Al-Baghdadi, terroristi e miliziani sostenuti da Turchia e Arabia Saudita, appoggiati da settori dell’intelligence Usa e impiegati in diversi teatri, sempre con la medesima missione: destabilizzare gli assetti statali, generare terrore e caos, ingaggiare l’Occidente in una sorta di Terza Guerra Mondiale che ha come obiettivo strategico il depotenziamento della Cina, vero competitor mondiale dell’egemonia del dollaro, e il suo alleato più potente, l’indocile Russia di Putin. Analisi sviluppate in questi anni da decine di osservatori internazionali, ma solo da Magaldi integrate anche con le lenti dell’élite massonica planetaria. Già “gran maestro” della loggia Monte Sion aderente al Grande Oriente d’Italia, Magaldi rivendica orgogliosamente la sua appartenza libero-muratoria e, nel libro, insiste sulla paternità massonica della modernità: «Lo Stato laico, la democrazia e il suffragio universale non li ha portati la cicogna». Rivoluzione Francese, Rivoluzione Americana. Persino la Rivoluzione d’Ottobre: «Prima di far nascere l’Urss, Lenin fondò a Ginevra la superloggia Joseph De Maistre». Inutile stupirsi più di tanto: «E’ comprensibile che il soggetto storico che ha introdotto la modernità poi cerchi anche di pilotarla a suo piacimento».Nei libri di storia, però, di massoneria si accenna, al massimo, tra le pagine dedicate al Risorgimento italiano – essendo massoni Mazzini, Garibaldi e Cavour, anch’essi appartenenti a una corrente impegnata in una lotta secolare contro l’assolutismo monarchico e l’oscurantismo vaticano. Fuoriuscito dal Grande Oriente d’Italia per fondare una sua associazione, il Grande Oriente Democratico, Magaldi è stato affiliato anche a una storica Ur-Lodge progressista anglosassone, la “Thomas Paine”. E ora ha fondato un organismo politico-culturale, il Movimento Roosevelt, che si richiama al lascito dei Roosevelt, entrambi massoni progressisti: il presidente Franklin Delano, fautore del New Deal, e sua moglie Eleanor, promotrice all’Onu della Dichirazione universale dei diritti dell’uomo. Un orizzonte liberal-socialista, nutrito di idee keynesiane, quelle che ispirarono lo storico piano elaborato da George Marshall per far risorgere l’Europa dalle macerie del dopoguerra. Tradotto oggi: fine dell’austerity disposta dall’Ue ed estensione della spesa pubblica espansiva, verso la piena occupazione. Anche qui: si parla spessissimo di Keynes e del Piano Marshall, evitando però di ricordare che l’insigne economista inglese e il famoso generale erano entrambi massoni progressisti. Magaldi rivela che il loro ultimo “discendente”, il celebre sociologo Arthur Schlesinger Jr., elemento di punta della super-massoneria progressista anglosassone, è l’uomo a cui l’Italia deve il fallimento dei tentativi di colpi di Stato rapidamente succedutisi, promossi da elementi della super-massoneria reazionaria.«L’Italia è sempre stato un paese-laboratorio, un campo di battaglia decisivo dove attuare esperimenti democratici oppure autoritari», spiega Magaldi: «Non a caso, in Portogallo la Rivoluzione dei Garofani del 1974 venne fatta scoccare il 25 aprile, anniversario della Liberazione italiana, per rispondere al golpe dei colonnelli in Grecia». Come sempre, anche oggi l’Italia è nel mirino: nel 2011 è stata investita in pieno dalla potenza di fuoco dell’élite tecnocratica europea, dopo la lettera della Bce con cui la Troika disarcionò Berlusconi, firmata da Jean-Claude Trichet e dal “fratello” Mario Draghi, cui rispose il “fratello” Napolitano insediando a Palazzo Chigi il “fratello” Mario Monti. Le informazioni contenute nel suo libro, assicura Magaldi, sono tutte documentate in 5.000 pagine di archivio, che l’autore si è sempre dichiarato pronto a esibire in caso di contestazioni. Ma non ce n’è stato bisogno: “Massoni, la scoperta delle Ur-Lodges” è stato accolto nel modo più comodo, cioè con la congiura del silenzio da parte di tutti, nel mainstream politico-editoriale. Troppe rivelazioni scomode, per troppi personaggi ancora al potere, da Draghi in giù.Silenzio anche dagli storici, presi in contropiede dalla sconcertante rilettura magaldiana del ‘900: il massone Pinochet contro il massone Allende in Cile, il sostegno della massoneria progressista a John Kennedy, lo “scudo massonico” organizzato per tentare di proteggere Bob Kennedy e Martin Luther King, dalle cui uccisioni scaturì una drammatica rottura. Dagli anni ‘70 si affermò l’ala destra, incarnata da leader come Kissinger e Brzezinski, destinati a mettere all’angolo i leader della corrente progressista. Segreti, misteri e contorsioni anche inattese: l’attentato a Reagan promosso dai sostenitori occulti di Bush e l’attentato (speculare e simmetrico) a Papa Wojtyla, orchestrato dall’élite massonica che aveva sostenuto Reagan. La stessa oligarchia del regime di Bruxelles è interamente massonica, sostiene Magaldi, e appartiene alla corrente neo-conservatrice. Per questo oggi siamo arrivati alla recessione strutturale, alla disoccupazione-record, alla depressione storica di un paese come l’Italia. Loro, i neo-aristocratici, hanno colonizzato il pianeta (e l’Europa) col pensiero unico neoliberista: lo Stato deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, rassegati a ridiventare sudditi. Per Magaldi non è solo un attentato alla democrazia, è anche il tradimento della più autentica vocazione massonica.Nel suo saggio, Magaldi rilegge gli eventi epocali che hanno determinato la situazione di oggi, a partire da libri-evento come “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e asservirlo ai diktat delle grandi lobby multinazionali.Nulla di tutto ciò è avvenuto per caso, avverte Magaldi, che nell’esplosiva appendice del suo lavoro editoriale fa dire al massone oligarchico “Frater Kronos” che qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli nel 1980 dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita alla «inquietante, pericolosa e sanguinaria» superloggia denominata “Hathor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy, incluso il turco Erdogan. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.Per questa missione, si legge sempre nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan. Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro il paravento della “primavera araba”. Ultimo bersaglio, la Russia di Putin. Ma la “geopolitica del caos” si avvale sempre di più della più grottesca creatura dell’intelligence, il fondamentalismo islamico: nel lontano 2009, i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Oggi, Al-Baghdadi è l’uomo che minaccia l’Europa e fa strage di innocenti a Parigi, e c’è chi se ne stupisce: politici e giornalisti esibiscono sconcerto e raccapriccio, come se brancolassero nel buio. Eppure, tra le pagine di “Massoni”, era tutto in qualche modo già scritto. Ma non c’è pericolo che le analisi di Magaldi emergano al punto da affacciarsi in prima serata sul mainstrem televisivo, e neppure sulle pagine sempre reticenti della grande stampa.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Poi non dite che non vi avevano avvisato. Anche la nuova strage di Parigi era annunciata, e non solo dai proclami bellicosi dell’Isis. Da almeno un anno, nelle librerie italiane (non sui giornali che avrebbero dovuto recensirlo) fa bella mostra di sé lo sconvolgente libro “Massoni”, di Gioele Magaldi, edito da Chiarelettere. Un saggio deliberamente ignorato dal mainstream, che presenta contenuti scomodi e addirittura devastanti, al punto da costringere a rileggere la storia del ‘900. Alla storiografia ufficiale – l’intreccio di dinamiche socio-economiche di massa – il libro aggiunge l’influenza di una regia occulta. E’ il “convitato di pietra”, il vertice massonico mondiale, spesso evocato ma mai prima “presentato”, con nomi e cognomi. Una struttura di potere marcatamente progressista fino ai primi decenni del dopoguerra, e poi – col doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King – rovinosamente degenerata in una parabola reazionaria, neo-feudale, neo-aristocratica. Dallo storico patto “United Freemasons for Globalization”, la nuova élite ha avuto mano libera fino al Pnac, il piano dei neo-con per il “nuovo secolo americano” su cui costruire il “nuovo ordine mondiale”, quindi l’11 Settembre e la “guerra infinita” (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria) che è sotto i nostri occhi, compreso l’ultimo spaventoso massacro di Parigi. E resta sempre nell’ombra uno dei soggetti-chiave degli ultimi sanguinosi sviluppi: si chiama “Hathor Pentalpha” ed è una delle 36 superlogge internazionali dell’oligarchia mondiale.
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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo
Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.
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Pace con la Cina e fine della crisi, o Terza Guerra Mondiale
L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migrati, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.Proprio il doping finanziario dell’economia ha tenuto in vita i consumi negli Usa, in Europa e in Giappone, nonostante «salari reali calanti dall’inizio degli anni Settanta», e questo «grazie alla speculazione di Borsa e allo sviluppo del credito al consumo». Sempre la finanziarizzazione ha sorretto industrie decotte in settori “maturi”, come quello dell’auto, e alle stesse aziende ha offerto la possibilità di fare profitti attraverso la speculazione di Borsa. La crisi esplosa nel 2007 ha rotto il giocattolo, «ma non è riuscita a rilanciare l’accumulazione di capitale su scala globale». Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, «e più in particolare l’Eurozona», si trovano molto al di sotto della crescita potenziale stimata prima della crisi, precisa Giacché nella sua relazione presentata ad un recente convegno romano sulla Cina post-crisi. «Nel mondo ci sono decine di milioni di disoccupati in più, soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, e quindi salari mancanti per oltre 1,2 trilioni di dollari, che gravano sulla domanda globale», spiega Giacché. «Il debito complessivo, al contrario, è cresciuto di 57 trilioni di dollari dal 2007», e questo «sia nei paesi a capitalismo maturo, sia nelle economie emergenti, Cina inclusa».Nei paesi più avanzati, è calato il debito privato ma in compenso è molto cresciuto il debito pubblico, a causa della enorme “socializzazione delle perdite” conseguente alla crisi: «Gli Stati hanno salvato a proprie spese dalla bancarotta il sistema finanziario e in qualche caso anche buona parte del settore manifatturiero». Dopo la crisi, le banche centrali di Usa e Giappone (e poi anche Ue) hanno inondato il mondo di liquidità, portando a zero i tassi d’interesse e acquistando massicciamente asset finanziari sul mercato. La Federal Reserve ha comprato titoli di Stato Usa e obbligazioni private per 4 trilioni di dollari, continua Giacché. E nell’Eurozona, oggi, i riacquisti di obbligazioni da parte della Bce sono superiori alle nuove emissioni. «Questo ha sostenuto i mercati azionari e quelli dei titoli di Stato», tuttavia «non ha fatto realmente ripartire la crescita». Una constatazione che ha indotto alcuni studiosi, tra cui il Premio Nobel Paul Krugman e un peso massimo dell’establishment di Washington, l’economista Lawrence Summers, a rispolverare il concetto di “stagnazione secolare”, nato durante la crisi degli anni Trenta.«Poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero». E si temono nuove bolle finanziarie. Secondo Krugman, «periodi come gli ultimi 5 anni e oltre, in cui anche una politica di tassi d’interesse a zero non è in grado di ricreare una situazione di piena occupazione, sono destinati ad essere molto più frequenti in futuro». Quel modello è in crisi, dunque, ma i paesi non sanno rinunciarvi. Questo però si scontra con due problemi, osserva Giacché: «Il primo è la sproporzione crescente tra liquidità immessa nel mercato da parte delle banche centrali e risultati in termini di crescita», sproporzione «accompagnata dal rischio di alimentare instabilità finanziaria». Il secondo problema «consiste nel fatto che le politiche monetarie espansive (convenzionali e non) delle principali banche centrali occidentali sono di fatto pagate dai paesi emergenti, su cui le valute internazionali di riserva (e in particolare il dollaro) esercitano un diritto di signoraggio».In altre parole, «le manovre monetarie espansive del centro capitalistico sono pagate dalla periferia». Ovvero: «Espandendo la loro base monetaria, i paesi le cui monete sono valute internazionali di riserva scaricano infatti il costo della loro politica monetaria espansiva sui paesi emergenti, che sono costretti ad adoperare quelle valute per gli scambi internazionali». Inoltre, continua Giacché, rendendo negativi i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato, il costo dell’operazione viene scaricato su chi li ha comprati (come è noto, la Cina ha molti titoli di Stato americani in portafoglio). Secondo Pingfan Hong, dell’Onu, qualcosa come 3.700 miliardi di dollari di valore sarebbero stati trasferiti in questo modo dai paesi in via di sviluppo ai paesi più ricchi del pianeta. Tutto questo «rappresenta un forte incentivo al superamento dell’attuale ordine monetario mondiale», fondato sulla valuta statunitense.L’obiettivo strategico dei paesi emergenti, dunque, è oggi quello chiarito in anticipo dall’agenzia cinese “Xinhua” già nel 2013: creare “una nuova valuta di riserva internazionale che rimpiazzi quella attualmente dominante, cioè il dollaro”. Obiettivo oggi perseguito costruendo progressivamente un’alternativa concreta all’uso del dollaro, dell’euro e dello yen nelle transazioni internazionali. «Questo sta già avvenendo: attraverso accordi bilaterali, un numero sempre maggiore di paesi ha stipulato con la Cina contratti in base ai quali le transazioni commerciali vengono regolate non più in dollari, ma in yuan. Ed è precisamente su questa base che fin dall’ottobre 2013 lo yuan ha superato l’euro e lo yen nel Trade Finance a livello internazionale, divenendo la seconda valuta mondiale in tale ambito».La richiesta di ammissione dello yuan alle monete del paniere Fmi rientra nella medesima strategia, aggiunge Giacché. Sulla stessa linea, la creazione di nuove banche multilaterali di sviluppo, dalla Banca dei Brics e all’Aiib. Prima missione: costruire infrastrutture finanziarie incentrate sui Brics «e non più sulla triade Europa-Stati Uniti-Giappone», e quindi «in grado di assecondare la transizione a un ordine monetario più bilanciato». L’altro obiettivo, enunciato due anni fa da Justin Yifu Lin nel saggio “Against the Consensus”, è quello di colmare il gap infrastrutturale fisico dei paesi emergenti, eliminando colli di bottiglia dello sviluppo e sbloccando così importanti riserve di crescita mondiale. «È importante notare che di questa crescita beneficerebbero sia i paesi emergenti (com’è ovvio), sia i paesi a capitalismo maturo (in grado di fornire oggi macchinari, domani beni di consumo ai mercati con migliore potenziale del mondo)». Per Giacché, «questa strategia per il rilancio dell’accumulazione di capitale su scala globale è l’unica vera alternativa oggi in campo, per uscire dalla crisi, alla riproposizione del modello imperniato sul capitale produttivo d’interesse e quindi sull’incremento esponenziale del capitale fittizio».Se ci fermiamo sulle più importanti infrastrutture ipotizzate, ossia la Via della Seta (terrestre e marittima), vediamo che «hanno un’implicazione geopolitica fondamentale: ossia l’avvicinamento di Europa ed Asia (e in prospettiva, forse, addirittura la creazione di un blocco eurasiatico)». Oggi, continua Giacché nella sua analisi, a questo avvicinamento si oppone non soltanto la carenza di infrastrutture di trasporto adeguate, ma anche l’“arco di instabilità” che destabilizza Medio Oriente e Asia Centrale, interrompendo in più punti entrambi i tracciati. «Questo dato di fatto ci offre una interessante lettura, non “energetica”, della situazione mediorientale». E «ci deve preoccupare, soprattutto in riferimento ad alcuni enunciati di Lawrence Summers nel contesto della sua ripresa della teoria della “secular stagnation”». Chi lavora per congelare il mondo in questa stagnazione infinita? L’Occidente, che prova ancora a «puntellare il modello di crescita precedente la crisi». Solito metodo: per contrastare il crollo dei profitti, si perpetua «l’egemonia del capitale produttivo d’interesse, pur sapendo che questo non farà che riproporre – e su scala ancora più estesa – i problemi che pochi anni fa hanno condotto a una delle più gravi crisi della storia del capitalismo».Lo stesso Summers accenna anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita, citando Alvin Hansen che enunciò «il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale». Per Summers «è senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata». Un “evento esogeno”? Sì, e così esplosivo da «aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale». Testualmente: «Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi». Un “evento esogeno” chiamato Terza Guerra Mondiale?«Se prendiamo sul serio queste affermazioni, e io credo si debba farlo – dice Giacché – quello che si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Medio Oriente non è una recrudescenza di tribalismo islamico contro la “moderna civiltà occidentale”, e quanto avviene più complessivamente nel mondo non è l’emergere di presunti nuovi imperialismi contro i vecchi poteri capitalistici». Sul tavolo ci sono solo due opzioni: il modello di sviluppo multilaterale proposto dalla Cina, col rilancio della crescita dell’economia reale attraverso investimenti, oppure il modello di crescita solo finanziaria basato sul capitale d’interesse, e cioè «sul perpetuarsi di un signoraggio antistorico» che include «la difesa di vecchie rendite di posizione attraverso la destabilizzazione ora, e domani forse la guerra». E’ Proprio qui, conclude Giacché, che «si gioca oggi la partita – dall’esito tutt’altro che deciso – tra progresso e regressione».L’Isis, la Siria, la Russia. E poi l’Iran, Israele, la Turchia, l’emergenza migranti, la guerra in Yemen. Prove tecniche di Terza Guerra Mondiale? Ci stanno pensando seriamente, anche per azzerare i conti: viceversa, il dominio del dollaro – non più sostenibile – dovrebbe cedere al passo al nuovo mondo dei Brics, multipolare, guidato dalla Cina. Lo sostiene l’economista Vladimiro Giacché, leggendo in chiave economico-finanziaria i devastanti rivolgimenti geopolitici in corso. Il cui punto di partenza non è in Medio Oriente, ma a Wall Street: il capitalismo finanziario non si è più ripreso dopo la grande crisi del 2007, annega nel debito e ne fa pagare il conto ai paesi emergenti, e stampa montagne di moneta ma non riesce a risollevare l’economia reale. «Dopo la grande recessione, i paesi dell’Occidente capitalistico non sembrano capaci di uscire dal modello, inaugurato negli anni Ottanta e definitamente entrato in crisi nel 2007/2008, di una crescita alimentata dal debito e dall’abnorme sviluppo della finanza». Si tratta di un modello «che ha comprato la crescita nei paesi capitalistici avanzati con un’insostenibile crescita di debito e asset finanziari», che in poco meno di trent’anni, dal 1980, sono passati dal 119% del Pil mondiale all’attuale 356%.
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Saskia Sassen: è il golpe dei predatori, ci vogliono espellere
La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.(Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro).La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
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Ue ed Eurozona, un progetto Cia-Rockefeller dagli anni ‘50
Documenti governativi americani declassificati mostrano che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta hanno condotto una campagna per creare lo slancio verso l’Europa unita. Hanno finanziato e diretto il movimento federalista europeo. I documenti confermano i sospetti espressi all’epoca, secondo i quali l’America stava lavorando aggressivamente dietro le quinte per spingere la Gran Bretagna in uno Stato europeo. Un memorandum, datato 26 luglio 1950, fornisce le istruzioni per una campagna finalizzata a promuovere un Parlamento Europeo a pieno titolo. È firmato dal generale William J. Donovan, capo del servizio segreto americano, in epoca bellica “Office of Strategic Studies” (Oss, Ufficio di Studi Strategici), precursore della Cia. I documenti sono stati trovati da Joshua Paul, un ricercatore presso la Georgetown University di Washington. Comprendono i dossier rilasciati dai National Archives degli Usa.Il principale strumento di Washington per definire l’agenda europea è stato l’American Committee for a United Europe (Acue, Comitato americano per un’Europa unita) creato nel 1948. Il presidente era Donovan, che allora era apparentemente un avvocato privato. Il vicepresidente era Allen Dulles, il direttore della Cia negli anni Cinquanta. Il comitato includeva Walter Bedell Smith, il primo direttore della Cia, e un elenco di figure e funzionari ex-Oss che entravano e uscivano dalla Cia. I documenti mostrano che l’Acue finanziò il Movimento Europeo, la più importante organizzazione federalista negli anni del dopoguerra. Nel 1958, ad esempio, ha fornito il 53,5% dei fondi del movimento. La “European Youth Campaign” (Campagna della gioventù europea), un braccio del Movimento Europeo, è stata interamente finanziata e controllata da Washington. Il direttore belga, il barone Boel, riceveva pagamenti mensili in un conto speciale. Quando il direttore del Movimento Europeo, Joseph Retinger, di origini polacche, si risentì di questo livello di controllo americano e cercò di raccogliere fondi in Europa, venno subito rimproverato.I leader del Movimento Europeo – Retinger, il visionario Robert Schumann e l’ex primo ministro belga Paul-Henri Spaak – furono tutti trattati come dipendenti dai loro sponsor americani. Il ruolo degli Stati Uniti è stato gestito come un’operazione segreta. Il finanziamento dell’Acue arrivava dalle fondazioni Ford e Rockefeller, nonché da gruppi d’affari con stretti legami con il governo degli Stati Uniti. Il direttore della Fondazione Ford, l’ex ufficiale dell’Oss Paul Hoffman, ottenne un doppio incarico come capo dell’Acue alla fine degli anni Cinquanta. Anche il Dipartimento di Stato ha avuto un ruolo. Una nota della sezione europea, datata 11 giugno 1965, consiglia il vice-presidente della Comunità Economica Europea, Robert Marjolin, di perseguire l’unione monetaria di nascosto. La nota raccomanda di tacitare il dibattito fino al punto in cui «l’adozione di tali proposte diventerà praticamente inevitabile».(Ambrose Evans-Pritchard, “I federalisti europei finanziati dallo spionaggio Usa”, dal “Telegraph” del 19 settembre 2000. Articolo ripreso il 1° novembre 2015 dal blog “Vox Populi”).Documenti governativi americani declassificati mostrano che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta hanno condotto una campagna per creare lo slancio verso l’Europa unita. Hanno finanziato e diretto il movimento federalista europeo. I documenti confermano i sospetti espressi all’epoca, secondo i quali l’America stava lavorando aggressivamente dietro le quinte per spingere la Gran Bretagna in uno Stato europeo. Un memorandum, datato 26 luglio 1950, fornisce le istruzioni per una campagna finalizzata a promuovere un Parlamento Europeo a pieno titolo. È firmato dal generale William J. Donovan, capo del servizio segreto americano, in epoca bellica “Office of Strategic Studies” (Oss, Ufficio di Studi Strategici), precursore della Cia. I documenti sono stati trovati da Joshua Paul, un ricercatore presso la Georgetown University di Washington. Comprendono i dossier rilasciati dai National Archives degli Usa.
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Volkswagen? Robetta: Gm fece sparire i tram dagli Usa
Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».In uno scandalo di portata più grande, cinquant’anni fa, ricorda Engler in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Come Chisciotte”, erano emerse informazioni che «coinvolgevano le compagnie di automobili in un complotto, con lo scopo di mantenere la popolazione sotto la coltre di una nebbia tossica». Il “complotto dello smog” è stato rivelato nel 1968, quando il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha archiviato un caso di antitrust contro le “tre grandi”, accusate di collusione nel celare l’installazione di marmitte catalitiche e altre tecnologie per ridurre l’inquinamento. A partire dal 1953, disse il Dipartimento di Giustizia, «i difensori e i co-cospiratori sono stati coinvolti in un accordo e complotto irragionevole per la limitazione della suddetta libera concorrenza e commercio nell’equipaggiamento di controllo delle emissioni inquinanti presente nel motore dei veicoli». Per acquietare le critiche montanti sull’inquinamento dell’aria generato dalle automobili, General Motors, Ford e Chrysler (insieme all’Ama, Automobile Manufacturers Association), trovarono un accordo proprio nel 1953 per la ricerca congiunta sulle tecnologie per ridurre le emissioni inquinanti. «I produttori di automobili hanno asserito che la loro alleanza era determinata dall’interesse per la salute pubblica. Non è stato così».Col passare del tempo, continua Engler, è emersa l’evidenza che le Tre Grandi si erano in realtà unite per rinviare l’installazione dei costosi dispositivi anti-inquinamento. Nel libro “Taken for a Ride”, Jack Doyle scrive che «i produttori di automobili, tramite Ama, hanno complottato non per competere nella ricerca, sviluppo, produzione e installazione dei dispositivi» per il controllo dell’inquinamento. In realtà «hanno fatto, congiuntamente, tutto ciò che era in loro potere per ritardare tale ricerca, sviluppo, produzione e installazione», imbrogliando i consumatori. «Ma lo scandalo di portata ancora più grande, nell’ambito delle automobili, è stato di molto peggiore dell’alleanza dello smog», scrive Engler. «È stato un complotto che ha mutato l’aspetto dei paesaggi urbani in tutto il Nord America». Il capo di General Motors, Alfred Sloan, già nel 1922 aveva creato un gruppo di lavoro con l’incarico di «minare e sostituire il tram elettrico». La prima azione del gruppo fu il lancio di una linea di autobus che, a Los Angeles, arrivava un minuto prima della vettura elettrica. Risultato: la linea dei tram è stata ben presto chiusa. «Al tempo vi erano centinaia di linee tramviarie a Los Angeles, così il caso della chiusura di una di esse non si è rivelato particolarmente degno di nota. Ma ciò è stato foriero di cose a venire».All’inizio degli anni ’20 si assisteva al boom dell’industria tramviaria, ricorda lo scrittore canadese. C’erano 1.200 tra compagnie tramviarie e di treni interurbani, con 29.000 miglia di percorso. Negli anni migliori si superavano i 15 miliardi di passeggeri. Più di mille miglia di percorso per i tram si intersecavano nella sola area di Los Angeles, portando ogni giorno al lavoro la maggior parte delle persone. Ma la concorrenza motorizzata stava crescendo: il numero di auto su strada ha raggiuse quota 20 milioni negli anni ’20. In questo periodo così cruciale nella storia del traffico, «General Motors era intenta nell’eliminazione della concorrenza». Offrì ai politici municipali delle Cadillac gratis, «affinché votassero la condotta della compagnia». Fece pressioni anche sulle banche nelle piccole comunità, «in modo tale da mettere alla fame le compagnie locali che finanziavano i tram». E in seguito fu stato reso disponibile un credito agevolato per le compagnie tramviarie che sostituivano i loro percorsi con autobus di General Motors. Nel 1932, l’azienda fondò l’Ucmt, United Cities Motor Transportation, per l’acquisto di compagnie tramviarie in aree urbane e la loro conversione in linee per autobus. Percorsi rivoluzionati, cavi aerei rimossi. A conversione completata, «la Ucmt ha rivenduto le nuove reti di autobus, a condizione che non venissero riconvertite a tram».Nel relativo anonimato di Galesburg nell’Illinois, continua Engler, la stessa Ucmt fece la sua prima acquisizione di controllo nel 1933. «Muovendosi rapidamente, aveva già smantellato le reti tramviarie in tre centri urbani, prima di ricevere il richiamo ufficiale dell’American Transit Association». Dopo il richiamo ufficiale nel 1935, General Motors sciolse la Ucmt. Ma «non ci è voluto molto prima che le sue attività anti-tram venissero ripristinate e raddoppiate». General Motors e soci «hanno sviluppato un network di organizzazioni per il contatto con la clientela». Nel ‘36, Gm si è unita a Greyhound per formare il gruppo National City Lines; nel 1938 ambedue collaborarono con la Standard Oil della California per creare la Pacific City Lines; nel 1939 altre due compagnie, Phillips Petroleum e Mack Truck, si unirono alla National City Lines. Infine, American City Lines è stata creata nel 1943 per focalizzarsi sulle città più grandi. Più difficile la penetrazione di Gm nelle grandi città: «Nelle aree urbane più grandi le linee dei tram erano spesso di proprietà delle compagnie elettriche, le quali con i guadagni della vendita dell’energia elettrica, hanno potenziato le rotaie».Le compagnie elettriche, spiega Engler, beneficiarono di un accantonamento fiscale che permise loro di assorbire i deficit dei tram, tramite tasse più basse. Ma la cosa non sfuggì agli strateghi di Gm, prontissimi come sempre a premere sui politici per promuovere i propri sacri interessi: «Bloccata da quest’accordo di proprietà dell’elettricità per i tram, all’inizio degli ’30 General Motors ha prodotto una quantità di dossier per il Congresso, sottolineando la mancanza di entrate erariali che ne è risultata». Come prevedibile, «la strategia di General Motors si è rivelata un successo». Il Public Utility Holding Company Act del 1935 «ha reso estremamente difficile per le compagnie energetiche possedere le linee dei tram», e così hanno iniziato a venderle. «Diciotto mesi dopo, General Motors ha fatto a pezzi 90 miglia di rete tramviaria a Manhattan. Dopo aver trasformato con successo il sistema tramviario di New York, General Motors e i suoi amici intimi si sono spostati a Tulsa, Philadelphia, Montgomery, Cedar Rapids, El Paso, Baltimora, Chicago e Los Angeles. Detto fatto, un centinaio di reti elettriche di trasporto in 45 città sono state fatte a pezzi, convertite e rivendute». Verso la metà degli anni ’50, quasi il 90% della struttura elettrica dei tram negli Stati Uniti era stata liquidata.«I difensori di General Motors negano che qualsiasi complotto abbia avuto luogo», scrive Engler. Tuttavia i fatti sono schiaccianti: come ha evidenzato Edwin Black nel libro “Internal Combustion”, General Motors fu condannata dal Dipartimento di Giustizia, dal Senato e dai tribunali «per pratiche anti-trust che erano parte di questo complotto internazionale». In una sezione dell’accusa del 1947 si legge che i difensori furono «coinvolti coscienziosamente e di continuo in un accordo sleale e illecito», nonché «in un complotto per l’acquisizione di un reale interesse finanziario in una parte effettiva delle compagnie che forniscono il servizio di trasporto locale in varie città», per «eliminare ed escludere la concorrenza nella vendita degli autobus, dei derivati del petrolio, dei pneumatici e delle camere d’aria alle compagnie locali di trasporto». Il verdetto fu di colpevolezza. «Tuttavia, la punizione per aver complottato per distruggere un modello di traffico di massa è ammontata a una multa di 5.000 dollari: non certo un deterrente, per una compagnia che vale miliardi di dollari».Emissioni truccate e airbag difettosi: negli ultimi 18 mesi, due dei più grandi produttori di auto al mondo sono stati giudicati responsabili di “complotti di morte”. «Le rivelazioni recenti, tuttavia, non possono competere con gli scandali industriali precedenti», avverte lo scrittore canadese Yves Engler, che punta il dito contro gli infiniti atti di pirateria industriale (e corruzione poltica) per soppiantare il trasporto sostenibile, elettrico, a favore del motore a scoppio. A tener banco, ovviamente, oggi è il caso Volkswagen: l’azienda tedesca è stata colta in flagrante per aver equipaggiato milioni di automobili con sistemi taroccati per la misurazione delle emissioni, “pulite” nel corso dei test ma, durante la guida, con un rilascio di ossido d’azoto 40 volte superiore al limite dichiarato. Così, «migliaia di persone saranno colpite da asma, malattie ai polmoni e altri disturbi». Lo scandalo Volkswagen ricorda quello della General Motors, impegnata a «nascondere i difetti nel meccanismo di accensione dell’airbag in milioni dei suoi veicoli». Gli interruttori difettosi fanno in modo che l’airbag si rompa in caso di incidente: «General Motors riconosce che almeno 124 persone sono morte in conseguenza di un’anomalia, della quale i dirigenti della compagnia erano a conoscenza da anni».
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Crisi senza fine? La previde vent’anni fa il “profeta” Craxi
Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.Rivelazioni che «spiegano con parole mirate e incisive i fatti degli ultimi anni ed odierni, ancora oggi tristemente e quotidianamente sotto gli occhi del tutto ignari della quasi totalità» del pubblico, che magari vota Renzi e ha di Craxi un pessimo ricordo. Un libro, quello dell’ex leader del Psi, definito (oggi) da diversi giornalisti “profetico”, “sorprendente”, “agghiacciante”, “al limite della preveggenza”. Lo Stato è a pezzi, così come l’idea di nazione? «La pace si organizza con la cooperazione, la collaborazione, il negoziato, e non con la spericolata globalizzazione forzata», scrive Craxi. «Ogni nazione ha una sua identità, una sua storia, un ruolo geopolitico cui non può rinunciare. Più nazioni possono associarsi, mediante trattati per perseguire fini comuni, economici, sociali, culturali, politici, ambientali». Al contrario, «cancellare il ruolo delle nazioni significa offendere un diritto dei popoli e creare le basi per lo svuotamento, la disintegrazione, secondo processi imprevedibili, delle più ampie unità che si vogliono costruire». E attenti: «Dietro la longa manus della cosiddetta globalizzazione si avverte il respiro di nuovi imperialismi, sofisticati e violenti, di natura essenzialmente finanziaria e militare».Da Mani Pulite, Craxi fu liquidato come “capo di una banda di ladri” per via del finanziamento illecito ai partiti, compreso il suo? «I partiti dipinti come congreghe parassitarie divoratrici del danaro pubblico – scrive l’ex leader socialista – sono una caricatura falsa e spregevole di chi ha della democrazia un’idea tutta sua, fatta di sé, del suo clan, dei suoi interessi e della sua ideologia illiberale. Fa meraviglia, invece, come negli anni più recenti ci siano state grandi ruberie sulle quali nessuno ha indagato. Basti pensare che solo in occasione di una svalutazione della lira, dopo una dissennata difesa del livello di cambio compiuta con uno sperpero di risorse enorme ed assurdo dalle autorità competenti, gruppi finanziari collegati alla finanza internazionale, diversi gruppi, speculando sulla lira, evidentemente sulla base di informazioni certe, che un’indagine tempestiva e penetrante avrebbe potuto facilmente individuare, hanno guadagnato in pochi giorni un numero di miliardi pari alle entrate straordinarie della politica di alcuni anni. Per non dire di tante inchieste finite letteralmente nel nulla».Possibile che sul finanziamento illecito non avesse niente da dichiarare il Pci? «D’Alema ha detto che con la caduta del Muro di Berlino si aprirono le porte ad un nuovo sistema politico», scriveva Craxi. «Noi non abbiamo la memoria corta. Nell’anno della caduta del Muro, nel 1989, venne varata dal Parlamento italiano una amnistia con la quale si cancellavano i reati di finanziamento illegale commessi sino ad allora. La legge venne approvata in tutta fretta e alla chetichella. Non fu neppure richiesta la discussione in aula. Le commissioni, in sede legislativa, evidentemente senza opposizioni o comunque senza opposizioni rumorose, diedero vita, maggioranza e comunisti d’amore e d’accordo, a un vero e proprio colpo di spugna. La caduta del Muro di Berlino aveva posto l’esigenza di un urgente “colpo di spugna”». E’ storia, ormai: «Sul sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche, in funzione dal dopoguerra e adottato da tutti, anche in violazione della legge sul finanziamento dei partiti entrata in vigore nel 1974, veniva posto un coperchio».“Serviva”, quel coperchio, per legittimare una “nuova” classe dirigente europeista, usa obbedir tacendo. «Il regime avanza inesorabilmente: lo fa passo dopo passo, facendosi precedere dalle spedizioni militari del braccio armato», scriveva Craxi quasi vent’anni or sono. «La giustizia politica è sopra ogni altra l’arma preferita. Il resto è affidato all’informazione, in gran parte controllata e condizionata, alla tattica ed alla conquista di aree di influenza». Il regime, continua Craxi, «avanza con la conquista sistematica di cariche, sottocariche, minicariche, e con una invasione nel mondo della informazione, dello spettacolo, della cultura e della sottocultura che è ormai straripante». A proposito di “sottocultura”, Bellisario ricorda il recentissimo attacco «violento, squallido e di bassissimo profilo» sferrato da Luciana Littizzetto contro il Movimento 5 Stelle nientemeno che dalla tribuna televisiva di Fabio Fazio, sulla Rai (in compenso, all’epoca, dalla televisione di Stato fu cacciato Beppe Grillo, colpevole di mettere alla berlina di socialisti “ladri”: anche di quello si occupava, Craxi, anziché esternare sui pericoli della globalizzazione privatizzatrice in arrivo).«Sono oggi evidentissime le influenze determinanti di alcune lobbies economiche e finanziarie e di gruppi di potere oligarchici», scrisse più tardi, da Hammamet, il segretario del Psi. «A ciò si aggiunga la presenza sempre più pressante della finanza internazionale, il pericolo della svendita del patrimonio pubblico, mentre peraltro continua la quotidiana, demagogica esaltazione della privatizzazione», che è sempre «presentata come una sorta di liberazione dal male, come un passaggio da una sfera infernale ad una sfera paradisiaca: una falsità che i fatti si sono già incaricati di illustrare, mettendo in luce il contrasto che talvolta si apre non solo con gli interessi del mondo del lavoro ma anche con i più generali interessi della collettività nazionale». Parole sante, col senno del poi? Non si direbbe: la Grande Privatizzazione continua anche ora e più che mai, con Renzi, che mette all’asta persino un modello di impresa pubblica in super-attivo, Poste Italiane.Facile dire che vedeva lungo, Craxi: «La “globalizzazione” non viene affrontata dall’Italia con la forza, la consapevolezza, l’autorità di una vera e grande nazione, ma piuttosto viene subìta in forma subalterna in un contesto di cui è sempre più difficile intravedere un avvenire, che non sia quello di un degrado continuo, di un impoverimento della società, di una sostanziale perdita di indipendenza». Chissà cos’avrebbe detto, oggi, di fronte agli ultimi orrori, a comiciare dal Ttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue che rade al suolo ogni residua sovranità economica. Per non parlare del Fiscal Compact e del pareggio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, a certificare la morte clinica dello Stato come garante della comunità nazionale. Ai tempi, quando i Prodi e i Ciampi magnificavano il dorato avvenire promesso da Bruxelles, Craxi scriveva: «I parametri di Maastricht non si compongono di regole divine. Non stanno scritti nella Bibbia. Non sono un’appendice ai dieci comandamenti». E l’andamento di questi anni «non ha corrisposto alle previsioni dei sottoscrittori: la situazione odierna è diversa da quella sperata».Ogni trattato, aggiungeva Craxi, può e deve essere rinegoziato, aggiornato, adattato alle condizioni reali e alle nuove esigenze: «Questa è la regola del buon senso, dell’equilibrio politico, della gestione concreta e pratica della realtà», lontano cioè dall’autismo dogmatico dei tecnocrati e dei loro cantori più o meno prezzolati, distribuiti in ogni paese. «Su di un altro piano stanno i declamatori retorici dell’Europa, il delirio europeistico che non tiene contro della realtà, la scelta della crisi, della stagnazione e della conseguente disoccupazione». La “scelta della crisi”, dunque, da cui la “conseguente disoccupazione”. L’euro? No, grazie: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro». Ed era solo la fine degli anni ‘90. L’Italia non era ancora finita nel girone infernale della Bce: recessione e crollo del Pil, super-tassazione, licenziamenti e fallimenti, erosione dei risparmi, disperazione sociale, rassegnazione al declassamento dell’Italia Così parlava il “profeta” Craxi. Rileggerlo oggi? Scomodo, per troppi personaggi in pista già allora. Uomini che però, anziché ad Hammamet, sono fini alla Bce, al Fondo Monetario e all’Ocse, a Bankitalia, alla Goldman Sachs. E naturalmente a Palazzo Chigi, e al Quirinale.Col suo libro esplosivo sulle 36 super-logge segrete del massimo potere mondiale (“Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere), il massone Gioele Magaldi, fondatore del Grande Oriente Democratico in aperta polemica con la massoneria ufficiale italiana, «ha completamente riscritto la storia degli ultimi non so quanti anni», scrive Vincenzo Bellisario sul sito del “Movimento Roosevelt”, nato su impulso dello stesso Magaldi per squarciare il velo sulla politica italiana dominata dall’élite internazionale e contribuire a democratizzare il sistema, in un percorso di ripristino della perduta sovranità. Ma a fare un’anologa denuncia, ricorda Bellisario, fu il vituperato Bettino Craxi, dal suo esilio di Hammamet, nella seconda metà degli anni ‘90. Memoriale uscito nel 2014, col titolo “Io parlo, e continuerò a parlare” (Mondadori). Altro libro utilissimo, dice Bellisario, «per comprendere in “altri termini” cos’è accaduto e accade in Italia, in Europa e nel mondo», ovvero: nomi e cognomi di chi ci ha inguaiato davvero, precipitandoci in questa crisi infinita.
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L’Ue odia ciò che amiamo, proprio come la vecchia Urss
«Se controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate risorse propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonchè il controllo di forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova società in tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di tradizioni in poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle tue tasche poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è esisitito. Nessuno ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo in Europa, dove l’ignoranza è ormai forza» (John Rappoport, “The Underground”). Uno dei principi cardine del globalismo elitario è: fine dei confini, cessare l’esistenza di nazioni separate e distinte. L’Unione Europea fu concepita a tale scopo ed edificata, a piccoli passi, a partire dalle macerie della seconda guerra mondiale: una superburocrazia ed un sistema di gestione politica per l’intero continente. Ma questo non era ancora abbastanza. Doveva esserci pure un modo di demolire nazioni diverse tra loro e sovrane fino a lasciare una tabula rasa, un modo di alterarare radicalmente il paesaggio. Aprire i confini, lasciare che i territori nazionali fossero inondati da migranti.“Sostituire le popolazioni”, flussi di gente che non ha la minima intenzione di accettare costumi e stili di vita in voga nelle loro nuove case. Il risultato finale? Una riconfigurazione di fatto delle popolazioni nazionali, al punto che, guardando all’Europa tra vent’anni potremo dire: «Perchè mai parliamo di Germania, Francia o Inghilterra? Non esistono realmente. L’intera Europa è un miscuglio non omogeneo di vari migranti, l’Europa oggi è una sola nazione, è tempo di cancellare tutti questi confini artificiali». A un certo punto anche solo pronunciare parole quali “svedesi, norvegesi, tedeschi, francesi, olandesi” sarà considerata una più o meno micro, o macro, aggressione contro “le genti d’Europa”. Chiaramente una volta raggiunto questo stadio a ciò si accompagnerebbe un certo quantitativo di caos e violenza. La Ue sta scommettendo sulla sua capacità di gestire il disordine, di reprimerlo quando necessario, e consolidare e mantenere lo status di unica forza di governo effettiva in Europa.Ad un livello culturale, nomi come Locke, Shakespeare, Goethe, Mozart, Beethoven, Bach, Lorca, Goya, Cézanne, Monet, Van Gogh, Michelangelo, Rembrandt, Dante, Galileo, Faraday e persino nomi “moderni” come Bartok, Stravinsky, Rimbaud, Orwell e Camus non resteranno che vaghi fantasmi polverosi in grado di provocare null’altro che sguardi di incomprensione. “Il passato è morto”. “Ma non c’è nulla da temere, quel che conta è che ogni persona che vive in Europa è cittadino europeo e gode dei benefici che ne derivano. E’tutto molto umano, questo è il Bene, il trionfo dello Stato benevolo. Nient’altro conta”. Tutte le lingue europee cadranno progressivamente in disuso. Chi ha il diritto di esprimersi con parole che la maggioranza non è in grado di capire? Questo schizzo che sto tracciando descrive la griglia che sta per essere lanciata sull’Europa. E chiaramente, dal momento che l’automazione galoppa, molti “cittadini-lavoratori d’Europa” diventeranno inutili. Persino grandi multinazionali crolleranno, perchè non potranno più vendere i loro prodotti alle popolazioni impoverite. Non fanno che sperare che milioni di asiatici, Cina e India in testa, gli regaleranno nuovi mercati.Su questo sfondo l’essere umano individuale sarà considerato, dall’alto, come una cifra, una astratta unità buona per “modelli e algoritmi”. La domanda è: quanti individui abboccheranno e accetteranno di vedere se stessi come semplici parti interscambiabili nel sistema generale? Quanti getteranno via ogni speranza e accetteranno il futuro solo come una funzione di quello che lo Stato è disposto a concedere e che dallo Stato possono ottenere gratis? In quanti realizzeranno che il loro potere come individui è inconsequenziale, o meglio pura illusione? Come mai ho avuto voglia di far salire a galla cose simili? Perchè, nonostante la prevalente mentalità collettivistica, propagandata, promossa e sfruttata al livello dell’élite, la repressione di Stato, a tutti i suoi livelli, colpisce ogni individuo. Se il concetto stesso di individuo viene spezzato via, cosa ne resta? Nel 1859 John Stuart Mill scrisse: «Se ci fosse coscienza del fatto che il libero sviluppo dell’individualità è un fattore essenziale al benessere non ci sarebbe alcun rischio che l’importanza della libertà sia sottovalutata». Contrariamente, dove il libero sviluppo dell’individualità non è preoccupazione di nessuno, la libertà è destinata a morire.Boris Pasternak, lo scrittore e poeta Russo, che certamente sapeva un paio di cosette sulla repressione politica, scrisse (nel 1960): «Loro (i burocrati sovietici) non pretendono molto da te. Soltanto di odiare le cose che ami e amare le cose che odi». Questa inversione viene riproposta oggi, in Europa. I dissidenti della vecchia Urss lo riconosceranno in un lampo, dal momento che ci sono già passati. La versione europea ci tiene ad apparire più morbida e gentile, ma non è altro che questione di strategia. La cultura se la stanno cuocendo a fuoco lento. Ma il semplice fatto che non abbiamo la polizia segreta che bussa alle nostre porte nel mezzo della notte per eseguire arresti di massa non è di per sé garanzia che la libertà individuale regna. Parecchi politici europei dicono ai loro elettori: «Non avete il diritto di opporvi in nessun modo alla marea di migranti in arrivo. Dichiarare pubblicamente ostilità ai migranti è offensivo». Suona familiare?Il sogno segreto di ogni collettivista sta divenendo realtà. Tutto il potere accentrato al vertice; e totale conformità (definita “unità”) ad ogni altro livello. La nuova Urss. Ai vecchi tempi la polizia della Germania Est aveva un fascicolo su ogni cittadino e seminava per la popolazione spie e informatori. Il moderno Stato di sorveglianza ha rimpiazzato questi sistemi, cercando piuttosto i “nodi del malcontento”. I collettivisti possono, a parole, anche denunciare all’occorrenza i rischi di uno stato di polizia, ma ogni volta che questi sistemi sono usati per sbarazzarsi di qualcuno che possiede la visione di un mondo migliore di quello basato, tra le altre cose, sull’assenza di confini allora è soltanto “il Bene” imposto a chi non sa riconoscere il bene da solo. Se un tale nobile scopo umanitario ha bisogno di qualche spintarella per essere inculcato, perchè no?Per colletivisti fatti e finiti, la libertà non è solo un fastidioso blocco stradale, peggio, è una illusione irrilevante, non è mai esistita. Tutti gli esseri umani funzionano per come sono programmati a farlo, sin dalla nascita. Quindi, basta installare un programma migliore, inculcalo con ogni mezzo a disposizione, purchè si producano i desiderati “uomini-bambino”. E’un imperativo sia politico che tecnologico. Confini aperti ed immigrazione illimitata sono un ottimo caso-prova. Per la gente che pensa gli venga imposta la frammentazione delle proprie comunità, che si sentono personalmente minacciate, che abbiano la percezione che sia una operazione coperta per trasformare l’Europa in una nuova Urss, urge rieducazione al livello più profondo possibile. Per il loro bene, perchè certamente questa gente soffre di gravi disturbi. I loro circuiti sono bruciati, dev’esserci qualche difetto hardware del cervello, sono incapaci di vedere le cose correttamente.Tra le cose che non potrebbero vedere ad esempio ad esempio, è la saggezza in queste parole di Zbigniew Brzezinski, ovvero l’alter ego di David Rockefeller, che nel 1969 scriveva: «Lo Stato nazione, inteso come unità fondamentale nella vita organizzata dell’uomo ha cessato di rappresentare la principale forza creativa: le banche internazionali e le corporazioni multinazionali agiscono e pianificano in termini che scavalcano ed eludono i concetti politici delllo Stato-nazione». Qui vediamo il tattico globalista in azione, un uomo che apparentemente odia la vecchia Urss ma che in realtà punta all’istallazione del medesimo collettivismo attraverso altri mezzi. Se Lenin fosse vivo oggi, guardando all’Europa sarebbe d’accordo che la sua agenda è in pieno corso e gode di ottima salute. Potrebbe obiettare solamente per il passo relativamente lento a cui procede. Potrebbe sostenere che serve maggiore violenza. Ma non potrebbe non riconoscere come i suoi successori hanno scoperto un bel po’ di utili trucchetti nuovi. Approverebbe dell’“altruismo umanitario”, il modo in cui viene presentato e manipolato, in modo che l’edificio del “Bene” appaia come una luce che brilla nell’oscurità. Gran film. Bel lavoro di produzione. Le lacrime sulle gote degli spettatori. Le menti ridotte a una sola costante: dobbiamo interessarci a chi è meno fortunato di noi. Milioni di migliaia di migliaia di dollari spesi per instillare il sentimento, indipendentemente dalle circostanze o dalle vere intenzioni malevole sottostanti, o le indicibili sinistre intenzioni degli artisti elitari della realtà.(Jon Rappoport, “Il piano per la fine dell’Europa: la nuova Urss”, dal blog di Rappoport del 21 ottobre 2015, post tradotto da “Come Don Chisciotte”).«Se controlli il significato de “il bene” e possiedi illimitate risorse propagandistiche e il controllo sulla stampa, nonchè il controllo di forze armate e forze di polizia, puoi edificare una nuova società in tempi relativamente brevi. Puoi spazzare via secoli di tradizioni in poche decadi. Se hai pure il sistema dell’istruzione nelle tue tasche poi, puoi persino cancellare la memoria di ciò che è esisitito. Nessuno ricorderà e a nessuno interesserà. Sta già succedendo in Europa, dove l’ignoranza è ormai forza» (Jon Rappoport, “The Underground”). Uno dei principi cardine del globalismo elitario è: fine dei confini, cessare l’esistenza di nazioni separate e distinte. L’Unione Europea fu concepita a tale scopo ed edificata, a piccoli passi, a partire dalle macerie della seconda guerra mondiale: una superburocrazia ed un sistema di gestione politica per l’intero continente. Ma questo non era ancora abbastanza. Doveva esserci pure un modo di demolire nazioni diverse tra loro e sovrane fino a lasciare una tabula rasa, un modo di alterarare radicalmente il paesaggio. Aprire i confini, lasciare che i territori nazionali fossero inondati da migranti.
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Pasolini, spentosi stanotte nel suo letto a 93 anni
A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.Da “Ragazzi di vita” a “L’uomo di cartone”, da “Petrolio” a “Servizi e sevizie di Stato”, i romanzi dello scrittore friulano hanno segnato la coscienza di almeno tre generazioni di scrittori, tanto da far nascere intorno alla sua figura due scuole di pensiero contrapposte come il filopasolinismo e l’antipasolinismo. Testimone della vita politica italiana del Novecento, lascia una corposa produzione di saggi e articoli di assoluto rilievo per capacità di analisi e disvelamento critico delle dinamiche del potere e delle sue degenerazioni. Letteralmente sopravvissuto a due attentati alla sua vita, il primo all’idroscalo di Ostia nel ’75, del quale porta i segni sul suo corpo rimasto gravemente offeso con la perdita di un occhio e della funzionalità di una gamba; il secondo a Milano nell’86, quando un fanatico ultracattolico spara diversi colpi di pistola ferendolo gravemente, non ha mai smesso di denunciare la collusione tra poteri forti e forze occulte, anche internazionali, al fine di formare e controllare i governi centristi dell’epoca. Al punto che Pasolini annuncia con ampio anticipo il prossimo avvento del golpe continuo. Cioè la nuova alleanza tra potere finanziario e industria della comunicazione che prenderà da lì ad alcuni anni l’intera classe politica in ostaggio.Proprio la sua ferma opposizione al lessico massmediologico televisivo degli ultimi due decenni ha dato l’impulso decisivo al Parlamento italiano per elaborare e approvare una legge, cosiddetta “salvacoscienze”, tra le più avanzate d’Occidente, che di fatto ha impedito l’ascesa al governo del paese dei tycoons televisivi. Difatti nelle tematiche affrontate nei suoi film degli anni Ottanta e Novanta, tra i quali non possiamo non menzionare “La nuova rabbia“(1984), “’Ottantanove, la fine delle virtù” (1991), “L’Arca dei sogni”(1997), Pasolini sancisce il tramonto della spinta utopistica necessaria alla nascita della società nuova che, sconfitta proprio nella elaborazione condivisa di un nuovo patto sociale autenticamente democratico, viene soggiogata definitivamente dal maglio vendicativo dell’“eterno” fascismo italiano.Qui, sul terreno della visione e comprensione della Società intesa come Ente morale fondamentale, rimangono memorabili le sue polemiche con la quasi totalità degli intellettuali di allora che egli dichiara essere “complici del sottopotere familistico e oscurantista espresso dal dominio onnivoro del partitismo”. La sua strenua resistenza, fisica, morale e intellettuale è stata determinante per l’avanzare del processo di quella che Pasolini definisce debordianamente “la realizzazione filosofica della Politica” alla quale stiamo finalmente assistendo con l’esperienza in corso dell’attuale governo Agamben.Crediamo che il popolo italiano abbia un alto debito di riconoscenza verso questo intellettuale, la presenza del quale ha permesso di cambiare il corso della storia del nostro paese, che senza la sua voce sarebbe certamente regredito sul piano della crescita civile, del valore artistico e della dignità morale. Assecondando le ultime volontà del poeta, le esequie si terranno in forma strettamente privata.(Andrea Panzironi, “Eulogia per Pasolini, morto serenamente nel suo letto questa notte”, pubblicato su “Il Foglio” e ripreso da “Come Don Chisciotte” il 2 novembre 2015. Panzironi è un tassista romano, spiega il giornale: suona il clarinetto, ama il jazz e ammira due categorie, musicisti e acrobati. «Si definisce taxi-writer, e sa scrivere»).A novantatré anni il poeta si è spento serenamente nella sua amata Torre di Chia a Soriano nel Cimino (Vt). L’intellettuale che più di ogni altro ha saputo interpretare gli ultimi cinquant’anni della società italiana lascia incompiuta la sua ultima opera letteraria,“Innocenza di Stato”, che già si annuncia come il caso letterario dell’anno. Cordoglio tra tutte le forze politiche e istituzionali del paese che ne rimarcano l’alto valore civile e morale. Il presidente della Repubblica si dichiara addolorato per una perdita irreparabile per la nazione tutta. I presidenti di Camera e Senato ne ricordano il contributo fondamentale per la riforma del sistema scolastico e universitario, quando fu nominato ministro della pubblica istruzione nell’eccezionale e breve governo Berlinguer del 1980. Da tutto il mondo giungono messaggi di ringraziamento per la sua produzione letteraria e cinematografica. Ancora vive sono le immagini del trionfo del suo trentaseiesimo e ultimo film “Il pane dei vinti”, Palma d’Oro a Cannes nel 2002.