Archivio del Tag ‘storia’
-
Magaldi: Isis e austerity, doppia impostura e identici registi
Non credete a quello che vi dicono, non date retta alla verità ufficiale. Non lo dice un “complottista”, ma un massone atipico come Gioele Magaldi, che da un anno gira l’Italia presentando il suo libro sconcertante, edito da Chiarelettere, che mette in piazza i misfatti di alcune delle 36 Ur-Lodges che reggono i destini del mondo, dietro le quinte, manovrando leader che spesso hanno direttamente fabbricato. Leader e “nemici da abbattere”, come la loro ultima creatura, l’Isis, fatta apposta per generare paura, odio e guerra, rimestando nel torbido stagno dello “scontro di civiltà”, evocato per la prima volta dal massone Samuel Huntington, autore del saggio “La crisi della democrazia” voluto dalla Commissione Trilaterale, organismo “paramassonico” e cinghia di trasmissione semi-ufficiale dei voleri dell’élite-ombra, il cui obiettivo, da quarant’anni, è sempre lo stesso: sabotare la sovranità degli Stati, per consegnare tutto il potere nelle mani dei signori del “mercato”. Il traffico di petrolio denunciato clamorosamente da Putin, che collega l’Isis alla famiglia presidenziale turca? Verità svelate da almeno un anno, tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: Erdogan fa parte a pieno titolo della superloggia “Hathor Pentalpha”, nel cui nome c’è già l’Isis (Hathor, secondo nome della dea egizia Iside).Loro, gli uomini del clan fondato dai Bush all’epoca dell’elezione di Reagan, avrebbero organizzato il disastro dell’11 Settembre. E oggi serebbero alle prese col nuovo copione del terrore, quello del Califfato. Per questo non bisogna mai credere all’Uomo Nero, aggiunge un altro massone, Gianfranco Carpeoro, schierato con Magaldi nel “Movimento Roosevelt”, associazione sorta per “risvegliare alla verità” la politica italiana (clamorosa la proposta, rivolta al Movimento 5 Stelle, di candidare a sindaco di Roma un valoroso combattente della democrazia come il grande economista Nino Galloni). L’Uomo Nero – ieri Bin Laden, oggi Al-Baghdadi – è sempre una creazione “magica” del potere: «Il loro obiettivo – ricorda Carpeoro a “Border Nights”, trasmissione radio via web – è sempre lo stesso: indurci a odiare il “nemico” di turno, anziché il sistema che l’ha prodotto». Ma l’Uomo Nero, per farci paura, ha bisogno di vaste coperture: politiche, diplomatiche, industriali, militari, finanziarie, mediatiche. I cosiddetti poteri forti. Attenzione, avverte Magaldi: non si tratta di una semplice élite di potere. I grandi burattinai sono tutti massoni, affiliati a superlogge segrete internazionali. E convinti che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi. Solo loro, gli “eletti”, auto-promossi in una sorta di “aristocrazia spirituale”, si credono in grado di stabilire cos’è bene e cos’è male.Sono gli uomini come il “venerabile” Mario Draghi, che Magaldi chiama “contro-iniziati”, cioè traditori della missione massonica originaria: “libertè, egalitè, fraternitè”, ideali su cui le logge del ‘700 basarono la storica guerra sotterranea contro l’assolutismo monarchico, innescando la Rivoluzione Francese e quella americana, quindi i Risorgimenti dell’800 e le grandi rivoluzioni del ‘900, compresa quella russa. Magaldi l’ha ripetuto in una lunga video-intervista che Claudio Messora ha realizzato e pubblicato sul seguitissimo blog “Byoblu”, vicino all’area grillina. Un’ora di rivelazioni a catena, per spiegare (anche) la candidatura romana di Galloni: «Se fosse eletto sindaco della capitale, esordirebbe con un gesto necessario e dirompente: la rottura del “patto di stabilità” che costringe artificiosamente gli enti pubblici a deprimere la spesa, mettendo in sofferenza i cittadini, non in nome di criteri economici ma solo di diktat ideologici imposti da quell’élite oligarchica che vuole semplicemente la fine della democrazia». L’autore di “Massoni” cita il politologo statunitense John Rawls e la sua “teoria della giustizia”: nulla in contrario alla ricchezza, se sudata, purché nella società non restino persone senza reddito, senza il diritto a un’esistenza dignitosa. Diritto al lavoro, da inserire nella Costituzione: «Oggi serve un’alta autorità deputata alla creazione della piena occupazione, in Italia», ben sapendo che la crisi – rigore, austerity, disoccupazione – è stata espressamente voluta: il bisogno e la paura del futuro trasformano i cittadini in sudditi, secondo la visione neo-feudale dell’élite dominante.Era un massone, Rawls, e purtroppo lo era anche Robert Nozick, il teorico dello “Stato minimo”: tagli drastici alla spesa sociale, come raccomandato anche dalla scuola austriaca, quella di Friedrich Von Hayek, altro massone, punto di riferimento di un esponente nostrano della massoneria neo-oligarchica, Mario Monti. Proprio la “libera muratoria”, insiste Magaldi, è il convitato di pietra dei nostri giorni: benché assente, clamorosamente, dalla storiografia, la massoneria ha letteralmente “fatto la storia”, creando le basi della modernità (democrazia, elezioni, Stato di diritto), e poi ha partorito un’élite di potere di segno opposto, reazionario, che ha dominato gli ultimi decenni. Un’élite di rinnegati e “contro-iniziati”, appunto: «Tradiscono l’ispirazione umanitaria della massoneria storica, che ha conferito ad ogni singolo cittadino, prima la prima volta, una quota di sovranità: prima non esistevano cittadini, ma solo sudditi, esposti all’arbitrio del monarca». Se non ci si decide a riconoscere finalmente il ruolo positivo e decisivo della “libera muratoria” come leva dello sviluppo civile democratico, fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo promossa da Eleanor Roosevelt, è impossibile capire fino in fondo chi abbiamo di fronte oggi, insiste Magaldi: è fondamentale la matrice massonica del nuovo super-potere, quello delle Ur-Lodges apolidi e affaristiche, pronte a manipolare la storia sociale del mondo in nome delle proprie convinzioni iniziatiche, corrotte dal suprematismo neo-aristocratico.Enorme, comunque, anche tra i commenti sul blog di Messora, la diffidenza nei confronti di Magaldi e della massoneria in generale. «In materia, in Italia, c’è un’ignoranza abissale», ammette lo stesso Magaldi, che nel suo libro denuncia il ruolo di Gelli e della P2 come longa manus della superloggia reazionaria e golpista “Three Eyes”, quella di Kissinger, a cui sarebbe stato affiliato anche Giorgio Napolitano. In polemica col “Grande Oriente d’Italia”, Magaldi ha condotto una battaglia per la trasparenza, fondando il “Grande Oriente Democratico”. Poi ha concepito il progetto editoriale “Massoni”, per scuotere le acque, affiliandosi anche alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Il “Movimento Roosevelt” è l’ultima creatura, apertamente politica, per contrastare l’emergenza attuale, fondata sull’artificio ideologico del rigore. Non è casuale, ovviamente, il richiamo al grande presidente americano: «Quando gli Usa agonizzavano, in preda alla Grande Depressione, il repubblicano Hoover condusse la sua campagna elettorale nel silenzio imbarazzato del suo stesso partito: nessuno più credeva alla ricetta dell’austerity, ed era il 1929. La riscossa venne proprio dal massone Roosevelt, grazie al genio economico di un altro massone, John Maynard Keynes, l’uomo della spesa pubblica espansiva: solo lo Stato ha il potere di risollevare le sorti dell’economia. A loro, l’Europa deve lo sviluppo e la prosperità del dopoguerra».Grandi personaggi, leader storici indiscussi, di cui però viene sempre regolarmente omessa l’appartenenza massonica. Un “buco nero” a cui probabilmente ha contribuito la massoneria stessa, con la sua tradizionale riservatezza, ereditata dall’epoca in cui gli inventori della democrazia rischiavano il cercere e la forca. Oggi la massoneria torna a fare notizia, ma generalmente in negativo: sinonimo di potere occulto, di network deviato e pericoloso. «Io sono orgogliosamente massone», protesta Magaldi, «e, come me, tanti “fratelli”, in Italia e nel mondo, decisi a contrastare questa leadership egemonica nefasta». Grande complotto, da parte dei neo-aristocratici? L’autore di “Massoni” preferisce parlare di “progetto”: «E’ comprensibile che, chi ha creato la modernità, pensi di poterla pilotare a suo piacimento. Comprensibile, ma sbagliato: il potere deve assolutamente e rapidamente tornare al popolo, per via democratica. E questo, anche se i libri di storia non lo spiegano, è un orientamento non soltanto giusto, ma anche profondamente massonico, nonostante il pessimo esempio fornito dai contro-iniziati come Draghi e Monti». Il viaggio di Gioele Magaldi continua, come le tappe della presentazione del suo libro, oscurato dai media mainstream. «Lei non ha paura?», gli domanda Messora. «Ricevo minacce di morte, ma vado avanti», assicura Magaldi, deciso a completare la missione: strappare il velo che ci impedisce di vedere che i burattinai dell’Isis e quelli dell’austerity europea sono le stesse persone.Non credete a quello che vi dicono, non date retta alla verità ufficiale. Non lo dice un “complottista”, ma un massone atipico come Gioele Magaldi, che da un anno gira l’Italia presentando il suo libro sconcertante, edito da Chiarelettere, che mette in piazza i misfatti di alcune delle 36 Ur-Lodges che reggono i destini del mondo, dietro le quinte, manovrando leader che spesso hanno direttamente fabbricato. Leader e “nemici da abbattere”, come la loro ultima creatura, l’Isis, fatta apposta per generare paura, odio e guerra, rimestando nel torbido stagno dello “scontro di civiltà”, evocato per la prima volta dal massone Samuel Huntington, autore del saggio “La crisi della democrazia” voluto dalla Commissione Trilaterale, organismo “paramassonico” e cinghia di trasmissione semi-ufficiale dei voleri dell’élite-ombra, il cui obiettivo, da quarant’anni, è sempre lo stesso: sabotare la sovranità degli Stati, per consegnare tutto il potere nelle mani dei signori del “mercato”. Il traffico di petrolio denunciato clamorosamente da Putin, che collega l’Isis alla famiglia presidenziale turca? Verità svelate da almeno un anno, tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: Erdogan fa parte a pieno titolo della superloggia “Hathor Pentalpha”, nel cui nome c’è già l’Isis (Hathor, secondo nome della dea egizia Iside).
-
In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.
-
Tutti contro tutti, ecco perché non nasce l’Euro-intelligence
Gli attentati parigini hanno riproposto una polemica ricorrente: ma perché non si fa l’Eurointelligence e, cioè, se non proprio una agenzia di intelligence della Ue, almeno uno stretto coordinamento delle agenzie nazionali? In effetti, se l’Europa fosse un unico Stato con un unico sistema di intelligence, ci sarebbe un apparato di vastissime proporzioni, secondo solo all’intelligence degli Usa. Sommando i soli dati dei primi 4 paesi dell’Unione (Uk, Francia, Germania e Italia) ci sarebbe un apparato forte di 28.841 uomini e di 8.265 milioni di euro annui (dati “Sole 24 Ore” del 25 novembre 2015). E invece, proprio la vicenda di Parigi ha dimostrato l’assenza o la scarsità anche del semplice scambio di dati fra due paesi vicini geograficamente come Belgio e Francia. Non si riesce neppure a mettere insieme una semplice banca dati, alimentata da contributi volontari delle singole intelligence. Come mai? In effetti, la cosa sembra piuttosto irrazionale e in molti reclamano, del tutto sterilmente, la nascita di una Eurointelligence. Che però non verrà fuori. Perché?Su un piano astratto, possiamo cavarcela con una frase: l’intelligence è una delle funzioni della sovranità più gelosamente custodita da ogni Stato, per cui esige un rapporto esclusivo fra apparato informativo e autorità politica. Un coordinamento sovranazionale avrebbe invece l’effetto inevitabile di autonomizzare i servizi dai rispettivi governi. E già questo spiega il perché i governi non vedano mai di buon occhio questo genere di coordinamenti, consentendone il funzionamento quando proprio non se ne può fare a meno, come nel caso della Nato, e solo limitatamente all’intelligence militare o con mille restrizioni. Per cui, basterebbe chiedere un potenziamento della cooperazione in sede Nato, visto che gli americani sono nostri alleati (o no?!).In concreto, la cosa si presenta di difficile attuazione per i contrasti di interesse fra i diversi paesi europei in particolare nell’area Medio Oriente-Nord Africa (Me-na): la Francia ha interessi forti in Africa occidentale e mal sopporta la concorrenza italiana in Algeria, per non dire della Libia; ha mire sulla Siria e, quindi, è da sempre ostile alla Turchia e si oppone al suo ingresso nella Ue; ha una posizione problematica sul conflitto israelo-palestinese, ha una posizione favorevole ai progetti di gasdotti russi nella zona. L’Inghilterra è ostile all’Italia per le questioni libiche, mentre ha posizioni opposte alla Francia sia per la Turchia sia per la questione dei gasdotti russi. Ha una posizione più sfumata sulla questione arabo-israeliana; ha forti interessi in Egitto, ma non per questo è disposta a rompere i legami con il Qatar che finanzia i Fratelli Musulmani; essendo contraria alla spartizione dell’Iraq, ha una politica prevalentemente filo-sunnita, per cui non vede di buon occhio le rivendicazioni indipendentiste sciite e curde.La Germania è da sempre (con l’Olanda) il paese più filoisraeliano della Ue (per la nota questione del “debito morale” seguito alla Shoah); è molto perplessa sulla questione dell’ingresso della Turchia nella Ue, temendo una valanga di immigrati (sono già 5 milioni i turchi presenti in quel paese); sin qui non ha avuto una presenza significativa nelle questioni mediorientali, ma è interessata alla politica dei gasdotti russi (anche se momentaneamente sospesi per la questione ucraina). L’Italia ha interessi prevalenti in Libia (ora seriamente messi in pericolo) e ha buoni rapporti con gli algerini; ha speranze di consolidare la presenza petrolifera in Iraq oltre che di espandersi commercialmente in Turchia (di cui ha sempre caldeggiato l’ingresso nella Ue); è il paese tradizionalmente più filo-arabo della Ue e, di conseguenza il meno vicino ad Israele; attualmente è il paese più filo-russo dell’Unione, essendo da sempre favorevole ai progetti di gasdotti russi.E potremmo aggiungere altro, ma già questo ci sembra sufficiente a dimostrare quale guazzabuglio di interesse orienti le politiche di ciascun paese e gran parte di queste politiche passano per i canali coperti dell’intelligence. Questo si riflette anche sulla partita del terrorismo, sia perché le questioni petrolifere o di strategia generale non sono così nettamente separabili da quelle del terrorismo, sia perché nella stessa gestione del problema della Jihad ci sono orientamenti opposti: gli italiani hanno sempre trattato per la liberazione degli ostaggi (sempre smentendolo), mentre inglesi e americani no (anche perché gli jihadisti non hanno mai accettato alcun dialogo con loro); i francesi sono molto più intransigenti verso gli integralisti algerini (quello che era il Fis), mentre meno intransigenti sono stati gli italiani; così come è il caso di chiederci come mai Italia e Germania siano state, sinora, risparmiate dai grandi attentati che hanno colpito invece Inghilterra, Spagna, Francia, Danimarca.E allora cosa si può pretendere, che gli italiani dicano agli altri con chi hanno trattato per Mastrogiacomo o la Sgrena? O che gli inglesi ci dicano cosa sanno dei traffici fra Isis e Turchia a costo di rompere con con Ankara? O che i tedeschi ci parlino degli eventuali compromessi per essere risparmiati? O che italiani e tedeschi riferiscano sulle attività delle rispettive industrie produttrici di armi e dei loro giochi proibiti? Se nascesse Eurointelligence, i vari servizi nazionali spenderebbero la maggior parte del loro tempo a spiarsi fra di loro o ad organizzare trappole recioproche. Lo fanno i servizi di uno stesso paese fra di loro, immaginiamoci di paesi diversi come quelli europei. Chi insiste a proporre l’Eurointelligence o non capisce assolutamente nulla del mondo dei servizi o è solo un ipocrita.(Aldo Giannuli, “Perché non si fa l’Euro-intelligence?”, dal blog di Giannuli del 1° dicembre 2015).Gli attentati parigini hanno riproposto una polemica ricorrente: ma perché non si fa l’Eurointelligence e, cioè, se non proprio una agenzia di intelligence della Ue, almeno uno stretto coordinamento delle agenzie nazionali? In effetti, se l’Europa fosse un unico Stato con un unico sistema di intelligence, ci sarebbe un apparato di vastissime proporzioni, secondo solo all’intelligence degli Usa. Sommando i soli dati dei primi 4 paesi dell’Unione (Uk, Francia, Germania e Italia) ci sarebbe un apparato forte di 28.841 uomini e di 8.265 milioni di euro annui (dati “Sole 24 Ore” del 25 novembre 2015). E invece, proprio la vicenda di Parigi ha dimostrato l’assenza o la scarsità anche del semplice scambio di dati fra due paesi vicini geograficamente come Belgio e Francia. Non si riesce neppure a mettere insieme una semplice banca dati, alimentata da contributi volontari delle singole intelligence. Come mai? In effetti, la cosa sembra piuttosto irrazionale e in molti reclamano, del tutto sterilmente, la nascita di una Eurointelligence. Che però non verrà fuori. Perché?
-
Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta
I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.(Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
-
Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
-
Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti
Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.Le guerre di Luttwak sono quelle del capitalismo liberista e globalizzato di oggi, quello santificato da George Bush padre allorché dichiarò: il nostro sistema di vita non è negoziabile e verrà difeso in tutti i modi. Giuliano Poletti deve esercitare qualche ipocrisia in più, vista la professione, ma alla fine non scarseggia in brutalità. Il suo attacco al 110 e lode corrisponde ad un mercato del lavoro nel quale i giovani laureati vanno a fare le polpette ai McDonald’s, naturalmente nascondendo il titolo di studio altrimenti non verrebbero assunti. A che serve studiare tanto se i lavori che vengono offerti non corrispondono minimamente alla cultura acquisita? Poco tempo fa ho conosciuto un ricercatore universitario che, stufo di fare la fame, aveva rilevato la bancarella del padre ai mercatini. Poletti sta semplicemente cercando di adeguare le aspettative scolastiche alla realtà del mercato del lavoro. Nel quale serve soprattutto una piccola istruzione di base adatta alla nostra società mediatica e consumista. Solo ad una élite rigidamente selezionata, quasi sempre su basi censitarie, sarà consentito di lavorare esercitando le competenze apprese in lunghi studi. Per la maggioranza dei giovani studiare troppo è tempo buttato. Come aveva lamentato Berlusconi, non può essere che anche l’operaio voglia il figlio dottore.Le controriforme della scuola di Gelmini e Renzi hanno cominciato ad adeguare, con i tagli, il sistema formativo al mercato del lavoro fondato su precariato e disoccupazione di massa. Meglio studiare meno e prepararsi ai lavoretti precari che verranno offerti, piuttosto che accumulare rabbia per una laurea non riconosciuta da nessuno. Anche sull’orario di lavoro Poletti ha in fondo detto la verità. La globalizzazione finanziaria, l’euro, le politiche di austerità hanno progressivamente distrutto le secolari conquiste del mondo del lavoro. Che per avere un orario definito per la propria prestazione e ridotto a dimensioni umane e legato ad una retribuzione dignitosa, ha speso 150 anni di lotte e miriadi di vittime. Oggi tutto è in discussione e non perché il lavoro non abbia più bisogno delle tutele conquistate, ma perché il capitale ha trovato la forza di distruggerle. Consiglierei a Poletti, che non pare persona particolarmente colta, la lettura di Furore di John Steinbeck. È la storia di una famiglia che, durante la crisi degli anni 30 negli Usa, è costretta a migrare e a trovare lavoro a cottimo. E arrivano in una azienda ove si raccolgono le cassette di arance a cinque centesimi l’una, senza orario di lavoro e se non va bene via.Il New Deal keynesiano di Roosevelt si rivolse anche contro quel sistema di sfruttamento, che oggi non a caso viene invece riproposto nell’Europa in cui, con l’austerità, trionfa il liberismo e si distruggono lo stato sociale e i diritti del lavoro. Luttwak e Poletti sono dei reazionari, la loro visione del mondo fa venire i brividi e fa tornare indietro di secoli, ma non hanno inventato nulla. Ciò che dicono corrisponde a ciò che si fa realmente nelle nostre società malate. Quindi più che per le loro parole conviene mostrare scandalo per la realtà che cinicamente descrivono e difendono. E soprattutto conviene, quella realtà, provare a cambiarla.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e precariato, le ciniche verità di Luttwak e Poletti”, da “Micromega” del 30 novembre 2015).Chissà perché in questi giorni ho finito per associare Edward Luttwak a Giuliano Poletti. Sono due persone diversissime per storia cultura e esperienze, l’uno intellettuale militante dell’imperialismo Usa, l’altro burocrate un poco rozzo del pentitismo comunista. Sono persone normalmente lontanissime eppure le loro uscite di questi giorni sui mass media italiani me li hanno fatti sembrare assai vicini. Il primo a La7 ha rivendicato con orgoglio il sostegno degli Stati Uniti ai talebani e a ciò che ne è seguito. È stato un buon affare comunque, ha detto, perché in Afghanistan è crollata l’Unione Sovietica è così l’Occidente ha visto sconfitto il suo principale nemico. Il secondo ha dichiarato inutili le lauree con alti voti, magari conseguite in ritardo, e poi ha rivendicato la necessità di superare il concetto stesso di orario di lavoro, sostituendolo con la retribuzione a prestazione. Io trovo che entrambi abbiano brutalmente descritto la verità. Per Luttwak la guerra si fa per conquistare potere e chi la vince, qualsiasi mezzo usi, ha sempre ragione. Non troveremo in lui le ributtanti ipocrisie sulle guerre umanitarie e democratiche. Le guerre servono a tutelare precisi interessi e per questo devono essere astute e spietate.
-
L’Ue in malafede, usa il terrore per suicidare la democrazia
La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.Per mettere le mani avanti, tutti i governanti europei ora parlano di una guerra lunga. Lunga quanto, visto che dura dal 1990? È la guerra dei cento anni a cui dobbiamo attrezzarci? L’Unione Europea ha deciso di togliere dai vincoli dell’austerità di bilancio le spese aggiuntive per la guerra, ipocritamente mascherate come spese di difesa. Questa misura è stata presa quasi in contemporanea con la decisione del Parlamento greco di approvare 48 tagli draconiani a quel poco che in quel paese ancora resta dello stato sociale. In Grecia si chiuderanno ospedali e verranno pignorate le case dei poveri che non possono pagare i debiti. Questo in ottemperanza al memorandum della Troika accettato da Tsipras. Se però il governo greco decidesse di comprare dei droni per colpire il terrorismo, allora potrebbe non tenere conto dei vincoli di bilancio imposti. Quale modello di società è quello dove è virtuoso spendere in deficit per le armi e vizioso farlo per scuole o ospedali? Sono questi i valori che i governanti proclamano di voler difendere con la guerra?La guerra ha così trovato un naturale alleato nella politica di austerità, anche perché entrambe sono inconcludenti allo stesso modo. Da quanti anni si colpiscono l’occupazione, i diritti, i servizi sociali e i beni comuni con lo scopo dichiarato di sconfiggere la crisi? E da quanto lo si fa nel nome dell’Europa? Anche l’austerità, come la guerra, non solo non produce risultati contro il nemico che dichiara di voler combattere, ma anzi lo rafforza. E anche in questo caso, di fronte alla scarsità di risultati, i governanti spiegano che dobbiamo comunque abituarci a tempi lunghi. Secondo l’Ocse ci possono volere altri 20 anni per tornare ai livelli di sviluppo pre-crisi. Come dire che non ci torneremo mai, o che assieme alla guerra avremo anche la crisi dei cento anni. Possibile allora che i nostri governanti siano tutti stupidi e incompetenti e non sappiano trarre conclusioni e bilanci da ciò che fanno? No, non lo credo; da qui la mia convinzione sul peso sempre maggiore che ha la malafede nei sistemi di governo.Quando parlo di malafede non voglio affatto sostenere teorie complottiste. In una recente trasmissione televisiva, Edward Luttwak ha rivendicato che finanziare ed armare il fondamentalismo islamico sia stato comunque un buon affare, per l’Occidente, perché è servito a far crollare l’Unione Sovietica. E, aggiungo io, è un buon affare anche oggi per la politica coloniale di Israele nei confronti del popolo palestinese. Tuttavia, anche se è sicuro che il terrorismo islamista sia stato all’inizio sostenuto dall’Occidente, dagli Usa alla Francia, questo non vuole dire che oggi ne sia ancora un burattino. No, è evidente che il terrorismo sunnita è dilagato per forza propria, oltre che per il continuo appoggio da Stati, Arabia Saudita in testa, che l’Occidente considera e arma come propri indispensabili alleati. Il terrorismo sunnita ha raccolto la carica di violenza sprigionata dalla guerra in Irak, abbiamo dimenticato il massacro al fosforo bianco di Falluja? La guerra è poi diventata guerra di religione tra sunniti e sciiti, mentre la Turchia, membro autorevole della Nato, combatteva prima di tutto il solo popolo della regione organizzato su basi laiche, i curdi.In questo contesto, tutti gli interventi armati occidentali non han fatto altro che gettare benzina sul fuoco, fino a cancellare le stesse entità statali in Somalia e in Libia. Il fatto che ora al posto degli Stati Uniti compaia ora la Russia di Putin non cambia la sostanza. Infine è bene ricordare che il terrorismo esploso in Europa nasce prima di tutto nelle banlieue delle grandi città europee, tutti gli autori delle ultime stragi sono cittadini francesi, belgi, britannici. La malafede dei governanti non sta dunque in qualche oscuro complotto, ma nel sapere perfettamente che la guerra, così come l’austerità, sono risposte sbagliate a ciò che si dichiara di voler affrontare e sconfiggere. Sono risposte sbagliate e fallimentari, ma sono le sole che si continuano a dare perché sceglierne altre vorrebbe dire ammettere troppi errori e soprattutto mettere in discussione troppi affari, troppi interessi, troppo potere.L’Occidente dovrebbe ritirare le sue truppe sparse per il mondo, smetterla di armare gli alleati di oggi che diverranno i nemici di domani, e magari investire molto di più nella propria sicurezza interna. Gli Stati europei dovrebbero ribaltare la vergognosa licenza concessa dalla Ue e investire in deficit su lavoro e stato sociale, tagliando invece l’industria delle armi sulla quale in questi giorni si riversano gli acquisti in Borsa. E soprattutto si dovrebbe rispondere al terrorismo con più democrazia e non con le leggi speciali. Solo con la pace, la democrazia e l’eguaglianza sociale si può sconfiggere il terrorismo, ma i governanti europei preferiscono ingannare i propri popoli trascinandoli in una escalation di guerra e autoritarismo di cui non si vede la fine. Hollande ha fatto proprio il Patriot Act con il quale Bush jr reagì all’11 Settembre, e ora il paese simbolo della democrazia europea si prepara a mettere in Costituzione quello stato di emergenza che ha un solo precedente nella storia europea. Parlo della Germania di Weimar, dove proprio l’uso continuo di quello strumento da parte di governi formalmente democratici aprì la via istituzionale a Hitler. Quello vero, non quelli che da 25 anni pare sorgano ogni 6 mesi sui fronti delle varie guerre.D’altra parte è tutta la costruzione europea che respinge la democrazia, come ci ha ricordato Luciano Gallino nel suo ultimo libro. I parlamenti non son da tempo più sovrani, le politiche economiche le decidono Bruxelles e la Germania. Ora abbiamo scoperto che nel Trattato di Lisbona l’articolo 42.7 obbliga alla solidarietà armata nella Unione. Nel 1915 l’Italia fu trascinata in guerra dal colpo di Stato del Re, oggi il sovrano sta a Bruxelles e può portarci in guerra saltando le nostre istituzioni e la nostra Costituzione. Leggi speciali, austerità, spese di guerra, è così che l’Unione Europea oggi intende procedere. Se non fermiamo questa follia in malafede il rischio è che alla fine un’Europa democratica non ci sia più, mentre il terrorismo sia ancora più feroce e diffuso.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e austerità, risposte sbagliate e in malafede”, da “Micromega” del 19 novembre 2015).La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.
-
Chi ci porta in guerra, e perché i giornali non lo rivelano
Mille cisterne di petrolio dell’Isis, dirette in Turchia, distrutte in pochi giorni dai caccia russi. Poi l’abbattimento del Sukhoi-24, col mitragliamento di uno dei piloti mentre scendeva col paracadute. E il ministro degli esteri turco che dice al collega russo Lavrov che i militari di Ankara, quei pasticcioni, non avevano capito che l’aereo sul confine turco-siriano fosse russo. Una farsa pericolosa, su cui Obama si è limitato a dire che “la Turchia ha il diritto di difendersi”, come se il bombardiere Su-24 stesse minacciando la sicurezza turca. Conseguenze? Imprevedibili. Secondo Pepe Escobar, Mosca potrebbe chiudere i rubinetti del gas (da cui la Turchia dipende), armare segretamente i separatisti curdi dell’Anatolia e, intanto, spedire gli “Spetznaz” – i temibili reparti speciali – in missione punitiva tra le montagne dove si annidano i guerriglieri turcomanni, quelli che hanno mitragliato il paracadutista compiendo un crimine di guerra particolarmente odioso, sanzionato dalla Convenzione di Ginevra del 1977. Il “colpo alla schiena” sferrato a Putin ci spinge verso una guerra più vasta?
-
Cara amica musulmana, gli stragisti smemorati siamo noi
Oggi Sarah, una ragazza con cui ho un contatto Facebook, mi ha chiesto di condividere il suo messaggio su Facebook, dopo che ha partecipato alla trasmissione “Piazzapulita”, in un confronto con il direttore del Tg4 Mario Giordano. Il messaggio è questo: «La parola ai ragazzi musulmani sarà data, realmente, solo quando avranno a disposizione tempi televisivi della durata di quelli che vengono dati a personaggi di spessore intellettuale al limite come la Santanchè, Giordano, Salvini. Niente contro la produzione di “Piazza Pulita”, che ieri mi ha permesso di metterci la faccia, ma mi auguro che, in futuro, un programma con una serietà tale possa dedicarci una sezione più ampia». Rispondo con una lettera aperta, per condividere alcune riflessioni generali, dopo che mi sono visto la trasmissione. In realtà la parola ve l’hanno data. Forse meno di quello che avreste voluto, ma ve l’hanno data. Posso assicurarti, conoscendo la Tv italiana, che “Piazzapulita” in questo senso ha fatto un ottimo lavoro rispetto agli standard dei programmi di altre reti.
-
Il giovane Renzi e l’idea (geniale) del Ponte sullo Stretto
Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.«Tre anni fa il futuro premier bocciava il Ponte sullo Stretto, auspicando che quella montagna di denaro pubblico necessaria – 8 miliardi di euro – fosse indirizzata piuttosto a realizzare nuove scuole e a migliorare quelle esistenti», ricordano Fabio Granata, Anna Donati e Annalisa Corrado, esponenti di “Green Italia”, che in un post ripreso da “Il Cambiamento” condannano questa «spericolata inversione a U», augurandosi che l’uscita di Renzi sia solo «la sua ennesima promessa non mantenuta». Gli italiani, del resto, «credevano che quello del Ponte fosse un capitolo chiuso, perché di fronte ad un paese costantemente piegato dal dissesto idrogeologico, con infrastrutture che collassano per il maltempo e situazioni come quelle di Messina senz’acqua potabile, indegne di un paese civile, anche solo parlare di Ponte sullo Stretto è uno schiaffo alla realtà». Già, la realtà: «E’ quella dei cittadini dell’Aquila ancora sfollati, quelli della Liguria che passano da un’alluvione con smottamenti e morti a un piano-casa tutto cemento, o il popolo inquinato di Taranto e di Crotone». Allegria: «Dopo le trivelle, gli inceneritori, le autostrade, mancava solo il Ponte assurto a ‘nuovo simbolo per l’Italia’ per dimostrare che il premier crede che le ricette da boom economico degli anni ‘60 siano ancora attuali, mentre c’è un mondo che va in un’altra direzione».«Di straordinario – ricorda Leandro Janni, presidente siciliano di Italia Nostra – il ponte sullo Stretto di Messina ha solo il tempo e i soldi sprecati per un’opera insostenibile dal punto di vista tecnico, ambientale ed economico». Il progetto definitivo, elaborato da Eurolink SpA, è considerato talmente lacunoso dalla Commissione di valutazione di impatto ambientale da far avanzare la richiesta, il 10 novembre 2011, di ben 223 integrazioni su tutti gli aspetti nodali (strutturali, trasportistici, economico-finanziari, geologici, idrogeologici, naturalistici, paesaggistici, relativi alle emissioni atmosferiche, ai rumori e alle vibrazioni), a cui Eurolink non è ancora riuscita rispondere esaurientemente. Sconcertante, se si pensa che da oltre 10 anni la cattiva politica – cui ora si associa il “giovane” Renzi – vorrebbe costruire, «in una delle aree a più alto elevato rischio sismico del Mediterraneo, un ponte sospeso, ad unica campata di 3,3 km di lunghezza, sorretto da torri di circa 400 metri di altezza, a doppio impalcato stradale e ferroviario». Oggi il ponte più lungo al mondo, il Minami Bisan-Seto in Giappone, è lungo un terzo di quello progettato per Messina.Si tratta di un’opera che ad oggi verrebbe a costare 8,5 miliardi di euro, continua il “Cambiamento”: oltre mezzo punto di Pil, e senza un piano economico-finanziario che ne dimostri la redditività e l’utilità. Impietoso il dossier dei prestigiosi tecnici italiani ingaggiati dagli ambientalisti per “smontare” il disastroso progetto di Eurolink. Primo problema, il terremoto: viene garantita l’invulnerabilità del manufatto solo per eventi sismici fino a 7,1 Richter, escludendo quindi «in maniera ascientifica» che ci possa essere un sisma di maggiore energia in una zona di rischio molto elevato. Inoltre, nel calcolo dei materiali da scavo viene dimenticato il conteggio di 3,5 milioni di metri cubi di terreno estratto o movimentato. Sos ambiente: non è stata ancora elaborata una valutazione di incidenza credibile sullo Stretto di Messina, area di pregio naturalistico teoricamente a tutela europea. L’ultimo progetto, poi, considera “trascurabili” le modifiche apportate: un incremento di 17 metri dell’altezza delle torri, che arriverebbero a quota 400 metri, per sollevare l’impalcato sino ad 80 metri sul livello del mare. Poi lo spostamento della torre sul lato della Calabria, la variazione del tipo d’acciaio e quindi il peso delle funi e delle strutture portanti, e infine il cambiamento dell’altezza dell’impalcato del viadotto Pantano, lato Sicilia.Non è tutto. «Sono state presentate analisi trasportistiche insufficienti ed elaborati progettuali incompleti – aggiungono gli ambientalisti – da cui emerge che a 25 anni dalla realizzazione dell’opera ponte si registrerebbe un traffico pari a 11,6 milioni di auto all’anno per un’infrastruttura dimensionata per 105 milioni di auto l’anno, con un grado di utilizzo, quindi, dell’11% circa». Mostruoso, super-costoso e super-inutile: bravo Renzi. Non fa che aggiungere malinconia e desolazione l’esame dell’équipe tecnica che ha “fatto le pulci” all’improbabile progetto Eurolink. Tra gli oltre 30 esperti che hanno lavorato con le associazioni ambientaliste, scrive il “Cambiamento”, fra gli specialisti dell’università di Messina troviamo Emilio Di Domenico (oceanografia biologica), Gaetano Gargiulo (botanica), Lucrezia Genovese (Cnr), Salvatore Giacobbe (ecologia). Poi Domenico Gattuso (ingegneria, Reggio Calabria), i geologi Giuseppe Gisotti, Alessandro Guerricchio e Gioacchino Lena.Ci sono tecnici come Piero Polimeni, ingegnere pianificatore, esperto di cooperazione e sviluppo locale; Guido Signorino, professore ordinario del dipartimento economia, statistica e sociologia dell’Università di Messina. E poi Stefano Sylos Labini, ricercatore dell’Enea e geologo come Carlo Tansi (Università della Calabria). Non manca il geologo più famoso d’Italia, il conduttore televisivo Mario Tozzi. E ci sono specialisti come il professor Vincenzo Vacante (agraria, Reggio), l’ingegner Claudio Villari, un urbanista come il professor Alberto Ziparo dell’ateneo di Firenze. «Serve altro?», si domanda “Il Cambiamento”. Sì, certo: tanto per cominciare servirebbe un altro premier, magari regolarmente eletto. E poi un’altra Italia, in cui a nessuno verrebbe in mente di proporre opere demenziali e succulente per il sistema mafioso degli appalti, dalla linea Tav Torino-Lione al suo gemello mediterraneo, l’inaffondabile Ponte sullo Stretto.Il Jobs Act, l’Italicum, il taglio del Senato, la rottamazione della Costituzione, le privatizzazioni selvagge come quella di Poste Italiane. Ma Renzi non ci fa mancare nulla, e ora rispolvera persino il Ponte sullo Stretto, per anni in pole-position nella classifica horror di berlusconiana memoria. «Non bastavano i regali alle lobby delle fonti fossili e degli inceneritori, ora rassicuriamo anche chi vorrebbe guadagnare dalla realizzazione di un’opera tanto faraonica (soprattutto nei costi) quanto inutile», protesta il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza. «Il premier sa bene, e lo dice, che le emergenze italiane sono ben altre: perché allora continua a sostenere le lobby del ‘900 e le loro idee vecchie e superate?». Rigenerazione urbana, fonti rinnovabili, mobilità sostenibile, chimica verde? Voci non pervenute, così come agricoltura di qualità, raccolta differenziata, sicurezza delle scuole, ferrovie utili. Niente da fare: la leggenda del Ponte sullo Stretto – fabbrica di progetti costosi, più che di pilastri veri e propri – va sempre bene per dare la caccia all’elettorato in fuga dal Cavaliere.
-
Al-Baghdadi alias Simon Elliot, sul web tra Jihad e Mossad
La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.Tuttavia, chi scrive non può dimenticare di aver girato buona parte del Medio-Oriente e, per quanto l’età d’oro di un mondo musulmano che voleva in tutto e per tutto emulare il modello di vita occidentale si sia appannato dopo l’ingiusta operazione contro Saddam Hussein (accusato di avere armi chimiche, secondo un castello di accuse costruito ad arte da Dick Cheney e Valerie Plame per giustificare l’intervento militare a sostegno dei petrolieri voluto da Bush), tuttavia è indiscutibile che la stragrande maggioranza, per non dire pressochè la totalità di coloro che vivono nei paesi del Medio Oriente, null’altro vogliono che vivere tranquilli e in pace. Cos’ha fatto dunque l’Occidente nel momento in cui la Tunisia, l’Egitto, persino lo Yemen, con i movimenti della cosiddetta Primavera Araba, hanno chiesto democrazia e libertà? Nulla, proprio nulla. Niente. Anzi, no. L’Occidente ha colto l’opportunità di operare lo sfruttamento delle risorse del Medio Oriente in modo ancora più cinico.E’ evidente che l’Occidente non vuole la democrazia e l’emancipazione dei popoli che intende piuttosto dominare e sfruttare. I disordini all’interno di questi paesi permettono di attuare la più classica delle politiche di sfruttamento: divide et impera. I militari presidiano i giacimenti petroliferi, l’estrazione del greggio avviene pressoché gratuitamente. Le popolazioni sono messe le une contro le altre, e si guadagna anche dalla vendita delle armi. Si saccheggiano le fortezze. Si trafugano opere d’arte. Gli eserciti regolari fanno la loro parte. Al resto ci pensano le truppe mercenarie. Eccoci al punto. Le truppe mercenarie. Sotto il presidio di garanzia degli eserciti regolari, sono loro che fanno il lavoro sporco. Sono loro che scambiano armi per droga. Su questo genere di indagini, per esempio, sono morti Ilaria Alpi e Mauro Rostagno. Qualcuno ricorderà, spero. E non c’è bisogno di ricorrere a fonti “esotiche” o di estrema sinistra per sapere che, da quando le truppe occidentali sono stanziate in Afghanistan, la produzione di oppio è decuplicata: è “Time” a dichiararlo.L’establishment non fa più mistero delle sue nefandezze, le espone, con la certezza che la notizia, iperinflazionata, sarà notata solo da alcuni, senza giungere alla coscienza dell’opinione pubblica, della coscienza collettiva. Sapendo questo, risulta così sorprendente l’affermazione che Al-Qaida è stata una struttura sotto controllo Cia, i cui leader sono stati formati e addestrati proprio in questo contesto? E può sorprendere che la Cia sia sotto controllo da parte di forze occulte come la Pentalfa? E’ così impensabile che Bin Laden e Al-Baghdadi siano stati formati da questi ambienti? E, da ultimo, come attualmente circola la notizia sul web, che il sedicente califfo Al-Baghdadi non sia che un agente del Mossad, il cui vero nome è Simon Elliot? E’ tutto questo così incredibile? Oppure, come sempre, la realtà supera la fantasia?Prima di chiudere questo articolo, due considerazioni vanno svolte. La prima, avvertendo che quanto qui scritto non si adagia su un facile “complottismo”. Soprattutto, nessuno pensi che qui sia espressa una posizione antisemita e anti-israeliana. Al contrario, la posizione è certamente filo-israeliana: ma a favore di quell’Israele sognato da quegli intellettuali ebrei che già all’alba del riconoscimento di Israele come Sato nazionale, opponevano a questo preteso “trionfo del sionismo” la scelta di un “sionismo spirituale”, che rifiutava di immaginare il nuovo Israele come Stato nazionale proprio a causa di quel tremendo olocausto che i nazionalismi aveva fatto subire al popolo ebraico che dunque, invece che Stato nazionale, avrebbe dovuto essere un protettorato internazionale, sede ospitante di quel che avrebbe dovuto essere “un popolo di sacerdoti”, “luce per le nazioni”. Naturalmente, questa idea venne respinta dalla maggioranza.La seconda, che rattrista ancor più, è data dal fatto che il ventre molle del capitalismo imperialista si nutre sempre di più di giovani ignari delle conseguenze di quel che fanno, ragazzi come quelli che hanno commesso questi attentati non sono nemmeno consapevoli del fatto che stanno servendo interessi completamente lontani e distanti dai loro e da quelli del loro popolo che, anzi, proprio per quel che hanno fatto, subiranno nuove vessazioni. Il sistema dei siti web per adescare i cosiddetti “jihadisti” è controllato dalla propaganda militare dei servizi segreti occidentali, e si nutrono di loro, a loro insaputa. A noi restano leggi liberticide e l’ipocrisia della politica, che distilla l’odio tra le religioni e la divisione tra i popoli. Ad onta delle anime nobili che continuano a sognare il dialogo tra i popoli, l’educazione e l’istruzione universale come accesso alla vita spirituale di tutti e di ciascuno. Svegliamoci, è tempo.(Davide Crimi, “Occidente, petrolio, dominio, propaganda e altri inganni”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 21 novembre 2015).La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.
-
L’Italia obbedisce, con Renzi e il Re Travicello al Quirinale
Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.Poi ha ceduto anche quella che le rimaneva, cioè anche quella monetaria, legislativa e di bilancio, ad istituzioni dominate da capitali stranieri. Con le riforme della legge elettorale e della Costituzione attuate dal governo Renzi, viene molto ridotto il contenuto del potere di scelta politica da parte del popolo, perché i poteri dello Stato vengono in gran parte riuniti nelle mani del primo ministro e il Parlamento diviene un Parlamento di nominati diretto dal medesimo grazie a un ampio premio di maggioranza, che gli consente persino di trasformare la Costituzione. Quindi adesso è il primo ministro, ovviamente non eletto dal popolo, che assicura l’obbedienza dell’Italia agli interessi stranieri dominanti e alle loro direttive europee e bancarie. Un leone in casa, un cagnolino all’estero. Renzi in effetti ruggisce in Italia ma poi, nel vertici europei, se ne sta tranquillo fuori dalla porta chiusa, con la ciotola vuota, ad aspettare per le decisioni e le direttive: un vero Amministratore Capo della colonia Italia.A seguito del suddetto spostamento di funzioni e di poteri, il presidente della Repubblica, che ora viene praticamente nominato dal primo ministro, può svolgere semplicemente il ruolo notarile, di rappresentanza e supporto moralmente legittimante, a favore del primo ministro stesso. Anche il primo ministro britannico ha vasti poteri, è quasi un dittatore temporaneo sul Parlamento e sul suo partito, però non nomina e non controlla il capo dello Stato, ovviamente, dato che questi è il re o la regina. Lo stesso Mussolini, a differenza di Hitler, era sottoposto al re, il quale in effetti, al momento opportuno, lo fece arrestare. Il primo ministro che esce dalle riforme dell’attuale governo non ha questo limite. E così, finito il regno di re Giorgio, inizia la dinastia dei re Travicelli.(Marco Della Luna, “Re Travicello”, dal blog di Della Luna dell’11 novembre 2015).Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.