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Marine Le Pen: popolo sovrano, no al globalismo Ue-Nato
Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue. La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione». L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.«Credo che tutte le persone aspirino a essere libere. Per troppo tempo, i popoli dei paesi dell’Unione Europea, e forse anche gli americani, hanno avuto l’impressione che i leader politici non difendano i loro interessi, ma bensì degli interessi particolari. C’è una forma di rivolta del popolo contro un sistema che non lo serve più, ma che piuttosto serve se stesso», dichiara la Le Pen a Stuart Reid, nell’intervista ripresa da “Voci dall’Estero”. Sulla scia della crisi europea dei migranti, degli attacchi terroristici a Parigi e a Nizza, e del voto per il Brexit, il messaggio euro-scettico della Le Pen sta “vendendo bene”, scrive Reid: «Recenti sondaggi la mostrano come principale candidata per la presidenza nel 2017, con gli intervistati che le attribuiscono un gradimento doppio rispetto a quello dell’attuale presidente, François Hollande». Guardando agli Usa, Marine Le Pen paragona Donald Trump a Bernie Sanders: «Entrambi rifiutano un sistema che sembra essere molto egoista. In molti paesi, vi è questa corrente di pensiero fedele alla nazione, che rifiuta la globalizzazione selvaggia, vista come una forma di totalitarismo. La globalizzazione è stata imposta a tutti i costi, una guerra contro tutti per il beneficio di pochi».La Le Pen “vota” contro il Ttip e contro Hillary Clinton: «E’ portatrice di guerra nel mondo: Iraq, Libia e Siria. Questo ha avuto conseguenze estremamente destabilizzanti per il mio paese in termini di crescita del fondamentalismo islamico e per le enormi ondate migratorie che ormai stanno travolgendo l’Unione Europea». La Clinton? «Spinge per l’applicazione extraterritoriale della legge americana, che è un’arma inaccettabile per coloro che desiderano rimanere indipendenti». Nel frattempo, la Francia affonda nella crisi: la disoccupazione è oltre il 10%, e persino l’ex ministro socialista Arnaud Montebourg perora la causa del “made in France”, che è uno dei principali pilastri del Fronte Nazionale. Anche la Francia soffre la globalizzazione-canaglia, «che espone alla concorrenza sleale di paesi che effettuano dumping sociale e ambientale, lasciandoci senza la possibilità di proteggere noi stessi e le nostre aziende strategiche, a differenza degli Stati Uniti». E in termini di dumping sociale, la direttiva Ue sui “lavoratori distaccati”, cioè la libera circolazione della forza lavoro, «sta permettendo di far entrare in Francia lavoratori a salari molto bassi».L’altro dumping è monetario: l’euro. «Il fatto di non avere una nostra moneta ci mette in una situazione economica estremamente difficile», dice Marine Le Pen. «Il Fmi ha appena affermato che l’euro è sopravvalutato del 6% in Francia e sottovalutato del 15% in Germania. Questo è un gap di 21 punti percentuali con il nostro principale concorrente in Europa». A questo si aggiunge la scomparsa dell’interventismo statale, leva storica per lo sviluppo. «Quello a cui aspiro – dichiara apertamente la Le Pen – è un’uscita concertata dall’Unione Europea, in cui tutti i paesi si siedono intorno ad un tavolo e decidono di tornare al “serpente monetario”, che permette a ciascuno di adattare la sua politica monetaria alla propria economia. E voglio che sia fatto gradualmente e in modo coordinato». La situazione sta peggiorando: «Molti paesi si stanno rendendo conto che non possono continuare a vivere con l’euro, perché la sua contropartita è la politica di austerità, che ha aggravato la recessione». E cita Joseph Stiglitz, che ha appena scritto che l’euro è una moneta «completamente inadatta per le nostre economie». Proprio l’euro «è uno dei motivi per cui c’è tanta disoccupazione nell’Unione Europea». Quindi, «o ci arriviamo attraverso la negoziazione – avverte Marine Le Pen – o teniamo un referendum come la Gran Bretagna e decidiamo di riprendere il controllo della nostra moneta».Un referendum sul “Frexit”? «Nel 2005 il popolo francese è stato tradito. I francesi hanno detto no alla Costituzione europea; i politici di destra e di sinistra l’hanno imposta contro la volontà del popolo. Io sono democratica. Credo che non spetti a nessun altro che al popolo francese di decidere sul proprio futuro e su tutto ciò che riguarda la sua sovranità, libertà e indipendenza», sottolinea la leader del Front National. «Quindi sì, vorrei organizzare un referendum su questo tema. E sulla base di ciò che accadrà nel corso dei negoziati che avrò intrapreso, dirò ai francesi: “Ascoltate, ho ottenuto quello che volevo, e penso che potremmo rimanere nell’Unione Europea”, oppure: “Non ho ottenuto quello che volevo, e credo che non ci sia altra soluzione che uscire dall’Unione Europea”». Il caso Brexit è incoraggiante: «Quando la gente vuole qualcosa, nulla è impossibile». Inoltre, «ci hanno mentito: ci hanno detto che il Brexit sarebbe stato una catastrofe, che i mercati azionari sarebbero precipitati, che l’economia avrebbe rallentato fino a fermarsi, che la disoccupazione sarebbe schizzata alle stelle. La realtà è che niente di tutto questo è successo».Le banche oggi dicono che si erano “sbagliate”? «No, ci avete mentito. Avete mentito per influenzare il voto. Ma le persone stanno iniziando a comprendere i vostri metodi, che consistono nel terrorizzarle quando c’è una scelta da fare. Con questo voto il popolo britannico ha dato grande mostra di maturità». Paura per l’isolamento di una Francia fuori dall’Eurozona? «Sono le stesse esatte critiche fatte al generale de Gaulle nel 1966, quando voleva ritirarsi dal comando integrato della Nato. Libertà non è isolamento. Indipendenza non è isolamento». Al contrario: «La Francia è sempre stata molto più potente quando è stata soltanto Francia invece che una provincia dell’Unione Europea». E a chi attribuisce all’Ue il merito di aver garantito la pace dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, risponde: «Non è l’Unione Europea ad aver mantenuto la pace; è la pace che ha reso l’Unione Europea possibile». Ma la pace «non è stata perfetta nell’Unione Europea, con il Kosovo e l’Ucraina sulla soglia di casa». Inoltre, l’Ue «si è progressivamente trasformata in una sorta di Unione Sovietica Europea che decide tutto, che impone le sue opinioni, che spegne il processo democratico. Basta sentire il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, che ha detto: “Non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei”».Insiste Marine Le Pen: «Noi non abbiamo combattuto per la libertà e l’indipendenza durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale per dover accettare oggi di non essere più un popolo libero solo perché alcuni dei nostri governanti hanno preso questa decisione per noi». Governanti francesi, ma soprattutto tedeschi: la leadership della Germania ha condizionato totalmente l’Europa. «Era scritta nella creazione dell’euro. In realtà, l’euro è una moneta creata dalla Germania, per la Germania. Si tratta di un abito che si adatta solo alla Germania. A poco a poco, la cancelliera Angela Merkel ha cominciato a sentire di essere il leader dell’Unione Europea. Ha imposto le sue opinioni. Le ha imposte in materia economica, ma le ha imposte anche accettando di accogliere un milione di immigrati in Germania, ben sapendo che la Germania poi li avrebbe smistati. Si sarebbe tenuta il meglio e avrebbe lasciato andare il resto negli altri paesi dell’Unione Europea. Non c’è più nessuna frontiera interna tra i nostri paesi, il che è assolutamente inaccettabile. Il modello imposto dalla Merkel sicuramente funziona per i tedeschi, ma sta uccidendo i vicini della Germania. Io sono l’anti-Merkel».A differenza degli altri leader francesi, finora pronti a «sottomettersi molto facilmente alle esigenze di Merkel e Obama», dimenticando di «difendere i propri interessi, compresi quelli commerciali e industriali», Marine Le Pen si dichiara «per l’indipendenza», ovvero «per una Francia che rimanga equidistante tra le due grandi potenze, la Russia e gli Stati Uniti: né sottomessa, né ostile». Vuole una Francia che torni a essere «un punto di riferimento per i paesi non allineati, come si diceva durante l’era De Gaulle». Semplice: «Abbiamo il diritto di difendere i nostri interessi, proprio come gli Stati Uniti hanno il diritto di difendere i propri interessi, come la Germania ha il diritto di difendere i propri interessi, e la Russia ha il diritto di difendere i propri interessi». Francia e Russia? «Hanno una storia comune e una forte affinità culturale. E strategicamente, non vi è alcun motivo per non approfondire le relazioni con la Russia. L’unica ragione per cui non lo facciamo è perché gli americani lo vietano: questo confligge con il mio desiderio di indipendenza», dice la Le Pen. Gli Usa? «Credo che stiano facendo un errore a ricreare una sorta di guerra fredda con la Russia, perché stanno spingendo la Russia nelle braccia della Cina. E oggettivamente, un’associazione ultrapotente tra la Cina e la Russia non sarebbe vantaggiosa né per gli Stati Uniti, né per il mondo».Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza: se qualcuno si domanda perché “il terrorismo” abbia scelto proprio la Francia, come obiettivo, congelando il dibattito politico sotto la pressione dell’emergenza, una risposta la può suggerire “Foreign Affairs”, che parla di “nuova Rivoluzione Francese” in arrivo con Marine Le Pen, l’unico leader in pole position, in un grande paese europeo, con un programma anti-Ue. La principale candidata alla presidenza francese nel 2017, scrive “Voci dall’Estero”, ribadisce la sua visione economica e sociale per la Francia, incentrata sul ritorno alla completa sovranità statale su moneta, frontiere, leggi e indirizzo economico e culturale, in totale antitesi rispetto alla traiettoria della globalizzazione e dell’Unione Europea: «Bisogna dire che ci piacerebbe sentire queste parole anche dalla sinistra, che invece è totalmente arresa al neoliberismo e ormai sulla via dell’estinzione». L’avvocato Marine Le Pen, che ha espulso dal Front National il padre, Jean-Marie, colpevole di aver definito la Shoah «un dettaglio della storia», prenota per la Francia un futuro fondato sul ritorno alla sovranità democratica, fuori dall’euro e dai diktat di Bruxelles.
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Globalisti privatizzatori, questa catastrofe è il loro piano
Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».Ciascuna banca centrale, continua Quigley, cerca di dominare il governo del proprio paese «grazie alla capacità di controllare i prestiti del Tesoro, di manipolare gli scambi con l’estero, di influire sull’attività economica del paese e influenzare i politici disposti a collaborare, ricompensandoli poi economicamente nel mondo degli affari». Si pensi alle classiche “porte girevoli” tra politica e grandi banche d’affari. «Le persone che stanno dietro all’obiettivo di imporre la globalizzazione – scrive Smith in un post ripreso da “Voci dall’Estero” – sono legate da una particolare ideologia, quasi un culto religioso, in cui immaginano un ordine mondiale come viene descritto nella “Repubblica” di Platone. Credono di essere stati “prescelti” – dal fato, dal destino o dalla genetica – per dominarci tutti come dei re-filosofi. Pensano di essere quanto di più intelligente e capace l’umanità abbia da offrire e di poter creare dal nulla, con poteri semi-divini, il caos e l’ordine, e così poter plasmare la società a loro piacimento».Questa mentalità appare evidente nel sistema globale: «La gestione delle banche centrali non è altro che un meccanismo per intrappolare le nazioni in debiti, svalutazioni valutarie e, in ultima analisi, schiavitù, attraverso l’estorsione economica diffusa». Obiettivo ultimo delle banche centrali, «scatenare delle crisi finanziarie di portata storica, che possono poi essere usate dalle élite come leva per promuovere la completa centralizzazione globale come unica soluzione possibile». Questo processo di destabilizzazione delle economie e delle società, continua Smith, non viene neppure controllato dai presidenti delle varie banche centrali: in realtà è pilotato da istituzioni globali ancor più centralizzate come il Fondo Monetario Internazionale e la stessa Bank of International Settlements, come spiegato in interessanti articoli come “Ruling The World Of Money”, pubblicato da “Harpers Magazine”. Se ne deduce che la campagna per un “nuovo ordine mondiale” non è esattamente un progetto umanitario: «Innumerevoli persone odieranno il nuovo ordine mondiale, e moriranno protestando contro di esso».L’élite mette in conto «almeno una generazione di malcontenti, molti dei quali saranno persone buone e di valore», stando alle parole dello scrittore britannico Herbert George Welles, laburista e profeta del “Nuovo ordine mondiale” (il primo a coniare l’espressione, che titola una sua opera del 1940). «In breve, la “casa dell’ordine mondiale” dovrà essere costruita dal basso verso l’alto anziché dall’alto verso il basso. Sembrerà una grande “rumorosa, esplosiva confusione”, per usare la famosa descrizione della realtà di William James, ma alla fine un lento assedio della sovranità nazionale, che la eroda pezzo per pezzo, risulterà più efficace del vecchio sistema dell’assalto frontale», scrive nel 1974 Richard Gardner, membro della Commissione Trilaterale, su “Issue of Foreign Affairs”. Precisa un altro campione dell’élite globalista, Henry Kissinger, al “World Action Council” del 1994: «Il Nuovo Ordine Mondiale non può realizzarsi senza la partecipazione degli Stati Uniti, visto che siamo il suo membro più importante. Certo, ci sarà un Nuovo Ordine Mondiale, e imporrà agli Stati Uniti di cambiare le proprie percezioni».Mentre alcuni considerano la globalizzazione una “evoluzione naturale” del libero mercato o l’inevitabile sbocco del progresso economico, «la verità è che la spiegazione più semplice (alla luce delle evidenze disponibili) è che la globalizzazione è una guerra aperta condotta contro l’ideale dei popoli sovrani e delle nazioni», scrive Brandon Smith. «E’ una guerriglia, o una guerra di quarta generazione, intrapresa da un piccolo gruppo di élite contro tutti gli altri». Un elemento significativo di questa guerra, aggiunge, riguarda la demolizione dei confini delle nazioni, degli Stati e persino di città e villaggi, come delimitazioni di comunità solidali e identitarie: «Non ci piace essere costretti ad associarci a persone o a gruppi che non hanno i nostri stessi valori». Le culture «innalzano i confini perché, francamente, i popoli hanno il diritto di controllare coloro che desiderano aderire alla comunità e condividerne gli intenti», rifiutando «altri gruppi di persone e di ideologie che per noi risultano distruttive». Curiosamente, invece, i globalisti «sosterranno che, rifiutandoci di associarci con coloro che potrebbero distruggere i nostri valori, siamo noi che violiamo i loro diritti. Vedete come funziona?».I globalisti «sfruttano la parola “isolazionismo” per infangare i sostenitori della sovranità agli occhi della pubblica opinione», e invece «non bisogna vergognarsi dell’isolamento quando principi quali la libertà di parola e di espressione o il diritto all’autodifesa vengono messi in discussione». Inoltre, «non c’è nulla di sbagliato nell’isolare un modello economico prospero da altri modelli insoddisfacenti», anche perché, al contrario, «imporre a un’economia di mercato libero decentralizzato di adottare un’amministrazione feudale attraverso un governo e una banca centralizzati finirà per distruggere il modello». Così come «importare milioni di persone con differenti valori per rinvigorire una nazione» non è altro che «una ricetta per il disastro». In un mondo senza barriere, continua Smith, si potrà solo eliminare una cultura per sostituirla con un’altra: «Questo è quello che vogliono ottenere i globalisti. E’ lo scopo vero dietro le politiche delle “frontiere aperte” e della globalizzazione – annichilire il confronto delle idee, così che l’umanità finisca col pensare di non avere altra opzione all’infuori della religione delle élite». Lo scopo ultimo dei globalisti «non è di controllare i governi», che sono solo uno strumento, bensì «ottenere un’influenza psicologica totale», onde conquistare definitivamente «il consenso delle masse».Le élite sostengono che la loro idea di una singola cultura mondiale è il pilastro fondamentale dell’umanità, e che non c’è più alcun bisogno di confini perché nessun principio è più importante di questo. «Fino a quando i confini, come concetto, continuano a esistere, ci può sempre essere la possibilità di separare ideali diversi che competono con la filosofia globalizzatrice: questo non è accettabile per le élite». Oggi, con l’affermarsi dei movimenti anti-globalisti, la tesi portata avanti dal mainstream è che i “populisti” (conservatori) rappresentano una classe spregevole e ignorante, sono elementi pericolosi che minacciano “la pace e la prosperità” provenienti dalle sapienti mani globaliste. Ancora una volta, Carrol Quigley predice questa propaganda con decenni di anticipo, quando discute la necessità di “rimanere all’interno del sistema” per cambiarlo, anziché combattere contro di esso, e parla della «classe medio-bassa» definendola «spina dorsale del fascismo del futuro». E spiega: «I membri del partito nazista in Germania venivano per lo più da questa classe», alla quale associa «i movimenti di centro-destra» degli Stati Uniti.I globalisti, continua Smith, hanno avuto mano libera sulla maggior parte dei governi mondiali per almeno un secolo, se non di più. «A seguito della loro influenza, abbiamo avuto due guerre mondiali, la Grande Depressione, la Grande Recessione che non è ancora finita, troppi conflitti regionali e genocidi perché possano essere contati, e la sistematica oppressione dei liberi imprenditori, degli inventori e delle idee, al punto che soffriamo ormai di stagnazione sociale e finanziaria». Curioso: «I globalisti sono rimasti al potere a lungo, ma la colpa delle numerose crisi avvenute negli ultimi 100 anni viene data all’esistenza dei confini». I campioni della libertà «vengono definiti inqualificabili populisti e fascisti», mentre i globalisti si sottraggono a ogni accusa. «Non esiste uno straccio di prova che confermi l’idea che la globalizzazione, l’interdipendenza e la centralizzazione funzionino davvero», insiste Smith. Per capirlo, «basta esaminare l’incubo economico e migratorio presente nell’Ue». Quindi, i globalisti «sosterranno che il mondo non è abbastanza centralizzato», cioè diranno che «ci vuole più globalizzazione, non meno, per risolvere i problemi del mondo».Nel frattempo, «i principi della sovranità devono essere demonizzati storicamente». Intollerabile, infatti, la stessa esistenza di diverse culture: «Per le generazioni future deve essere psicologicamente associata al male». Vogliono un mondo in cui «il principio di sovranità sia considerato così aberrante, così razzista, così violento e insidioso che chiunque si vergognerebbe di averlo sostenuto». E’ una vera «prigione mentale», ed è «il luogo dove i globalisti vogliono portarci». Ribellarsi? Per Smith, è possibile solo col volontariato, costruendo «una spinta verso la decentralizzazione, la localizzazione, l’indipendenza e la vera produzione». Meglio i confini, se lasciano l’individuo «libero di partecipare a qualsiasi gruppo sociale che desidera o che crede migliore per lui», nell’ambito di una società «non costretta ad associazioni forzate». Ma Smith non è ottimista: «Questo sforzo richiederebbe enormi sacrifici e una battaglia che probabilmente durerebbe per una generazione». L’unica sicurezza è nera: «Posso solo mostrare che il mondo dominato dai globalisti in cui viviamo oggi è chiaramente destinato alla catastrofe. Potremo discutere su cosa fare dopo solo quando avremo tolto la testa dalla ghigliottina».Cos’è il globalismo, e perché esiste? E’ ormai noto da decenni che la spinta alla globalizzazione è un preciso piano coltivato da un’élite di finanzieri internazionali, banchieri centrali, leader politici e think-tanks esclusivi. «Spesso nelle loro pubblicazioni ammettono apertamente il loro obiettivo di globalizzazione totale, forse nella convinzione che le persone semplici e non istruite in ogni caso non le leggeranno mai», scrive Brandon Smith su “Zero Hedge”. Carroll Quigley, mentore di Bill Clinton, viene spesso citato per le sue ammissioni: «I poteri del capitalismo finanziario avevano un obiettivo di ampia portata, niente di meno che creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, in grado di dominare il sistema politico di ciascun paese e l’economia del mondo intero». Un sistema che «doveva essere controllato in maniera feudale dalle banche centrali del mondo, che avrebbero agito di concerto, con accordi segreti». Il vertice del sistema «doveva essere la Banca dei Regolamenti Internazionali a Basilea, in Svizzera, una banca privata posseduta e controllata dalle banche centrali mondiali che sono esse stesse imprese private».
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Astri e radon, prevenire il sisma? Al business non conviene
Prevenire i terremoti? E’ possibile, probabilmente. Ma è inutile contarci: al business, semplicemente, non conviene. Molto meglio l’affare della ricostruzione: frutta tre volte tanto. Idem, in piccolo, la fornitura dei sismografi, appaltata «a precise “famiglie”, vicine alla protezione civile». La denuncia porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, ospite della trasmissione web-radio “Border Nights” del 1° novembre, insieme a Stefano Gagliardi e Stefano Calandra, due ricercatori “fai da te”, ormai popolarissimi dopo le previsioni – azzeccate – del sisma di Norcia, basate sulla lettura del cielo. Prevedere i terremoti è possibile, sostengono: il rischio si innalza se aumenta l’allineamento dei pianeti. Non è possibile capire dove il terremoto avverrà? Su questo è forse più preciso il fisico Giampaolo Giuliani, celebre per l’allerta (ignorata) sul terremoto dell’Aquila. Giuliani rileva una stretta relazione fra il terremoto in arrivo e l’aumento della presenza di gas radon nel sottosuolo. Emarginato in Italia, Giuliani oggi lavora in California, dove sta monitorando la Faglia di Sant’Andrea, nonché in Giappone e a Taiwan. L’Italia? Niente da fare: da noi si resta all’antico, usando il solo sismografo.«E’ come se, decenni fa, avessimo preteso di debellare la malaria impiegando ottimi termometri», commentano amaramente Gagliardi e Calandra: il sismografo si limita infatti a valutare l’entità del sisma, così come il termometro misura solo la febbre del paziente. «La speranza in un mondo nuovo dove si possono prevedere i terremoti questa volta è da decifrare nelle cifre minime delle congiunzioni più silenziose, in una scienza più affine al popolo Maya che agli umani del terzo millennio», scrive Emanuela Fontana sul “Giornale”, presentando la ricerca di Gagliardi e Calandra. Allineamenti planetari e terremoti: la teoria è allo studio anche in Grecia, e impazza sui social network in Italia dalla sera del 26 ottobre. Nel suo blog, Calandra segnala gli allineamenti dei pianeti e i possibili movimenti delle faglie terrestri. Il post più sconcertante lo ha scritto il 25 ottobre, preceduto da una segnalazione del 18: «26/10 sera-notte. L’affollamento di coincidenze di pianeti in linea a 0 gradi di scarto, ben 10 come numero di eventi, essendo una situazione mai vista, fa pensare ad un potenziale rischio sismico molto alto, quasi massimo, da quel 24/8 del terremoto di Amatrice in poi».Veniva indicata un’area generica, quella «Mediterranea», e una fascia oraria più delicata per il 26, dalle 17.30 alla mezzanotte. Le scosse sono avvenute come scritto il 26 ottobre, a distanza di due ore, con potenza in incremento e nella fascia oraria segnalata. Siamo ancora nel campo delle supposizioni, ammette lo stesso Calandra: «Queste previsioni – scrive – costituiscono solo delle ipotesi pseudoscientifiche, derivanti da un modello teorico troppo giovane per essere comprovato al 100%». Un modello matematico ancora “acerbo”, che va integrato con le mappe sismiche e con gli studi sull’aumento di gas radon nel sottosuolo per circoscrivere le aree di rischio. Importanti conferme stanno comunque giungendo dalla Grecia, aggiunge il “Giornale”: «Su 109 grandi terremoti analizzati dal 2004, 102 sarebbero avvenuti in occasione di un allineamento di almeno tre pianeti». Il problema maggiore, a monte? «In Italia, nessuno prenderà seriamente in considerazioni queste indicazioni», sostiene Carpeoro, che nel 2009 – come direttore editoriale del magazine “Area di Confine”, diretto da Ennio Piccaluga – spedì inviati speciali all’Aquila per seguire il caso-Giuliani.Carpeoro denuncia la presenza di interessi così forti da mettere in pericolo chi cerca di lavorare sulla prevenzione dei terremoti: «E’ stato deciso, da chi “conta”, che l’intera ricerca sui terremoti deve essere fondata sui sismografi – e questo per interessi precisi, aziendali, familiari: ci sono parenti stretti di pezzi grossi della protezione civile che forniscono allo Stato i sismografi e, business ancora più redditizio, ne curano la manutenzione». In Italia gli unici apparecchi di rilevazione sono i sismografi, «perché queste aziende devo prosperare». A questi si aggiungono gli interessi edilizi: i costruttori «hanno bloccato l’investimento di messa in sicurezza delle case, perché la ricostruzione frutta quasi il triplo della ricostruzione». Un «magma, tipicamente italico», a cui si aggiunge «una sorta di arretratezza culturale», anche da parte di chi è in buona fede: «Abbiamo una diffidenza naturale nei confronti di chi si pone in maniera alternativa rispetto alla ricerca: non c’è niente da fare, questo paese è fatto così, non riusciamo a uscire da questo modo di ragionare. Appena uno apre la bocca gli si chiede “ma tu che titoli hai?”, e non si entra nel merito di quello che dice».La ricerca di Gagliardi e Calandra sul rapporto tra astrofisica e terremoto? «Mi può fare solo piacere», conclude Carpeoro, «perché siamo talmente ottusi, nella ricerca ufficiale, che – se non si inserisce una ricerca non-ufficiale – non verrà fatto un passo». Ovvero: «Serve una ricerca non-ufficiale, che faccia fare un po’ di figure di palta a questi paludati tromboni». I giovani ricercatori? Sono «persone di buoma volontà». Devono «tenersi in contatto tra loro e non contare molto su aiuti provenienti dall’esterno, perché – per motivi economici e culturali – non ne avranno». Carpeoro ricorda che, quando Giuliani andò da Giuseppe Zamberletti, il capo della protezione civile, questi lo mise in contatto col geologo Enzo Boschi, il quale «lo prese a pernacchie, deridendolo e offendendolo», nonostante proponesse – attraverso il monitoraggio del radon per mezzo di sonde – la possibilità di prevedere i terremoti. «Questo è il loro modo di comportarsi, e io penso che questi non siano scienziati», aggiunge Carpeoro. «La prima qualità che deve avere uno scienziato è la capacità di dubitare anche di se stesso, se no non è uno scienziato: è il contrario di uno scienziato. Lo scienziato che consideri i suoi risultati quasi definitivi, anziché provvisori, non è uno scienziato».Prevenire i terremoti? E’ possibile, probabilmente. Ma è inutile contarci: al business, semplicemente, non conviene. Molto meglio l’affare della ricostruzione: frutta tre volte tanto. Idem, in piccolo, la fornitura dei sismografi, appaltata «a precise “famiglie”, vicine alla protezione civile». La denuncia porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, ospite della trasmissione web-radio “Border Nights” del 1° novembre, insieme a Stefano Gagliardi e Stefano Calandra, due ricercatori “fai da te”, ormai popolarissimi dopo le previsioni – azzeccate – del sisma di Norcia, basate sulla lettura del cielo. Prevedere i terremoti è possibile, sostengono: il rischio si innalza se aumenta l’allineamento dei pianeti. Non è possibile capire dove il terremoto avverrà? Su questo è forse più preciso il fisico Giampaolo Giuliani, celebre per l’allerta (ignorata) sul terremoto dell’Aquila. Giuliani rileva una stretta relazione fra il terremoto in arrivo e l’aumento della presenza di gas radon nel sottosuolo. Emarginato in Italia, Giuliani oggi lavora in California, dove sta monitorando la Faglia di Sant’Andrea, nonché in Giappone e a Taiwan. L’Italia? Niente da fare: da noi si resta all’antico, usando il solo sismografo.
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Sylos Labini: solo lo Stato può salvarci dall’inferno dell’euro
Scrisse Antonio Gramsci: «La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere». Questa citazione descrive bene ciò che sta succedendo nel periodo attuale, sostiene Stefano Sylos Labini: il capitalismo finanziario neoliberista è entrato in crisi ormai da anni e sta utilizzando l’intervento delle banche centrali per rimanere in piedi. Si è capito che i vecchi approcci sono ormai superati perché non riescono più a garantire crescita e benessere diffuso. «L’intervento pubblico è paralizzato dal peso del debito mentre il sistema bancario si è inceppato e non sta finanziando in modo adeguato le famiglie e le imprese». Per questo servono nuove logiche di intervento per sostenere l’economia reale. Sylos Labini cita il Sardex, moneta complementare lanciata in Sardegna come “sistema di compensazione di credito reciproco”, attraverso cui l’economia reale crea la sua moneta per finanziare scambi e investimenti evitando l’intermediazione del sistema bancario. Ma ovviamente non basta: «E qui in Europa abbiamo anche il problema dell’euro», aggiunge l’economista, «che si fonda su delle regole che impediscono di promuovere la crescita dell’economia e non consentono di attuare politiche per ridurre la disoccupazione».Si tratta di una situazione preoccupante, se consideriamo gli imponenti fenomeni migratori che si stanno riversando sul Vecchio Continente, osserva Sylos Labini in una riflessione prooposta al festival “Mitzas” di Cagliari e ripresa da “Megachip”. «Si parla di piani di accoglienza e di re-distribuzione dei migranti, ma quello che serve è un grande Piano del Lavoro: questa gente se si ferma in Europa deve lavorare per avere un reddito. Ma in tal caso il Piano del Lavoro deve riguardare – e con diritto di precedenza – i disoccupati europei, che sono circa 20 milioni di persone». Attenzione: «Solo lo Stato può garantire quel contributo fondamentale all’impiego in lavori di pubblica utilità, servizi sociali, manutenzione del territorio e delle infrastrutture». Il settore privato può fare la sua parte, certo, «ma da solo non sarà mai in grado di risolvere il problema della disoccupazione». Non esiste alternativa allo Stato, che «deve avere le risorse finanziarie nonché le capacità organizzative per offrire un impiego a tutti coloro che sono in grado di lavorare».E se non riusciremo a mettere in campo delle nuove politiche economiche per assicurare una vita dignitosa alla popolazione europea, continua Sylos Labini, corriamo il rischio di entrare in quella che Giorgio Ruffolo ha definito una “Nuova Età dei Torbidi”: dopo la fase socialdemocratica dell’Età dell’Oro e la fase neoliberista dell’Età del Capitalismo Finanziario, oggi si sta profilando una nuova fase storica dominata dalla destra protezionista e nazionalista. A Bretton Woods nel 1944 si era stabilito un sistema che prevedeva una forte limitazione dei trasferimenti di capitale da un paese all’altro dando piena libertà agli scambi commerciali. Questo sistema, ricorda l’economista, lasciava ai governi nazionali un largo spazio di autonomia nella gestione della politica monetaria e della politica economica. «In tal modo si consolidò un compromesso tra capitalismo e democrazia che in Europa permise ai governi socialdemocratici di assicurare benessere diffuso e piena occupazione».Alla fine degli anni ‘70, però, «si scatenò la controffensiva capitalistica: Reagan e la Thatcher avviarono un processo di deregolamentazione e di liberalizzazione dei movimenti di capitale che determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia», creando «una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli Stati nazionali». Da quel momento, prosegue Sylos Labini, la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori iniziarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive: imprese trasferite nel terzo mondo, dove il lavoro costa pochissimo, a tutto vantaggio del nuovo capitalismo finanziario. «Si è creato così un mercato finanziario integrato che ha consentito al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo all’“internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso». Ironia della storia: «L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si è realizzato, ma al contrario».Oggi, i mercati finanziari sono diventati un’istituzione strutturata. E si esprimono come gli Stati. «È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite, condizionando il destino di intere popolazioni». Di fatto, «la democrazia è stata svuotata e la sovranità popolare umiliata». Vie d’uscita? Una: «Superare la globalizzazione gestita dal capitale finanziario». Ma costruire un nuovo modello di sviluppo non sarà semplice, «perché il vasto schieramento che è contro l’austerità e il liberismo non ha una strategia unitaria». Troppe fazioni, in contrasto tra loro. «Una situazione particolarmente grave in Europa, dove esiste il problema di una moneta unica che sta allargando i divari tra il blocco dell’euro-marco e i paesi della periferia». Per Sylos Labini, «ci troviamo in una trappola infernale», perché «uscire dalla moneta unica è complicato», ma «continuare con queste politiche economiche ci porterà al disastro». E sperare in una svolta progressista dell’Europa è «un’ingenua illusione».Scrisse Antonio Gramsci: «La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere». Questa citazione descrive bene ciò che sta succedendo nel periodo attuale, sostiene Stefano Sylos Labini: il capitalismo finanziario neoliberista è entrato in crisi ormai da anni e sta utilizzando l’intervento delle banche centrali per rimanere in piedi. Si è capito che i vecchi approcci sono ormai superati perché non riescono più a garantire crescita e benessere diffuso. «L’intervento pubblico è paralizzato dal peso del debito mentre il sistema bancario si è inceppato e non sta finanziando in modo adeguato le famiglie e le imprese». Per questo servono nuove logiche di intervento per sostenere l’economia reale. Sylos Labini cita il Sardex, moneta complementare lanciata in Sardegna come “sistema di compensazione di credito reciproco”, attraverso cui l’economia reale crea la sua moneta per finanziare scambi e investimenti evitando l’intermediazione del sistema bancario. Ma ovviamente non basta: «E qui in Europa abbiamo anche il problema dell’euro», aggiunge l’economista, «che si fonda su delle regole che impediscono di promuovere la crescita dell’economia e non consentono di attuare politiche per ridurre la disoccupazione».
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Carpeoro: a colpire Palermo non sarà la mafia, ma l’Isis-P1
Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.Tempo fa, Carpeoro aveva avvertito del possibile pericolo per il nostro paese, legato a una data particolare, il 10 agosto: «Dovete sapere che Federico II ebbe un ruolo di protettore dell’Islam, visto che fu protagonista dell’unica crociata che finì con degli accordi riguardanti la restituzione pacifica di Gerusalemme ai cristiani», racconta Carpeoro a Marcus Mason, che l’ha intervistato per il blog “Lo Sciacallo”. L’imperatore-esoterista, però, subito dopo la pace per Gersusalemme avviò una persecuzione violentissima contro gli islamici siciliani, sterminandoli: «Questa persecuzione culminò il 10 agosto del 1222, quando catturò i capi, lo sceicco e i due figli, decapitandoli in piazza a Palermo». L’autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” conferma i suoi timori: «Prima o poi, qualcosa combineranno». Lo dice la logica, se si interpreta in chiave simbolica il corredo di informazioni attorno agli attentati in Francia e in Belgio, a partire dal massacro di Nizza il 14 luglio, data “sacra” per la massoneria progressista, vero “bersaglio” (tra gli altri) degli organizzatori dell’attentato. Poi la strage del Bataclan attuata il 13 novembre, giorno in cui i Templari messi al bando nel 1308 riuscirono a lasciare Parigi riparando in Scozia, dove contribuirono a fondare la massoneria moderna. E il doppio attacco a Bruxelles contro aeroporto e metropolitana, come a sottolineare il motto “così in cielo, come in terra”.Quanto a Charlie Hebdo, parla la cronaca: indagini “seppellite” dal governo Hollande con l’imposizione del segreto militare dopo la scoperta, da parte della magistratura, della strana triangolazione che collegava il commando “jihadista” ai servizi segreti parigini, attraverso il trafficante belga che fornì loro le armi. Meccanismo che Carpeoro, nel suo libro, chiama “sovragestione”: esponenti del massimo potere utilizzano settori dell’intelligence per reclutare, all’occorrenza, anche dei kamikaze, a volte completamente all’oscuro del piano, a differenza di quanto avviene nella mafia, dove almeno è possibile risalire ai mandanti, una volta catturati i killer. «E’ Cosa Nostra che ha copiato il metodo. Se uno si va a studiare come agiva Cosa Nostra, può notare che gli anelli superiori li conoscevano. La caratteristica di questo protocollo dell’intelligence, invece, è quella che gli anelli bassi non conoscono nemmeno l’esistenza degli anelli superiori. Questi bombaroli si fanno esplodere senza conoscere i vertici che dirigono questo tipo di operazioni. Molti sono convinti di agire come autonomi».“Sovragestione” non è sempre sinonimo di terrorismo: si tratta di una modalità di potere che collega elementi in apparenza lontani. Come Enrico Cuccia, ad esempio, a torto ritenuto «portabandiera della finanza laica», quando invece era di fede templarista: «Mediobanca era organizzata in capitoli templari e il Consiglio d’amministrazione era composto da 13 membri», racconta Carpeoro allo “Sciacallo”. Il gran capo «presenziava alle riunioni secondo una ritualità templare. Io sono in possesso della lettera che Cuccia scrisse a Romiti quando quest’ultimo fu inquisito, e vi posso assicurare che è una lettera templare al 100%». Il suo braccio destro, Raffaele Mattioli, contribuì alla ricostruzione dell’abbazia di Chiaravalle, alle porte di Milano, e chiese di esservi sepolto, «unico laico in un cimitero di frati». Nella lapide «è sdraiato con le mani incrociate, vestito da templare, con tanto di squadra e compasso». Templari, come quelli a cui ammiccherebbero gli “architetti” della strage del Bataclan? Cristiani “eretici”, nella doppia veste di monaci e guerrieri – allora, certo. Ma oggi?«La gente dà poco peso ai simboli e ai miti», premette Carpeoro nell’intervista. «Nel medioevo spesso venivano raffigurati dei draghi: ciò non significa che bisogna credere ai draghi, ma ai dinosauri sì. Questo significa che le leggende e i miti hanno le loro radici da un archetipo, e l’archetipo è una storia vera, reale. Il ricercatore saggio sa decifrare questi simboli fino a coglierne il vero significato, senza fermarsi a un’analisi superficiale». Il suo libro parte dalla spiegazione di questi simboli, dei riti, e poi si snoda indagando la parabola di potere del network massonico, di cui Carpeoro non fa più parte. «La massoneria e la Chiesa cattolica raggiungono insieme l’apogeo: l’apogeo della Chiesa viene raggiunto nel medioevo con la costruzione delle grandi cattedrali, tramite la manovalanza dei massoni». Poi, le due entità parallele si ritrovano su fronti opposti, perché «la Chiesa diventa potere: cessa di essere conoscenza e potere, abbracciando unicamente il secondo». Lo dimostra la stessa soppressione dell’ordine dei Templari. «D’altro canto, la massoneria comincia a mettere in discussione i dogmi, rendendo per questo fragile la costruzione della Chiesa cattolica, che in quegli anni si fondava sul dogma».Quello che ai più sfugge spesso – ma ora, libri come quello di Carpeoro contribuiscono a recuperare il gap di informazione – è il nesso profondissimo che lega il vertice del massimo potere ai simulacri della simbologia esoterica medievale. Dinamiche sempre parallele, che coinvolgono sia il mondo massonico che quello cattolico, ad esempio attraverso l’Opus Dei. «Lo scontro nacque perché la massoneria decise di prendere le difese dello gnosticismo: da quel momento la Chiesa comincia a scomunicare. E la massoneria diventa anticlericale, sbagliando, nella stessa misura in cui la Chiesa si proclamava antimassonica». Poi, però, ci fu una storica saldatura, a cominciare dal livello finanziario, come dimostrano le vicende di Calvi, Sindona e Gelli – su quest’ultimo, Carpeoro si sofferma a lungo, rivelando il ruolo della P2 nei tentativi di golpe di Italia, “sovragestiti” da una struttura-ombra che l’autore chiama P1. Grande burattinaio, un super-massone come il politologo statunitense Michael Ledeen, prima legato a Craxi e poi al suo demolitore, Di Pietro (oggi, si dice, a Matteo Renzi ma anche al grillino Luigi Di Maio). Già ai tempi di Craxi, ricorda Carpeoro, la “sovragestione” affondò le mani nella strategia della tensione, fino al caso Moro, nel quale Ledeen fu direttamente coinvolto, introdotto al Viminale come super-consulente di Cossiga.Terrorismo e mondo arabo, già allora. Nel mirino, Craxi: amico dei palestinesi (che cercò di finanziare, anche attraverso Gelli) e poi di Moro, che tentò di salvare. Tutto inutile, la “sovragestione” aveva deciso altrimenti: Bettino in esilio ad Hammamet, Moro ucciso. E oggi? L’Italia gode ancora di una «protezione speciale da parte dell’Islam», dice Carpeoro. C’è chi ricorda del Conto Protezione, istituito in Svizzera da Craxi per sostenere Arafat. «Perciò l’Italia ha un po’ di benemerenza nei confronti degli islamici. E’ vero che esiste la sovragestione, ma anche questa non può non tener conto che gli italiani non sono odiati dagli arabi. Non come i francesi». Certo, «abbiamo la macchia della Libia, ma è pur vero che è una macchia sbiadita, a differenza del colonialismo francese e di quello che hanno fatto poi gli americani: pensate che Sarkozy ha voluto la morte di Gheddafi perché erano soci e aveva paura che questi potesse parlare». Quindi, «escluso il Vaticano, dove l’Isis ha minacciato di colpire, a meno di clamorosi scenari politici, se l’Italia non parteciperà ai giochi francesi e americani difficilmente verrà colpita». Se invece gli strateghi della “sovragestione” sceglieranno di devastare il nostro paese, Carpeoro scommette che gli stragisti vorranno «invocare una motivazione strumentalmente forte, come i fatti di Palermo del 1222», il fatidico 10 agosto.(Il libro: Gianfranco Carpeoro, “Dalla massoneria al terrorismo”, sottotitolo “Come alcune logge massoniche sono divenute deviate e come con i servizi segreti vogliono controllare il mondo”, Uno Editori, 189 pagine, 13 euro).Se smarrisci la tua missione, poi ti riduci a essere un mero strumento di potere. Fino a mettere in atto il terrorismo, oggi travestito da “fondamentalismo islamico”. Ma, al di là degli esecutori, gli organizzatori risiedono nell’intelligence. Che a sua volta risponde a personaggi del massimo potere, interamente massonico. E’ la tesi del recentissimo libro “Dalla massoneria al terrorismo”, nel quale Gianfranco Carpeoro – già gran maestro della loggia “Serenissima”, del rito scozzese, nonché studioso di Giordano Bruno e grande esperto di simbologia – affronta il tema cruciale dell’attualità di oggi: la politica di rigore dell’élite finanziaria, imposta anche “con le cattive”, cioè gli attentati, per rispondere a una logica di puro dominio e sottomissione di Stati e popoli. Charlie Hebdo, Batalclan, Bruxelles, Nizza. Le stesse “firme”, leggibili da chi conosce il linguaggio esoterico, consentono di risalire ai veri mandanti. Che, secondo Carpeoro, oggi colpiscono con crescente ferocia perché stanno iniziando ad avere paura di perdere il loro potere, da quando settori dell’élite – lo si vede negli Usa, con l’appoggio alla candidatura Sanders – si sono sfilati dal super-vertice globalizzatore, in preda al delirio di onnipotenza e ormai pronto a tutto: forse anche a colpire l’Italia, a Palermo.
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Scalfari sdogana l’oligarchia e i dogmi dell’élite reazionaria
L’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Continua la campagna di Scalfari – tanto caro a certa (sedicente) sinistra da salotto – che, attraverso un altro ragionamento contorto e surreale, non solo giustifica l’oligarchia, ma la accomuna di nuovo alla democrazia, compiendo un’opera di mistificazione. Ci aveva già provato, infatti, con un articolo scritto all’indomani del confronto Renzi vs Zagrebelski, di cui consiglio vivamente la lettura. Ci sarebbero tante cose da dire, ma mi soffermo su di una in particolare. Innanzitutto, la democrazia (quella rappresentativa, s’intende) è sì una delega del potere (dai “molti” ai “pochi”), ma pro-tempore: questa è la prima cosa che bisogna sottolineare, visto che si parla di un mandato a scadenza, pensato apposta per non conferire permanentemente poteri a nessuno. Dopodiché, i cittadini hanno il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti, tramite elezioni: la delega, dunque, segue la logica – di derivazione illuminista – del “contratto sociale”, secondo la tradizione inaugurata dal giusnaturalismo (o scuola del diritto naturale laico).La democrazia – almeno in via di principio – afferma il diritto da parte di tutti di concorrere per una carica politica (elettorato passivo), così come il diritto di voto universale (elettorato attivo). Le oligarchie, invece, il governo “dei pochi”, non contemplano la partecipazione popolare alle decisioni collettive. Possono essere manifeste, occulte, agiscono dentro e/o fuori dalle strutture preposte all’esercizio del potere e, a seconda dei casi, si basano su un diritto divino di governare le masse (oligarchie religiose: ad es. caste sacerdotali), su uno “status d’ascrizione” (aristocrazie di sangue), sulla gestione della governance economica globale (oligarchie finanziarie: banche d’affari, multinazionali, conglomerati vari), su una gestione burocratica dei processi politico-economici e sociali (oligarchie tecnocratiche: Bce, Commissione Europea) o su una presunta superiorità spirituale (oligarchie iniziatiche: società misteriosofiche/esoteriche varie; in primis la massoneria, in riferimento alle sue declinazioni interne di stampo conservatore, neo-aristocratico e reazionario, lontane dall’ideale democratico-progressista).La questione, poi, si fa ancora più sottile e malefica, se pensiamo che negli ultimi 40 anni in Occidente c’è stato questo tentativo (riuscito, ad oggi) di piegare la democrazia, lasciandola nelle forme ma svuotandola nella sostanza – dopo quello fallito di eliminarla ovunque, anche dal punto di vista formale, con l’esperimento nazifascista – facendola diventare una “oligarchia de facto”. Come? Delegittimando la politica e il ruolo dello Stato e, contemporaneamente, legittimando il mercato; grazie alle sue leggi (domanda-offerta, “mano invisibile”, ecc), una comunità di individui sarebbe in grado di auto-regolarsi, senza il bisogno di un intervento governativo. Idea, questa, che sta alla base di una vera e propria teologia dogmatica – il neoliberismo – intrinsecamente anti-democratica, neo-oligarchica e falsamente liberale. Dunque, nel momento in cui Eugenio Scalfari accomuna i due concetti sopra esposti, non solo dice qualcosa di non vero, ma è anche in malafede.Egli, infatti, cerca – in maniera assai subdola – non tanto e non solo di screditare la democrazia, quanto soprattutto (e qui sta la chiave del discorso) di legittimare – da un punto di vista filosofico – oltre che difendere, l’oligarchia stessa. Che è, in sostanza, la modalità di governo attualmente dominante in Occidente. Almeno finché la democrazia non verrà smantellata anche nelle sue forme. Prima di chiudere, riprendo un attimino la citazione iniziale e vi sottopongo una riflessione: l’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Non sentite anche voi puzza di “teorie trioculari”? Questa citazione non vi ricorda – almeno vagamente – le affermazioni contenute in “The Crisis of Democracy”, famigerato rapporto della Trilateral Commission redatto nel 1975? A me sì.(Rosario Picolla, “Scalfari, l’oligarchia e la democrazia”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 14 ottobre 2016).L’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Continua la campagna di Scalfari – tanto caro a certa (sedicente) sinistra da salotto – che, attraverso un altro ragionamento contorto e surreale, non solo giustifica l’oligarchia, ma la accomuna di nuovo alla democrazia, compiendo un’opera di mistificazione. Ci aveva già provato, infatti, con un articolo scritto all’indomani del confronto Renzi vs Zagrebelski, di cui consiglio vivamente la lettura. Ci sarebbero tante cose da dire, ma mi soffermo su di una in particolare. Innanzitutto, la democrazia (quella rappresentativa, s’intende) è sì una delega del potere (dai “molti” ai “pochi”), ma pro-tempore: questa è la prima cosa che bisogna sottolineare, visto che si parla di un mandato a scadenza, pensato apposta per non conferire permanentemente poteri a nessuno. Dopodiché, i cittadini hanno il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti, tramite elezioni: la delega, dunque, segue la logica – di derivazione illuminista – del “contratto sociale”, secondo la tradizione inaugurata dal giusnaturalismo (o scuola del diritto naturale laico).
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Il regno del Cigno Nero, la crisi come orizzonte definitivo
Il cigno nero, la crisi (ossia recessione-stagnazione più disoccupazione e disinvestimenti, migrazione, instabilità, incertezza di prospettive) permane, compie otto anni e non si intravede alcuna uscita da essa. Da un lato, permane perché è la conseguenza del nuovo tipo di economia, cioè dell’economia finanziaria che opera ormai apertamente attraverso la costruzione e lo svuotamento delle bolle, come strumento di aumento e di concentrazione del reddito e del potere, anche politico, nelle mani di chi la gestisce. Dall’altro lato, permane perché è uno strumento di riforma della società, della legge, dell’uomo, nel senso che consente a chi la gestisce di ridurre a chi la subisce, sostanzialmente col suo consenso, i diritti di lavoratore, di risparmiatore, di utente dei servizi pubblici, di partecipazione politica: di cittadino, in una parola. Quindi essa dissolve anche la polis, cioè lo Stato nazionale, l’organizzazione del demos, nella globalizzazione e nella migrazione di massa. Consente insomma di sottomettere e controllare, eliminando gradualmente il diritto anche alla privacy, alla quasi totalità della popolazione che non detiene il potere.Essa gradualmente demolisce i processi di partecipazione, decisione, controllo che salgono dal basso per via elettorale, e lo fa soprattutto togliendo rappresentatività e facoltà ai parlamenti in favore di governi e di organismi tecnici; però al contempo pretende il consenso della base alle sue decisioni e alle sue riforme, ma non lo recepisce per come esso spontaneamente si forma, bensì lo produce come le serve agendo dall’alto, guidando l’informazione, ripetendo incessantemente dogmi spesso falsi finché vengono percepiti come realtà scontata, fissando l’agenda dei temi di cui parlare e i limiti entro cui farlo, delegittimando a priori le posizioni diverse con etichette quali euroscettico, razzista, islamofobo, omofobo, populista. E talora sanziona anche penalmente l’espressione critica o alternativa. Per contro, elargisce sovvenzioni, appoggio, massima visibilità mediatica e autorevolezza istituzionale alle idee guida per il nuovo ordine sociale che sta formando. La crisi non è in realtà crisi, ma struttura; e permane perché è utile, ed è l’elemento portante del nuovo ordinamento globale.In questa logica comprendiamo il senso profondo, strutturale, dell’aumento verticale dei poveri e bisognosi, degli esclusi dal reddito dalle rendite, dal welfare, dalle garanzie. Cioè dal lavoro, dalla pensione, dalla pubblica assistenza come diritti. Sottolineo: come diritti, diritti stabili, non come concessioni volta per volta. Quando si rileva che in Italia gli indigenti, nell’arco di cinque anni, sono passati da 1 milione e mezzo a 4 milioni, quando si rileva che si stanno formando masse di milioni di immigrati, esodati, disoccupati, e quando si rileva che si preparano milioni di futuri pensionati che non avranno una rendita pensionistica sufficiente a vivere – quando si rileva tutto questo, si dovrebbe capire il volto della società che stanno costruendo, aiutandosi molto anche con l’ideale tedesco di austerità elevato a metodo inflessibile di governo: un corpo sociale saldamente nelle mani dell’oligarchia dominante, anche grazie al fatto che gran parte di esso sarà costituita da masse miste di indigenti, di impoveriti, di disoccupati, di immigrati, di pensionati, che sopravvivono grazie a interventi caritatevoli ed emergenziali del governo e di agenzie ampiamente finanziate dal governo, come Caritas, chiesa e sindacati, cioè alti prelati e alti sindacalisti, molto lautamente remunerati, essi già svolgono un importante ruolo di direzione, consolazione e collegamento in questo schema sociale.La mancanza di reddito e servizi sicuri, quindi la dipendenza da interventi anno per anno, bilancio dopo bilancio, da parte del governo, rende gradualmente queste masse sempre più passive, remissive, politicamente inattive. Il cigno nero non è volato via, ha costruito il suo trono per restare. Effettivamente, il reddito di cittadinanza, al quale in linea di principio sono contrario per varie ragioni anche pedagogiche, sarebbe il miglior antidoto a questa strategia di ingegneria sociale. Ma non potrà mai funzionare se prima non si sarà capito che il denaro oggi è un mero simbolo a costo zero di produzione, e che dunque l’unico ma decisivo vincolo alla politica di spesa è l’efficacia produttiva della spesa, mentre gli attuali dogmi di austerità e pareggio di bilancio sono un mero inganno genocida e liberticida.(Marco Della Luna, “Il regno del Cigno Nero”, dal blog di Della Luna dell’8 ottobre 2016).Il cigno nero, la crisi (ossia recessione-stagnazione più disoccupazione e disinvestimenti, migrazione, instabilità, incertezza di prospettive) permane, compie otto anni e non si intravede alcuna uscita da essa. Da un lato, permane perché è la conseguenza del nuovo tipo di economia, cioè dell’economia finanziaria che opera ormai apertamente attraverso la costruzione e lo svuotamento delle bolle, come strumento di aumento e di concentrazione del reddito e del potere, anche politico, nelle mani di chi la gestisce. Dall’altro lato, permane perché è uno strumento di riforma della società, della legge, dell’uomo, nel senso che consente a chi la gestisce di ridurre a chi la subisce, sostanzialmente col suo consenso, i diritti di lavoratore, di risparmiatore, di utente dei servizi pubblici, di partecipazione politica: di cittadino, in una parola. Quindi essa dissolve anche la polis, cioè lo Stato nazionale, l’organizzazione del demos, nella globalizzazione e nella migrazione di massa. Consente insomma di sottomettere e controllare, eliminando gradualmente il diritto anche alla privacy, alla quasi totalità della popolazione che non detiene il potere.
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Se Renzi perde si tiene il Pd, a Palazzo Chigi un altro Monti
Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.Sempre che, naturalmente, i poteri forti glielo consentano. A decidere, in realtà, sarebbe il Vaticano, scommette l’ex ministro socialista Rino Formica. Il “Financial Times” lascia capire che la finanza anglosassone sta già mollando il Rottamatore: le sue riforme sarebbero «un ponte verso il nulla», scrive il giornale della City. Fin dall’inizio, Renzi è stato sostenuto dall’élite di potere che guida la globalizzazione in senso neo-feudale, predicando il taglio dello Stato a favore delle multinazionali privatizzatrici. La riforma costituzionale sottoposta a referendum sembra recepire alla lettera il “monito” di Jamie Dimon, che dal vertice della Jp Morgan avvertì che la nostra Costituzione è “troppo sensibile” alla tutela dei diritti sociali. Da sempre, Renzi si è affidato a consiglieri strategici non esattamente di sinistra: da Marco Carrai, un uomo con saldi interessi nella finanza di Tel Aviv, a Yoram Gutgeld, economista italo-israeliano e vera “mente” del governo. Per non parlare del consigliere-ombra per la politica estera, il politologo americano Michael Ledeen, esponente dell’ultra-destra atlantista. «Ledeen appartiene alla massoneria internazionale di potere che ha condizionato lungamente la politica italiana», racconta Gianfranco Carpeoro nel libro “Dalla massoneria al terrorismo”: «Ha sponsorizzato prima Craxi, poi Di Pietro, poi Grillo».Stesso schema: sostenere un leader e, al tempo stesso, il suo “demolitore” – ieri Craxi e Di Pietro, oggi Renzi e Grillo. Sempre secondo Carpeoro, il grillino “gestito” da Ledeen sarebbe Luigi Di Maio, ipotetico premier del dopo-Renzi in caso di elezioni. L’evoluzione della crisi italiana preoccupa moltissimo i super-poteri finanziari che governano l’Europa attraverso l’Ue, la Bce e la Germania: il referendum italico segue di poco il terremoto-Brexit e sarà celebrato all’indomani del voto americano, dove il vertice dell’oligarchia teme la vittoria di Trump. Poi, in Europa, seguiranno elezioni delicatissime, a partire da quella di un paese-cardine come la Francia, sempre più ostile all’egemonia di Bruxelles. Se questa è la cornice internazionale nella quale maturano anche gli eventi italiani, per ora Giannuli preferisce concentrarsi sulle mosse del piccolo Renzi: se perdesse il referendum, dice l’analista dell’ateneo milanese, il premier cercherà di evitare lo scioglimento immediato delle Camere (e qui il caos sulla legge elettorale lo soccorrerebbe) e proverà a domare la rivolta nel partito. «Infatti, è più che plausibile che Franceschini, De Luca, Emiliano, e forse i piemontesi (Fassino e Chiamparino) gli si getteranno addosso reclamandone la testa». E, insieme a «quei morti di sonno della minoranza di sinistra», potrebbero «rovesciare il segretario», anche se lo statuto del Pd imporebbe un “regolare processo”, cioè un congresso del partito.«Il disegno di Renzi è facilmente indovinabile: fare un governo di scopo, di larghe intese, proprio perché bisogna rifare la legge elettorale e, di conseguenza, un governo presieduto da un tecnico non iscritto a nessun partito (insomma, un altro Monti)». Questo sia per guadagnare tempo, sia per evitare che su quella poltrona possa andarci Franceschini o un altro esponente Pd che poi, magari, diventerebbe il candidato alla presidenza del Consiglio. «In questo modo, invece – continua Giannuli – la poltrona di Palazzo Chigi sarebbe “sterilizzata” ai fini delle prossime elezioni». Una volta “sistemato” il governo in questo modo, Renzi potrebbe dedicarsi al congresso del partito. Obiettivo: estinguere la minoranza bersaniana, che il segretario non ricandiderebbe più alle elezioni. «Qui l’azione di D’Alema sarebbe perfettamente convergente, perché il Conte Max ragionevolmente userebbe la rete dei comitati per il No come base di un nuovo partito». Ma attenzione, anche qui, ai retroscena: D’Alema, scrive Gioele Magaldi nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, milita nella galassia delle logge sovra-massoniche internazionali di destra, come la storica “Three Eyes”, che annoverebbe tra i suoi autorevoli esponenti personalità come Henry Kissinger e Giorgio Napolitano. Un giurista vicinissimo all’ex capo dello Stato, Valerio Onida, ex presidente della Consulta, sta tentando di far bloccare (per eccesso di quesiti) un referendum che Renzi rischia di perdere. Come dire: il gioco è grande, molto più di Renzi.Se dovesse perdere il referendum, «Renzi sarebbe ridotto a mal partito, ma non spacciato: per liberarcene occorrerà ancora altro», sostiene Aldo Giannuli, che prova a valutare le mosse del premier in caso di bocciatura, visti i sondaggi che ormai danno vincente il No, nonostante i tanti indecisi. In caso di sconfitta, «è prevedibile che Renzi rassegni le dimissioni del governo già il giorno 5 dicembre e prima che glielo chieda chiunque», perché «in un paese in cui non si dimettono nemmeno i morti e dove nessuno tiene fede alla parola data, un politico che si dimette come aveva promesso ci fa un figurone». Ma attenzione, sarebbe una scelta dovuta a un calcolo molto preciso: «Mantenere la poltrona di segretario del partito e guadagnare tempo». Infatti, «difficilmente gli converrebbe andare alle elezioni subito: dopo la botta del referendum, il Pd probabilmente perderebbe». Anche se la Corte Costituzionale dovesse lasciare immutato l’Italicum, infatti, «la bocciatura del referendum imporrebbe di ripensare la legge elettorale», magari per differenziarla: turno unico al Senato e doppio turno alla Camera. Ci vorrà tempo: e Renzi preferirà cedere temporaneamente Palazzo Chigi a «un altro Monti», dedicandosi nel frattempo alla definitiva “pulizia etnica” nel Pd, divenendone il padrone assoluto.
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Benigni signorsì, adesso la super-Costituzione è un inferno
Alcuni anni fa Benigni volle manifestare la propria venerazione per la Costituzione italiana dando vita a uno spettacolo dal titolo molto eloquente: “La più bella del mondo”. Lesse e commentò, con l’entusiasmo e le doti di trascinatore che tutti gli riconoscono, i primi dodici articoli del testo, quelli contenenti i “principi fondamentali”. Parlò con ammirazione della semplicità e forza poetica con cui si affermano due principi rivoluzionari: quello per cui “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1) e “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” (art. 3). Si soffermò sulla magia che consentì a personalità politiche eccezionali, pur provenienti da culture politiche molto diverse, di produrre insieme un testo invidiatoci da tutto il mondo. Lo spettacolo venne trasmesso da mamma Rai nel dicembre 2012, quando era presidente del Consiglio Mario Monti, qualche giorno prima che il Parlamento decidesse con maggioranza bulgara di sfregiare “la più bella del mondo” costituzionalizzando il principio del pareggio di bilancio (art. 81). Ora però la geografia politica è cambiata: a Palazzo Chigi siede Renzi. E questi ha deciso di modificare profondamente la Costituzione italiana, riscrivendo ben 47 articoli su 139.
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Usa-Russia, guerra in Siria per negare la vittoria a Trump?
Tamburi di guerra, dalla Siria al Baltico. Nelle ultime ore sta salendo la tensione tra Stati Uniti e Russia. In modo pericoloso: il generale Mark Milley, capo dell’esercito statunitense, avverte che Washington è pronta a «distruggere i nemici», cioè «Cina, Russia, Iran». Da Mosca, Putin sfida l’America: se vuole la pace, cessi «la politica ostile» contro il Cremlino. L’amministrazione Obama, rileva il ministro degli esteri Lavrov, «ha fatto di tutto per distruggere l’atmosfera di fiducia che avrebbe incoraggiato la cooperazione». Si dispiegano missili in Est Europa, ma il punto più rischioso resta la Siria, dove gli Usa non accettano che i russi stiano “smontando” l’Isis, la carta giocata dall’intelligence atlantica per rovesciare Assad: dopo il bombardamento americano che ha ucciso “per errore” un’ottantina di soldati di Damasco, Mosca ha avvertito che l’aviazione russa abbatterà qualsiasi velivolo minacci l’esercito siriano. Terza Guerra Mondiale? «E’ già in atto», sostiene il massone Gioele Magaldi, che però non crede allo scontro diretto, militare, tra Usa e Russia. Almeno, non prima delle presidenziali americane, il derby tra Donald Trump e Hillary Clinton. E se invece l’escalation in Siria “servisse” proprio a destabilizzare Trump, ripetutamente schieratosi per il dialogo con Putin?Nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), Magaldi svela precisi retroscena geopolitici che, attraverso il ruolo occulto di 36 Ur-Lodges, superlogge segrete internazionali, collegano eventi in apparenza lontani: da qualche decennio, il vertice super-massonico del potere mondiale globalizzato punta tutto, in Occidente, sulla demolizione del welfare, sull’azzeramento dello Stato come investitore pubblico e sociale, e mira a fare dell’ex terzo mondo un terreno di conquista da “rapinare” (materie prime) e a cui attingere forza lavoro sottopagata, da convogliare in Europa onde svalutare ulteriormente l’occupazione nostrana. Insieme a un altro massone, Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Uno Editori), lo stesso Magaldi ha avvertito che un’identica regia manovra guerre, crisi e attentati. L’Isis e l’austerity sono riconducibili alla medesima matrice neo-aristocratica dell’oligarchia massonica internazionale: in Siria si usano i missili e i tagliagole dell’Isis, in Europa la crisi economica provocata dal rigore imposto dalla Germania – ma, all’occorrenza, si ricorre anche alla manovalanza jihadista reclutata da settori dei servizi segreti, laddove “serva” utilizzare il terrore per paralizzare il possibile risveglio dell’opinione pubblica, come appunto in Francia: Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza.Non è un caso che la sequenza di morte abbia colpito Parigi, dove – a differenza dell’Italia – è forte la protesta sindacale contro la “Loi Travail”, il Jobs Act transalpino, che si unisce al radicale programma euroscettico del Front National di Marine Le Pen. Dopo l’inatteso esito del voto sul Brexit, la situazione sembra fibrillare: questo spiega i timori dell’élite rispetto allo stesso referendum italiano, con personaggi del calibro di Stiglitz che arrivano a paventare la fine dell’euro se Renzi dovesse perdere. Ma se in Francia il Front National è il primo partito e annuncia che, in caso di vittoria, chiederà la fine dell’euro-rigore pena l’uscita di Parigi dall’Ue, in Italia il Movimento 5 Stelle non sfiora neppure l’argomento: non c’è pericolo che chieda l’uscita dell’Italia né dall’Eurozona né tantomeno dall’Unione Europea. La situazione è in stallo. Anche per questo, forse, qualcuno potrebbe forzarla in Siria, facendo precipitare il clima della già surriscaldata campagna presidenziale americana, verso esiti imprevedibili? Di fronte ai fatti di sangue in Francia, contrassegnati da “firme” massoniche e da indagini opache (quelle su Charlie Hebdo sigillate dal segreto di Stato), Carpeoro avverte: aspettiamoci di tutto, perché quell’élite oggi ha paura di perdere potere, ha subito defezioni ed è pronta a farci veramente male. Con le bombe, e magari anche coi missili?Tamburi di guerra, dalla Siria al Baltico. Nelle ultime ore sta salendo la tensione tra Stati Uniti e Russia. In modo pericoloso: il generale Mark Milley, capo dell’esercito statunitense, avverte che Washington è pronta a «distruggere i nemici», cioè «Cina, Russia, Iran». Da Mosca, Putin sfida l’America: se vuole la pace, cessi «la politica ostile» contro il Cremlino. L’amministrazione Obama, rileva il ministro degli esteri Lavrov, «ha fatto di tutto per distruggere l’atmosfera di fiducia che avrebbe incoraggiato la cooperazione». Si dispiegano missili in Est Europa, ma il punto più rischioso resta la Siria, dove gli Usa non accettano che i russi stiano “smontando” l’Isis, la carta giocata dall’intelligence atlantica per rovesciare Assad: dopo il bombardamento americano che ha ucciso “per errore” un’ottantina di soldati di Damasco, Mosca ha avvertito che l’aviazione russa abbatterà qualsiasi velivolo minacci l’esercito siriano. Terza Guerra Mondiale? «E’ già in atto», sostiene il massone Gioele Magaldi, che però non crede allo scontro diretto, militare, tra Usa e Russia. Almeno, non prima delle presidenziali americane, il derby tra Donald Trump e Hillary Clinton. E se invece l’escalation in Siria “servisse” proprio a destabilizzare Trump, ripetutamente schieratosi per il dialogo con Putin?
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Clamoroso, il Financial Times molla l’inutile Matteo Renzi
All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera Pd, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle Popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne. Renzi andava bene sul “Financial Times”: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali). Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello Stato, al ceto politico) visto come un impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.In effetti Matteo, per compiacere quel mondo, di diplomazia ne ha messa tanta. Solo che il renzismo è un veloce movimento di parole, un compulsivo movimento di poteri quanto un immobile movimento politico. Tutta l’innovazione politico-finanziaria si è concretizzata nella richiesta di “flessibilità” a Bruxelles, qualche miliardata di sforamento del deficit per tirare a campare; e Cameron, a suo tempo, è stato lasciato solo come uno Tsipras qualsiasi. La polpa che interessa alla City (dalle opere pubbliche, alle partecipate, alla spesa sanitaria) è rimasta o virtuale (vedi la vicenda della spending review) o in mano ai soliti soggetti. Per non parlare delle banche e dei tentativi, che alla City parranno davvero demode’, di mantenere i Patuelli (in oggetto, ex segretario del Pli e oggi presidente delle banche italiane) o i Profumo al timone degli istituti bancari.Alla City piace un’Italia spartita tra grossi fondi di investimento, non tra reduci di cene con Carrai e la Boschi. Eppure a capodanno 2015, dopo una decina di mesi di avventure del guitto di Rignano, Tony Barber, uno degli editorialisti più importanti del “Financial Times”, tuonava convinto: «Renzi è l’ultima speranza per l’Italia». Per non parlare del corsivo del “Financial Times”, sempre di Tony Barber, che campeggia sulle pagine del comitato del Sì da luglio: «La salvezza dell’unione monetaria dipende dall’esito del referendum costituzionale italiano». Insomma, sembrava tutto vero, specie se visto da un’Italia a reti unificate (grave problema democratico minimamente non affrontato) dove parla solo Renzi: da Matteo dipendono i destini dell’Italia e dell’Europa. Nemmeno De Gasperi aveva avuto tanta buona stampa nella City. Ma, nel mondo finanziario di oggi, la regola è la volatilità, e questo vale anche per la politica.Passano infatto solo quattro mesi e il salvatore dell’Italia e dell’Europa viene rappresentato dallo stesso Tony Barber, sempre sul “Financial Times”, come l’architetto di riforme costituzionali che «sono un ponte verso il nulla»!!! Da non credere se non fosse tutto vero. Barber punta il dito contro l’assetto dell’amministrazione pubblica, visto come simile a un mandarinato (impermeabile quindi alla City), l’apertura a Berlusconi sul ponte di Messina (conferma di un assetto di potere nelle opere pubbliche anch’esso impermeabile alla City) e intravede più rischiosa, per l’Italia, la crisi bancaria che il No al referendum (la verità, seppure rivelata con tardivo interesse). Oggi persino la vittoria di Renzi pare indigesta al quotidiano anglo-giapponese e all’editorialista che, ancora poche settimane fa, incoronava come novello Giovanni Sobieski (il salvatore dell’Europa dai turchi durante l’assedio di Vienna) proprio il presidente del consiglio italiano.Tony Barber, con la disinvoltura di un Alfano qualsiasi, oggi conclude infatti l’editoriale dicendo che una vittoria del Sì sarebbe un qualcosa di folle che salverebbe gli interessi tattici di Renzi e non quelli del paese. E’ evidente che non c’è più un grosso fondo che crede, dal punto di vista strategico, in Renzi, alla vigilia di tante mutazioni in Europa. E, ricordiamo, se l’aumento dei tassi della Fed in dicembre avviene (il presidente della Fed di Chicago lo dà come certo) e innesca una dinamica di rialzo dei bond italiani, ci sarà da ballare parecchio, sul fronte del debito pubblico. Un ballo che, comunque vada, il “Financial Times” non vorrebbe fare con Matteo Renzi. Alla notizia è stata messa, ovviamente, la sordina. Al contrario, se Tony Barber avesse finito di incoronare Renzi, avremo visto la scena sulle consuete reti unificate. La saldatura Renzi-Mediaset-Rai non pare preoccupare un granché. Auguri comunque a tutti loro, visto lo scenario.(“Clamoroso, il Financial Times molla Matteo Renzi”, da “Senza Soste” del 5 ottobre 2016).All’inizio furono i buoni uffici di Davide Serra, fondo Algebris e tessera Pd, il finanziere che è stato ripagato con un inside trading che ha permesso di guadagnare sul rialzo delle Popolari dopo un decreto e sul crollo di Mps dopo una serie di misure interne. Renzi andava bene sul “Financial Times”: prometteva di fare la sponda liberista a Cameron, un approdo italiano per i capitali in cerca di affari e di essere un bastione contro l’austerità tedesca (quella che, nella lettura angloamericana della crisi impedisce la proliferazione dei capitali). Insomma, un’Italia dove la città tipo è molto più simile a Manchester che a Pescara. Una apertura di credito, da parte del quotidiano finanziario londinese, di proprietà giapponese, nella speranza di una rottura definitiva con i rigidi assetti di quel blocco di potere (dalle grandi opere al management bancario, all’amministrazione dello Stato, al ceto politico) visto come un impedimento per un compiuto sbocco della globalizzazione in Italia.
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Badiou: giovani, rifiutate il potere e scegliete la vita vera
«Corrompere i giovani, spingendoli a rinunciare a piaceri e denaro per mettersi alla ricerca della “vera vita”, significa rifiutare i sentieri tracciati, l’ordine costituito, l’obbedienza cieca» racconta il filosofo Alain Badiou, intervistato da Anais Ginori per “Repubblica”. L’intellettuale parigino, già maoista, scrisse qualche anno fa un popolare saggio contro Nicolas Sarkozy, visto come simbolo dei “nuovi avventurieri” delle nostre democrazie, da Berlusconi a Trump. «Con un capitalismo sempre più trionfante – commenta – il nostro sistema politico va in crisi, perché la sinistra non è più capace di mettere più un minimo di freno alle forze del mercato. La promessa di un capitalismo dal volto umano ha fallito». Ora pubblica “La vera vita”: perché ha deciso di rivolgersi ai giovani? «Sono partito dall’osservazione dei miei figli, dalle loro difficoltà a inserirsi nel mondo adulto». Come professore, si è rivolto ai giovani per tutta la vita: «In fondo la filosofia è una forma di pedagogia, di volontà di trasformare il pensiero all’origine». Poi c’è la storia personale: lo «straordinario entusiasmo politico degli anni Sessanta e Settanta, seguito dalla delusione e persino da forme di disperazione. Una parte dei giovani vuole attingere a quell’esperienza, scavalcando i genitori». Come se ne esce? Con una “alleanza” tra nonni e nipoti.«Provate ad andare in qualche riunione politica: l’opposizione è giovani e vecchi contro gli adulti», dice Badiou, nell’intervista ripresa da “Micromega”. «La mia generazione può tramandare l’idea del possibile. La grande oppressione contemporanea non è dire che il mondo di oggi sia il migliore – tutti ammettono che non è ideale – ma nel voler convincere tutti noi dell’assenza di alternative. La vera vita significa rifiutare quest’imposizione esterna». Oggi, continua Badiou, «i giovani sono i nuovi vecchi». E spiega: «Prima erano gli anziani i custodi dell’ordine costituito, che preservavano l’equilibrio sociale. Oggi sono i giovani perché è attraverso di loro, ma soprattutto dell’immagine della giovinezza, che si perpetua il sistema della concorrenza, del successo, della performance che rifiuta qualsiasi perdente. Voler rimanere giovani è qualcosa che abbiamo sempre visto nell’umanità». Chi era giovane negli anni Sessanta ha avuto più fortuna: «L’universo della tradizione era ancora sufficientemente forte per permettere alla rivolta di avere un senso all’interno della modernità». Oggi, invece, «la propaganda del capitalismo vuole imporre un’unica idea di modernità o postmodernità, e forse un giorno post-postmodernità: alla fine parliamo sempre della stessa cosa, visto che è scomparso l’ideale rivoluzionario ».Cosa significa oggi ribellarsi? Spesso la rivolta «si riduce a essere un sintomo della malattia», sostiene il filosofo. «In Occidente, le rivolte sono per lo più nostalgiche, tendono a voler conservare l’epoca d’oro del welfare, in nome di un passato ormai superato. Penso ad esempio ai ragazzi del movimento “Occupy Wall Street” che, pur con lodevoli intenzioni, rappresentano un ridotto manipolo della classe media minacciata, una protesta piccolo-borghese destinata a svanire nel nulla, in mancanza di un legame con i veri diseredati del pianeta». L’altro tipo di ribellione che osserviamo tra i giovani, continua Badiou, è quella nichilista, «che nasce nella modernità occidentale ma la vuole combattere: il terrorismo islamico, ad esempio». Attenzione: «Nessuna di queste è una vera rivolta. Il Ventunesimo secolo dovrebbe essere un nuovo Settecento, un secolo di nuovi Lumi, e noi filosofi dovremmo esercitare la nostra funzione destabilizzante». Una “buona vita”, secondo le convenzioni, è «un’esistenza orientata verso la comodità, il tornaconto personale, l’accumulazione individuale». La “vera vita”, invece, è «una ricerca di condivisione» che «porta in sé un’energia creatrice, da cui far scaturire un nuovo sistema di valori universali».“Vera vita”, per Badiou, è quel che Senofonte descrive nell’Anabasi, «ovvero la risalita, l’erranza, lo sradicamento: in definitiva significa vivere, e non sopravvivere». Una rassegnazione indotta dalla crisi del capitalismo? «Siamo nel mezzo di quel “disagio della civiltà” di cui già parlava Freud. La simbologia è stata distrutta dal capitale, come Marx aveva annunciato». Per questo, Badiou crede «in una ripartenza individuale, in compagnia dell’umanità intera», verso «una nuova simbolizzazione egualitaria». E averte: «Se accetteremo la logica di dominio del capitalismo, andremo verso cataclismi. Tutti i drammi dell’umanità vengono dall’incontro tra meccanismi di potenza e disuguaglianza. Persino la ricchezza dell’aristocrazia durante l’Ancien Régime non provocava squilibri forti come quelli di oggi».Ma la “simbolizzazione egualitaria”, domanda Ginori, non è già fallita nel Novecento? «Non ho problemi a riconoscere il fallimento del comunismo», ammette Badiou, «ma non accetto l’ordine costituito del capitalismo, che sta producendo un caos mondiale, con diseguaglianze spaventose». E’ la cosiddetta ideologia neoliberista, o meglio «liberista tout court, perché si ripete da due secoli», che di fatto «è una semplice volontà di dominio». L’antidoto? «Creare nuove ideologie, senza prendere il rischio di riprodurre eredità del passato, escatologie rivoluzionarie sbagliate non solo sul piano empirico ma anche ideologico, perché opponevano la potenza dello Stato a quella del capitale». Da dove partire? «Già porsi la domanda, ed esprimere un’esigenza, mi pare un progresso». L’anziano filosofo si dichiara comunque ottimista: «Il capitalismo è giovane, ha solo qualche secolo. È diventato egemonico nell’Ottocento, poi c’è stata una contro-teoria, il comunismo, tramontata nel Ventesimo secolo. Il primo round è finito. Sta per cominciare il secondo. E noi stiamo nella fase di mezzo, quella più incerta e difficile».«Corrompere i giovani, spingendoli a rinunciare a piaceri e denaro per mettersi alla ricerca della “vera vita”, significa rifiutare i sentieri tracciati, l’ordine costituito, l’obbedienza cieca» racconta il filosofo Alain Badiou, intervistato da Anais Ginori per “Repubblica”. L’intellettuale parigino, già maoista, scrisse qualche anno fa un popolare saggio contro Nicolas Sarkozy, visto come simbolo dei “nuovi avventurieri” delle nostre democrazie, da Berlusconi a Trump. «Con un capitalismo sempre più trionfante – commenta – il nostro sistema politico va in crisi, perché la sinistra non è più capace di mettere più un minimo di freno alle forze del mercato. La promessa di un capitalismo dal volto umano ha fallito». Ora pubblica “La vera vita”: perché ha deciso di rivolgersi ai giovani? «Sono partito dall’osservazione dei miei figli, dalle loro difficoltà a inserirsi nel mondo adulto». Come professore, si è rivolto ai giovani per tutta la vita: «In fondo la filosofia è una forma di pedagogia, di volontà di trasformare il pensiero all’origine». Poi c’è la storia personale: lo «straordinario entusiasmo politico degli anni Sessanta e Settanta, seguito dalla delusione e persino da forme di disperazione. Una parte dei giovani vuole attingere a quell’esperienza, scavalcando i genitori». Come se ne esce? Con una “alleanza” tra nonni e nipoti.