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Giulietto Chiesa: complici dei criminali che sventolano diritti
In una intervista su “The Times of Israel” dello scorso ottobre, il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha dichiarato: l’assassinio del generale Soleimani non è impossibile. Il vero motore dell’attacco all’Iran è proprio Israele, nella persona del primo ministro Netanyahu e della sua politica di questi anni. Insieme a Ntanyahu e Israele c’è una potente lobby ebraica sionista, che controlla una buona metà del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei Rappresentanti. Sono calcoli forniti da autorevoli esperti. Questa lobby è quindi in grado di determinare anche il destino di Donald Trump. Non dimentichiamo che il senatore repubblicano Lindsay Graham ha detto esplicitamente e pubblicamente che, se ci fosse una decisione di Trump di ritirare le sue truppe dal Medio Oriente, non potrebbe garantire che una importante quota dei parlamentari repubblicani non possa votare a favore dell’impechment. Quindi a Trump è stato detto con tutta chiarezza: o procedi sulla linea che ti viene dettata, da Israele e dagli amici americani di Israele, oppure noi ti facciamo perdere l’impeachment e facciamo saltare la tua rielezione a presidente degli Stati Uniti. Per Trump questo è un colpo drammatico: per il suo destino. E non credo che riuscirà a recuperare, perché comunque sarà sotto accusa da ogni parte.Trump ha perduto nettamente tutto il Medio Oriente: non solo gli sciiti, che ormai si sono compattati interamente. Il problema è che anche una parte dei sunniti non potrà reggere a questa situazione: in caso di aggravamento della situazione, anche forze sunnite importanti del Golfo Persico possono sentirsi minacciate. Cinque importanti rappresentanti governativi del Qatar hanno chiesto il passaporto di Malta. Molte cose si stanno muovendo, nel campo islamico. Il Parlamento iracheno ha chiesto l’uscita delle truppe americane dal paese, e il problema non verrà risolto se non con l’uscita delle truppe. Trump nel frattempo sta già cercando di non parlare più dell’accaduto, come se non fosse successo nulla: è chiaro che il presidente americano è in piena ritirata, ma non credo che potrà rititarsi. L’atto è stato compiuto, e i rapporti politici, emotivi e istituzionali sono profondamente cambiati. Credo che la questione non si chiuda adesso, non c’è neanche da pensarci. Non credo che l’Iran farà azioni di grande portata. Credo invece che Trump dovrà cercare di tenere a freno la situazione, e mi auguro che gli europei siano in grado di capirlo: perché se le forze che vogliono la guerra (che non sono l’Iran) non saranno fermate dagli Stati Uniti, da Trump, dagli europei, io credo che andremo incontro a una crisi di proporzioni gigantesche.Non sottovalutiamo questa situazione: è in mano a veri e propri irresponsabili e criminali. Sono convinto che ci saranno dei gravi avvenimenti, nell’immediato futuro. Un punto importante è il ruolo della Russia: Putin è andato a Damasco a parlare con Assad, poi ad Ankara per inaugurare con Erdogan il Turkish Stream. Cioè, Putin sta dicendo che la Russia è in Medio Oriente, proprio nel momento in cui l’America viene invitata ad andarsene. Io credo che il destino della pace, in questo momento, sia in gran parte nelle mani della Russia e della Cina. Ritengo che la Russia dovrebbe dire, esplicitamente, che non accetterà in nessun modo un attacco contro l’Iran. Dovrebbe dirlo ora, perché ci sono forze che a questo attacco stanno pensando. Farebbe capire a tutti che oggi la pace è sotto il controllo della Russia e della Cina. I primi a sapere di poter sfidare militarmente gli Usa sono proprio i dirigenti iraniani. Nello stesso tempo, l’Iran è troppo forte per essere considerato un paese sconfiggibile: l’Iran non può vincere, ovviamente, ma non può neppure essere sconfitto. O meglio: potrebbe essere sconfitto solo con una gigantesca catastrofe internazionale, mondiale, nella quale noi europei saremmo coinvolti.Le cifre parlano chiaro: dallo Stretto di Hormuz passa il 22% del petrolio che è necessario alla vita quotidiana dell’intera Europa. Se attaccato, l’Iran può impedire l’uscita di quel petrolio, che è vitale anche per la Cina. Gli Stati Uniti, per quanto forti, sono in grado di imporre una catastrofe economica che si abbattesse sull’Europa e sulla Cina? Ne dubito. E quindi, la questione dovrebbe essere sul tavolo di tutti i paesi europei. Bisognerebbe riuscire a stabilire che gli interessi dell’Europa non coincidono più con quelli di un’America che non rispetta più le regole della convivenza internazionale. In qualche misura, bisogna che l’Europa agisca ora. Riteniamo che non succederà niente? Questa è una visione inaccettabile, di una miopia e di una stupidità assoluta, perché il mondo non è più quello di 25 anni fa: non capirlo, significa esporsi a gravi pericoli. Quindi, l’Europa e l’Italia dovrebbero essere capaci di dire agli americani: noi non vi seguiremo, non siamo d’accordo di andare a una rottura con l’Iran, bisogna ricucire. Se non siamo capaci di dire almeno questo, ci rendiamo complici dell’assurda pretesa di consegnare il pianeta a un gruppo di irresponsabili.Un giurista come Ugo Mattei dice che i diritti umani, insieme al diritto internazionale, sono stati usati essenzialmente come foglia di fico per il nostro colonialismo? Direi così: le foglie di fico servono per governare e ingannare le masse. Ma ci sono momenti in cui, se queste foglie di fico te le togli di dosso, le masse non saranno più governabili. Questo è il vero problema che sta di fronte a questa crisi, in Iran: quando vedi l’immensa partecipazione popolare ai funerali di Soleimani, e quando vedi piangere i due leader del paese, l’ayatollah Khamenei e il presidente Rohani – se li vedi piangere, di fronte al loro popolo che piange – tu non puoi ignorare che la foglia di fico è stata tolta, brutalmente. Conosciamo la durezza della realpolitik, e abbiamo avuto dirigenti che hanno corso il pericolo di essere uccisi – e sono stati uccisi (come Enrico Mattei) perché hanno avuto di coraggio e dire e fare quello che andava detto e fatto. I nostri politici devono fare il nostro interesse nazionale. Non si può esporre il nostro popolo a un rischio così grave, senza avere il coraggio di dire – nel modo giusto – che non si è d’accordo. Bisogna capire il momento. De Gaulle e altri grandi leader europei hanno saputo dire dei “no”, in certi momenti. Lo stesso Craxi pagò un caro prezzo per il suo “no” a Sigonella. Oggi però non abbiamo più un dirigente capace di dire, con garbo e fermezza: noi non siamo d’accordo. Non è giusto, e non lo faremo: perché è contro l’interesse del popolo italiano. Ci sarà qualcuno capace di dire almeno questo?(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Toscano).In una intervista su “The Times of Israel” dello scorso ottobre, il capo del Mossad, Yossi Cohen, ha dichiarato: l’assassinio del generale Soleimani non è impossibile. Il vero motore dell’attacco all’Iran è proprio Israele, nella persona del primo ministro Netanyahu e della sua politica di questi anni. Insieme a Ntanyahu e Israele c’è una potente lobby ebraica sionista, che controlla una buona metà del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei Rappresentanti. Sono calcoli forniti da autorevoli esperti. Questa lobby è quindi in grado di determinare anche il destino di Donald Trump. Non dimentichiamo che il senatore repubblicano Lindsay Graham ha detto esplicitamente e pubblicamente che, se ci fosse una decisione di Trump di ritirare le sue truppe dal Medio Oriente, non potrebbe garantire che una importante quota dei parlamentari repubblicani non possa votare a favore dell’impechment. Quindi a Trump è stato detto con tutta chiarezza: o procedi sulla linea che ti viene dettata, da Israele e dagli amici americani di Israele, oppure noi ti facciamo perdere l’impeachment e facciamo saltare la tua rielezione a presidente degli Stati Uniti. Per Trump questo è un colpo drammatico: per il suo destino. E non credo che riuscirà a recuperare, perché comunque sarà sotto accusa da ogni parte.
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Perché ci odiano: i primi terroristi siamo noi, da sempre
C’è una ragione all’odio che ha innescato i terribili attacchi terroristici da parte di cellule impazzite del mondo arabo? Oppure sono solo frutto di ‘fanatismo’? Nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati Uniti sono colpevoli di terrorismo, cioè di uso illegale della forza ai danni del Nicaragua. Come scrissi in “Il terrorismo dell’1%”, un paragrafo di un mio libro, “99%”, la sentenza si ebbe perché il presidente Reagan, a partire dal 1981, attraverso il finanziamento e l’addestramento delle cosiddette squadre della morte denominate Contras voleva rovesciare il governo sandinista. Il Nicaragua fu oggetto di veri e propri atti di terrorismo; fu costantemente attaccato nelle sue strutture vitali, furono uccisi funzionari, attaccati depositi di petrolio, si voleva mettere in ginocchio un paese solo perché accusato di essere guidato da un governo filo-comunista. Occorrerebbe domandarsi cosa sarebbe successo se fosse stato il Nicaragua ad attaccare così gli Stati Uniti. In che modo avrebbe risposto Reagan? L’amministrazione sandinista si limitò a denunciare gli Usa alla Corte dell’Aia e il tribunale mondiale riconobbe le colpe americane.Tra il 1991 e il 2000, secondo il prestigioso “The Lancet”, le sanzioni imposte dall’Onu all’Iraq hanno causato la morte di 567.000 bambini al di sotto dei cinque anni. Una cifra forse sovrastimata; tuttavia Madeleine Albright, l’allora ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite e poi segretario di Stato americano, alla domanda se ne fosse valsa la pena che 500.000 bambini iracheni fossero lasciati morire, rispose: «Penso che questa sia una scelta molto dura, ma il prezzo, pensiamo che il prezzo ne valga la pena». Come si è domandato Paolo Barnard nel suo libro “Perché ci odiano?”, che cosa avremmo provato noi italiani se un ambasciatore arabo avesse dichiarato pubblicamente che la strage dei nostri bambini era un prezzo che il mondo mussulmano considerava accettabile infliggerci? Saddam Hussein, nonostante l’embargo, decise di non cedere e fare patti che avrebbero reso i pozzi petroliferi iracheni controllati dalle multinazionali straniere. Quindi, come era accaduto a Panama con Omar Torrijos e in Ecuador con Jamie Roldos, presidenti che, come è stato ben spiegato da John Perkins in “Confessioni di un sicario dell’economia”, si erano rifiutati di far colonizzare il proprio paese e per questo entrambi furono assassinati; anche con Saddam furono usate le maniere forti.Secondo uno studio della Brown University in Afghanistan i civili uccisi sono stati 12.000, 35.000 in Pakistan. L’ultima guerra in Iraq ha causato l’uccisione di almeno 125.000 civili, due milioni di rifugiati e lasciato il territorio in una condizione di anomia dove gli attentati sono pane quotidiano. Una divisione tra bande che giova agli Usa che controlla i pozzi petroliferi, vero fine della guerra. Dick Cheney, vice presidente Usa, era a capo della Halliburton, un’azienda che tratta con il petrolio. Cheney fu uno dei più agguerriti sostenitori della guerra in Iraq ‘giustificata’ con lo spauracchio delle armi di distruzione di massa mai trovate. I talebani, Saddam, Gheddafi e lo stesso Bin Laden: uomini prima sostenuti e poi eliminati allorquando si sono ribellati sono stati tacciati di terrorismo e per questo sostituiti. Le pubblicazioni editoriali negli ultimi anni sono state numerose; sento di consigliare, oltre quella sopra citata, anche i testi di Noam Chomsky, studioso di cui ho già scritto, e di Massimo Fini. La lettura critica, alternativa a quella mainstream, deve spingere il lettore a farsi delle domande.La prima è: che differenza c’è tra le vittime civili causate dagli aerei B-52 che dall’altezza di 9.000 metri sganciano ordigni che in Medio Oriente disintegrano interi quartieri e gli attentati di matrice mussulmana in Occidente? Inoltre, senza porre giustificazioni, ma siamo sicuri che non ci sia un’attinenza tra gli attacchi all’Occidente con le torture, le umiliazioni subite dal mondo islamico ad Abu Ghraib, per non parlare del genocidio palestinese che l’estate scorsa ha causato l’uccisione di almeno 1.550 civili palestinesi? «Sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi ma eliminando le ragioni che li rendono tali». Queste sono le parole di Tiziano Terzani, autore di “Lettere contro la guerra”. Unica certezza è che il terrorismo genera nuove forme di terrorismo, e queste nuove forme di terrorismo ne generano a loro volta delle altre, fino a creare tanti anelli di una catena che lega l’umanità alla stupida legge del taglione.(Gianluca Ferrara, “‘Perché ci odiano?’ di Paolo Barnard: le ‘ragioni’ culturali dei terroristi”, dal “Fatto Quotidiano” del 4 aprile 2015; all’epoca, Ferrara era già senatore dei 5 Stelle, carica che riveste tuttora. Il bestseller segnalato, “Perché ci odiano”, scritto da Barnard nel 2006 per Rizzoli-Bur, è basato su prove, testimonianze e documenti, al di là delle menzogne ufficiali del mainstream media. In anni di ricerche e viaggi, l’autore «ha utilizzato fonti “non sospette”, cioè quelle ufficiali americane, inglesi e israeliane, che dimostrano come il terrorismo sia stata l’arma principale di questi paesi per imporre un loro ordine mondiale, da decenni: da quando gli israeliani si resero protagonisti di una vera pulizia etnica contro i palestinesi, e gli americani (con gli inglesi) sostennero le controrivoluzioni in Indonesia, in Guatemala, in America Latina. Con l’aggiunta dei russi in Cecenia: una lunga lista di esempi riguardo i quali non si può restare indifferenti»).C’è una ragione all’odio che ha innescato i terribili attacchi terroristici da parte di cellule impazzite del mondo arabo? Oppure sono solo frutto di ‘fanatismo’? Nel 1986 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja sentenziò che gli Stati Uniti sono colpevoli di terrorismo, cioè di uso illegale della forza ai danni del Nicaragua. Come scrissi in “Il terrorismo dell’1%”, un paragrafo di un mio libro, “99%”, la sentenza si ebbe perché il presidente Reagan, a partire dal 1981, attraverso il finanziamento e l’addestramento delle cosiddette squadre della morte denominate Contras voleva rovesciare il governo sandinista. Il Nicaragua fu oggetto di veri e propri atti di terrorismo; fu costantemente attaccato nelle sue strutture vitali, furono uccisi funzionari, attaccati depositi di petrolio, si voleva mettere in ginocchio un paese solo perché accusato di essere guidato da un governo filo-comunista. Occorrerebbe domandarsi cosa sarebbe successo se fosse stato il Nicaragua ad attaccare così gli Stati Uniti. In che modo avrebbe risposto Reagan? L’amministrazione sandinista si limitò a denunciare gli Usa alla Corte dell’Aia e il tribunale mondiale riconobbe le colpe americane.
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Bradanini: gli Usa Stato-canaglia, ritiriamo le truppe italiane
La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.Però c’è un’altra cosa che mi preme dire: e cioè che, forse, gli eventi politici nella storia si giustificano anche quando una certa massa critica, in una determinata direzione, prende forma. Ora, l’America ha dimostrato negli ultimi anni di essere in declino, e di temere questo declino, sia pure relativo – rimane sempre una talassocrazia pericolosissima: ormai è uno Stato-canaglia, è il pericolo numero uno per la pace nel mondo. Tuttavia è un paese che si difende, e lo fa in maniera brutale: ad esempio stracciando quel poco di diritto internazionale di organizzazioni internazionali che eravamo riusciti a costruire. Ha messo in ginocchio il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Le Nazioni Unite ormai non contano più: l’America ha deciso di non pagare più il suo contribuito annuale, mettendo in ginocchio anche questa organizzazione. Poi ha strappato l’accordo nucleare con l’Iran, che era stato negoziato dalle grandi potenze che fanno parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania, grande potenza aspirante). Per quanto riguarda Israele, l’America ha già dimostrato la sua affezione nei confronti delle politiche irrazionali israeliane, riconoscendo Gerusalemme come capitale dello Stato e riconoscendo le alture del Golan (che appartengono alla Siria).Tutta la comunità internazionale è insorta molto poco, davanti a queste due aberrazioni, dal punto di vista del diritto internazionale, e non fa che sostenere Israele nella sua politica degli insediamenti, che ormai impediscono in via definitiva la soluzione dei due Stati. In Medio Oriente tutto è cominciato lì, con la Palestina, che ancora non trova pace: anche i palestinesi hanno diritto a una patria. Il punto è che gli Stati Uniti vogliono agire come battitori liberi: non riconoscono più nessuna autorità morale, politica e giuridica alla comunità internazionale. Da parte dell’Europa ci vorrebbe un sussulto di tutela dell’etica politica, nella politica internazionale. E questo è un momento storico straordinario, per questo sussulto. L’Italia dovrebbe intanto ritirare tutti i suoi soldati presenti nell’area. Cosa ci stanno a fare, lì? Stanno facendo o il lavoro sporco al servizio degli interessi americani e israeliani, come nel Sud del Libano, oppure cose misteriose, in Iraq e in altre aree del Medio Oriente. Non sappiamo bene cosa stiano facendo; ma, se ci sono, è perché ce lo hanno imposto gli americani. Questo è il primo passo che un governo serio dovrebbe compiere.E’ un governo di due partiti che, sulla carta, si dicono contrari alla guerra, favorevoli alla pace, alla solidarietà e all’amicizia tra i popoli. Questo lo dovrebbero fare anche le altre nazioni europee. Quantop all’Ue, Josep Borrell non è il “ministro degli esteri dell’Europa”: è semplicemente un portavoce. La politica estera, in Europa, è appannaggio dei singoli Stati. L’Europa agisce e si fa sentire “ad una voce” quando lo vogliono le ex grandi potenze europee, cioè Francia e Germania, e fino a ieri anche la Gran Bretagna. Gli altri paesi, semplicemente, obbediscono. L’Italia non conta nulla. Questo è quello che, a mio avviso, si dovrebbe fare. Quello che l’Italia farà, molto probabilmente, è invece una sceneggiata: una presa di distanze soltanto formale, per poi allinearsi ai dettami americani. Questo è inevitabile, da parte di un paese colonizzato: non dimentichiamo che gli americani in Italia hanno 90 bombe atomiche, a prescindere da quelle che potrebbero arrivare dalla Turchia nei prossimi mesi, dislocate nei siti di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone). Inoltre gli Usa hanno oltre 100 siti militari, alcuni misteriosi, sparsi per tutto il paese. E la Germania è in una situazione analoga, insieme a piccoli paesi come l’Olanda e il Belgio. Poi ci sono le bombe atomiche inglesi, sempre al servizio dello Zio Sam, e quelle francesi, in apparenza più nazionali.In sostanza, la Nato (che al 90% significa “esercito americano”) e gli americani direttamente occupano l’Europa, che quindi è un territorio colonizzato. Quanto a noi, nessun governo italiano sarebbe in grado di fare quello che auspichiamo, in una situazione del genere: questo sarebbe il momento di cominciare a sbrogliare la matassa, per riconquistare la nostra indipendenza nazionale. E quindi: prendere le distanze da questo groviglio inestricabile, e da questo rischio gravissimo di un conflitto regionale e anche mondiale, che Trump ha messo in moto. Occorrerebbe rititare le nostre truppe e cominciare a ridiscutere una politica di indipendenza nei confronti della Nato e degli americani. Non c’è più nessun Patto di Varsavia che minaccia i paesi dell’Europa occidentale: semplicemente, la Nato non ha più senso.(Alberto Bradanini, dichiarazioni rilasciate l’8 gennaio 2020 alla trasmissione web-streaming su YouTube “Speciale #TgTalk”, condotta su “ByoBlu” da Claudio Messora e Francesco Maria Toscano. Bradanini, esponente di primissimo piano della diplomazia italiana, è stato a lungo ambasciatore a Teheran e poi a Pechino).La forza militare dell’Iran non è neanche lontanamente paragonabile a quella americana, però l’Iran è in grado di fare danni, politici e militari, sia ai soldati americani nelle basi attorno all’Iran, sia agli amici degli americani. Quindi l’America deve valutare qual è il “trade off” tra vantaggi e inconvenienti, in una escalation. Soleimani era un personaggio importante, ma – come si dice a Roma – morto un Papa, se ne fa un altro. In realtà l’Iran perde una persona, ma non perde la sua capacità di colpire in tanti modi, e non perde gli amici che si è fatto nella regione negli ultimi anni. Perché l’America ha colpito Soleimani in questo momento e in questo modo? E’ una domanda a cui si può solo cercare di rispondere. A mio avviso ci sono diverse ipotesi. Per esempio la solita teoria del caos, che finalmente è prevalsa: e cioè creare confusione, vendere armi, far salire il corso del dollaro e il prezzo del petrolio, così i petrolieri guadagnano e sostengono Trump. Il quale ha bisogno di distrarre le masse americane che lo hanno eletto, sempre più intontite, anche perché ha davanti a sé due appuntamenti importanti: l’impeachment e la rielezione. Tra l’altro è già riuscito, in questo intento, perché la stampa americana non parla più di impeachment e parla invece di Iran.
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Casca il mondo, l’Italia sparisce. E nessuno dice la verità
“La guerra infinita”, “Il più grande crimine”, “Massoni”. Tre libri – italiani – senza precedenti nel mondo, quando uscirono. Nel primo, edito da Feltrinelli nel 2003, Giulietto Chiesa svelava la drammatica inconsistenza della versione ufficiale sull’11 Settembre, oggi conclamata: i tremila architetti e ingegneri dell’associazione 9/11 Thruth (e i pompieri di New York) dimostrano la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle, certo non abbattute da aerei dirottati. Otto anni dopo, archiviato l’inferno dell’Iraq e neutralizzato il supertestimone Julian Assange, di fronte alla crisi finanziaria globale e alla micidiale austerity europea è stato Paolo Barnard ad afferrare il torno per le corna, con un instant-book diffuso sul web e ora pubblicato da Andromeda: il golpe tecnocratico dell’Eurozona riletto in chiave criminologica, dalle sue premesse (la svendita dell’Italia affidata a Prodi e Draghi) fino all’estrema conseguenza del devastante “economicidio” eseguito da Monti. Infine, nel 2014, è stato il massone progressista Gioele Magaldi ad aggiungere una spiegazione decisiva, facendo luce sul missing link che separa la cronaca dalla verità del potere: il ruolo delle superlogge sovranazionali, presentate per la prima volta con nomi e cognomi.Che fine hanno fatto, questi tre autori che il mainstream continua a ignorare? Due di loro – Chiesa e Magaldi – presidiano canali di informazione critica, mentre il terzo (Barnard) ha abbandonato anche il web, deluso dall’immobilismo italiano: cittadini ipnotizzati da un’offerta politica demenziale o cialtrona, come quella dei 5 Stelle, e “leoni da tastiera” incapaci di strutturarsi in opinione pubblica militante, in grado di impegnarsi politicamente per cambiare qualcosa. Giulietto Chiesa è passato per l’esperimento deludente della “Lista del Popolo” con Antonio Ingroia e ora segue da vicino Vox Italia, la formazione di Diego Fusaro. Soprattutto, anima le trasmissioni web di “Pandora Tv” e quelle nuovissime di “Contro Tv”, emittente fondata con Massimo Mazzucco, il cui esplosivo documentario “11 Settembre, inganno globale” fu trasmesso in prima serata nel 2006 su Canale 5 da “Matrix”, talkshow allora condotto da Mentana. Magaldi, dal canto suo, ha fondato il Movimento Roosevelt, entità trasversale meta-partitica: missione, inoculare il virus del risveglio democratico nei partiti italiani. E’ anche tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, piattaforma politica keynesiana, e partecipa a trasmissioni web-tv sui canali YouTube di “Border Nights” che ospitano lo stesso Mazzucco.A che punto è la notte? Difficile dirlo, data la nebbia che avvolge l’Italia: buio pesto, là fuori. A Palazzo Chigi siede il prestanome Giuseppe Conte, ottimamente relazionato con il Vaticano (nel frattempo divenuto socio di Lapo Elkann tramite il fondo Centurion basato a Malta), mentre le cosiddette Sardine fanno la guerra all’opposizione ignorando le eroiche imprese del governo più imbarazzante di sempre, attorno a cui ronzano statisti del calibro di Renzi, Di Maio e Zingaretti. L’Italia nel frattempo cade a pezzi: il crollo del viadotto Morandi e l’oscena vicenda del Tav Torino-Lione ne emblematizzano il declino, causa morte civile della politica, insieme all’agonia dell’Ilva, all’ignobile silenzio ufficiale sulla rete 5G, alla scandalosa gestione dell’obbligo vaccinale che nel 2019, per la prima volta, ha escluso 130.000 bambini da nidi e asili. Nel frattempo, la Exor di John Elkann si compra “Repubblica” e “L’Espresso”, cede ai francesi il timone dell’ex Fiat e non concede alcuna garanzia sul futuro degli stabilimenti italiani. In compenso ne aprirà uno in Marocco e si prepara a intascare altri 136 milioni di euro, stavolta dal governo Conte (che dichiara guerra al contante e ai micro-evasori, mentre la Fca continua a pagare le tasse in Olanda anziché in Italia).Argomenti caldi, sui media: gli sbarchi dei migranti e il malvagio Salvini. In compenso si lascia credere che il mondo verrà salvato da Greta Thunberg, cioè dai mega-investitori planetari alle spalle della ragazzina, Goldman Sachs e BlackRock in testa, che si apprestano a riverniciare di “green” i fondi-pensione da vendere a centinaia di milioni di persone, una torta da oltre 100 trilioni di dollari. Riassunto delle puntate precedenti? Non disponibile: i media non se ne occupano. Magari pontificano sulle altrui “fake news” sorvolando sulle proprie, ma si sono ben guardati dal recensire “La guerra infinita”, “Il più grande crimine” e “Massoni”, tre volumi risultati preziosissimi per gli italiani desiderosi di capire almeno qualcosa dello smisurato caos nel quale sembra finito il mondo, senza più distinzione tra destra e sinistra, buoni e cattivi, progressisti e conservatori. Si è appena celebrato l’anniversario della caduta del Muro di Berlino: poteva essere l’anno zero, l’avvento dell’epoca di pace sognata da Gorbaciov? Errore: Wall Street si gettò subito sulla Russia per spolparla, mentre alla Cina fu permesso di entrare nel grande giro mondiale del Wto ma in modo selvaggio, senza tutele per gli operai e per l’ambiente. Risultato: globalizzazione feroce e lavoratori occidentali nei guai, alle prese con la sciagura delle delocalizzazioni e la competizione impossibile con prodotti a bassissimo costo.Riassume Barnard: fu l’avvocato Lewis Powell, nel lontano 1971, a dettare il vademecum con cui l’élite “feudale” si sarebbe ripresa il pianeta, privatizzandolo. Con il libraccio “La crisi della democrazia” (di Gianni Agnelli la prefazione all’edizione italiana), la Trilaterale di Kissinger e soci spiegò che “l’eccesso di democrazia” si cura solo tagliando la democrazia. In Europa, gli oligarchi crearono un’Unione Europea concepita come il Sacro Romano Impero, fatta di sudditi da ridurre all’obbedienza. Bersaglio numero uno: gli Stati, pericolosi “competitor” del grande capitale. Vittima illustre: la ricchissima Italia dell’economia mista, supportata dall’Iri. Utili leggende fabbricate dal neoliberismo: il debito pubblico come malattia, come colpa (come se il governo avesse dovuto prima “risparmiare”, per poter poi finanziare le infrastrutture strategiche che permisero all’Italia del boom economico di uscire dall’età della pietra in cui l’aveva sprofondata la guerra fascista). Ora siamo agli sgoccioli: dopo la cura Monti il paese è a pezzi, ma i partiti pensano alle poltrone (e le Sardine a Salvini). Nel frattempo, la guerra – quella che Gorbaciov avrebbe voluto cancellare dalla faccia della Terra – è ridiventata una prassi ordinaria, fisiologica, a cui non si fa più neppure caso. Afghanistan e Iraq, Yemen, Somalia, Libia e Siria. Normalissimo, spararsi addosso per conto terzi: gli americani con le portaerei, i russi con i missili.Spiega Chiesa: l’11 Settembre fu creato a tavolino come casus belli per attuare il Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano redatto dai neocon, i signori del Deep State. Guerra planetaria, per terremotare l’economia e ridare fiato agli Stati Uniti, la superpotenza con il maggior debito estero del globo. A peggiorare ulteriormente il quadro provvede Magaldi: quei signori erano e sono massoni, che militano nelle superlogge reazionarie (che, attenzione: sono diffuse in tutto il pianeta, reclutando politici di ogni grande paese). Riletta così, la geopolitica si riduce a una serie di spaventosi regolamenti di conti, a guerre per bande. L’11 Settembre? E’ stata l’abominevole trovata di una Ur-Lodge terroristica, la Hathor Pentalpha dei Bush, per accelerare – manu militari, con la guerra innescata dal terrorismo “false flag” – questa folle globalizzazione neoliberista e mercantile, questa guerra mondiale dei super-ricchi contro il resto del mondo. I cocci, ovviamente, ci stanno cadendo addosso. C’è il sangue del terrorismo “domestico”, targato Al-Qaeda e poi Isis, e c’è lo sfacelo delle economie nazionali, dove neppure il Pil corrisponde più al benessere medio: più cresce, e più la maggioranza soffre, data la forbice ormai mostruosa tra produttori e rendita finanziaria.Era il 2010 quando Barnard cominciò a diffondere il suo contro-Vangelo sulla dominazione dell’euro, la moneta “privatizzata” per schiavizzare il 99% degli europei. Rimase lettera morta il clamoroso meeeting di economia promosso nel 2012 a Rimini con le migliori menti finaziarie dell’economia keynesiana. Inutile anche il viaggio di Warren Mosler in Italia, i consigli dispensati al governo romano. Tesi elementare: se si recupera sovranità monetaria si può tornare a investire nel mercato interno, battendo la crisi creata dalla globalizzazione. E i media nazionali? Silenzio, su tutta la linea. Non c’è pericolo che ai vari Floris, Formigli e Gruber venga in mente di sfiorare l’argomento: mutismo assoluto, anche ora che persino sua maestà Mario Draghi ha osato evocare la Modern Money Theory di Mosler. Da “La guerra infinita” sono passati 16 anni. Chi ha letto anche “Il più grande crimine”, e poi “Massoni”, si domanderà cosa mai potrà scuotere i dormienti, oggi lobotomizzati da Facebook, Twitter e WhatsApp. Si apre il 2020, e l’oscurità è fittissima. Julian Assange resta in prigione, anche se 80 medici raccomandano che sia ricoverato, essendo in pericolo di vita. L’Italia è in via di estinzione anche in Libia, ma quel che importa sono le regionali in Emilia. Qualcuno spieghi alle Sardine che l’Italia era un grande paese: c’èra giusto bisogno di innocue e appetitose Sardine per finire di divorarlo in santa pace.“La guerra infinita”, “Il più grande crimine”, “Massoni”. Tre libri – italiani – senza precedenti nel mondo, quando uscirono. Nel primo, edito da Feltrinelli nel 2003, Giulietto Chiesa svelava la drammatica inconsistenza della versione ufficiale sull’11 Settembre, oggi conclamata: i tremila architetti e ingegneri dell’associazione 9/11 Thruth (e i pompieri di New York) dimostrano la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle, certo non abbattute da aerei dirottati. Otto anni dopo, archiviato l’inferno dell’Iraq e neutralizzato il supertestimone Julian Assange, di fronte alla crisi finanziaria globale e alla micidiale austerity europea è stato Paolo Barnard ad afferrare il torno per le corna, con un instant-book diffuso sul web e ora pubblicato da Andromeda: il golpe tecnocratico dell’Eurozona riletto in chiave criminologica, dalle sue premesse (la svendita dell’Italia affidata a Prodi e Draghi) fino all’estrema conseguenza del devastante “economicidio” eseguito da Monti. Infine, nel 2014, è stato il massone progressista Gioele Magaldi ad aggiungere una spiegazione decisiva, facendo luce sul missing link che separa la cronaca dalla verità del potere: il ruolo delle superlogge sovranazionali, presentate per la prima volta con nomi e cognomi.
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Perché l’Occidente terrorista non sa tollerare l’Iran sovrano
Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.Arriva l’estate ed iniziano le operazioni chirurgiche in Iraq da parte dell’aviazione israeliana: è la prima volta che Tel Aviv estende il raggio d’azione al di fuori di Libano e Siria, una mossa altamente rischiosa. Gli aerei e i droni colpiscono basi militari, depositi di armi, neutralizzano figure chiave della resistenza irachena o del ramo locale di Hezbollah. L’intervento israeliano agisce in senso contrario a quello statunitense: la divisione interconfessionale cala di intensità, si compatta il fronte antiamericano, aumentano gli attacchi contro obiettivi statunitensi. Poi, il 31 dicembre, la svolta: un gruppo agguerrito di manifestanti circonda l’ambasciata statunitense di Baghdad, viene appiccato il fuoco. È una ritorsione per i raid statunitensi ed israeliani, sempre più frequenti e violenti, che nel periodo natalizio hanno lasciato a terra più di 30 uomini, per la maggior parte appartenenti all’Hezbollah locale e ai comitati di resistenza popolare. Il presidente Donald Trump accusa l’Iran di essere dietro l’assalto all’ambasciata e promette vendetta: il 2 gennaio firma il mandato d’uccisione di Qasem Soleimani, il più capace ed influente stratega militare al servizio di Teheran.La notte del 3 gennaio, in quel convoglio, si trova proprio Soleimani. Vengono lanciati dei missili, esplodono i veicoli, muoiono sette persone: il generale, il leader del comitato di mobilitazione popolare ed altri militari iraniani ed iracheni. Per anni si è vociferato che Soleimani fosse un “intoccabile”, protetto da un patto sottobanco siglato fra Russia e Iran. Indiscrezioni che sembrano trovare conferma in un fatto: le frequenti visite di Netanyahu e di esponenti della difesa israeliana a Mosca durante l’anno scorso. Sembra che il primo ministro israeliano volesse semaforo verde, perché ha fatto della guerra all’Iran il punto focale della sua intera agenda estera, ma che gli fosse stato negato. In questo contesto si inquadrebbero anche le schermaglie che da mesi dividono Israele e Russia: l’arresto di cittadini israeliani in Russia, condannati a pene detentive pesantissime rispetto ai reati commessi, i raid israeliani in Siria nonostante i moniti del Cremlino, la decisione russa di supportare l’economia iraniana attraverso l’Unione Economica Eurasiatica, la collaborazione nel nucleare civile e la recentissima esercitazione navale con la Cina.La linea rossa, però, alla fine è stata oltrepassata: protetto o meno da un “lodo Moro” in salsa asiatica, Soleimani è stato ucciso. La campagna di propaganda da parte della rete sovranista, a cui si è unito anche Matteo Salvini, è già iniziata: era un terrorista, una minaccia per la pace mondiale, un pericolo comparabile a Osama bin Laden e Al-Baghdadi, una ritorsione dovuta. Ciò che sfugge a giornalisti, politici ed analisti, veri o presunti tali, è che la neutralizzazione di Soleimani potrebbe essere benissimo, e giustamente, considerata come una dichiarazione di guerra. Non è stato ucciso un terrorista od un paramilitare, ma un soldato, un esponente di primo piano di forze armate regolari. È il diritto internazionale a parlare: se l’Iran volesse, potrebbe dichiarare guerra agli Stati Uniti perché vittima di un’aggressione ed esposto continuamente ad ingerenze nei propri affari interni. Ma il mondo è dominato dalla realpolitik: l’Iran non ha i mezzi per sostenere una guerra contro gli Stati Uniti, e neanche ha un’alleanza o dei partner su cui fare affidamento. Il casus belli c’è, ma l’Iran è consapevole che, alla luce della situazione economica interna e della presenza capillare di quinte colonne entro i propri confini, andrebbe incontro alla capitolazione o, comunque, ad uno scenario Afghanistan: guerra permanente, paese distrutto.Ciò che accadrà, con molta probabilità, è che la guerra a distanza fra l’asse Washington-Tel Aviv-Riyad e Teheran salga di livello: maggiore insurgenza a Gaza, maggiore ricorso ad Hezbollah in Libano, attentati contro obiettivi americani o israeliani all’estero – riportando lo scontro ai livelli degli anni ’90, quando Buenos Aires fu insanguinata da due attentati contro la comunità ebraica – maggiori pressioni su casa Sa’ud dallo Yemen e schermaglie nel Golfo Persico. Ciascuna di queste mosse, però, sarà al tempo stesso controbilanciata da reazioni sempre più sproporzionate, perché l’obiettivo degli Stati Uniti – non di Trump – è di spingere l’Iran al passo falso che potrebbe legittimare un intervento stile Iraq. Non ci sarà tregua finché il regime rivoluzionario khomeinista continuerà a guidare il paese, perché l’Iran è una di quelle nazioni che sono vittime della cosiddetta “maledizione della geografia” e perciò destinate ad un “contenimento infinito”.È strategicamente incardinato fra Medio Oriente, Asia centrale e meridionale, un punto di connessione fra le civiltà turcica, indiana, cinese ed islamica, è ricco di risorse naturali strategiche, come gas e petrolio, perciò non può essere consentito ad alcuna forza politica ideologicamente anti-imperialista ed anti-occidentale di monopolizzare il potere. Non è un caso che la storia contemporanea iraniana, dall’arrivo dei britannici ad oggi, sia intrisa di ingerenze straniere, rivoluzioni false e colpi di Stato. Ma l’approfondimento sarebbe incompleto senza una descrizione di Soleimani, che da ieri è dipinto come un terrorista e che perciò merita di essere difeso dalla campagna propagandistica in corso. Proveniente da una famiglia di umili origini, aveva scalato i gradi dell’esercito mostrando le proprie abilità sul campo, durante la guerra con l’Iraq, giungendo a ricoprire la prestigiosa carica di comandante della brigata Gerusalemme delle guardie della rivoluzione.Gli fu data l’importante responsabilità di guidare l’offensiva dell’Iran contro lo Stato Islamico in Iraq, all’apice della sua espansione, una missione che portò con successo a compimento, diventando un’icona popolare non solo in Iran, ma in tutto il mondo islamico. Soleimani, infatti, era apprezzatissimo anche fra gli oppositori anti-khomeinisti. Con la sua morte, l’Iran perde il suo stratega più abile e carismatico e l’asse della resistenza, con annesso il sogno di un corridoio sciita da Teheran a Beirut, si ritira bruscamente. La sua morte servirà a due scopi: spingere l’Iran a commettere un gesto eclatante, che possa giustificare un intervento militare, o a portarlo sul tavolo delle trattative per riscrivere l’accordo sul nucleare. Una cosa è certa: il Nuovo grande gioco per l’egemonia sull’Eurasia è entrato in una nuova fase e questa morte spettacolare, emblematicamente avvenuta ad inizio anno, simboleggia la direzione che prenderanno le relazioni internazionali nella nuova decade in cui siamo appena entrati.(Emanuel Pierobon, “Soleimani è morto, viva Soleimani”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 4 gennaio 2020).Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.
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Magaldi: la cinica verità del potere dietro alla crisi Usa-Iran
Non possono certo passare per i Guardiani della Rivoluzione Islamica le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, tantomeno all’alba del terzo millennio inaugurato dal mostruoso terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, Gioele Magaldi non esita a denunciare una superloggia massonica – la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush – come incubatrice del neoterrorismo stragista concepito proprio negli Stati Uniti. Ma oggi avverte: non facciamo l’errore di trasformare in un martire innocente il generale di ferro Qasem Soleimani, grande nemico di quell’Isis che è stato partorito dalle stesse menti, non islamiche, che progettarono le imprese di Al-Qaeda. Assassinato dagli Usa a Baghdad in circostanze che Magaldi definisce «verminose», Soleimani – sostiene – non era esattamente una mammoletta: era stato infatti la mente della spietata operazione geopolitica, militare e d’intelligence, sviluppata per instaturare l’egemonia di Teheran sulla Mezzaluna Sciita, anche al prezzo di attentati, intimidazioni e uccisioni, destabilizzando una regione peraltro già ampiamente devastata, in partenza, dall’imperialismo americano nell’era Bush.Soleimani è stato determinante nel fermare l’Isis, cioè il terrorismo protetto dall’Occidente? Vero, ammette Magaldi: Obama avrebbe potuto stroncare sul nascere le orde di tagliagole che hanno seminato il terrore in Iraq e in Siria. Peggio: quelle bande erano state formate, armate, addestrate e protette da ambienti atlantici, attraverso servizi segreti infiltrati da elementi facenti capo, ancora e sempre, alla “Hathor Pentalpha”, cioè le menti occulte dell’11 Settembre. Ma attenzione, avverte Magaldi: il generale Soleimani agiva comunque per conto del concorrenziale oscurantismo autoritario di Teheran, un regime islamista che pratica ha Sharia e non rispetta i diritti umani. Non solo: lo stesso Soleimani era vicinissimo all’ala più tradizionalista e reazionaria del potere di Teheran, e con i suoi Pasdaran (che controllano direttamente una fetta dell’economia iraniana) aveva proposto di stroncare nel sangue le proteste degli studenti iraniani, scesi in piazza per rivendicare libertà di espressione. Secondo Magaldi, l’efferato omicidio del generale – effettuato in modo inaudito, in un paese tecnicamente neutrale come l’Iraq – rischia di far passare per vittima un regime teocratico che esercita in modo feroce il potere sui suoi “sudditi”.Quanto a ipocrisia, peraltro, gli Stati Uniti non si fanno mancare nulla: la monarchia saudita, grande alleata di Washington, rivaleggia con Teheran e forse – dice Magaldi – addirittura supera, in ferocia, il regime degli ayatollah. Ma Magaldi, massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt, si sforza di esercitarsi in un’analisi lucidamente geopolitica: a che cosa servirebbe sgominare l’Isis, se poi l’intera regione cadesse sotto l’egemonia dei mullah? Magaldi, peraltro, non crede che l’assassinio di Soleimani possa spalancare le porte dell’inferno: la Terza Guerra Mondiale, assicura, non la vuole nessuno. Un invito? Leggere oltre le etichette e le bandiere: dare un nome preciso all’élite eversiva che ha manipolato gli Usa, riconoscere il carattere ambiguo della “democratura” di Putin e il segno autoritario della potente oligarchia cinese. Problema: veri e propri potentati politico-economici, assolutamente trasversali, si disputano cinicamente il pianeta in una sorta di Risiko, in cui nessuno dice la verità e nel quale ogni tanto muore qualche pezzo da novanta, come Qasem Soleimani. E il peggio è – chiosa Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – che a volte i nemici-carnefici sono soci occulti: in passato, i falchi di Tel Aviv e quelli di Teheran hanno concordato segretamente le rispettive mosse, sapendo che l’odio estremista agitato dalle opposte tifoserie avrebbe rafforzato il reciproco potere.Non possono certo passare per i Guardiani della Rivoluzione Islamica le magnifiche sorti e progressive dell’umanità, tantomeno all’alba del terzo millennio inaugurato dal mostruoso terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, che l’11 settembre 2001 ha raso al suolo le Torri Gemelle. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, Gioele Magaldi non esita a denunciare una superloggia massonica – la “Hathor Pentalpha”, fondata dai Bush – come incubatrice del neoterrorismo stragista concepito proprio negli Stati Uniti. Ma oggi avverte: non facciamo l’errore di trasformare in un martire innocente il generale di ferro Qasem Soleimani, grande nemico di quell’Isis che è stato partorito dalle stesse menti, non islamiche, che progettarono le imprese di Al-Qaeda. Assassinato dagli Usa a Baghdad in circostanze che Magaldi definisce «verminose», Soleimani – sostiene – non era esattamente una mammoletta: era stato infatti la mente della spietata operazione geopolitica, militare e d’intelligence, sviluppata per instaurare l’egemonia di Teheran sulla Mezzaluna Sciita, anche al prezzo di attentati, intimidazioni e uccisioni, destabilizzando una regione peraltro già ampiamente devastata, in partenza, dall’imperialismo americano nell’era Bush.
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Cacciari, il sangue di Soleimani e l’osceno silenzio europeo
Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precdeenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.Fa impressione sentirlo dire in televisione dal filosofo Massimo Cacciari, solitamente prudente, ospite di Bianca Berlinguer il 7 gennaio 2020 insieme all’altrettanto compassato Paolo Mieli, parimenti preoccupato dall’inaudito omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato senza preavviso in un paese neutrale e teoricamente sovrano, l’Iraq devastato dalle guerre americane. A spaventare Cacciari è innanzitutto la morte clinica della politica: senza nemmeno citare l’increscioso Salvini che tifa per i missili omicidi, auto-espellendosi dal club delle personalità pubbliche abilitate a occuparsi di noi, ciò che sconcerta è il vuoto pneumatico, culturale prima ancora che politico, che contraddistingue le cancellerie europee di fronte al pericolosissimo valzer di sangue innescato dal proditorio assassinio di Soleimani, eroe nazionale dell’Iran, le cui esequie in mondovisione hanno esibito nelle piazze il dolore di milioni di persone. Si ha un bel dire che il regime di Teheran non è certo un esempio di libertà e democrazia: la discussione si potrebbe svolgere alla pari quando l’Iran bombardasse l’Europa o l’America, ammazzando leader occidentali.Certo, se il mondo sembra sull’orlo dell’abisso, non bisogna dimenticare che – dietro le quinte – agiscono potentissime consorterie riservate, spesso tacitamente in accordo tra loro, pronte anche a sacrificare innocenti pur di incolparsi a vicenda e rafforzare nel modo più sleale il ferreo dominio sui rispettivi popoli, drogati di propaganda. Di fronte al suo omicidio così infame, imposto al mondo in modo pericoloso e oscenamente sfrontato, i media occidentali ripetono che Soleimani era una specie di terrorista, evitando di ricordare che proprio il comandante dei Pasdaran era il nemico numero unico del terrorismo targato Isis, da lui personalmente sgominato prima in Iraq e poi in Siria. Dove pensa di andare, un Occidente che si priva della minima dose vitale di verità? In nome di quale presunta superiorità democratica ritiene di prevalere sulla brutale teocrazia degli ayatollah, sulla “democratura” russa e sull’oligarchia cinese?Si abbia almeno la decenza di riconoscere che il generale Soleimani era innanzitutto un uomo del suo popolo, protesta – sempre alla televisione italiana, ospite di Barbara Palombelli – un intellettuale come Pietrangelo Buttafuoco, il solo a rammentare al gentile pubblico che l’Isis, il mostro che Soleimani ha sconfitto in Iraq e in Siria, era armato e protetto proprio da noi, Occidente democratico. Per la precisione, ha ricordato il saggista Gianfranco Carpeoro, a mettere in piedi l’inferno chiamato Isis è stata una Ur-Lodge supermassonica, la “Hathor Pentalpha”, creata nel 1980 dal clan Bush, reclutando prima Osama Bin Laden e poi il “califfo” Abu Bakr Al-Baghadi. Proprio la recente uccisione del macellaio Al-Baghdadi, uomo-chiave del Deep State statunitense, secondo Carpeoro avrebbe indotto la “Hathor” a premere su Trump, ricattandolo: se uccidi Soleimani, la passerai liscia al Senato per l’impeachment e avrai dalla tua parte, nella corsa per le presidenziali di novembre, anche l’ala repubblicana più reazionaria e naturalmente il potentissimo network sionista che i complottisti chiamano impropriamente “lobby ebraica”.Analisi, suggestioni e indizi che non raggiungono neppure lo 0,1% del pubblico, a cui viene raccontato che il generale Soleimani era “un feroce assassino”, senza mai specificare come, quando e dove si sarebbe esercitato nella sua diabolica specialità, così riprovevole e lontana mille miglia dalla soave, squisita e leggendaria gentilezza dei democraticissimi generali statunitensi e israeliani. Era attivo in Libano, Soleimani? Certo, ma lo erano anche i colleghi israelo-occidentali, che notoriamente in Libano ci vanno abitualmente come turisti. Era stato impegnato in Iraq, il generale iraniano, ed è noto a tutti che l’Iraq è da sempre nei cuori delle umanitarie democrazie occidentali, madrine dei diritti umani. Il bieco Soleimani era di casa pure in Siria, altro paese amatissimo dai democratici di Washington, Ankara, Riad e Tel Aviv. Per inciso: Siria, Libano e Iraq erano i paesi da cui gli impresari occidentali dell’Isis contavano di esportare i tagliagole in Iran, per abbattere finalmente l’odiato regime (sovrano) degli ayatollah. Paolo Barnard ha titolato un suo bestseller con la più scomoda delle domande: perché ci odiano? Tra le sue fonti: il numero due di Al-Qaeda in Egitto.E’ decisivo scoprire che il cuore nero e inconfessabile del jihadismo è l’invenzione perversa di un’élite occidentale criminale. Ma restando sulla superficie, questo non cambia il quadro, il bilancio finale: le nostre forze armate, impegnate in paesi islamici, hanno provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Perché ci odiano, dunque? Supporre che al nostro posto chiunque altro – Russia, Cina – si sarebbe comportato nello stesso modo, non è di grande consolazione. Alcuni incrollabili atlantisti, che vedono comunque negli Stati Uniti l’unica possibile fonte di riscatto democratico per il pianeta, sperano che il lume della ragione prenda possesso del governo imperiale della superpotenza prima che sia troppo tardi. Si illudono? Sono domande senza risposta, su cui pesa il vistoso smarrimento di Cacciari di fronte al vergognoso silenzio dell’Europa: com’è possibile, accusa, non prendere le distanze da un atto di terrorismo di Stato come quello compiuto dagli Usa ai danni dell’Iran?Lo stesso Cacciari, sempre in televisione, non si nasconde le possibili conseguenze: se gli Usa dovessero reagire alle ovvie rappresaglie iraniane bombardando Teheran, la potenza nucleare russa sarebbe costretta a intervenire. La chiamano: Terza Guerra Mondiale. Nessuno la vorrebbe, ma sembra avvicinarsi in modo terrificante, con sviluppi imprevedibili. Simone Santini, su “Megachip”, accosta la morte di Soleimani a quella dell’afghano Massud. Stessa dinamica e stessi mandanti, identico obiettivo: assassinare un leader autorevole, per far esplodere il caos e indebolire il paese finito nel mirino della potenza imperiale. La pakistana Benazir Bhutto accusò Bush e la Cia dell’omicidio Massud, candidandosi a ripulire il Pakistan, per poi rimarginare anche le ferite dell’Afghanistan: fu assassinata a sua volta, alla vigilia delle elezioni. Un conto però sono le autobombe, dice oggi Massimo Cacciari, e un altro è l’omicidio manu militari commesso impunemente, alla luce del sole. Non era mai accaduto prima, nella storia. E nessuno ha avuto il coraggio di protestare. Se stiamo zitti di fronte a questo, aggiunge Cacciari, cosa potrà accaderci, domani? Com’è possibile non capire che il sangue versato da Qasem Soleimani interroga personalmente ognuno di noi, prima ancora che i nostri impresentabili politici?(Giorgio Cattaneo, 8 gennaio 2020).Menzogne, sangue e colpevoli silenzi. E’ l’habitat nel quale prospera il verminaio terrorista alimentato sottobanco da un impero occidentale che non ha saputo svilupparsi, storicamente, se non a spese di paesi terzi. E’ la tesi di giornalisti eretici come Paolo Barnard, corroborata da illustri colleghi come Seymour Hersh, Premio Pulitzer statunitense, spietato con i nostri media: se la stampa non avesse smesso di fare il proprio mestiere, sostiene, qualche politico – non codardo – avrebbe avuto modo di denunciare i crimini del potere mercuriale, costringendo l’establishment del terzo millennio a fare meno guerre e provocare meno massacri di vittime innocenti. Che poi la verità si annacqui negli opposti estremismi opportunistici e nel sostegno al terrorismo, fatale conseguenza di abusi criminali, non è che un aspetto della mattanza in corso, a rate, inaugurata dall’opaco maxi-attentato dell’11 Settembre a New York, di cui tuttora si tace la vera paternità presunta. Ma se si varca il Rubicone e si compie una violazione che non ha precedenti nella storia, un attentato terroristico condotto con mezzi militari e apertamente rivendicato, allora si passa il segno.
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Salvini inguaia l’Italia: insulta l’Iran come l’ultimo dei servi
Il 3 gennaio 2020 è stato assassinato a Baghdad, da un missile lanciato da un drone statunitense, il generale maggiore iraniano Soleimani, considerato una delle massime autorità in Iran dopo la “guida suprema”. Un eroe di mille battaglie, per tutto il mondo sciita. Eroe di un paese, l’Iran, che – più o meno, unico al mondo – non ha mai attaccato militarmente altre nazioni. Basti pensare che Soleimani è stato uno degli artefici, insieme ai russi e all’esercito regolare siriano, della sconfitta dei tagliagole dell’Isis, in Siria. Vi ricordate quelle bestie che in Siria stupravano donne e tagliavano teste? Soleimani era uno degli eroi che contribuirno a sconfiggere quelle bestie, e adesso gli americani lo hanno ammazzato. E’ difficile immaginare una provocazione più grave di questa. Si tratta di una azione che rappresenta, a tutti gli effetti, un atto di guerra contro l’Iran. Immaginate ora i fatti a ruoli invertiti: provate a pensare cosa sarebbe successo se gli iraniani avessero assassinato il vicepresidente americano o il capo della Cia, in visita a un altro paese. Ma in realtà l’esempio non rende, perché Soleimani in Iran era molto più popolare di queste persone, negli Stati Uniti.La ritorsione iraniana è già stata annunciata, e sarà inevitabile. A quel punto, basterà un niente perché si scateni la Terza Guerra Mondiale. Anche perché l’assassinio di Soleimani è mirato esattamente a questo: a causare una reazione che produca un’escalation che conduca ad una grande guerra. L’Europa e l’Italia hanno reagito, e l’hanno fatto con la loro proverbiale codardia, tanto per cambiare. A questo ignobile atto di guerra statunitense hanno reagito guardandosi bene dal condannarlo esplicitamente. Tuttavia, al di là della codardia, per lo meno si scorge una certa insofferenza, racchiusa nell’espressione “grande preoccupazione” con cui quasi tutti i politicanti europei da quattro soldi si sono riempiti la bocca – bocche peraltro solo in grado di balbettare, in questa occasione. Andrebbe loro ricordato che non sono stati eletti per preoccuparsi quando, come dicono gli americani, “la merda colpisce il ventilatore”, bensì per agire nell’interesse dei paesi che rappresentano. E anziché balbettare, nei momenti di crisi dovrebbero invece condannare fermamente, e dissociarsi nel modo più netto dalle violazioni del diritto internazionale e dai crimini di guerra che vengono compiuti. Ma si tratta, appunto, di politicanti da quattro soldi. L’Europa non ha di meglio da offrire, e più della loro balbettante “grande preoccupazione” non c’è nulla da aspettarsi.Per la cronaca, Russia e Cina hanno giustamente condannato l’azione statunitense. L’Europa invece ha balbettato. Un balbettio che peraltro non è neppure andato bene, agli americani, che si aspettavano invece genuflessione totale. Il segretario di Stato americano Pompeo si è detto “deluso” dalla reazione europea, la quale – dice lui – non sarebbe stata di aiuto. Ovvero, si attendeva (e pretendeva) l’appoggio totale ed entusiastico, come d’altra parte si conviene a dei vassalli. Se almeno il politicume italiota avesse la decenza di confessare la verità innominabile, e cioè se dicesse chiaramente, una volta per tutte, “italiani, mettetevi l’anima in pace, noi qui al governo e in Parlamento siamo politici solo per finta, per esigenze di teatro; la realtà è che l’Italia è una colonia americana e noi prendiamo ordini, e obbediamo ciecamente, e i nostri lauti stipendi di politici sono dovuti solo al fatto che salviamo le apparenze, recitiamo il teatrino della democrazia”, be’, se lo confessassero ci farebbero una figura migliore, più dignitosa. Tuttavia, bisogna dire che si può fare di peggio. Si può fare di peggio, che balbettare di “grande preoccupazione”: si può fare come Matteo Salvini.Cioè, ci si può genuflettere totalmente al padrone, e abbaiare per lui (contro il nemico di turno del padrone), sperando di ricavarne alla fine un bell’osso succulento da sgranocchiare. E naturalmente, fare tutto ciò irriflessivamente, automaticamente, senza pensare, senza capire cosa stia succedendo e di cosa si stia parlando. E soprattutto: senza coscienza delle conseguenze inevitabili e irreversibili delle tue parole. Subito dopo l’assassinio del generale iraniano, Salvini twitta trionfante che bisogna ringraziare Trump e “la democrazia americana” per aver eliminato Soleimani, che Salvini definisce testualmente “uno degli uomini più pericolosi e spietati al mondo, un terrorista islamico”. Terrorista islamico? Come si può definire così il “numero due” del potere iraniano, una figura leggendaria che si era guadagnata l’incondizionato rispetto popolare di tutto il mondo sciita combattendo contro il terrorismo? In Occidente, pochi sanno quanti attentati l’Iran abbia dovuto subire, nei decenni. Soleimani si era guadagnato meriti fin da quando, negli anni ‘80, si faceva le ossa combattendo contro l’invasore, l’Iraq di Saddam Hussein armato e appoggiato dall’Occidente, che aggredì l’Iran in una guerra terribile, che durò anni e costò milioni di morti. E poi, in tempi recentissimi, insieme ai siriani e ai russi, Soleimani combatté contro i terroristi tagliagole dell’Isis in Siria.Ebbene, definire così un personaggio del genere va molto oltre l’insulto imperdonabile: qui siamo nientemeno che al puro delirio. Rendiamoci quindi conto che Salvini si schiera apertamente a favore di un’azione che, secondo il diritto internazionale, è criminale: è un crimine internazionale. Si esprime a favore dell’omicidio di un quasi-capo di Stato, a favore di un atto terroristico compiuto in un paese sovrano. Ma soprattutto: si rende conto, Salvini, di aver dichiarato guerra all’Iran? Io non credo che se ne sia accorto. Ma con quelle parole, in pratica, ha dichiarato guerra all’Iran. Mi chiedo: cosa sarebbe accaduto se Salvini avesse pronunciato quelle parole quand’era ministro, o ancora peggio – Dio ce ne scampi – se fosse presidente del Consiglio? Saremmo in prima linea in una prossima guerra contro l’Iran, con le miglia di soldati italiani schierati in Medio Oriente immediatamente trasformati in bersagli preferenziali, contro il nostro interesse nazionale. Forse Salvini è abituato al fatto che in Italia le parole volano, e poi si dimenticano subito: per chiunque apra bocca in pubblico, ormai vige la “presunzione di quaquaraquà”, tutto va in vacca e la gente ci sghignazza sopra, magari con l’aiuto di una parodia di Crozza. Ma gli iraniani non dimenticheranno le sue parole infamanti: non le dimenticheranno mai. E neppure i russi le dimenticheranno, e neppure i cinesi.In effetti, nessun soggetto intelligente e razionale può dimenticare dichiarazioni del genere: perché, tragicamente, queste dichiarazioni mettono a nudo il livello del soggetto che le ha pronunciate. E cioè uno che, essenzialmente, non sa cosa dice. Un leone da tastiera, come si suol dire – nel caso specifico, un sovranista da tastiera: cioè, sovranista solo a parole. Con il suo tweet, infatti, Salvini si dimostra il politico più antisovranista d’Italia. Ovvero: candidare l’Italia a diventare carne da cannone per le guerre d’aggressione americane non corrisponde esattamente all’interesse nazionale. Inoltre, l’Italia era il primo partner commerciale dell’Iran: il primo. Ebbene, Salvini ha appena mandato affanculo tutte le aziende italiane che hanno stabilito questo primato. Un gran bel sovranismo, direi. Wow! L’Italia è già lo zerbino degli Stati Uniti, facciamocene pure una ragione. Ma Salvini insiste per scrivere, su quello zerbino, “welcome, calpestateci, fate di noi tutto quello che volete, ma per favore lasciatemi giocare a fare il Capitano, e prometto che sarò la migliore delle scimmie ammaestrate”. Il tragico è che, mentre lo dice, non se ne rende neanche conto. Così come non si rende conto che qualsiasi nuova guerra in Medio Oriente, cui lui adesso plaude, ci riempirà di milioni di nuovi rifugiati, che a lui parole aborrisce.Milioni di altri rifugiati: è questo per cui ha lavorato, scrivendo questo tweet. Cioè: fai tifo per la guerra e poi, quando arrivano i rifugiati dalla tua bella guerra, che fai? Non ci aveva pensato: non si rende proprio conto. Tutti quelli che in Italia, da tempo, gridano all’allarme-Salvini – presunto grande stratega populista, presunta minaccia per la democrazia, presunto restauratore del fascismo, presunto filo-russo e pupazzo di Putin, presunto sovranista di ferro, presunto uomo forte che fermerà l’immigrazione – dovranno adesso prendere atto di avere sempre preso lucciole per lanterne. Salvini non è mai stato pericoloso, nel senso che essi temevano. Care Sardine, soffrite di allucinazioni. E’ invece pericoloso per il motivo opposto: per il non essere ciò che pretende di essere. Nei fatti, Salvini non è un sovranista. Salvini plaude a Draghi presidente della Repubblica. E il suo ideale, lo abbiamo appena visto, è un’Italia totalmente prona all’America – l’America che bombarda, non quella del sogno americano. Proprio, lui non capisce il mondo. Non è uno stratega; piuttosto è un abile tattico, che naviga a vista, ma destinato a naufragare al primo tatticismo andato storto (per esempio, al primo tweet).E infatti, su Twitter e sugli altri social, è già montato un cosiddetto “shit storm”, una “tempesta di merda”, nei suoi confronti, da parte di tutti quelli che, diversamente da lui, hanno capito il significato (e le implicazioni) delle sue incredibili parole sull’assassinio di Soleimani – anche da parte degli stessi leghisti, e di intellettuali che in passato lo avevano sostenuto. Facciamo un esempio: Diego Fusaro, che un tempo lo apprezzava, lo ha definito “un servo”. L’influente filosofo russo Dugin, che un tempo lo apprezzava, in un post su Facebook ha sentenziato (in italiano) che Salvini “ha tradito se stesso”. L’uccisione di Soleimani, poi, è un crimine ancora più grave di quanto era inizialmente sembrato. Il grande giornalista Pepe Escobar ha riportato una dichiarazione attribuita al primo ministro iracheno, il quale ha raccontato che gli Stati Uniti avevano a lui una mediazione con l’Iran. Quindi il primo ministro iracheno avrebbe invitato Soleimani come mediatore: e, appena arrivato a Baghdad, gli americani lo hanno ammazzato. Il generale iraniano sarebbe quindi stato assassinato dagli americani mentre era in una missione diplomatica, di negoziazione, sollecitata dagli stessi americani.Commenta, al riguardo, Pepe Escobar, che «nessuna persona sana di mente crederà mai più a questi barbari (con l’eccezione dei loro barboncini)». A Salvini, a questo punto, devono esser fischiate le orecchie. E oltre a Soleimani, i missili americani hanno ucciso anche un importante capo dell’esercito iracheno: un altro crimine internazionale, che ha giustamente fatto arrabbiare moltissimo, a loro volta, anche gli iracheni, che quindi hanno trovato nel loro Parlamento l’unità necessaria per la decisione di espellere l’esercito americano dal paese. Questa seconda uccisione non era stata pianificata dagli statunitensi: pare che quel comandante non avrebbe dovuto trovarsi là. Gli americani non l’avrebbero previsto né voluto, visto che questo avrebbe compromesso i loro rapporti con gli iracheni. Così infatti è stato: in pratica, con il loro gesto, gli americani hanno finito per auto-espellersi dall’Iraq. Poi è tutto da dimostrare che se ne vadano davvero. Ma a quel punto, se rimanessero, sarebbero di nuovo una forza di occupazione illegale: le apparenze se ne andrebbero a quel paese.(Roberto Quaglia, estratto dal video-intervento “Trump è in trappola”, trasmesso da “Pandora Tv” il 7 gennaio 2020).Il 3 gennaio 2020 è stato assassinato a Baghdad, da un missile lanciato da un drone statunitense, il generale maggiore iraniano Soleimani, considerato una delle massime autorità in Iran dopo la “guida suprema”. Un eroe di mille battaglie, per tutto il mondo sciita. Eroe di un paese, l’Iran, che – più o meno, unico al mondo – non ha mai attaccato militarmente altre nazioni. Basti pensare che Soleimani è stato uno degli artefici, insieme ai russi e all’esercito regolare siriano, della sconfitta dei tagliagole dell’Isis, in Siria. Vi ricordate quelle bestie che in Siria stupravano donne e tagliavano teste? Soleimani era uno degli eroi che contribuirno a sconfiggere quelle bestie, e adesso gli americani lo hanno ammazzato. E’ difficile immaginare una provocazione più grave di questa. Si tratta di una azione che rappresenta, a tutti gli effetti, un atto di guerra contro l’Iran. Immaginate ora i fatti a ruoli invertiti: provate a pensare cosa sarebbe successo se gli iraniani avessero assassinato il vicepresidente americano o il capo della Cia, in visita a un altro paese. Ma in realtà l’esempio non rende, perché Soleimani in Iran era molto più popolare di queste persone, negli Stati Uniti.
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Chi era Soleimani e perché l’Iran lo amava: ditelo, a Salvini
All’italica repubblica delle banane, popolata di politici ridicoli, ne mancava giusto uno – Matteo Salvini – che si mettesse a insultare un’intera nazione, festeggiando il vile assassinio del suo leader più amato, Qasem Soleimani. Parlano da sole le immagini delle esequie del carismatico comandante dei Pasdaran: «Il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di Stato durato quattro giorni, non uno, e in due paesi diversi», dice la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni. Secondo Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’università di Copenhagen, le «storiche» immagini trasmesse da Teheran mostrano una forte unità nazionale, più vasta del mero supporto ideologico alla teocrazia degli ayatollah. Per Engel Rasmussen del “Wall Street Journal”, una partecipazione così oceanica non può che essere spontanea: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo Stato possa “organizzare”». Come si spiega l’enorme partecipazione al funerale di Soleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rohani a scapito di quello più conservatore e aggressivo, al quale Soleimani era legatissimo?La risposta la trova “Il Post”, in una ricognizione sulla popolarità del generale Soleimani in Iran. Come ricorda sul “New Yorker” Dexter Filkins, il primo importante giornalista non iraniano a raccontare Soleimani (con un ritratto lungo e completo, nel 2013), l’importanza del generale in patria e in tutto il Medio Oriente era ormai nota da tempo. «La prima cosa da tenere a mente è che Soleimani era molto popolare in Iran», scrive il “Post”. «Aveva servito il paese fin dalla guerra tra Iran e Iraq durata dal 1980 al 1988, cioè il conflitto grazie al quale si era consolidata la rivoluzione khomeinista del 1979», evento che è ricordato ancora oggi come uno dei momenti più importanti della storia recente iraniana: «Basta andare nelle strade di Teheran per rendersene conto, con gli slogan e i murales che ricordano i soldati uccisi nel conflitto, i “martiri”». Negli ultimi anni, aggiunge il “Post”, il regime iraniano aveva reso Soleimani una sorta di figura “leggendaria”: era il comandante che era riuscito a mantenere al sicuro il paese, soprattutto dalla minaccia dell’Isis, che la brigata Al-Quds del generale aveva combattuto in Iraq insieme all’esercito iracheno, e poi in Siria accanto ai russi e ai miliziani libanesi di Hezbollah, in appoggio all’esercito regolare siriano.Da allora, la popolarità di Soleimani era cresciuta esponenzialmente. Nonostante fosse un ultra-conservatore, noto per la spietata durezza dei suoi metodi militari e per la sua vicinanza personale all’ayatollah Alì Khamenei, “guida suprema” dell’Iran dopo Khomeini, nel corso degli anni Soleimani non si era mai schierato apertamente da una parte o dall’altra della politica iraniana. Richiesto di mettersi in gioco, aveva risposto con una lettera a Khamenei: grazie, ma resto al mio posto tra i miei soldati. Ariane Tabatabai, esperta di Iran per la Rand Corporation, dichiara al “New York Times”: «Soleimani aveva una profonda e ampia rete di relazioni nel sistema iraniano, che gli permetteva di lavorare con tutti gli attori chiave». Aveva per esempio rapporti molto stretti con il ministro degli esteri Javad Zarif, considerato un moderato, e allo stesso tempo con Khamenei, a cui riferiva direttamente sul suo operato. La stessa Azadeh Moaveni, che oltre a essere scrittrice è anche analista per l’International Crisis Group, spiega che Soleimani «era diventato un patriarca, per un paese alla deriva», cui i milioni di iraniani presenti ai funerali hanno sicuramente “perdonato” i duri eccessi della temibile forza militare che comandava.Il generale Soleimani «aveva reso sicuro il territorio in un tempo di massacri dello Stato Islamico», aggiunge la Moaveni: per questo, «era visto come un uomo d’onore e di merito, in mezzo a politici che non erano nessuna delle due cose». Negli ultimi anni – aggiunge il “Post” – oltre alla popolarità di Soleimani era cresciuto anche il nazionalismo iraniano, «dovuto soprattutto all’atteggiamento sempre più ostile verso l’Iran mostrato dal presidente Donald Trump e culminato con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, faticosamente raggiunto nel 2015 grazie all’impegno dell’allora presidente americano Barack Obama e del governo iraniano guidato dal moderato Rohani». La decisione di Trump «aveva dato nuovi argomenti alla fazione ultraconservatrice, che all’accordo si era sempre opposta, e aveva rafforzato quel sentimento anti-americano che era già presente in ampi settori della società iraniana, e che arrivava da lontano». La morte di Suleimani – aggiunge il “Post” – è stata descritta come un fatto riprovevole, praticamente da tutte le fazioni politiche iraniane, inclusi i giornali meno legati all’élite conservatrice, che hanno parlato di «dolore inconcepibile». «È questo il destino di tutti gli illustri discendenti di questa terra, al di là del loro pensiero e della loro appartenenza?», si domanda lo scrittore Mahmoud Dowlatabadi, spesso censurato dal regime. Dowlatabadi descrive Suleimani come l’uomo che «ha costruito una diga potente contro i massacri dell’Isis e ha reso sicuri i nostri confini dalle brutalità di quel gruppo».All’italica repubblica delle banane, popolata di politici ridicoli, ne mancava giusto uno – Matteo Salvini – che si mettesse a insultare un’intera nazione, festeggiando il vile assassinio del suo leader più amato, Qasem Soleimani. Parlano da sole le immagini delle esequie del carismatico comandante dei Pasdaran: «Il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di Stato durato quattro giorni, non uno, e in due paesi diversi», dice la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni. Secondo Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’università di Copenhagen, le «storiche» immagini trasmesse da Teheran mostrano una forte unità nazionale, più vasta del mero supporto ideologico alla teocrazia degli ayatollah. Per Engel Rasmussen del “Wall Street Journal”, una partecipazione così oceanica non può che essere spontanea: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo Stato possa “organizzare”». Come si spiega l’enorme partecipazione al funerale di Soleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rohani a scapito di quello più conservatore e aggressivo, al quale Soleimani era legatissimo?
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Come fermare l’estinzione degli italiani: impariamo da Putin
La situazione della natalità in Italia sta peggiorando anno dopo anno. E’ un paese che sta sparendo, in pratica. Gufismo, pessimismo? No, dati Istat, forniti da gente che fa statistica per mestiere. «La popolazione residente in Italia al 31 dicembre 2018 è inferiore di oltre 124 mila unità rispetto all’anno precedente pari al -0,2%. Si tratta del quarto anno consecutivo di diminuzione: dal 2015 sono oltre 400 mila i residenti in meno, un ammontare superiore agli abitanti del settimo Comune più popoloso d’Italia. Al primo gennaio 2019 risiedono in Italia 60.359.546 persone, di cui l’8,7% sono straniere. Il numero di cittadini stranieri che lasciano il nostro paese è in lieve flessione (-0,8%) mentre è in aumento l’emigrazione di cittadini italiani (+1,9%)». Ora, preso atto che questi sono numeri e che quindi neanche Mattarella nella sua forma più smagliante può negarli, viene da chiedersi: perché? E soprattutto, questo trend è davvero inarrestabile? Come ribadisco sempre su queste pagine, l’Italia è stata, per la maggior parte della storia delle civiltà, il paese più ricco del mondo. Su questo si trovano opinioni diverse e dati in parte contrastanti, ma basta fare un piccolo test: dove si trovano gli edifici, i monumenti, le infrastrutture artisticamente più belle, costose e grandi del mondo? E in quale paese tali opere sono numerose e diverse sia per stili, materiali impiegati ed epoche storiche?Ecco, appunto: se andate in Germania, Stati Uniti, Svizzera, Giappone, non c’è niente di simile, ma neanche di lontanamente paragonabile, proprio. Questo cosa significa? Significa che gli italiani non sono geneticamente né culturalmente inferiori a nessun altro popolo… anzi! E però gli italiani hanno perso la Seconda Guerra Mondiale e hanno abbracciato progetti sovranazionali guidati da “altre” nazioni: pertanto, in Italia, si è accettata una lingua straniera per i commerci, una moneta straniera (l’euro) e un governo straniero, quello della Commissione Europea. Detto diversamente, ma più chiaramente, l’Italia è oggi una colonia, un luogo dove al limite si può venire in vacanza, così come capitò ai primi del Novecento all’India, per i britannici, durante l’età vittoriana. In questa situazione, sposarsi e fare dei figli è un rischio elevato. Conviene di più farne a meno e vivere da single con l’aiuto della famiglia d’origine. Ma il quesito più interssante è il secondo: si può invertire il calo della natalità? Sì, perchè questo è già successo diverse volte nella storia dell’umanità. Nel Trecento, ad esempio, la popolazione europea crollò letteralmente di quasi un terzo a seguito di malattie come la peste, che non cessarono subito dopo, ma gli europei seppero riadattarsi alla mutata situazione e tornare a crescere di numero.Quindi, nella storia e nel lunghissimo periodo, la popolazione è sempre cresciuta, ma non nel breve e medio periodo, durante il quale anzi vi sono stati decenni di decrescita della natalità. In Inghilterra, nel ‘700 si ebbe un’impennata dei nati perché l’industrializzazione consentiva alle coppie di trovare lavoro subito, di sposarsi prima e dunque di avere più figli, e precocemente. In Italia, dopo la guerra, grazie alla scarsa disoccupazione dovuta alla necessità della ricostruzione, vi fu il fenomeno dei BabyBoomers, che riguardò tutto l’Occidente e che aumentò a dismisura il numero degli abitanti. Sono solo esempi, ma che dimostrano come sia possibilissimo invertire un trend. L’ultimo caso – nessuno lo sa – è quello della Russia. Come si vede da tutti i grafici forniti in questi anni dalla Banca Mondiale, la Russia – schiacciata dalle pressioni internazionali all’indomani dell’esperienza sovietica – non aveva né fiducia in se stessa, né una gestione nazionale dell’economia. Poi è arrivato un leader che ha invertito la rotta cambiando le cose grazie alla cura dell’interesse nazionale. I russi, che erano precipitati come demografia negli anni ’90, si sono “miracolosamente” ripresi mentre tutti gli altri paesi ex comunisti promuovevano la migrazione della loro forza lavoro.Su Wikipedia si legge: «Poche nascite e molti morti ridussero la popolazione russa dello 0,5% ogni anno, durante gli anni ’90. Questo tasso si presentava in continua accelerazione. Per ogni 1.000 russi vi furono 16 morti e solo 10,5 nascite, provocando il declino della popolazione da 800.000 a 750.000 l’anno. L’Onu stimò che la popolazione della Russia del 2006, circa 140 milioni, sarebbe potuta diminuire di un terzo entro il 2050». Nel 2005, con il secondo mandato del presidente Putin, la stabilità della situazione politica ed economica ha comportato una maggiore attenzione del governo sulla questione demografica, attraverso strumenti che favorissero da una parte l’aumento della natalità, come incentivi economici alla nascita del secondo e terzo figlio o crediti immobiliari alle coppie di neo-sposi, dall’altra parte la diminuzione della mortalità attraverso una riforma generale del sistema sanitario nazionale. Nel 2016, la popolazione russa ha registrato un +0,2% rispetto al 2015, segnando così una inversione che si protrae nel tempo, pur molto lentamente. Quelli appena trascorsi sono stati anni difficili, per i russi, a causa di sanzioni, tensioni in Ucraina e nel Medio Oriente. Ma il declino è stato fermato, contrariamente a quanto avviene da noi, in Italia. Ricette semplici ed efficaci da copiare quanto prima: come noto agli economisti di ogni latitudine ed epoca storica, non è possibile crescere economicamente con un crollo costante della natalità nazionale.(Massimo Bordin, “Come fermare l’estinzione degli italiani”, dal blog “Micidial” del 2 gennaio 2020).La situazione della natalità in Italia sta peggiorando anno dopo anno. E’ un paese che sta sparendo, in pratica. Gufismo, pessimismo? No, dati Istat, forniti da gente che fa statistica per mestiere. «La popolazione residente in Italia al 31 dicembre 2018 è inferiore di oltre 124 mila unità rispetto all’anno precedente pari al -0,2%. Si tratta del quarto anno consecutivo di diminuzione: dal 2015 sono oltre 400 mila i residenti in meno, un ammontare superiore agli abitanti del settimo Comune più popoloso d’Italia. Al primo gennaio 2019 risiedono in Italia 60.359.546 persone, di cui l’8,7% sono straniere. Il numero di cittadini stranieri che lasciano il nostro paese è in lieve flessione (-0,8%) mentre è in aumento l’emigrazione di cittadini italiani (+1,9%)». Ora, preso atto che questi sono numeri e che quindi neanche Mattarella nella sua forma più smagliante può negarli, viene da chiedersi: perché? E soprattutto, questo trend è davvero inarrestabile? Come ribadisco sempre su queste pagine, l’Italia è stata, per la maggior parte della storia delle civiltà, il paese più ricco del mondo. Su questo si trovano opinioni diverse e dati in parte contrastanti, ma basta fare un piccolo test: dove si trovano gli edifici, i monumenti, le infrastrutture artisticamente più belle, costose e grandi del mondo? E in quale paese tali opere sono numerose e diverse sia per stili, materiali impiegati ed epoche storiche?
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Sos dai vignaioli: i dazi di Trump condannano il vino italiano
Siamo vignaioli italiani, piccoli e grandi, proveniamo da tutte le Regioni italiane e abbiamo un unico, comune obiettivo: produrre vini di grande qualità che contribuiscano all’economia del nostro paese e al consolidamento della sua reputazione nel mondo. Gli Stati Uniti sono un mercato estremamente importante per i nostri vini, un mercato che insieme alle nostre famiglie abbiamo costruito con fatica, impegno quotidiano ed enorme investimento di tempo e risorse, con quelle che fino a pochi giorni fa consideravamo come prospettive di sviluppo per gli anni a venire che avrebbero garantito lavoro e reddito per noi e per i nostri collaboratori. In questi giorni assistiamo sconcertati agli sviluppi della disputa DS316 presso la Wto, riguardante “European Communities and Certain member States — Measures Affecting Trade in Large Civil Aircraft”. Una disputa in cui il vino, insieme ad altri prodotti agroalimentari di origine europea, è solo una vittima collaterale. Il valore dell’export agroalimentare dall’Europa verso gli Stati Uniti si aggira sui 22 miliardi di euro; di questi, il valore del vino europeo è pari a 4 miliardi, e pesa per il 75% sulle complessive importazioni statunitensi di vino. L’Italia, con oltre 1,7 miliardi di euro, è il secondo esportatore di vino dopo la Francia.Sono numeri impressionanti, che rappresentano il lavoro di migliaia di aziende con decine di migliaia di addetti; piccole aziende, per la maggior parte, che costituiscono il tessuto fondamentale dell’agricoltura italiana. Sono piccole aziende che non soltanto generano reddito per i produttori e i loro collaboratori: esse sono custodi dei territori nei quali operano, difendono il nostro paese dal dissesto idrogeologico, presidiano lecampagne impegnandosi nella difesa dei suoli e contribuiscono a moderare gli effetti del cambiamento climatico. Inoltre, esportando i loro prodotti, concorrono a consolidare la reputazione dell’Italia nel mondo, promuovono la nostra cultura e mantengono solidi rapporti con i nostri connazionali all’estero, si fanno ambasciatori di uno stile alimentare (la dieta mediterranea) e di vita che genera, in cambio, consistenti flussi turistici, un altro settore fondamentale per il nostro paese. Tutto questo oggi è a rischio. L’incremento del 100% dei dazi statunitensi sull’importazione di vini ed altri prodotti agroalimentari europei rischia di distruggere in breve tempo quanto abbiamo costruito in decine d’anni di lavoro e impegno costante. Dazi che non sono legati a dinamiche interne al settore agroalimentare, ma che vengono trasferire ad esso come misura di rappresaglia commerciale per i sussidi che alcuni paesi europei hanno erogato all’industria aeronautica.Tutto questo è profondamente sbagliato. La viticoltura italiana non può diventare la merce di scambio sul tavolo dell’industria aeronautica o di quella delle digital companies, e i vignaioli italiani non devono diventare le vittime di una guerra iniziata su altri fronti, e che dovrebbe essere risolta attraverso mediazioni condotte su ampia scala. Noi diciamo no a questa guerra commerciale, e ci schieriamo al fianco dei nostri importatori e distributoriamericani, che in queste settimane hanno avviato numerose campagne di informazione e sensibilizzazione nei confronti dell’amministrazione Usa e della Ustr, alle quali sono state indirizzate migliaia di commenti e di appelli affinché i nuovi dazi non entrino mai in vigore, e affinché vengano sospesi i dazi del 25% già in essere per alcuni vini europei. Chiediamo ai nostri rappresentanti al governo nazionale e in Europa di farsi immediatamente carico di una questione capace di devastare tutto il comparto vinicolo continentale, e che non lascerà indenni nemmeno i mercati più lontani dagli Usa per via della necessità di ricollocare rapidamente e improvvisamente i prodotti destinati oltre Atlantico, con intuibili e irreversibili ripercussioni sui prezzi e sulle nostre quote di mercato.(”Aiutaci a difendere il vino e chi ci lavora!”, petizione lanciata su Change.org da 100 viticoltori italiani, in poche ore sottoscritta da migliaia di produttori e consumatori italiani).Siamo vignaioli italiani, piccoli e grandi, proveniamo da tutte le Regioni italiane e abbiamo un unico, comune obiettivo: produrre vini di grande qualità che contribuiscano all’economia del nostro paese e al consolidamento della sua reputazione nel mondo. Gli Stati Uniti sono un mercato estremamente importante per i nostri vini, un mercato che insieme alle nostre famiglie abbiamo costruito con fatica, impegno quotidiano ed enorme investimento di tempo e risorse, con quelle che fino a pochi giorni fa consideravamo come prospettive di sviluppo per gli anni a venire che avrebbero garantito lavoro e reddito per noi e per i nostri collaboratori. In questi giorni assistiamo sconcertati agli sviluppi della disputa DS316 presso la Wto, riguardante “European Communities and Certain member States — Measures Affecting Trade in Large Civil Aircraft”. Una disputa in cui il vino, insieme ad altri prodotti agroalimentari di origine europea, è solo una vittima collaterale. Il valore dell’export agroalimentare dall’Europa verso gli Stati Uniti si aggira sui 22 miliardi di euro; di questi, il valore del vino europeo è pari a 4 miliardi, e pesa per il 75% sulle complessive importazioni statunitensi di vino. L’Italia, con oltre 1,7 miliardi di euro, è il secondo esportatore di vino dopo la Francia.
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Soleimani come Massud: ucciso l’eroe, seppellirai la pace
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip”, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.Da Santini, uno sguardo disincantato e prospettico sul nuovo pericoloso incendio mediorientale, scatenato – colpendo l’Iran – per minare il possibile rafforzamento dell’asse tra Teheran e Pechino (e magari Mosca) nel quadro della “nuova guerra fredda” in corso (o, se si preferisce, Terza Guerra Mondiale a puntate). Già tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, Santini elencava i compiti che sarebbero stati affidatio all’amministrazione Trump. Primo: ripristinare e proteggere l’economia interna, ricostruendo le sue basi fondamentali. Ovvero: Stati Uniti rimessi in pista come motore produttivo, manifatturiero, verso la piena occupazione, mettendo fine alle delocalizzazioni selvagge. Poi: distensione con la Russia, ma senza cedere nulla di quanto conquistato nel frattempo. Tradotto: «Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti». Cruciale il capitolo Cina, come si è visto: massima competizione commerciale ed economica con Pechino, «ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare». Sul medio periodo, prevedeva Santini, «si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo».E intanto: «Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente». Dunque: «Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia – sottolineava Santini tre anni fa – torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran». Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito, conferma oggi l’analista di “Megachip”. «Questi tre anni di presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci». In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, «Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto “colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra”».Tra queste due posizioni “imperiali”, ne esistono tante altre, variegate e composite, e Trump è a cavallo di una di queste. «Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio – scrive oggi Santini – ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana». L’assassinio di Qasem Soleimani, secondo Santini, dimostra che il “partito della guerra” ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. «Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione», aggiunge l’analista. «In ogni caso, c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del presidente, soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump)». La tesi opposta è quella di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto, ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale. «Tutto più o meno plausibile», annota Santini: «Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico», quello di Bill Clinton.Durante tutto il 1998, l’allora presidente vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. «Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo: sapeva a malapena dove si trovasse». Poi, improvvisamente – continua Santini – nell’autunno inoltrato di quell’anno, «quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica». Miracolo: «Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò». E la crisi del Kosovo, «da affare regionale, divenne affare globale». Si domanda Santini: «Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura?». Si trattò quindi di «uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere, per fare sì che il presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra». In altre parole: «Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio». Mutatis mutandis, può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment e l’Iran.A questo punto, prosegue Santini nella sua analisi, si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani: la preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile, visto che si temono ripercussioni drammatiche. «Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino». Santini non è affatto d’accordo: «Ritengo invece che questa escalation, questa accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita». Infatti, le due conseguenze immediate che ha già prodotto «sono esattamente quelle che gli americani si attendevano». Tanto per cominciare, «l’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare». Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo: «Ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana». I politici di Teheran «hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente».Ora, aggiunge Santini, «l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano», che di fatto «non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno». E così, «gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale)». La seconda conseguenza, poi, secondo Santini è molto sottile da interpretare: «Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani, ma così non è». Il governo iracheno infatti è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. «Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti».L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. «Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito», scrive Santini. Tutti nemici: iracheni contro curdi e sunniti contro sciiti, ma le divisioni interne travagliano le stesse componenti sciite. «Il mondo sciita non è monolitico», spiega Santini: «In particolare, la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici», dato che «religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente». In Iraq «esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi)». Gli sciiti nazionalisti iracheni – aggiunge Santini – mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Sicchè, lo scontro armato è all’ordine del giorno, visto che «questi partiti, gruppi e fazioni sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari». Dare la parola alle armi? «Sarebbe possibile se il paese sprofondasse nel caos», in una sorta di “tutti contro tutti” dagli esiti imprevedibili.In quel caso, conclude Santini, «l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato». Dopo due guerre che hanno raso al suolo l’Iraq, emerge una verità di fondo: «Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse». Ed ecco che, alla luce di questa analisi, risulta meno “folle” e incomprensibile l’efferata uccisione del grande tessitore carismatico Soleimani, che Santini – in modo davvero suggestivo – accosta alla fine, altrettanto atroce, che la longa manus terroristica degli Usa riservò al “leone del Panshir”, l’eroe nazionale afghano che (come il guerriero Soleimani) avrebbe avuto il prestigio, l’autorevolezza e la popolarità per imporre la pace, mettendo fine alle ingerenze internazionali nel suo tormentato paese. Ieri il comandante Massud, oggi il generale Soleimani: e i registi della morte provengono dalla medesima capitale, Washington.Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei: in quella veste «ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero». Attenzione: nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 Settembre, il leggendario guerrigliero afghano Ahmad Shah Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece (il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar, agente dell’Isi – l’intelligence pakistana, braccio operativo della Cia) sapeva benissimo che da lì a poco l’Afghanistan sarebbe stato invaso. I killer di Massud non volevano tra i piedi un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. «Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione». E’ l’analisi che Simone Santini offre, dal blog “Megachip“, per leggere tra le righe del caos scatenato dall’infame agguato terroristico statunitense, in territorio iracheno, costato la vita al leader dei Pasdaran, eroe nazionale iraniano e liberatore della Siria grazie alla storica sconfitta impartita al’Isis, la sanguinosa formazione terrorista sunnita finanziata e protetta dall’Occidente.